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Autore: shimichan    02/03/2018    2 recensioni
La poltrona. Il violino. La donna.
Allegro [«No» disse «non ho il rossetto della tonalità adatta a questi zigomi»]
Adagio [«Oh Kate. La mia piccola Kate». Sapeva usare la voce, Irene. Sapeva farla cadere cupa su certe sillabe e smorzala in gola per sfumare ogni parola a tal punto da renderla una carezza che si fissava nei sensi]
Scherzo [A suo modo di vedere era tutto un gioco d’inganno e di manipolazione e, per la sfortuna di chi la incontrava, lei eccelleva in entrambi]
Mini-Long {post quarta stagione ~ riferimenti espliciti a 4x02 e 4x03}
Genere: Generale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Irene Adler, John Watson, Sherlock Holmes
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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*
Scherzo
 

Alle diciannove e ventisette Sherlock uscì dalla sua camera.
Non si era cambiato la camicia e indossava la sua seconda miglior vestaglia, ma accettò di suonare qualcosa per «rallegrare l’atmosfera» come richiesto dalla signora Hudson.
«Conosce il motivetto dei magazzini Lewis?».
Il labbro superiore di Holmes fu scosso da un tremolio d’indignazione che minacciò trasformarsi in una sfuriata isterica quando la donna prese a canticchiare allegramente.
«Credo sia meglio lasciar scegliere a Sherlock cosa suonarci».
L’intervento di John giunse tempestivo e, malgrado l’espressione accigliata, la signora Hudson non ebbe nulla da ridire.
Entrambi, poi, rivolsero un’occhiata speranzosa a Sherlock che, riacquistata la sua abituale compostezza, stava già aggiustando l’accordatura del proprio strumento.
«Pensavo al quarto movimento della Sinfonia numero sei di Čajkovskij».
Le sopracciglia di John fletterono verso l’alto in un moto di sorpresa assolutamente coordinato a quello della governante. Capitava di rado, infatti, che il detective rinunciasse alle sue pungenti repliche e si dimostrasse così disponibile da far luccicare di gioia gli occhi della signora Hudson.
«Oh. Sembra…sembra bello».
«Lo è, John, lo è» concordò, mentre la smorfia suscitata da quell’inspiegabile incredulità si ammorbidiva in una maschera di assoluta concentrazione al suono intenso di un si minore.
«È noto come “adagio lamentoso”». Mi. «Il che lo rende perfetto per la serata». Do.
«E per il violinista!».
Sherlock stonò il vibrato, udendo l’inattesa frecciata con cui la signora Hudson sparì in cucina, e rivolse a Watson uno sguardo interrogativo. L’uomo si limitò a sorridere.


 
§
 
 
Gli ospiti erano attesi alle diciannove e trenta in punto.
Alle diciannove e trentatré Sherlock soffiò un desolato «mi sembra ovvio che non vengano più» e John gl’intimò di stare seduto.
Diciassette minuti dopo, Greg e Molly si affacciarono allo studio, le mani impegnate – vino rosso lui, torta fatta in casa, lei – protese in avanti a preannunciare delle scuse che Holmes trovò assolutamente insensate.
«Se avessi preso King’s Cross Road invece della Southampton Row, non avresti dovuto girare sulla Euston Road – esiste una cosa chiamata traffico – e sareste arrivati puntuali» chiosò, allargando le braccia.
«Oh, non badatelo. È così stizzoso oggi» intervenne la signora Hudson, posando un vassoio di bicchieri colmi di champagne sul tavolo. «Beh, lo è più del solito…oh ciao Molly».
Le posò due affettuosi baci sulle guance, mentre a Greg riservò un buffetto sulla spalla.
Sherlock si accorse che quei gesti premurosi la facevano apparire curiosamente più vecchia. Notò anche che aveva rispolverato il vassoio d’argento delle grandi occasioni, ma indossava il suo terzo miglior foulard. O forse addirittura il quarto.
«Allora diamo un’occhiata a questo posto».
L’entusiasmo di Lestrade era del tutto immotivato e si spense subito. Lo studio era immutato.
Molly, dal canto suo, cercò di conservare il proprio più allungo, ma non andò oltre ad un «carino» di circostanza, che strappò a John un sorriso comprensivo.
«È molto simile a quello vecchio».
«Purtroppo la signora Hudson mi ha impedito di renderlo esattamente uguale».
La governante, che si stava muovendo in cerchio per distribuire i calici, sospirò sconfortata. «Figuratevi che voleva spargere della polvere sulla carta da parati!».
«Bene. Ora ci vuole un brindisi».
Le pupille di Sherlock trafissero il soffitto prima di scomparire dietro le palpebre.
C’era un limite al numero di convenevoli che era in grado di sopportare e John intuì l’avesse appena raggiunto. Poi distese la fronte e la linea della sua bocca si agitò in un lieve tremito: sembrava prepararsi a ricevere un colpo. Nonostante la singolare mescolanza di profumi che invadeva la stanza – i fumi speziati provenienti dalla cucina, il Bronnley Aftershave di Lestrade, l’odore di antisettico che Molly aveva cercato di coprire con una crema alla mandorla, forse di Burt’s Bees – Holmes era, infatti, riuscito a distinguere una fragranza a base di pimento, tuberosa, palissandro e…arancio. Si, doveva trattarsi sicuramente di arancio dolce.
Sapeva a chi apparteneva. Esattamente come sapeva che lo scricchiolio del terzo scalino, a partire dal basso, era stato provocato da uno stiletto di dieci centimetri.
Espirò profondamente e, una volta riaperti gli occhi, colse l’esortazione nello sguardo della signora Hudson – probabilmente si aspettava una qualche sorta di discorso, mentre rilevò solo di sfuggita il movimento dei calici.
«Miss Adler» disse, ignorando sia le occhiate confuse di cui fu bersaglio, sia quella incerta di Molly che si portò una mano al petto come a chiedere spiegazioni, salvo poi accorgersi di essere una presenza accidentale nella visuale del consulente investigativo.
Alle sue spalle udì il suono di un passo, l’unico che servì ad Irene per porsi sotto il rettangolo luminoso disegnato dalla soglia.
Lasciò a tutti il tempo di registrare la sua presenza, approfittandone per aggiustarsi l'acconciatura – la forcina era un pò storta, doveva averla utilizzata per aprire la serratura d'ingresso, e stirò le labbra in una maniera tanto accattivante da far presagire parole molto diverse rispetto a quelle che effettivamente pronunciò.
«Temo di essere arrivata in un brutto momento. Non volevo interrompere una festa».
«Non è una festa».
«Oh, signor Sherlock. Non è questo il modo di trattare gli ospiti».
«Non è un’ospite» precisò, infastidito dall’intraprendenza della signora Hudson.
Doveva essersi applicata, valutò tra sé e sé, giungendo naturalmente alla conclusione sbagliata. Come John.
«L’hai…?».
«No».
Intanto Irene si era spostata. Con poche, misurate falcate aveva affiancato Molly, ma ad ogni mossa – appoggio del piede, spinta delle braccia, immissione d’aria – i suoi occhi erano riusciti a catturare un dettaglio differente, così, incrociandoli, Sherlock ebbe la certezza che lo spettacolo offerto quella sera al 221 B di Baker Street superasse di gran lunga le aspettative con cui si era recata lì. Era estasiata.
A peggiorare la situazione concorse lo zelo della signora Hudson.
«Ecco» disse, porgendole un calice di champagne e interpretando la luce improvvisa e vibrante del suo volto come una sorta di ringraziamento. Holmes non dubitò lo fosse, in fondo le aveva appena consegnato il pretesto per restare.
Il brindisi fu veloce – costretto da Watson all’essenziale per frenare il monologo del consulente sull’uso improprio del termine “inaugurazione” – e davvero poco sentito, ma l’anziana donna ci sorvolò senza lamentarsi. Dal modo in cui occhieggiava la matassa scura dei capelli di Irene, da un lato, e il cipiglio sospettoso del suo affittuario, dall’altro, era chiaro si stesse concedendo una fantasia cinematografica che materializzò, all’improvviso, in un invito.
«Resti a cena. Ho preparato i piatti preferiti dei ragazzi». Poi si piegò verso di lei, in vena di amabili cospirazioni. «Sa come si dice gli uomini vanno presi per la gola».
Il sorriso di Irene si allargò in rima perfetta con il suo sguardo, dove Watson – una protesta già inutilmente raccolta sulla punta della lingua – colse lo stesso bagliore che troppo spesso aveva visto illuminare quello di Sherlock.
Il suo mesto «oddio» venne sovrastato dalla voce divertita della Donna.
«Concordo. Possibilmente con un collare ben stretto e un guinzaglio molto molto corto».
La signora Hudson le restituì solo un’occhiata vaga. Nonostante la bocca spalancata, infatti, non fu in grado di emettere alcun suono e prima che la sua espressione sprofondasse nella confusione più totale, John la incoraggiò a seguirlo in cucina per controllare i fornelli.
«Che avrà voluto dire?» gli chiese, una volta certa di non essere sentita.
«Ah. Ehm…n-non sono così intimo con miss Adler da poter rispondere».
Nella stanza adiacente, intanto, la conversazione proseguiva imperturbata come chi la conduceva.
«Non posso rimanere, purtroppo. Ero passata solo per vedere come le stava il mio regalo, mister Holmes».
Sherlock adocchiò il cappotto abbandonato su una sedia. Doveva esserselo sfilato ben prima di entrare nello studio, forse sulle scale: non esattamente il comportamento consono ad un ospite di passaggio.
«Credo non le serva vedermelo addosso per sapere che è perfetto».
Irene ridacchiò. Come aveva ragione.
«A dire il vero ero indecisa. Avrebbe forse preferito del Perique esiccato tra barili di Wild Turkey?».
I muscoli facciali di Holmes si rilassarono e, anche se la sua espressione non mutò, lei seppe di aver impressionato.
«Ha letto il mio articolo. John reputava fosse inutile».
«Oh no. L’ho trovato infinitamente interessante».
«Infinitamente?». La voce di Greg era fioca, proveniva dal silenzio.
Fino a quel momento, infatti, lui e Molly avevano condiviso la scena con miss Adler, ma in disparte, incapaci d’inserirsi un discorso che, per quanto semplice e futile, aveva suscitato in loro un senso d’inadeguatezza, oltre al sospetto di stare assistendo a qualcosa di molto più intimo delle apparenze.
Irene, ora seduta, abbracciò lo schienale della sedia – la mano abbandonata nel vuoto e il pollice impegnato a carezzare l’anello – ed esaminò Lestrade. Aveva visto le sue foto sui giornali, ma le sembrò meno insignificante, forse perché dal vivo l’ammirazione per Sherlock oscurava i segni della vita – delusioni, problemi, divorzio – che si portava addosso.
Un sorriso appena percettibile le spuntò in un angolo della bocca al pensiero che esistessero ancora uomini capaci di una simile stima, ma se andasse rispettato o biasimato l’avrebbe decretato alla fine.
«Infinitamente» ripeté adagio, in modo da far sentire tutti i tocchi della lingua contro il palato. «Altrimenti come avrei potuto sapere qual è la qualità di tabacco preferita da mister Holmes?».
Greg si girò verso Sherlock. «È la tua…?».
«Si».
«Vede».
«Come ha fatto a capire quale fosse? Ce n’erano elencati duecento quarantatré tipi differenti!».
Nessuno badò troppo al commento di Sherlock sul fatto che ben due persone in quella stanza avessero letto il suo articolo, né al leggero movimento con cui spostò il peso sulle punte dei piedi in una sorta di personale rivincita verso lo scarso apprezzamento di John.
«Oh, capire cosa piace alla gente è il mio lavoro».
Greg fu irritato dal tono tendenzioso e fin troppo famigliare della risposta.
«Cos’è? Una commessa?» sibilò dentro un ghigno ruvido che gli gonfiava le mascelle.
Irene non si scompose. Inclinò il capo e il suo volto si fece affilato.
Diversamente da Holmes, era infastidita dall’ordinarietà, non la detestava.
Il mostrarsi più furbi di quel che si è, il parlare di esperienze in realtà sconosciute, il dover ricorrere alla cortesia quando se ne farebbe volentieri a meno erano atteggiamenti comuni che venivano classificati con freddezza dalla sua mente e che poteva decidere di accettare con garbo o di condannare con una sola, spietata flessione delle sopracciglia.
A suo modo di vedere era tutto un gioco d’inganno e di manipolazione e, per la sfortuna di chi la incontrava, lei eccelleva in entrambi.
«Per l’amor del cielo!».
La voce di Sherlock giunse alle sue spalle, alterata di almeno un paio di toni, e quando Lestrade tornò a fissarlo, vide che respirava tra i denti.
«Questa donna – marcò la parola alzando gli occhi al cielo – offre rimproveri ricreativi».
«È una dominatrice, Gary. D-o-m-i-n-a-t-r-i-c-e» aggiunse poi, e finalmente le pupille dell’ispettore si dilatarono. Piantò lo sguardo su Irene che gli sorrise in uno strano modo, inarcando solamente il labbro superiore, a scoprire appena gli incisivi, e lasciando immobile il resto della bocca.
John rientrò in quell’istante, accorgendosi subito del repentino cambio di atmosfera: l’interdizione di Greg, il sangue concentrato sulle guance di Molly, la scanzonata fierezza della Donna, il profilo contratto di Holmes.
«Mi sono perso qualcosa?».
«Nulla di rilevante, John».
«C-come avete conosciuto Sherlock?» chiese timidamente Molly.
Irene parve metterla a fuoco solo allora. Vestiva in modo anonimo e aveva la postura di chi non sa occupare lo spazio del proprio corpo. Non era un’agente, ma doveva avere a che fare con la polizia – forse apparteneva al ramo scientifico – trascorreva molto tempo in un ospedale o in un laboratorio – l’odore di antisettico era smorzato, ma percepibile – e poi c’era quella domanda posta con finto disinteresse…dovette resistere all’impulso di scoppiare a ridere.
Separò le labbra con la punta della lingua e Sherlock s’irrigidì: difficile stabilire quanti danni avesse provocato uno solo dei suoi sguardi.
«Durante un caso» l’anticipò Watson, consapevole di quali tinte avrebbe assunto la risposta se pronunciata dalla Donna.
Una tensione che non tutti avevano percepito sembrò allentarsi nell’aria e Molly riprese a respirare normalmente, annegando l’imbarazzo dentro una sorsata di vino, mentre Greg esclamò «Ma certo! Lei è quella donna…!».
Il nome Adler aveva smosso qualcosa nella sua memoria e alla fine era riuscito a collegarlo ad una sparatoria avvenuta cinque anni prima, quando in un elegante villetta di Belgravia, lui e i suoi uomini avevano trovato Sherlock in evidente stato confusionale.
Accennò anche ad un video, ma la sua voce divenne ovattata, lontana, almeno alle orecchie di Holmes. Nella sua mente, infatti, si era affacciato un ricordo offuscato dalla droga. 

«Zitto. Va tutto bene. Le voglio restituire il suo cappotto»

Ruotò appena il busto, perché quel pensiero malcelato lo costrinse a corrugare la fronte e non voleva che lei se ne accorgesse. Fu inutile, Irene rientrava nel suo campo visivo comunque. La vide curvare le labbra, dimostrando che i suoi sorrisi potevano raggiungere gradi d’intensità insospettabili.
«…a colei che battuto il grande Sherlock Holmes!».
Quello di Lestrade voleva essere un brindisi goliardico, scherzoso, tuttavia l’immobilità della donna lo trattenne dal sollevare il bicchiere. Anche il ghigno inavvertitamente apparso sul suo viso scomparve. Irene lo fissava senza clemenza.
«Non mi sorprende che Scotland Yard debba ricorrere all’aiuto di mister Holmes anche per casi semplici come quello di Bayswater».
L’ispettore non seppe se offendersi. C’era un tale calore arrotolato intorno ad ogni parola da farne dimenticare l’effettivo significato e il suo sguardo non lasciava trasparire alcuna emozione.
Alla fine si concentrò sul nome del quartiere dove il giorno prima era stato rinvenuto il cadavere di un uomo e si schiarì la gola.
«Non abbiamo richiesto l’assistenza di Sherlock a Bayswater, si è presentato lui spontaneamente» precisò con tono autoritario. «E non ha assunto il caso».
John notò la soddisfazione di Irene, concentrata sull’angolo della sua bocca.
«No, credo l’abbia solo risolto».
Holmes rimase immobile, senza abbassare lo sguardo, senza tradire il minimo stupore.
«Piuttosto ovvio, a dire il vero».
«Ma se sei rimasto sulla scena per cinque minuti e non hai fatto altro che lamentarti della carta da parati!» protestò Lestrade.
Sherlock strinse le palpebre per scacciare l’immagine delle pareti ricoperte di blu di Persia e Terra di Siena – un accostamento di colori assolutamente discutibile.
«Il tempo è del tutto irrilevante quando si sa cosa osservare». Slargò le narici, inalando una quantità di ossigeno tale da permettergli di esporre le conclusioni tutte d’un fiato.
«I vestiti, i resti del caminetto e le stringhe delle scarpe attorno a mani e piedi: sono ciò che ci interessa. Partiamo dai vestiti. Un uomo che può permettersi un abito di Savile Row non prenota una camera in un albergo di terza categoria, perciò non voleva farsi vedere nel suo ambiente abituale. Questo ci porta ai resti del caminetto. Sono di un volantino pubblicitario. Il numero è parzialmente illeggibile, ma dalle ultime cifre si evince appartenga ad un servizio a pagamento. Non ci sono resti di cibo, suppongo quindi cercasse una compagnia speciale, femminile probabilmente. Tuttavia nessuno è stato visto entrare o uscire dall’hotel dopo il suo arrivo, e scommetto che né dal suo cellulare né dal fisso della camera sono partite chiamate. Troppa vergogna. Veniamo così alle stringhe. Mani e piedi legati insieme, la testa avvolta in un sacchetto di plastica, il corpo nudo e in posizione fetale. Sembra l’opera di un secondo soggetto, ma i nodi sono sbagliati e la camera era chiusa dall’interno».
Irene aveva assistito alla scena con deferenza.
L’alacrità della sua parlata, i passi nervosi, gli scatti del mento, le ripetute saccadi – tutti sintomi di un cervello che lavora troppo velocemente rispetto al corpo – le rotolarono sotto la pelle e s’impressero con violenza nelle membra. Fu addirittura costretta a stringere le gambe accavallate per smorzare il brivido d’eccitazione che sentì infiammarle nel mezzo. Dio se le era mancata quella mente!
Gli impulsi di Greg erano, invece, orientati verso tutt’altro sentimento.
Lanciò un’occhiata a John che alzò le spalle per sottolineare la propria estraneità a quanto stava accadendo. Alla pari dell’ispettore, infatti, anche lui aveva assistito alla rapida incursione di Holmes nella stanza: aveva guardato in giro, commentato la scelta dell’arrendo ed era uscito borbottando un «noioso».
«Nel portafoglio mancavano sia contanti che carte di credito».
«Punterei sulla cameriera che ha trovato il corpo».
«E la ferita alla tempia?».
«Se l’è inflitta nel tentativo chiamare aiuto, cosa ardua da fare a voce, Graham, se si ha la testa infilata un sacco».
Greg trattenne la sfuriata che sentiva pronta in gola e provò a riassumere quel traboccante flusso d’informazioni in una semplice domanda. «Stai dicendo che si è suicidato?».
«Non essere sciocco!». Fece una pausa per riacquistare il proprio aplomb. «Si è accidentalmente ucciso».
Silenzio.
Le rughe sulla fronte di Lestrade si accentuarono, mentre Watson inclinò leggermente il capo verso la spalla, come se inquadrare Holmes da quella prospettiva gli permettesse di rendere la spiegazione comprensibile, ma niente. Lo vide solo strabuzzare gli occhi.
«Perché legarsi, nudo poi e…». Fu distratto dalla voce di Sherlock che nella sua testa continuava a ripetergli tu guardi, ma non osservi, John, allora capì. «Oh».
Tenne la o aperta molto più del dovuto in un modo che fece esasperare l’ispettore.
«Cosa? Che…che c’è?».
«Sempre così sensibile». La Donna inarcò un sopracciglio compiaciuta del sospiro che il suo commento aveva strappato a Sherlock.
«Il termine che mister Holmes sta, con tanta cura, evitando è asfissia da autoerotismo».
Il viso di Greg rimase contratto, anche se perse aggressività. Sentiva il bisogno di dire qualcosa ma uno sbuffo gli si appiccicò alle labbra all’idea di dover spiegare alla stampa che uno stimato membro della Law Society era morto a causa di un’estrema pratica sessuale.
Irene intuì cosa si annidasse dietro la sua fronte corrugata e lo rassicurò.
«Oh, ispettore non volevo metterla a disagio. Si stupirebbe nel sapere quanti membri del parlamento, scrittori di spicco, medici rinomati…».
«Si, abbiamo capito. Il mondo è pieno di persone deviate» tagliò corto Watson.
Accomodò le spalle sulla sedia e fece roteare lo champagne nel bicchiere.
Non amava essere interrotta, non durante un gioco che prometteva di poterla divertire ancora, ma Lestrade era impegnato a comporre un numero, John troppo cauto nei suoi confronti e la dottoressa Hopper immersa in riflessioni facili da supporre. Restava solo…
«Era sposato, mister Holmes?».
«Si».
Greg, dall’angolo dello studio, con il cellulare premuto all’orecchio, mimò un «e tu come diavolo lo sai?» che fece compiere ai suoi occhi l’ennesimo rassegnato movimento.
«L’uomo non aveva la fede, ma un single non avrebbe esitato a pagare per il sesso. Prima ho detto che era stata la vergogna a frenarlo, ma è più plausibile che la questione sia morale. Non voleva tradire la moglie, anche se il matrimonio era chiaramente finito. Oh, andiamo John, è il calcolo delle probabilità, se un matrimonio è felice non ti ritrovi a legarti mani e piedi in una camera…».
«Sbagliato».
Holmes mosse la bocca a vuoto per un attimo perché quella brusca interruzione gli aveva aggrovigliato le parole in gola. «Scusi?».
«Ha detto che il matrimonio era finito, sbagliato. Era in crisi».
Il suo cipiglio divenne vacuo. Era chiaro stesse cercando la falla nel suo ragionamento e, in un moto di tenerezza, Irene decise di aiutarlo.
«I vestiti. Erano piegati, non è così? Ho sempre pensato che gli uomini che piegano gli abiti prima del sesso abbiano bisogno di riflettere a lungo su ciò che stanno per fare – Sherlock serrò le mascelle – Non era un esperto di pratiche erotiche, ma credeva che tentare qualcosa di nuovo avrebbe giovato al suo matrimonio. E qui il dilemma: rivolgersi ad una professionista e tradire la moglie o prendere spunto da qualche video online?».
Abbassò le palpebre, sporse le labbra, inarcò il sopracciglio, una sequenza di piccole manifestazioni di dissenso.
«In fondo un uomo divorziato ha voglia di lasciarsi tutto alle spalle, non è così, ispettore?».
Greg aveva ancora il cellulare in mano e, sebbene cercasse di mascherarlo dietro un sorriso sciancato, aveva ricevuto un colpo. Farfugliò alcune sillabe slogate, ma un’occhiata a John fu sufficiente per capire che sarebbe stato inutile continuare a nasconderlo.
«Beh. È un mese ormai». Spostò la mira davanti a sé e nessuno seppe dove caddero i suoi pensieri.
«Non ne avevo idea. Io…mi dispiace».
«Oh, per favore!» strillò Sherlock, due dita premute sulla tempia nel vano tentativo di rallentare l’affollarsi di pensieri che la facevano pulsare. «È evidente da tutto…questo» e lo indicò, dalla testa ai piedi, con un gesto plateale del palmo aperto perché tutti gli indizi della separazione di Lestrade erano appariscenti come le luci a intermittenza degli alberi di Natale.
Lo sguardo di Irene vibrò sotto le palpebre. Sapeva che il cervello di Holmes era collegato alla sua bocca senza filtri e che, quindi, ogni congettura partorita dalla sua mente sarebbe stata istantaneamente verbalizzata. Doveva solo attendere.
«Ciò che mister Holmes sta tentando di dire…» cominciò «….è che lei è ferito. Ha fatto strada nel suo lavoro, certo, ma un uomo che riesce professionalmente, spesso si rivela una delusione nella sfera privata». Raccogliendo lo sguardo che l’ispettore aveva infilato tra la punta delle scarpe, si accorse che i suoi occhi erano velati da una strana caligine. «Lei è un insicuro e sua moglie un’insensibile. Scommetto che non ha nemmeno provato a sistemare le cose – la caligine s’inspessì – non quanto lei, almeno. Per questo è tanto arrabbiato».
Parlò lentamente, dosando le pause, mantenendo un timbro basso affinché la sua voce risultasse tanto morbida da infondere la sensazione di una carezza. La sua partecipazione sembrava autentica, così, quando disse «potrei fare qualcosa per il suo rancore, se solo volesse», Greg dimenticò la propria vulnerabilità e fu sul punto di cedere alle lusinghe di quella promessa.
«Non funzionerebbe».
A Lestrade sfuggì un gorgoglio evasivo. «Cos-? Io non…non stavo…».
«No, certo che no» infierì Sherlock, nel cui sguardo aleggiava uno scherno solenne, ottenuto con gli angoli della bocca rivolti all’ingiù.
«Non stavo pensando di accettare» ripeté, anche se l’assenza di saliva toglieva convinzione alle sue parole.
«Perché avresti dovuto? Si, sganciarsi dai ruoli e dai contesti quotidiani può essere liberatorio, rilassante addirittura, ma tu ami il tuo lavoro, le responsabilità e i rischi che comporta, perfino la pressione. Fumi, ma non più di due o tre sigarette al giorno, il che lo rende più un’abitudine che una necessità. Sei ligio al dovere, infrangi le regole solo in casi estremi e sei leale. Anche alla tua professione. Non sai smettere i panni del poliziotto nel privato – immagino sia questo il motivo per cui sono iniziati gli attriti con tua moglie – di conseguenza non potresti mai calarti in un gioco di ruolo perché – e la tua reazione davanti a miss Adler lo dimostra – ritieni le devianze moralmente deplorevoli».
I suoi pensieri avevano preso a girare sempre più veloci, in cerchi ancora più stretti.
«Il tuo tipo di donna non è una dominatrice. Hai bisogno di qualcuno insicuro, non bellissimo – senza offesa, ma non avresti speranze altrimenti – e deluso dalle relazioni umane almeno quanto te, qualcuno che conosca le dinamiche della centrale, stakanovista e…romantico – si, John conosco il significato di romantico, ora puoi posare il bicchiere – un tipo come…».
Molly.
Ebbe la presenza di spirito di non dire quel nome.
Non credeva di possedere un tale istinto, sepolto sotto la rete di logiche astrazioni che si era tessuto attorno, e si stupì della violenza con cui quell’istinto lo guidò a tacere, scalzando la sua abituale indifferenza. Rimase immobile, estraniato, la bocca socchiusa come quella di un muto, lo sguardo incapace di cogliere i particolari con nitidezza, ad eccezione della spruzzaglia vitrea, color ghiaccio negli occhi della Donna, una sorta di sfida, per non dire trionfo.
«Tutto bene, Sherlock?».
Fu proprio Molly a porgli quella domanda, ma dovette affidarsi alla sua vista e scorgere la sua espressione allarmata per esserne certo.
«Si» rispose, distratto dallo stridere di una sedia. Irene si era alzata.
L’affabilità del suo volto si era incrinata e i suoi tratti avevano assunto una piega strana che, una volta preso posto di fronte il camino, il fuoco contribuì a rendere ancor più indecifrabile.
Holmes rincorse la scriminatura dei suoi capelli. La superava di almeno una spanna, ma il vantaggio fisico si rivelò nullo contro il suo sguardo.
«Avevo intuito fosse cambiato, mister Holmes…». Accennò un movimento in avanti del busto e Sherlock l’assecondò, chinandosi abbastanza da avvertire il tepore del suo fiato contro l’orecchio. «…grazie per avermene dato prova».
Poi gli sfiorò il mento e lo tenne con delicatezza. I contorni del suo viso persero solidità.
Fu un’ombra quella che vide protendersi versò di sé. Chiuse gli occhi e sentì la bocca calda di Irene premuta sull’angolo della propria.


 
§

 
«Miss Adler. La trovo piuttosto bene, soprattutto considerando il fatto che dovrebbe essere morta».
Irene inseguì quella voce nel buio finché non scorse la sagoma di un uomo muoversi nella penombra regalata dalle luci aeroportuali. Sorrise. Le piaceva l’idea di averlo fatto attendere.
«Sarcasmo? Mi viene da pensare che provi risentimento nei miei confronti».
«La sorprende?».
«Un po’. In fondo l’ultima volta che ci siamo visti, la situazione si è risolta a suo favore».
«Vero». Non lo vide, ma fu certa stesse contraendo le labbra. «Tuttavia il suo stato vitale, per così dire, mi costringe a riaprire pratiche già archiviate. E io odio la polvere».
«Mi spiace causarle tanti problemi».
«Non menta».
«D’accordo, non lo farò».
Si avvicinò di un passo e lui fece altrettanto, porgendole l’ombrello per ripararsi dalla pioggia, sottile come cipria, che le stava inumidendo il cappotto. Incrociò il suo sguardo prima di ripetere «mi spiace causarle tanti problemi» e lui distolse il proprio, alzando gli occhi al cielo.
«Lei è davvero un adorabile snob».
Lo sentì sbuffare, ma non ebbe modo di cogliere quale espressione avesse assunto perché spostò la mira davanti a sé e fece cenno al pilota di avviare i motori.
«Vorrei solo dormire sonni tranquilli» disse, aiutandola a salire sull’elicottero.
Irene notò la smorfia infastidita che gli scopriva i denti, ma non capì se fosse provocata dal contatto fisico o dal roboante sussulto delle pale in funzione.
«Giace scomoda la testa che indossa una corona» scherzò.
Furono le ultime parole che si scambiarono a terra.
 

 
§
 

«Hai del…uhm…del…».
«Rossetto, John. Si chiama rossetto».
«Si. Beh ce l’hai qui – si picchiettò la guancia – puoi…potresti pulirti?».
Sherlock constatò che non chiese per favore, ma accettò comunque il tovagliolo che gli stava porgendo e lo accontentò.
I suoi occhi continuavano a rimanere fissi sulla soglia dello studio, dinanzi alle scale, dove Irene Adler gli aveva lanciato un ultimo sguardo prima di andarsene.
«Hai sentito che ha detto?».
«Chi?». La voce di Watson proveniva dal basso.
Holmes si girò per capire il motivo di quella stranezza, scoprendo di essere il solo ancora in piedi. Tutti, infatti, avevano preso posto ed il fastidioso rumorio che, in sottofondo, attutiva i suoi pensieri altro non era che il chiacchiericcio conviviale della cena in corso.
Si sedette. L’impronta rossa sul bicchiere vuoto, abbandonato da Irene strategicamente accanto al proprio, lo infastidì più del dovuto.
«Allora di chi stai parlando?».
Lo sguardo di Sherlock si ritrasse cupo sotto le sopracciglia.
«Oh, certo! Quella donna! Dunque…ha detto che sei cambiato, ma onest-».
«No, no, no» lo interruppe, seccato dalla scarsa perspicacia di Watson, imputabile, pensò, all’ingordigia con cui si era gettato sull’arrosto. «Dopo».
«Ehm…lavoro. Ha parlato di un lavoro».
«Non di un lavoro qualsiasi…» rifletté ad alta voce «…ma di un lavoro...del lavoro…Santo cielo, John! Puoi masticare senza fare tutto questo rumore?!».
Watson lo guardò desolato e inghiottì il boccone che, nella fretta di parlare, gli andò di traverso. «Ha detto di essere un regalo…».
«…per qualcuno» lo anticipò Sherlock, nella cui mente la voce di Irene vibrava ancora come una corda di violino allentata, una nota dissonante persa nel mezzo di un’orchestra.
Strinse gli occhi per farla rientrare nello spartito di un ragionamento sensato e quando ci riuscì, John ebbe l’impressione fosse preoccupato.
«Una frase ad effetto, suppongo. Quella donna ama essere appariscente» buttò lì, allungando la mano verso la caraffa.
«Forse» e si sistemò il tovagliolo sul colletto.
Era evidente non fosse convinto.
John osservò il rivolo d’acqua fuoriuscire dalla brocca, chiedendosi quale misterioso significato avesse colto Sherlock in quelle parole che per lui erano solo l’ennesimo tentativo di seminare disagio – l’acqua si franse contro il bicchiere in un sonoro glup.
Insomma la teatralità era parte del carattere poliedrico di Irene Adler, ne avevano avuto entrambi un assaggio al loro primo incontro – saliva rapidamente – e poi che altro valore potevano avere?
 
«Sono richiesta da qualcuno, sa come regalo»
 
L’acqua traboccò dall’orlo del bicchiere.
«Oh, John stia attento!» lo rimproverò la signora Hudson.
Ma Watson non se ne curò. Cercò respiro nei polmoni improvvisamente svuotati e rivolse un’occhiata terrorizzata a Sherlock.
«Devi fermare questa cosa, qualsiasi cosa sia».
La mancanza d’aria, ora, bruciava quanto il cadere nel nulla di quell’ammonimento, perché Holmes sembrava non ascoltarlo. Continuava a sorridere alla signora Hudson e a lanciarle cenni di apprezzamento fasullo – l’arrosto era troppo stopposo per i suoi gusti.
«Sherlock!» urlò, a denti stretti per non turbare gli altri.
«Si, John?».
«Hai capito. Chiama Mycroft».
«No».
«C-come?».
«No. Sarebbe inutile. Qualsiasi cosa stia accadendo, ormai è tardi. Tanto vale goderci questa deliziosa cena».
La sua voce aumentò di un tono e la signora Hudson si strinse le spalle, sollevando il bicchiere, – gesto che Sherlock contraccambiò – sotto lo sguardo esterrefatto di John. Le sue pupille si dilatarono ancor di più vedendo sull’angolo della bocca di Holmes il principio di un sorriso.
«La cosa ti diverte per caso?».
«Perché lo chiedi?».
«Stai sorridendo».
«No, non è vero».
«Si, invece. A cosa stai pensando?».
«All’universo». Poi aggiustò la mira, ciondolando il capo. «Beh, al fatto che l’universo non è pigro».

Non poteva affatto esserlo se aveva posto Irene Adler sul suo cammino.

 
*















Angolo Autrice

Fiù...è stata una faticaccia questo capitolo! So che è molto lungo (...beh sicuramente più lungo di quello che avevo previsto, ma non mi andava di tagliare nulla) e so (o meglio intuisco) che possano esserci parti ambigue (una domanda che mi aspetto è: perchè Irene è così felice? Ho cercato di farlo trasparire perché esplicitarlo l'avrebbe reso troppo rindondante)...comunque nel prossimo sarà tutto più chiaro, promesso.
Bene. It's all! Come sempre grazie a chi legge/recensisce/pensa "beh, dai! non fa proprio schifo"!
Alla prossima.
  
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