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Autore: mystery_koopa    01/03/2018    12 recensioni
STORIA CORRETTA E REVISIONATA [LUGLIO 2021]
Madagascar, dicembre 1829
Due uomini in cerca della salvezza, un aiuto inaspettato, un'isola selvaggia, delle atroci torture, una regina crudele, Ranavalona I, soprannominata nientedimeno che "Bloody Mary". La prima avventura del reverendo Gerald Royne scorre così tra una città, una fortezza e la foresta tropicale, il tutto in un'isola che tenta di essere dimenticata dal mondo.
✠ Storia partecipante al contest "In Viaggio" indetto da Emanuela.Emy79 sul Forum di EFP.
✠ Seconda classificata al contest "Raccontami una Storia" indetto da milla4 sul forum di EFP, a parimerito con "Due bocche nel fango" di Alix katlice.
✠ Terza classificata al contest "Dai vita alla tua fantasia con i generi letterari! II edizione, il ritorno" indetto da 6Misaki sul Forum di EFP, e vincitrice del premio speciale "Miglior trama".
Genere: Avventura, Storico, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Avviso: La storia è stata corretta, allungata e revisionata nel luglio 2021. Nessuna delle modifche apportate ha modificato la trama, la caratterizzazione o l'intreccio, ma soltanto la forma e il livello di approfondimento.
 


BLOODY MARY’S ISLAND

 

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Parte prima
 

Antananarivo, dicembre 1829

L’afa dell’estate australe rendeva impossibile il cammino a chiunque, nonostante la città si trovasse nella regione degli altopiani: l’umidità faceva sì che l’aria fosse quasi irrespirabile e le fronti dei rari passanti che si muovevano per le strette vie della città vecchia erano imperlate di sudore.

Un uomo era seduto ai bordi della strada, ricoperto di polvere, riparandosi dal sole cocente dietro a un arbusto reso secco dalle insostenibili temperature. Erano ormai mesi che provava a fuggire dalla città, ma essa era costantemente presidiata dalle guardie reali, che avevano ricevuto ordine dalla regina di arrestare tutti gli stranieri che avessero visto, senza nemmeno accertarsi della loro nazionalità. Gerald Royne stringeva una croce di ferro tra le mani, ma se fosse stato visto da qualcuno per lui sarebbe stata la fine: né il governo inglese né la società missionaria¹, ormai privata di tutta la propria influenza, avrebbero potuto prestargli aiuto nel caso fosse stato catturato. Doveva perciò trovare assolutamente un modo per raggiungere al più presto le coste dell’isola, da cui era giunta notizia che alcune navi occidentali fossero perennemente attraccate nell’attesa di qualche ultimo superstite che fosse riuscito a raggiungerle.

L’uomo sentì qualcuno procedere lungo la strada, con passi cadenzati che ormai aveva udito fin troppe volte: l’esercito Merina era di ronda, era in corso l’ennesima ispezione della città, la terza di quel lungo giorno che si accingeva a giungere al termine.
Royne si spostò velocemente, scendendo lungo una piccola scarpata che lo portò in una strada dove le truppe erano già passate: ormai, fuggendo da così tanto tempo, conosceva perfettamente ogni vicolo e ogni segreto della città.
Se qualcuno l’avesse visto in quel momento avrebbe potuto tranquillamente scambiarlo per un comune vagabondo di strada, con i vestiti logori, la barba incolta e i capelli biondi sporchi e malamente riportati all’indietro, coperti da uno straccio scuro per nasconderne il più possibile il colore. Proprio lui, che era stato un tempo uno dei reverendi più stimati d’Africa.
Dopo meno di un’ora giunse l’oscurità, e finalmente l’umidità si placò: Royne ripercorse la strada a ritroso, giungendo nei pressi di un ridotto angolo di verde. Lì, sdraiato dietro una siepe, venne avvolto dal sonno.

 
*

Il giorno seguente l’alba non giunse luminosa, ma scura e bagnata: finalmente pioveva. L’acqua continuò a scendere per ore, aumentando sempre più la sua intensità: sembrava quasi una tempesta monsonica, sebbene la zona non potesse essere soggetta a fenomeni atmosferici di quel tipo, essendo protetta dalle montagne. Ciononostante, tutte le strade sterrate erano divenute fangose e inagibili, rendendo impossibili gli spostamenti; quando anche l’esercito non passò per nessuna delle prime due ispezioni quotidiane, Gerald capì che quella pioggia era frutto di un intervento divino, e iniziò subito la sua fuga verso le foreste orientali, deciso a non perdere quell’unica occasione che gli era stata concessa.
Attraversò faticosamente la città, tenendosi il più lontano possibile da quelle stesse strade principali in cui un tempo aveva marciato orgogliosamente, cercando al tempo stesso di non restare impantanato negli strati di fango che iniziavano a depositarsi ciascuno al di sopra del precedente.

Si lasciò infine Antananarivo alle spalle: superando le sguarnite porte della città, sentendo la pioggia scorrergli sul viso e lavargli via la polvere e il sudiciume che vi si erano depositati, per la prima volta in molti mesi respirò un’aria di libertà.
Nonostante le ampie fronde vegetali non lasciassero penetrare la pioggia battente fino al sottosuolo, il cammino all’interno della foresta tropicale nella quale era entrato era reso ancor più impervio dalla bassa vegetazione, dalle radici arboree e dalla frequente presenza di paludi e acquitrini stagnanti che, oltre a rallentare i suoi movimenti, ospitavano zanzare e altri insetti esotici, che Gerald ritenne a prima vista portatori di malattie altrettanto letali.

Avanzando a fatica, dopo quelle che non potevano essere più di poche ore il missionario credeva di aver percorso un’infinità di miglia, quando udì in lontananza quelle che parevano grida di dolore. Proseguendo lentamente e con cautela, nel giro di pochi minuti trovò davanti a sé un macabro spettacolo: all’interno di una radura, due uomini erano stati legati e calati sul fondo di un pozzo, che continuava a riempirsi per la pioggia scrosciante; inoltre, dei soldati gettavano secchi d’acqua fumante all’interno, provocando ai condannati atroci sofferenze. Royne, riparatosi dietro un imponente tronco d’albero, vide un libro ormai rovinato dall’acqua abbandonato ai margini del piccolo spiazzo, e capì perché quegli uomini stessero subendo quella pena disumana: erano cristiani.

Era da più di un anno che Ranavalona I era salita al trono, dopo aver probabilmente avvelenato il marito: la regina aveva espulso tutti gli occidentali dall’isola e vietato il Cristianesimo, che essi avevano portato, in favore delle credenze tradizionali che ancora seguiva, cercando di riportare il Madagascar a un periodo in cui era privo di civiltà, controllato da tribù praticanti rituali barbari e aberranti² che i suoi predecessori avevano cercato di debellare con alterne fortune. Royne vi era rimasto per un banale errore della rappresentanza britannica, e aveva dovuto cercare di sopravvivere da solo, nutrendosi di quelle ridotte provviste che era riuscito a recuperare o rubare e rischiando costantemente la vita.
Urla strazianti provenivano dal fondo della costruzione, sempre più soffocate dalle masse d’acqua fino a cessare definitivamente: al che i soldati estrassero i due corpi e li abbandonarono in una fossa naturale, affinché se ne nutrissero i cani che essi avevano rilasciato in precedenza.
Gerald si girò per non vedere quell’orribile scena, notando qualcosa che si muoveva in un cespuglio posto a pochi metri da lui; decise di andare a controllare, strisciando sul suolo fangoso ma, quando si trovò a un solo passo dall’arbusto, qualcosa lo colpì in testa e tutto si ricoprì di nero.

 
*

Royne aprì faticosamente gli occhi, cercando di guardarsi intorno: si trovava sicuramente in una caverna, solo un debole fascio di luce proveniva dall’esterno. La testa e la schiena gli dolevano enormemente, in modo ancora più intenso rispetto alle altre occasioni in cui aveva dormito a terra; si accorse, però, di non essere legato: almeno non era caduto in mani ostili, pensò con un filo di speranza. Non appena il suo sguardo si abituò alla fioca luce della grotta, lungo la buia parete del rifugio egli iniziò a distinguere una sagoma umana che si stava avvicinando: era un uomo, di pelle bianca. L’individuo sembrava avere all’incirca una trentina d’anni, una corporatura abbastanza esile e i capelli neri, tagliati molto corti. Indossava degli abiti di ricca fattura ma abbastanza logori, quali una camicia, probabilmente di seta, e un paio di pantaloni chiari, tagliati sopra al ginocchio con l’ausilio di un coltello.
L’uomo prese la parola, in francese:
“Buonasera, signore. Vorrei scusarmi per il modo in cui l’ho colpita ieri, pensavo che ad avvicinarsi fosse stato uno di quei selvaggi, così ho dovuto difendermi. Tuttavia, dopo che l’ho vista in faccia, ho deciso di salvarla. Io sono Christophe Moulin, un commerciante francese”.

Royne guardò il giovane di traverso, pensando di essersi imbattuto in un papista d’oltremanica.  Incontrò i suoi espressivi occhi grigi, poi, attenuatosi il dolore alla testa, gli rispose, presentandosi e raccontandogli della sua fuga dalla capitale.
Il francese decise così di raccontare anch’egli la propria storia: la sua nave era approdata sull’isola esattamente lo stesso giorno in cui era stata emanata la legge reale, così le guardie che la sovrana aveva inviato presso i porti l’avevano bruciata e ne avevano ucciso tutto l’equipaggio. Lui si era salvato solamente grazie alla confusione creatasi, riuscendo a rifugiarsi sopra un albero. In quel momento si trovava però sulla costa ovest dell’isola, mentre i soccorsi organizzati dalle compagnie commerciali erano localizzati a est, sull’Oceano Indiano, dove la debole flotta malgascia non avrebbe potuto affrontare le navi europee così come accadeva nel Canale di Mozambico. Aveva deciso così di attraversare il Madagascar a piedi, cercando di salvarsi.

Gerald lo guardò in modo interrogativo, sorpreso: lui stesso aveva dovuto adattarsi a condizioni estreme, ma era certo che sopravvivere non solo alle ispezioni dell’esercito, ma all’attraversamento di un intero Paese pericoloso e sconosciuto fosse impossibile.
Christophe notò il turbamento sul volto del suo interlocutore, chiedendosi se avesse detto qualcosa di sbagliato.
“Non avrei mai pensato che ci fosse un altro europeo ancora vivo e libero, su quest’isola”.
“Come se il pensiero non fosse lo stesso anche per me. Un cammino nella giungla non è certo agevole, ma proteggersi dagli animali non è certo arduo come sfuggire a tre plotoni di guardie al giorno… La lunghezza del viaggio non mi ha mai spaventato, vivo la mia vita un quarto di miglio alla volta, proseguendo per la mia strada senza pensare al futuro, ma solo al presente: per quei dieci minuti sono libero, in pericolo, ma libero, e mantengo viva la speranza di poter ritornare a casa”.
Gerald concordò con il suo interlocutore, chiedendogli poi dove si trovassero in quel momento, ma Christophe non riuscì a rispondergli con precisione; i due allora decisero, nonostante le differenze di nazionalità e religione, di proseguire insieme il lungo viaggio per la salvezza.

 
*

Quello stesso giorno, non appena il sole fu alto in cielo, i due s'incamminarono verso oriente, districandosi tra la folta vegetazione della foresta tropicale; lemuri e altre strane specie di uccelli e primati si spostavano da un ramo all’altro, mentre al livello del terreno si nascondevano serpenti e altri rettili pronti a saltare addosso alle sventurate prede che si sarebbero avvicinate loro.
La marcia dei due europei tuttavia proseguì tranquilla fino a sera, quando avvistarono un’imponente costruzione campeggiare sull’estremità di una collina. Liberando la visuale, i due riuscirono così a capire dove si trovassero: erano giunti al complesso di Ambohimanga, un piccolo villaggio fortificato comprendente le tombe dei re Imerina e un santuario sacro all’animismo locale, e perciò presidiato da un grande numero di soldati pesantemente armati. Vedendoli, Christophe disse a Gerald di appostarsi dietro un albero, aspettando l’alba per poter fuggire dalla zona; l’inglese però si oppose con forza, affermando che sarebbe stato meglio fuggire durante le ore buie, diminuendo così il rischio di essere scoperti. I due iniziarono così a litigare animatamente sul da farsi, finché un soldato della guarnigione si accorse di loro e, senza emettere alcun rumore, scese dalle mura e si appostò alle loro spalle, puntandoli con un fucile e catturandoli facilmente.

I due europei vennero scortati all’interno della costruzione principale, lungo corridoi debolmente rischiarati da lugubri fiaccole e decorati con immagini pagane, fino a raggiungere un ampio salone, completamente illuminato tranne che in un angolo, dove vennero rinchiusi in un’angusta gabbia metallica. Una giovane donna locale passò di fronte a loro, guardandoli con velata tristezza, dirigendosi poi fino all’estremità opposta dell’ambiente, dove accese tutte le candele di un lucernario. Dal buio emerse inizialmente una figura massiccia e indefinita, che poi si rivelò essere un trono completamente costruito in oro, sul quale sedeva una donna di mezza età, ma dall’aspetto ancora abbastanza piacente. Il suo corpo era coperto da una lunga veste rossa, mentre il collo e le braccia presentavano vistosi ornamenti come anelli, bracciali e amuleti costituiti da enormi pietre preziose.

Era lei, Ranavalona.
 



Note:
1 La London Missionary Society, che operava nell’isola per conto del governo dell’Impero Britannico;
2 Uno di essi è il seguente, citato nella “Storia del Madagascar” di Mervyn Brown: “[…] c’era l’usanza di avvelenare coloro che erano sottoposti a processo in modo che gli dèi potessero provare la loro eventuale innocenza salvandoli […]”

 
 
  
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