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Autore: Kiki S    01/03/2018    1 recensioni
Un amore proibito alla luce del sole, spezzato e ridotto in cenere dalle barbare fiamme di un rogo in un giorno d'autunno.
Greta, colei che proviene dal mondo di luce, ha deciso di attendere la propria fine lasciandosi morire di stenti, perché senza di “lei” non ha più senso andare avanti.
Un richiamo, però -quel richiamo oscuro che, con il procedere della notte, Greta inizia a comprendere-, la convince che potranno incontrarsi di nuovo: a metà strada, dove gli opposti si uniscono e si fondono l'uno con l'altro.
Vita e morte. Sonno e veglia. Luce e tenebre.
Un unico luogo. Un ultimo incontro.
Genere: Malinconico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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In un anno imprecisato tra il 1500 e il 1520.

In un piccolo paese tedesco, che non è segnato sulle mappe, e forse non esiste più.

Tra la vita e la morte, tra il sonno e la veglia, tra la luce e le tenebre.

In una notte.

È lì che successe.

 

In paese, in quegli anni, erano soliti bruciare le streghe intorno a mezzogiorno. Forse l’affare metteva più appetito ai sadici, ma a Greta no di certo. Anzi, lei era sicura che dopo quell’ultimo mezzogiorno non avrebbe mangiato mai più: non voleva neanche sentire l’odore del cibo, perché se ci si nutre, lo si fa per andare avanti, e questo lei non lo voleva più.

Tutta la folla si era radunata a guardare intorno al patibolo quel giorno, tutti a parte Greta, che se n’era rimasta in disparte, lontana, dove aveva potuto notare soltanto il fumo che si innalzava e veniva inghiottito dalle nubi di quel giorno di inizio autunno; tra le lacrime.

Avrebbe tanto desiderato che quelle stesse lacrime avessero avuto il potere di spegnere le barbare fiamme, ma sulla Terra non c’è posto per le vane speranze, per ciò che grida il cuore.

Il mondo non è altro che la culla del male, quell’eterno neonato senza scrupoli e destinato alla grandezza suprema, perché allevato da gran parte dell’umanità.

Le era sembrato persino di sentire l’odore della carne che si faceva nera, dei capelli che sparivano dalla sua testa, dei suoi occhi che divenivano liquidi.

Aveva pregato che potesse non urlare, aveva sperato che in qualche modo fosse stata stordita a tal punto da non avvertire il dolore, ma anche questo era stato inutile.

Tra il crepitio delle fiamme, tra il giubilo della folla ipocrita, Greta aveva sentito ugualmente le sue grida. Se l’era sentite dentro, come se, uscite con foga dalla gola della condannata, fossero entrate nella sua dalla bocca che teneva aperta per l’orrore, per poi scendere, scendere, fino ad arrivare nel profondo, nel centro, dove avevano iniziato a lacerarla.

E anche se ormai erano cessate da ore, quelle urla strazianti in lei si ripetevano ancora, come un agghiacciante canto di morte.

Il timido sole che per quasi tutta la giornata era stato intrappolato dalle nuvole, si era deciso a farsi scorgere giusto poco prima di sparire oltre l’orizzonte nelle sue violente sfumature arancioni e rosse: le stesse del fuoco.

Greta lo scrutò con rabbia mentre le grida seguitavano prepotenti lì dove nessun altro poteva udirle. Si disse che detestava il sole, che non avrebbe voluto vederlo mai più.

Odiava tutto ciò che fosse caldo, tutto ciò che emanasse luce, lei voleva incontrare soltanto il freddo e il buio e rifugiarvisi in eterno, perché niente che potesse ricordare la vita avrebbe mai più avuto a che vedere con lei. Perché se era morta lei, anche Greta lo era di sicuro, lo era dentro.

Se ne stava seduta davanti a casa, ad attendere che quella maledetta palla di fuoco sparisse dalla sua vista, augurandosi che fosse per sempre, e trovò un attimo di beatitudine soltanto quando la brezza leggera si alzò un poco per farsi vento. Le cadde la cuffia che portava in capo e che mortificava con disprezzo la sua chioma bionda e lucente, ma non si curò di alzarsi per riprenderla. Non aveva intenzione di fare mai più niente di ciò che le veniva imposto, a cominciare da quell’inutile pezzo di stoffa che doveva sempre mettere in testa.

Che se ne andasse al diavolo! Quel demonio nel quale tutti credevano e per il quale lei era stata processata e condannata, per il quale era stata arsa viva.

Eppure Greta lo sapeva per certo: lei non ci andava ai Sabba, probabilmente non esistevano neanche. Lei non si univa con il maligno.

Ma di sicuro, se avessero saputo la verità, non sarebbe cambiato poi molto.

Il sole rosso ormai si era completamente dileguato al di là del visibile, e il crepuscolo iniziava a farsi strada. E il preludio a quella prima notte senza di lei sembrava nascondere qualcosa: forse un segreto, oppure un sospiro che vuole essere un richiamo.

Il vento era calato di nuovo, ma si sentiva ancora, flebile e delicato come una carezza data di nascosto. Le muoveva la veste verde all’altezza delle caviglie e delle braccia, tra le quali si stringeva le ginocchia.

Non immaginava che avrebbe fatto tanto freddo senza di lei, eppure non avrebbe voluto provare un solo briciolo di calore in più: perché il calore è mostruoso, atroce, e anche troppo luminoso per occhi che hanno bisogno di stare al buio.

Ripensò in quel momento al loro ultimo incontro, prima che la prendessero. Lei era stata così dolce, aveva riso per tutta la notte accanto a Greta, mentre se ne stavano sdraiate nel loro amato campo di crisantemi: il loro giaciglio, il loro nido.

Lei non sapeva che cosa l’aspettasse di lì a un paio di giorni, nemmeno Greta l’avrebbe mai detto: e perché poi avrebbero dovuto immaginarlo? Lei, ai Sabba, non ci andava.

Doveva essere stata donna Schneider a denunciarla e, se non lei, una della sua combriccola di vecchie rattrappite che, se avessero potuto, avrebbero preparato armi e bagagli per trasferirsi direttamente in chiesa, luogo dal quale avrebbero potuto sputare meglio il veleno delle loro accuse e delle loro condanne. Lì dove sarebbe piaciuto loro infliggere penitenze a non finire, ovviamente senza mai doverne subire nemmeno uno stralcio.

Era davvero molto probabile che fosse stata la vecchia Schneider ad arrogarsi da sola il diritto di prendere in mano la falce.

E perché, poi? Perché quella megera non aspettava altro, si disse Greta. Non faceva altro che starnazzarle dietro perché portava i capelli sciolti (neri e lucenti, come una notte incantata e bellissima), perché non onorava il Signore partecipando alla messa, perché dava da mangiare ai gatti neri.

La stessa Greta l’aveva messa in guardia tante volte, ma senza credere mai davvero che sarebbe avvenuto proprio a lei. Non l’aveva mai preso in considerazione.

Dovevano anche averla torturata durante il processo, ma questo Greta non voleva saperlo, né soffermarmi sull’idea per più di un millesimo di secondo.

Comunque fosse andata, per lei il dolore oramai doveva essere cessato, anche se le grida che sentiva dentro non volevano proprio saperne di zittirsi.

Forse le avrebbe udite fino a che la mancanza di nutrimento in lei non avesse sortito finalmente il suo effetto fatale. E Greta non vedeva l’ora che avvenisse, sia perché non le importava altro se non incontrarla di nuovo, e sia perché quelle urla la stavano consumando.

Non avrebbe potuto resistere per molto continuando a percepirle.

Il gatto nero poi giunse all’improvviso: era uno di quelli di cui lei si occupava; lo riconosceva per quella porzione di pelo che gli mancava da una delle zampe anteriori, probabilmente a causa di una vecchia ferita. Lei lo chiamava der Mond, come la luna, ma non si trattava di un vero e proprio nome, era soltanto la sua personale maniera di riconoscerlo, come se davvero vedesse in lui l’astro della notte.

Quel felino era schivo con tutti, forse perché era ben consapevole di tutto ciò che gli sarebbe stato lanciato addosso nel caso avesse tentato di avvicinarsi alla più crudele tra le bestie, ma questo non valeva certo per lei, e nemmeno per Greta.

Perché oramai aveva imparato a riconoscerla: qualche volta l’aveva anche accarezzato, di notte, al campo di crisantemi.

Il gatto faceva le fusa e le si stava strusciando contro la caviglia. Greta distese la mano e lasciò che l’animale sollevasse prima il capo e poi il dorso per incontrarla.

Oramai le interessava ben poco di ciò che i suoi compaesani avrebbero pensato nel vederla intenta in quell’atteggiamento da strega. Che la bruciassero pure, se ne avevano voglia! In quel modo avrebbero soltanto accorciato la sua agonia.

E poi non le sarebbe nemmeno dispiaciuto se l’avessero creduta una strega: in un certo qual senso sarebbe stata come lei, e di questo sarebbe stata fiera.

Se entrambe lo fossero state realmente, forse avrebbero potuto evitare che quel giorno di inizio autunno si levassero le fiamme, ma Greta aveva seri dubbi sull’esistenza delle streghe, e sulla forza purificatrice del fuoco.

Ma poco importava, perché oramai lei non c’era più, le fiamme l’avevano inghiottita con la più famelica delle gole e non si poteva più tornare indietro.

Il crepuscolo andava finalmente trasformandosi in oscuro profondo e fu così che, senza temere il freddo o lo stesso buio, che sovente veniva rifuggito da tutti, restò seduta davanti a casa, ad attendere che la notte si facesse intensa e sprigionasse finalmente il suo richiamo.

Perché Greta cominciava a sentire chiaramente che quella notte, in cui non ci sarebbero state né luna né stelle, sarebbe avvenuto qualcosa. Doveva avvenire qualcosa.

Perché non poteva essere finita così.

Il gatto nero le si accomodò in grembo, e lei lo lasciò fare: separò anche le ginocchia dal petto, incurante della temperatura che scendeva, pur di lasciare che si posizionasse come meglio credeva.

Inizialmente fu il calmo procedere delle sue fusa ad attutire il suono delle urla di lei che nella giovane donna bionda sembrava non voler conoscere sosta.

Lievemente Greta accarezzò più volte il morbido manto scuro del felino e il paragone con i capelli di lei nacque più che immediato, perché il nero era il colore che più le si addiceva. Anche i suoi occhi erano neri. Lei diceva sempre di essere figlia della notte e probabilmente lo era davvero.

Eppure aveva amato Greta, che era bionda e aveva gli occhi verdi. Lei diceva che anche l’oscurità ha bisogno del suo piccolo sprazzo di luce per essere completa, così come la notte necessita della luna e delle stelle per incrementare la propria bellezza.

Ma quella notte, in quel cielo, non avrebbero brillato né l’una né le altre, perché quella era una notte di proprietà delle nuvole.

Ma a Greta non importava molto nemmeno di questo: stava soltanto aspettando che il momento adatto giungesse. Tremava per il freddo senza farci caso, ma le urla che per tutto il giorno si erano propagate nel centro del suo essere si erano disfatte come un corpo diventa cenere. Ora in lei non esisteva altro che un sussurro incomprensibile, ma che non l’avrebbe lasciata certamente in pace.

Un sussurro che forse, in qualche momento di quella notte, si sarebbe fatto capire.

Perché qualcosa doveva davvero avvenire.

Il vento era tornato ad alzarsi, più spietato e dominante che mai. Il gatto nero le si appallottolò in grembo, facendosi il più piccolo possibile per conservare il calore.

Greta tremava come una foglia di quell’autunno, ma per nessun motivo al mondo sarebbe mai rientrata in casa.

Quel richiamo sussurrato in lei cominciava a crescere, sempre senza farsi capire, eppure stava cominciando a farsi ipnotico, calmante, e lei si stava lasciando catturare da esso. Stava facendosene sempre più certa: quella voce che parlava tanto piano non poteva che essere la sua. Presto avrebbe compreso, presto avrebbe saputo dove raggiungerla.

La notte l’avrebbe resa sua un’ultima volta, perché doveva esserci un ultimo incontro, perché Greta aveva bisogno di piangere le sue lacrime contro il suo petto prima di poterle dire addio.

E quella stessa notte calava, calava. Doveva giungere al suo centro perfetto perché fosse il momento, perché quello è il tempo che è concesso agli amanti strappati via con forza l’uno dall’altro, che si tratti di uomo e donna, oppure di appartenenti allo stesso sesso.

Perché l’amore nasce e si vede da altre cose, non dall’unione tra maschio e femmina.

E mentre quella notte precipitava verso il suo centro, dove ogni sorta d’amore è concessa, Greta ripensò intensamente ai loro momenti insieme: fu sicura che questo l’avrebbe aiutata a comprendere meglio quel sussurro che le era nato dentro al posto delle urla, e che piano piano prendeva a salire.

Ad un certo punto le sarebbe uscito dalla gola, così come le grida vi erano entrate.

Chiuse gli occhi e subito le apparve nitido il campo di crisantemi, il loro ritrovo segreto.

I fiori bianchi e gialli accarezzavano docilmente i loro corpi sdraiati, e quel profumo … sembrava quasi che le invitasse a restare lì per sempre.

Lì si incontravano sempre quando faceva buio. Era sempre Greta ad arrivare per prima, subito dopo il tramonto, quasi lei fosse guidata in quel luogo dalla notte che si faceva profonda.

Non sempre si abbracciavano. C’erano delle volte in cui si distendevano entrambe supine tra i crisantemi a contemplare il cielo stellato, e parlavano per ore, ridendo e scherzando, e stringendosi la mano. Lei le parlava felice dei suoi gatti, di quello o quel pretendente alla sua mano che lei si curava scrupolosamente di rifiutare, dei richiami striduli della vecchia Schneider o di qualche sua compare, dei quali non le importava affatto e a cui, ogni tanto, rispondeva anche a tono, come quella volta che aveva suggerito alla vecchiaccia di recitare lei il rosario se tanto ne aveva voglia, perché ognuno amministrava come meglio credeva la propria anima.

Lei non aveva mai pensato che quell’anziana disgustosa l’avrebbe denunciata, non pensava sarebbe mai arrivata a tanto.

E poi, invece, c’erano quelle notti in cui non potevano fare a meno di amarsi: iniziavano baciandosi, poi lei toglieva a Greta la cuffia dalla testa e insinuava le dita tra i suoi capelli biondi. Diceva di amare alla follia quel colore tanto uguale a quello del grano.

Infine iniziavano a scoprirsi: lei le slacciava i legacci della parte superiore dell’abito e glielo abbassava fino alla vita e, con lei, Greta faceva lo stesso.

Era sempre lei a cominciare, perché era più passionale, ma questo non significava che Greta l’amasse meno. A dire il vero l’amava infinitamente.

Lei le sfilava anche la biancheria, poi con delicatezza avvicinava il viso ai suoi seni. Prima glieli baciava teneramente, poi dischiudeva le labbra alla ricerca di un contatto più profondo, e le suggeva i capezzoli come alla ricerca del latte materno.

Greta tirava sempre indietro la testa e chiudeva gli occhi, così, all’assenza della vista, percepiva più chiaramente i capelli di lei che le ricadevano sul petto in quell’atto di voluttà.

Anche a occhi chiusi riusciva a palparne il nero squisito e selvaggio.

Si adagiavano insieme tra i fiori colorati e anche Greta iniziava a toccare le forme della sua amata: i seni di lei erano più grossi e più pieni, ma a lei non sembrava importare.

Tra i baci e le carezze, e i baci e le carezze del vento, si sfilavano completamente i vestiti fino ad offrire alla notte la totale nudità del loro amore proibito alla luce del sole.

Poi il gioco scendeva sempre più in profondità, fin dove non esisteva più nulla se non il loro piacere e il loro amore reciproco e da un lato quell’amore scendeva, addentrandosi nell’abisso concesso a coloro che vengono chiamati peccatori, dall’altro saliva, fino a toccare quell’estremo apice irraggiungibile a occhi aperti ed era lì, in alto, che loro si completavano.

Tante volte, durante la stagione calda, erano rimaste così dopo aver consumato il loro amore: nude, distese tra i crisantemi bianchi e gialli ad ascoltare l’eco dei loro gemiti sopiti da pochi istanti.

Così avrebbero fatto anche quella notte, forse, se lei non fosse stata imprigionata come strega.

Ma oramai il momento si stava avvicinando, e quella notte sarebbe successo qualcosa comunque, anche se, in lei, di una strega non vi era nemmeno l’ombra.

Fu quando il silenzio fu più che totale al di fuori del canto silente del vento, fu quando l’oscurità raggiunse quel punto nel suo centro, che quel qualcosa cominciò ad accadere. Dalla gola di Greta uscì finalmente quel sussurro, chiaro e scandito, perfettamente udibile: incontrami nel nero, diceva, e in quello stesso istante il gatto, che fino a quel momento le aveva placidamente sonnecchiato in grembo, si levò di scatto e prese a correre nell’oscurità della notte.

Greta non ci pensò due volte, perché sapeva che l’unica cosa da fare era seguirlo: lui, der Mond, l’avrebbe condotta da lei.

Mentre correva rendendo i suoi movimenti agili e silenziosi come quelli del felino, continuava a ripetersi sottovoce quelle parole: incontrami nel nero, incontrami nel nero, incontrami nel nero, incontrami nel nero.

Non avrebbe perso l’occasione di ritrovarla per nulla al mondo, perché fin dal loro primo incontro, era stata proprio lei, il suo mondo.

Non si stupì quando, inseguendo il procedere disinvolto e fulmineo del gatto nero, Greta raggiunse il campo di crisantemi bianchi e gialli.

der Mond si fermò a scrutarla, e i suoi occhi gialli brillarono nell’incontrare un quasi impercettibile fascio di luce proveniente da chissà dove, poi se ne andò, leggiadro e veloce come disponeva la sua natura, ma Greta sapeva bene che la sua destinazione era quella: il gatto nero aveva il solo compito di mostrarle quale fosse il momento.

In silenzio e con il cuore colmo di nostalgica malinconia, si levò le vecchie scarpe che le riempivano i piedi di vesciche e si mosse a piedi nudi tra i crisantemi.

Fin da subito le venne nuovamente da piangere: come poteva essere tutto finito? Come poteva quello stupido mondo essere arrivato a tanto? Come poteva averla persa per sempre? No, non sarebbe mai potuta andare avanti, mai più.

Si lasciò cadere in ginocchio tra petali e steli che parevano godere di luce propria in quella notte senza luna e senza stelle, ma non avvertì il loro profumo, non quella volta. Sentì solo quello inconfondibile di lei, della sua pelle, dei suoi magnifici capelli neri, e questo la portò soltanto a piangere più forte.

Oramai singhiozzava, più come una bambina spaventata che come una donna che pianga il suo amore perduto, e lasciò che tutto il dolore sgorgasse dal suo cuore come veleno o come sangue amaro, riversandosi sui fiori che avevano visto le due donne unite, come trattandosi del loro giaciglio. E nell’oscurità del centro della notte, Greta fu certa di star versando lacrime colorate di nero come i capelli di lei.

Fu piangendo ancora che chiuse gli occhi e si lasciò avvolgere dal silenzio: un solo suono esisteva in quel campo, oltre a quello del vento. Era il suo sussurro, ripetuto all’infinito: incontrami nel nero, incontrami nel nero, incontrami nel nero …

Incontrami nel nero.

Li riaprì poco dopo e stava ancora pronunciando piano quelle poche e ossessionanti parole.

Non ebbe alcuna paura quando vide chiaramente che cos’era cambiato in quel luogo che conosceva e amava da tanto tempo: i crisantemi che animavano il campo e riempivano l’aria del profumo di lei non erano più bianchi e gialli, ma si erano fatti tutti neri ed erano smossi con forza dal vento.

Era tanto oscuro, eppure a Greta parve fin da subito la visione più bella del mondo. Non poteva esistere niente di più attrattivo, niente di più immenso. E nemmeno niente di più doloroso: perché erano infinite le pene nascoste in mezzo ai fiori della notte. Pene che parlavano di loro due: di Greta, e di lei, di Isabel.

Fin da subito seppe dove guardare: lei era lì, sdraiata tra i crisantemi che finalmente rivelavano la loro vera natura, quella che lei aveva donato loro. Lei che era così bella.

Anche l’abito che indossava era nero e le sue iridi quasi brillavano.

Incontrami nel nero. Sussurrarono entrambe.

Ed era quello il nero. Il loro nero.

Greta si fiondò subito con foga tra le sue braccia e riprese immediatamente a piangere.

-Non lasciarmi più, Isabel. Non lasciarmi più, amore, ti prego- proruppe tra i singhiozzi -Non posso resistere senza di te, non posso perderti!-.

E Isabel aveva cominciato ad accarezzarle i capelli biondi, quelli che aveva sempre amato perché anche l’oscurità necessita del suo sprazzo di luce per essere completa.

La donna che veniva dal nero lasciò che Greta sfogasse i suoi singhiozzi appoggiata al suo petto e fu soltanto quanto sentì i suoi sussulti svanire, che la allontanò da sé e la costrinse a guardarla in viso. Le stava sorridendo come soltanto lei era in grado di fare.

-Non mi lasciare sola- sussurrò Greta di nuovo, mentre le ultime lacrime versate ancora le bagnavano le gote, ma Isabel continuava a sorriderle soltanto.

Fu solo quando si placò il vento, che lei iniziò soavemente a parlare. La sua voce era la netta e palpabile trasposizione in suoni del nero, ma non quel nero che si crede di conoscere: terribile, malvagio, atroce. Il suo era il nero reale, quello che nessuno osava avvicinare, quello che teneva per sé i propri segreti e che apriva la porta soltanto a chi ne era degno.

-Gretchen- la chiamò come era solita fare. -Non piangere- ed alzò la mano per accarezzarla.

-Non devi piangere per me, anche se non posso restare-

-Perché no? Ti prego …- insisté l’altra disperata. Isabel invece restò sempre calma e non mancò mai di sorridere.

-Mi hanno presa, Gretchen, lo sai. Non posso tornare indietro, anche se vorrei- si lasciò sfuggire un sospiro. -Ora non sono più quella che ero-.

A quel punto Greta allungò la mano e la toccò in viso, come a voler essere certa di trovarsela davvero davanti agli occhi, come a volersi assicurare che non si trattasse di un fantasma, o di qualcosa del genere.

-Che cosa sei, ora?- domandò con un filo di voce. Era stato naturale porre quella domanda in quel modo: che cosa sei. Non chi sei.

Isabel sorrideva ancora senza rispondere.

-Sei uno spirito? Eri veramente una …- e Greta in quel momento si zittì. Aveva paura di terminare la sua stessa frase: lei che fino a poche ore prima pensava che molto probabilmente le streghe non esistessero.

-Dillo, Gretchen. Sai che ci siamo sempre dette tutto. Se me lo chiedi ti risponderò- la esortò la donna che emanava il nero che si espandeva tutt’intorno. E stava ancora sorridendo.

Greta sospirò e sentì la vergogna prendere pieno possesso di lei: -Sei davvero … una strega?- domandò atterrita e piena d’angoscia. Non temeva una sua risposta affermativa, piuttosto aveva paura di ferirla con quella sua insinuazione, ma Isabel non aveva incrinato l’orientamento delle sue labbra.

-No- sussurrò lievemente. -Non esistono le streghe, lo sai- e il suo non fu un rimprovero.

-E allora cosa? Come puoi essere qui, se non puoi tornare?-.

Nella foga delle sue parole, Greta l’aveva stretta di nuovo a sé. Fu più piano che riprese a formulare la sua domanda da dove l’aveva lasciata: -Sei forse un sogno?- e chiuse gli occhi mentre pronunciava quelle parole.

Le era venuto spontaneo giungere a quella conclusione: se Isabel non era uno spirito o una strega che si ripresentava una volta spirata, da che cos’altro poteva mai nascere, se non dalla sua mente dormiente? E Greta non voleva che così fosse, perché questo avrebbe significato doverla abbandonare troppo presto, e anche rischiare di non essere più in grado di rivederla, se il suo sonno non glielo avesse permesso.

-Sì e no- fu la soave risposta di Isabel. Greta si staccò da lei e la guardò di nuovo: questa volta la sua espressione era stranita.

-Sì e no?- ripeté corrugando la fronte, allora Isabel si protese verso di lei e le schioccò un bacio fugace eppure intenso sulle labbra.

-Già: sì e no- riprese. -Un sogno non è reale, e io non lo sono, ma questo luogo in cui ci troviamo, che è solo nostro, è a metà strada-.

Greta le strinse la mano nella propria. Lo fece perché quelle parole la confondevano e le davano l’impressione che la sua amata Isabel potesse svanire nel nulla da un momento all’altro. Lei invece voleva tenerla con sé, ancora per un po’ almeno.

-A metà strada di cosa?-

-Di tutto- rispose la giovane in cui il nero viveva. -Siamo tra la vita e la morte, tra il sonno e la veglia, tra la luce e le tenebre: è solo qui che possiamo trovarci-.

-Quando la notte raggiunge il suo centro- sussurrò Greta, che finalmente cominciava a capire.

Il sorriso di Isabel allora si allargò di più, irradiando l’oscuro irresistibile e immenso che esisteva in lei come se fosse una luce.

-Incontrami nel nero-. Lo pronunciarono insieme.

Isabel raccolse allora dal campo un crisantemo completamente nero e lo fissò tra i capelli biondi dell’amata: luce e tenebre che si incontravano a metà strada, formando quel mondo a cui nessuno mai, a parte loro, avrebbe avuto accesso.

Greta sperò che il fiore oscuro fosse ancora lì, tra le sue chiome brillanti, quando fosse tornata all’estremo della sua strada, nella luce. Perché sapeva già che non avrebbe potuto evitarlo, era inutile farsi illusioni.

Funzionava così: c’era la vita e c’era la morte, c’era il sonno e c’era la veglia, c’era la luce e c’era l’oscurità. Erano due mondi differenti, apparentemente agli antipodi, separati tra loro.

Eppure un punto d’incontro esisteva, anche se non era alla portata di tutti: esisteva il centro, lì dove le due strade si univano, dove anche Greta e Isabel avrebbero, forse, potuto trovarsi ancora.

Ma Greta apparteneva al mondo della vita, della veglia e della luce, mentre Isabel oramai risiedeva in quello della morte, del sonno e delle tenebre.

Greta si rese conto che non avrebbe potuto abbandonare la sua via lasciandosi morire di fame come aveva pensato di fare in precedenza, perché non era ciò che prevedeva la sua strada, non erano così che dovevano andare le cose.

Anche per lei, presto a tardi, sarebbe giunto il momento di passare dall’altra parte, di raggiungere il mondo di tenebra da dove veniva Isabel, ma non era ancora ora.

-Quando possiamo trovarci qui a metà strada? Tu lo sai?- domandò Greta alla compagna, ma non c’era più affanno nella sua voce, nemmeno angoscia o disperazione. In essa era nato qualcosa che somigliava alla rassegnazione e anche, in minore misura, al sollievo.

-Magari lo sapessi, mia Gretchen- sussurrò Isabel. Il suo era un sussurro triste, eppure sorrideva ancora, non aveva mai smesso.

-Non sono io a decidere quando vita e morte, sonno e veglia, luce e tenebre devono o possono incontrarsi, lo scelgono loro-.

Gli occhi di Greta si chiusero per un attimo di sconforto, ma poi tornarono subito a posarsi sull’amata: se li sentiva umidi, ma era certa che non avrebbe pianto, non più, almeno fino alla volta successiva.

-Però credo che ce ne renderemo conto, com’è successo stanotte- proseguì la giovane del nero. -Sì, lo credo anch’io- le fece eco la giovane proveniente dal mondo di luce.

E tra i suoi capelli biondi spiccava vivo e lucente il crisantemo nero che pareva simboleggiare l’essenza di quel luogo, del centro, del metà strada in cui esisteva quel mondo.

Fu allora che si strinsero forte e lasciarono che il campo di crisantemi neri si riempisse del loro amore proibito nel mondo di luce, ma che lì era lecito, fino a traboccarne.

Greta non seppe per quanto tempo restò così, in silenzio, abbracciata saldamente a Isabel.

E nemmeno Isabel lo seppe.

 

**

 

Quando riaprì gli occhi, Greta giaceva supina nel campo di crisantemi che aveva raggiunto la notte precedente: erano di nuovo bianchi e gialli. Il sole stava sorgendo all’orizzonte.

Si tirò a sedere un po’ stordita e confusa, eppure serena e con il cuore in pace.

Lei e Isabel oramai erano divise, imprigionate in due mondi diversi che non permettevano loro di incontrarsi o di comunicare, ma ogni tanto, quando la notte arrivava al suo centro, questi due mondi separati e opposti si sarebbero uniti, creando un punto di coesione, quasi di collisione, e allora sarebbero state di nuovo insieme, anche se la notte è solita inghiottire in fretta le sue ore.

Sorrise mentre inalava con forza l’odore dei crisantemi del suo campo. Del loro campo.

Era vero, però: neri erano molto più belli.

A quel pensiero si passò una mano tra i capelli. Il fiore c’era, ed era giallo.

Tranne che per quel petalo posto al centro.

Lì dove i due mondi si incontravano, lì dove esisteva il metà strada

 

Incontrami nel nero.

   
 
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