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Autore: Lumen Noctis    03/03/2018    3 recensioni
In un universo fantastico, la razza umana vive al fianco di popolazioni antiche, che nel corso dei secoli si sono unite agli uomini dando vita alle razze dei semispiriti, legati alla natura e agli elementi. Un giovane ragazzo in cerca di indizi sulle proprie origini giunge nella capitale dell'Est, un altro vi si trova per il motivo opposto. Nessun uomo nasce solo e la propria natura, come le proprie origini, non è qualcosa che possiamo dimenticare, se non a caro prezzo. In maniera simile ma opposta si rivelerà, forse, l'ironia del destino.
Genere: Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Shonen-ai, Yaoi
Note: AU, Lime, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
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La libertà di un fulmine.

 

Vi è una città, nell’estremità orientale del paese, circondata da contee verdi e pianeggianti nelle quali i villaggi spuntano come piccoli germogli dai campi in primavera. La città in questione ha un nome antico, Esteria, che le è stato dato dai primi popoli choeri che l’hanno fondata in tempi così remoti che non ce ne resta alcuna notizia. Nel corso dei secoli, in seguito alle guerre dell’età antica, fu distrutta e abbandonata. La ricostruzione iniziò e fu ripopolata solo in seguito alla sua riscoperta sotto il Regno unificato. Da allora, è tornata ad essere un fiorente centro urbano, abitato da popoli di tutte le razze, ma sempre in prevalenza da choeri e aemi, che hanno sempre continuato a vivere nelle regioni circostanti vicino al mare.

C’è in questa città una piana sopraelevata, in un’area boschiva, che sale fino a gettarsi con uno strapiombo sul mare. Lì, in certe giornate di tempesta, il vento sferza così forte che sembra ancora di poter sentire la presenza degli antichi Aemi. Il bosco si piega al suo soffio, le foglie si strappano e se uno sventurato quale son stato io vi si avvicina è destinato a coglierle tutte, in terribili schiaffi sul viso. Proprio sulla vetta, il bosco si dirada in una radura, che appare meravigliosamente ampia dopo la traversata nel bosco ululante. Un antico albero, in quello che è il punto più alto, si erge e non nutre foglie, né frutti, né fiori. Il suo tronco è così grande che per chiuderlo in un abbraccio non basterebbero tre persone, e se sembra privo di vita a un primo sguardo, basterebbe affondare un coltello nella sua corteccia ed ammirare la resina dorata che ne sgorga per avere prova del contrario. Tuttavia, nessuno ha così poco rispetto da voler spillare il sangue di questo albero sacro. Forse nessuno è mai stato tanto disperato da farlo, prima di me.

In questa radura, di fronte a quel simbolo immobile, ho scoperto il miracolo che ha travolto la mia vita. Come le onde del mare che ruggiscono nella tempesta e travolgono la riva con accanimento e violenza, tanto che il giorno seguente la spiaggia è resa irriconoscibile dal giorno precedente, così entrai nella foresta, e ad uscirne fu un’altra persona.

Il mio miracolo è iniziato ad Esteria ed è culminato lì più di un anno fa. A tornarci ora, ancora sento il tremito della terra in quella notte cieca. Ma nel silenzio del sole, quando la rugiada è già svanita e gli uccelli cantano nei loro nidi tranquilli, non mi resta altro che un vago senso di malinconia.

 

 

Il sedile della carrozza era pieno di punti spigolosi che gli premevano dolorosamente contro le natiche ad ogni buca e ogni mattonella che la vettura calpestava con le sue grandi ruote. Le sospensioni dovevano esse    re vecchie o avevano bisogno di essere sostituite al più presto, o il veicolo si sarebbe guadagnato il nome di carrozza a noleggio più scomoda della città. Il cocchiere, inoltre, spronava il cavallo ad un passo fin troppo veloce perché il ragazzo potesse sentirsi tranquillo. Contro il finestrino chiuso, la pioggia batteva incessante. Il clima era del genere che gli avrebbe strappato un sorriso se solo avesse avuto la tranquillità necessaria ad ammirarlo.

«Pensa che potrebbe andare un po’ più lentamente?» Domandò con una punta di nervosismo. L’uomo, seduto in una cabina anteriore e separata dalla sua, dalla quale poteva sentirlo grazie ad un piccolo sportello, lanciò un’occhiata veloce verso di lui.

«Teme forse che possa deragliare? Conosco queste strade da quando sono nato, e lo stesso si può dire di Philippe qui, vero bello?» Fece rivolto all’animale, spronandolo appena con le redini perché non rallentasse il passo. Con una risata divertita, sembrava voler dichiarare chiusa la questione. Il ragazzo, che sedeva stando più in pizzo possibile al sedile, si morse le labbra e poi la lingua quando la carrozza sobbalzò più violentemente di altre volte. Trattenendo appena una maledizione, strinse gli occhi nel tentativo di razionalizzare il dolore. Una lacrima lo punse agli angoli degli occhi. Perché faceva sempre così male? Iniziava già a sentire sapore di sangue in bocca. Se solo quell’uomo avesse fatto trottare il cavallo un po’ più lentamente.

«Mi scusi, è la pioggia che mi preoccupa. La carrozza potrebbe scivolare, investire qualcuno…»

«Chi vuole che sia per strada a quest’ora?»

«Scusi, ma non è così scontato che non ci sia nessuno.»

«Questo quartiere è mezzo morto, signorino, soprattutto col brutto tempo. Non si preoccupi e lasci fare a me.»

Con questo, la conversazione fu realmente conclusa. Il ragazzo allontanò il viso dallo sportello e si acquattò vicino al finestrino. Le sue valigie, assicurate all’altra metà di sedile con corde e ganci, sobbalzavano di continuo e fu grato di non aver portato niente di fragile per il viaggio. Con un sospiro, volse lo sguardo oltre il vetro ad osservare il panorama cittadino. Percorrevano una strada urbana debolmente illuminata dalle lanterne, in un quartiere residenziale semi-periferico. Intravide le insegne di una locanda e di altri negozi, tra i quali quella di un panettiere e di una sartoria. Si chiese se i suoi abiti non risultassero eccentrici e fuori luogo in quella nuova città.

Aveva quasi iniziato a dimenticare il fastidio del tragitto quando, giunti ad una curva più stretta delle altre, la carrozza svoltò bruscamente a sinistra. Il ragazzo perse l’equilibrio sul bordo del sedile e finì per appoggiarsi con entrambe le mani al vetro. Vide il terreno sollevarsi e occupare più parte sotto l’orizzonte. In un attimo fu certo che la ruota dall’altra parte della carrozza si fosse sollevata, ma nessuna delle imprecazioni che conosceva e pensava spesso fu abbastanza veloce a raggiungere le sue labbra o il suo cervello, che una nuova visione dipinse stupore sul suo volto: due occhi chiari, dall’altro lato del vetro. Oltre le gocce in fuga lungo il finestrino, apparve un volto chiaro, incorniciato da capelli neri come la pece e disegnato da sopracciglia che erano corse in alto per la sorpresa.

Quell’istante gli sembrò scorrere al rallentatore. Vi fu un lampo di realizzazione nei loro occhi, un attimo nel quale il suo cervello realizzò di star guardando un altro essere umano, senza però avere lo spazio di mettere insieme un pensiero coerente. Dall’immagine del suo viso, il ragazzo dall’altra parte sembrava semplicemente folgorato sul posto. I loro sguardi si separarono solo quando la carrozza terminò la curva e proseguì lungo la strada, rompendo il contatto visivo. Un forte fruscio fece capire all’ospite della carrozza che le grandi ruote del veicolo dovevano aver sollevato un alto schizzo d’acqua. E da quel momento in poi, come per ripicca, tutto accadde a velocità accelerata, come se il tempo che aveva indugiato in quell’istante non potesse permettersi di rallentare e, per mantenere fedelmente il ritmo che sempre lo vincolava, avesse dovuto affrettare il passo, recuperare la strada che aveva perso.

Il cocchiere non fermò la carrozza, né dava cenno di essersi accorto di nulla. Continuava ad incitare Philippe con un “oh, oh” basso e profondo, accompagnato dal movimento abituale delle mani che tenevano le redini. Non appena si fu ripreso dallo spavento della virata, il ragazzo corse allo sportellino: «Si fermi! Immediatamente!»

L’uomo gli lanciò un’occhiata sorpresa, ma cogliendo la serietà della sua voce e del suo sguardo, eseguì l’ordine senza obiettare. Con mano agitata, prese l’ombrello chiuso accanto ai suoi piedi, mentre il cavallo nitriva e la carrozza, finalmente, giungeva a un punto fermo, non senza sobbalzi spiacevoli che facevano ondeggiare la pila di valigie al suo fianco. Il conducente richiese un pagamento ulteriore per il favore che gli venne chiesto di proseguire da solo e scaricare le valigie per lui una volta a destinazione. Il ragazzo accettò non curandosi di nulla e scese dalla vettura dritto in una pozzanghera.

Solo quando il freddo lo punse nel vivo e il tormentato picchiettare della pioggia travolse il suo ombrello si rese conto di non sapere veramente cosa l’avesse spinto a fare quello che stava facendo. Sebbene fosse ancora primo pomeriggio, la strada era scura come se fosse stata notte inoltrata, e anche di più, perché i lumi non erano ancora stati accesi, e probabilmente i luoghi pubblici sarebbero rimasti al buio fino al cessare del temporale. Senza pensarci, proprio come era sceso, ora il ragazzo aveva iniziato a camminare a passo svelto ripercorrendo la strada a ritroso. Nel momento in cui raggiunse la curva, tuttavia, trovò solo la strada piena di ciottoli, i palazzi, le tegole, i fili per stendere i panni che correvano da un balcone all’altro, illuminati dai riflessi della pioggia. I lati della strada erano completamente allagati.

Nei propri scarponi color rosso scuro, proseguì, pensando che il ragazzo doveva essersi spostato e affrettò il passo. Camminò ancora fino alla fine della strada, dove sulla sinistra le case lasciavano il posto ad un grande giardino verde e lussureggiante, che in quel momento sembrava ululare assieme al vento. Il fruscio profondo di foglie si levava come un ruggito nella pesante cortina di pioggia, il ragazzo si fermò ad osservare quell’antico spirito vivente. Forse era solo una leggenda, ma una parte di lui, nonostante l’infanzia fosse ormai finita, credeva che negli eventi più forti e sorprendenti della natura scorresse ancora il respiro delle Origini.

Un soffio di vento sferzò improvvisamente dal lato opposto rispetto a quello cui si era abituato, gonfiò l’ombrello e se non l’avesse trattenuto con forza sarebbe senza dubbio volato via. Lo abbassò e riprese a camminare - non si era nemmeno reso conto d’essersi fermato di fronte al cancello del parco. All’angolo della strada in cui si trovava, la terrazza di una locanda a due piani offriva un buon riparo dalla pioggia sulla strada, e vi accorse senza pensarci due volte, combattendo gli alterni umori del vento. Già pochi passi prima di avvicinarsi, vide una figura scura battere le mani sulla porta d’ingresso, un involucro scuro poggiato a poca distanza, su uno scalino.

D’improvviso, il cuore gli corse in gola, e sentì il vuoto lasciato nel petto farsi più profondo quanto più si avvicinava. Ad ogni passo, si chiedeva cosa avrebbe fatto, cosa avrebbe detto, in che modo avrebbe dovuto presentarsi o scusarsi, ma non riusciva a darsi una risposta. Improvvisare era una delle sue paure più grandi, un momento che odiava perché l’esito poteva rincuorarlo o spogliarlo di ogni dignità di fronte ai propri occhi.

Una volta al riparo, chiuse l’ombrello e, risollevato lo sguardo, si accorse che l’altro si era reso conto della sua presenza. Un lume rischiarava il piccolo spazio protetto dell’ingresso alla locanda. Guardandolo, non ebbe dubbi che si trattava della stessa persona che aveva visto fuori dalla carrozza. I suoi abiti erano scuriti e appesantiti dall’acqua, sporchi di terra e fango lungo le caviglie e quasi fino al ginocchio. Le scarpe leggere dovevano essere completamente fradicie e il ragazzo immaginò la spiacevole sensazione di gelo sotto le palme dei piedi. La maglia era a sua volta scura, fin sulle spalle, e sembrava non ci fosse nemmeno un centimetro di quel ragazzo che fosse ancora asciutto. I capelli neri erano lucidi sotto il lume della candela, ma i suoi occhi erano quelli che brillavano di più.

«Hey,» fu lo sconosciuto a prendere la parola per primo, utilizzando la Lingua di Mezzo, come era consuetudine fare nel rivolgersi a qualcuno che non si conosce. «Hai un ombrello, perché ti fermi qui?» Parlava bene e senza accenti particolari. Se fosse o meno la sua lingua natia, lui non avrebbe saputo dirlo.

«Ho pensato di venire a scusarmi e a darti una mano.»

L’altro sollevò un sopracciglio, avvicinandosi. «Come? Ci conosciamo?»

«No, ma prima mi trovavo sulla carrozza…»

«Oh sì, la carrozza.» La voce del ragazzo si era fatta ora molto più dura, sempre calma, ma improvvisamente priva di ogni entusiasmo. «Riconosco il tuo viso adesso.»

«Mi dispiace terribilmente, avevo chiesto al cocchiere di procedere con meno fretta, perché poteva essere pericoloso. Non mi ha dato ascolto ugualmente… Ma sono sollevato almeno che non sei stato investito dalla vettura, non so cosa avrei fatto… Davvero, ti chiedo scusa.»

Così dicendo, chinò il capo come era tradizione fare, e anche se non era un inchino profondo, era senza dubbio tanto considerato il fatto che i due dovevano essere pressoché coetanei. Rimase così per qualche istante, poi risollevò la testa e guardò in quegli occhi grigi che sembravano pozzanghere senza fondo. Su quel viso chiaro, si era nuovamente dipinta l’espressione di sorpresa che aveva visto dall’altro lato del vetro, ma senza dubbio prima aveva perso la dolcezza e la morbidezza dei suoi tratti, che ora ritrovava senza nemmeno doversi sforzare. Come imbarazzato dal silenzio, portò l’ombrello verso di lui: «Ho pensato di cercarti e offrirti il mio ombrello. Posso riaccompagnarti a casa o ovunque tu stia andando, o se non vuoi semplicemente ti lascerò l’ombrello. E se quella è la tua borsa, posso darti una mano ad asciugarla…»

«Come farai tu se mi lasci l’ombrello?»

Il ragazzo sbatté le ciglia un paio di volte, «Ah, ovviamente, andrò via senza.»

L’altro scosse la testa, «No, non voglio. Accompagnami a casa, poi andrai via con l’ombrello.»

«Sei sicuro? Capirei se semplicemente non volessi più vedermi.»

Un sorriso affiorò senza timidezza sulle labbra del ragazzo. «Perché dovrei? Sei venuto fin qui per scusarti e darmi una mano. Accetto volentieri la tua proposta, e ammiro il tuo senso di giustizia. Penso che al tuo posto avrei fatto lo stesso.»

Sentendosi infinitamente sollevato, sospirò mentre il ragazzo si voltava per andare a raccogliere la propria borsa lasciata ai piedi della porta. Poco prima di prenderla, invece, si fermò e lanciò uno sguardo verso di lui, che l’aveva seguito istintivamente.

«Qual è il tuo nome?»

«Goro,» rispose, «E il tuo?»

«Akira. Ti dispiace, se ti chiamo per nome?»

«No… figurati.»

«Allora, Goro.» Il ragazzo gli mise una mano sulla spalla e lo guardò intentamente negli occhi. Lui capì che qualcosa di inusuale gli stava frullando nella testa. «Ho voglia di fare una cosa folle. Sei con me? D’altro canto, sei in debito, mi devi un favore. Se fai questo, puoi anche lasciarmi da solo sotto la pioggia e andartene.»

«Ma cosa… e in cosa consisterebbe questa follia?»

Un brivido gli corse lungo la schiena quando il sorriso sul viso di Akira si allargò, tirando in alto un angolo delle sue labbra. Ma forse era solo il freddo della pioggia, qualche soffio di vento che gli si fosse insinuato sotto la maglia, e per coincidenza quel sorriso era sbocciato nello stesso istante.

«Voglio correre.»

«Sotto la pioggia?»

«E senza ombrello.»

«E… la tua borsa?»

«La lasciamo qua, chi vuoi che passi a rubarla sotto questo temporale?»

«Questo è vero, però…» Goro si morse le labbra, voltandosi ad osservare la cortina di pioggia che scendeva oltre il limitare della terrazza, una cascata fitta e spessa, pesante come le tende di un sipario. Non un’anima viva, fatta eccezione per i due ragazzi, si aggirava per le strade. Sopra le loro teste le finestre delle case erano tutte illuminate. E in fondo il suo sguardo incontrò nuovamente il manto agitato del bosco, che ondeggiava impetuosamente come il mare in tempesta. Mentre guardava così, assorto, e aveva ormai dimenticato perché si fosse voltato, la voce di Akira lo raggiunse vicino all’orecchio.

«Sei molto più affascinato e tentato di quanto vuoi dare a vedere.»

Le sue guance arrossirono sotto gli occhi di Akira e Goro non poté farci niente. La vergogna e l’imbarazzo che provò furono tali da peggiorare la situazione, tanto che non riuscì a mettere insieme due parole coerenti, mentre riusciva solo a pensare a quanto rossa potesse esser diventata la sua faccia. Sentì distintamente Akira parlare, ma non capì, doveva aver usato un’altra lingua. Di fronte al suo sguardo confuso, il ragazzo dai capelli corvini si lasciò andare ad una risata divertita. Goro non sapeva perché, ma si sentiva toccato nel profondo. La voce con cui Akira gli aveva sussurrato nell’orecchio ancora riverberava in fondo al suo petto.

«Dai, vieni con me.»

«È completamente da pazzi.»

«Ti sei mai lasciato andare a fare qualcosa senza pensarci?»

«No, io… sono abituato a pensare prima di agire.»

Anche se, doveva ammetterlo, l’iniziativa di scendere dalla carrozza in primis sembrava essergli piombata addosso come un demone. Qualcosa aveva preso il controllo del suo corpo, e aveva semplicemente fatto quello che aveva sentito, senza rimuginarci sopra. Che fosse l’assenza di suo padre a permettergli di prendersi certe libertà?

«Allora direi che oggi è il giorno giusto per iniziare.»

La sicurezza nel sorriso di Akira era così limpida e sincera che Goro si sentì vinto. Senza rispondere, strinse la presa sull’ombrello e si avvicinò lentamente alla porta della locanda. Raggiunse la borsa di Akira: una sacca con una lunga tracolla, probabilmente in cuoio con cuciture fatte a mano. Ciò che si trovava all’interno doveva essere completamente fradicio. Si voltò un istante a guardare il ragazzo, che l’aspettava a braccia conserte poggiato ad un pilastro. Piegate le gambe, sollevò la borsa delicatamente e vi nascose sotto l’ombrello, assieme al piccolo borsello con i suoi soldi e documenti, assicurandosi che questo in particolar modo non fosse visibile.

Un kami deve aver preso possesso di me per davvero.

«Sono sorpreso.» Disse Akira quando fu di nuovo da lui, con un sorriso luminoso. «Convincerti è stato più facile di quanto mi aspettassi.»

Goro tacque un istante, «È solo perché sono in debito… piuttosto, quando pensi di iniziare a correre?» Fece incrociando le braccia al petto. Il sorriso limpido di poco prima si trasformò improvvisamente in un ghigno malevolo. Il ragazzo si mosse e gli si fece di nuovo vicino - troppo vicino, per i suoi gusti, e senza aggiungere una singola parola poggiò le mani sulla sua schiena e lo spinse in avanti sotto la pioggia. «Dopo di te!»

Poi ci fu solo il pesante scrosciare della pioggia, il rombo delle gocce pesanti che echeggiava nella sua testa, un freddo pungente che lo inglobò interamente nel giro di pochi istanti. Dopo un primo attimo di gelo completo, Goro si voltò tutto tremante solo per vedere il ragazzo, ancora sotto la tettoia, scoppiare in una risata compiaciuta. A gelarsi fu anche il suo cuore, in quel momento, e si pentì di ogni passo che aveva mosso verso quel marciapiede desolato. Qualcosa iniziò a montargli dentro, si sentì tradito e pugnalato alle spalle.

Sentendo le lacrime pungere ai lati degli occhi, strinse i pugni e iniziò a correre. A ogni passo i piedi affondavano sempre più nelle suole bagnate, e se calpestava una pozzanghera l’acqua che lo schizzava era comunque meno di quella che gli cadeva addosso dall’alto. Tuttavia poco importava in quel momento, pensava solo a correre, a mettere più strada possibile tra sé e la figura umiliata di sé che aveva lasciato di fronte alla locanda. Presto però sentì una mano poggiarsi sulla sua spalla e stringerlo con forza. Al suo fianco, il volto bagnato di Akira apparve con un mezzo sorriso tirato dalla corsa, che adesso comunque non avrebbe più saputo interpretare. Goro lo spinse via e l’altro indietreggiò, rallentando il passo per un momento. Poi riprese a correre e lo raggiunse in meno di un battito di ciglia. Goro aveva già il respiro affannato e non sapeva se fosse per la corsa o per la rabbia o entrambe le cose insieme. Quando Akira provò a fermarlo la seconda volta lo scansò di nuovo.

«Lasciami stare!»

«Hey! Fermati.»

Con una carica ammirabile, Akira lo superò e gli si mise davanti per fermarlo, mettendo le mani avanti e spostandosi da una parte all’altra a seconda di dove Goro cercasse di svicolare via. Erano ormai giunti quasi a metà della lunga strada, e a quel punto invece che fermarsi a parlare Goro gli diede le spalle e corse via verso il cancello nero del parco. L’impatto delle suole sul terreno erboso fu incredibilmente piacevole, data la situazione, mentre i piedi lo portavano sempre più velocemente a inoltrarsi nel bosco ululante.

«Aspetta!»

Voltandosi, vide il ragazzo correre ancora alle sue spalle. Non demordeva, anzi, sembrava incredibilmente divertito. Goro non si era ancora stancato di correre e sentirsi deriso e umiliato in quel modo riaccese una fiamma in fondo al suo petto. Forse era semplice orgoglio, una presa di posizione, il rifiuto di accettare la disfatta alla sua improvvisazione. Sentì il corpo scaldarsi, come se si fosse ricordato prima della sua testa che la sua natura gli permetteva di trovare calore anche nel più freddo dei ghiacciai. Con rabbia, ma anche senso di sfida, si voltò e corse all’indietro per due passi appena, il tempo di parlare, e poi riprendere a correre.

«Prendimi se ci riesci!»

Sentì Akira ridere alle sue spalle, e improvvisamente non stava più scappando con la stessa disperazione di prima. All’improvviso, non erano più paura e vergogna a far volare le sue gambe. Un’energia nuova scorreva nel suo sangue come un fiume di lava bollente. La pesantezza della pioggia gli era penetrata fin nelle ossa, era probabilmente diventato insensibile ad ogni cosa, perché anche gli arbusti e i rami che lo colpivano in faccia o sulle braccia scoperte, i cespugli che attraversava senza badare ai graffi sulle caviglia, nulla riusciva a procurargli dolore.

Il bosco si faceva sempre più fitto, diverse volte rischiò di inciampare nelle radici degli alberi, ma non si fermò. Se avesse dovuto tornare indietro, non sarebbe riuscito a trovare l’uscita passando per la stessa strada che ora, come quasi non la toccasse, scivolava veloce sotto i suoi piedi. Non ricordava più qual era stata l’ultima volta che aveva corso a perdifiato in quella maniera. Dopo un tempo indefinito in cui non si voltò nemmeno a guardarsi indietro, senza preavviso, il bosco diede spazio ad una visione più ampia, l’orizzonte si aprì spalancando le proprie braccia. Le fronde degli alberi ondeggiavano, tendendosi al cielo come a volerlo accogliere. Le nuvole grigie e livide sembravano chiamarlo a loro e al tempo stesso schiacciarlo a terra col seme freddo che gettavano sulla terra. Come sollevato dal vento, Goro saltò e si lasciò andare a un grido. Forse lo sognò, ma per un istante si sentì leggero, come se braccia invisibili l’avessero lanciato con più forza di quella che aveva messo lui nelle gambe. Continuò a correre nella radura, finché non giunse dinnanzi ad un albero solitario. Dalle sue possenti radici visibili in superficie all’ampiezza del tronco, finanche all’assenza di foglie sui suoi rami spogli ma possenti, tutto ispirava austerità, infondeva nel fondo del suo cuore una riverenza e una soggezione che non avevano fine. E al tempo stesso, un grande stupore. Le sue gambe si fermarono e Goro permise al proprio organismo una tregua dopo la lunga corsa.

«Preso!»

Qualcosa circondò i suoi fianchi, investendolo e trascinandolo a terra. Quando realizzò di esser caduto, voltandosi, si accorse di essere tra le braccia di Akira, che respirava affannosamente, tremava, sorrideva, aveva la pelle d’oca. Eppure aveva una forza e una vitalità che scorrevano dal suo corpo dritto contro il suo, Goro se ne sentiva sopraffatto. Spingendolo via, si liberò dalla sua stretta.

«Perché sorridi così? Non ti capisco!» Urlò per sormontare il rumore della pioggia.

«E tu perché sei scappato così? Non ti capisco!» Fece il ragazzo lasciandosi andare con tutto il peso sulla terra fangosa. Portandosi una mano al viso, Goro capì di essersi sporcato. Non osava immaginare in che condizioni sarebbe entrato nel suo nuovo appartamento.

«Cosa pensi sia stato?» Rispose poi, stando in ginocchio al fianco dell’altro ragazzo, «Cos’è, volevi vendicarti? Io sono stato gentile con te, e tu mi hai voluto umiliare!»

«Io? Umiliare te? Ma era solo uno scherzo.»

«Di cattivo gusto, non trovi?»

Akira rise portandosi una mano alle labbra, i suoi occhi brillavano come se risplendessero di luce propria. «I miei scherzi non sono mai di cattivo gusto.»

«Lo era! Decisamente!»

«E dai, che vuoi che sia una piccola ripicca…» tese una mano verso di lui, «Tregua?»

Goro ascoltò il proprio respiro irregolare calmarsi lentamente. Il petto di Akira, di fronte a lui, si sollevava e abbassava altrettanto affannosamente. Il ragazzo aveva arrotolato le maniche della maglia fin sopra le spalle e Goro non poté evitare di ammirare i muscoli delle sue braccia. E se fossero state solo quelle parti ciò che trovava di bello nel corpo di Akira, Goro sarebbe stato molto meno turbato in quel momento, perché il ragazzo di fronte a lui doveva essere bello in ogni angolo. Le gocce d’acqua che lo colpivano sembravano non scalfire affatto la sua bellezza, ma l’esaltavano, facendo aderire gli abiti al suo corpo, e lasciando poco all’immaginazione. Deglutendo a fatica, Goro guardò altrove e poco dopo la mano di Akira cadde a terra.

«Dai su, mi dispiace. Non pensavo di offenderti tanto…»

«Non mi piace essere preso in giro.»

«A chi piace, dimmi?»

«Non lo so, ma non mi piacciono nemmeno le persone che prendono in giro gli altri.»

«Nemmeno se si tratta di scherzi innocenti?»

«Esatto.»

Akira fischiò e il suono raggiunse probabilmente solo le sue orecchie, perdendosi poi immediatamente sotto la pioggia. A star fermi lì, iniziava a fare davvero freddo, si sarebbero ammalati. Goro tornò a guardare Akira.

«Ma sono qui con te, la mia proposta non era una presa in giro.»

«E dovrei ringraziarti per la febbre che mi prenderò a causa tua?»

«No,» il ragazzo si sollevò a sedere, «Dovresti ringraziarmi, perché ora sei un uomo libero. Proprio adesso, puoi essere chi vuoi e come vuoi… e anche io…»

La sua voce si era fatta sempre più bassa, mentre Akira avvicinava il viso al suo. Goro non fu certo di capire le sue ultime parole, forse aveva addirittura cambiato lingua, ma nel tempo che impegnò a chiederselo, l’altro aveva poggiato le mani sulle sue guance. Incapace di muoversi, guardò come il suo volto si faceva troppo vicino per esser messo a fuoco e chiuse gli occhi quando le loro labbra si toccarono. Come se avesse avuto un incantesimo sulla propria bocca, Akira lo trascinò in quel bacio senza che Goro volesse opporre resistenza. Fece scivolare la lingua tra le sue labbra ed entrambi caddero nuovamente a terra, aggrappandosi l’uno all’altro.

Goro sospirò nel bacio e strinse la presa sui suoi capelli, sentendo il proprio desiderio sfuggire sempre più ai freni della ragione. La bocca di Akira era calda, i suoi sensi impazziti, confusi. Era come se avesse perso la bussola, non sapeva più chi fosse, ma si perdeva nel piacere della sensazione. Lentamente, dimenticò ogni cosa, si annullò del tutto e vedeva solo buio, udiva solo la pioggia abbattersi ovunque intorno a loro, sentiva solo il corpo di Akira aderire al suo e muoversi lentamente su di lui, provocando intense ondate di piacere, in un ritmo regolare, ogni volta che le loro parti intime entravano in contatto.

Al suo risveglio nel nuovo appartamento che aveva appena preso in affitto nella periferia di Esteria, Goro non riuscì a pensare a niente. Lentamente, realizzò la differenza, prese coscienza di dove si trovava, vide la tiepida luce della luna filtrare nella stanza e illuminare il letto, udì la pioggia picchiettare leggera contro la finestra chiusa, sentì il peso delle coperte calde e l’impellente necessità di soddisfare il bisogno che lo faceva tremare in quegli abiti sudati. Da solo, in silenzio, approfittò del fatto che il sogno non fosse ancora svanito del tutto dai propri sensi e vi indugiò un po’ più a lungo. Non fu una decisione ragionata: sapeva che nel momento in cui si sarebbe fermato a pensarci, avrebbe rinnegato ogni cosa. Solo nel sonno poteva abbandonare il suo autocontrollo e trovare a se stesso una giustificazione. Dunque si lasciò scivolare, in quella radura battuta dalla pioggia, tra le braccia di Akira. Sentì il fresco dell’acqua e il calore dei loro corpi vicini, che si toccavano e si cercavano, le mani che annaspavano tra i vestiti. Eppure, l’immagine era molto più sfocata delle vivide sensazioni del sonno profondo.

Goro si ritrovò a immaginare che fossero le dita di Akira a scendere lentamente lungo il suo addome, a sfiorarlo, a insinuarsi sotto i pantaloni sollevandone l’orlo. Quando si toccò, gli mancò il fiato per un attimo. Gli occhi si persero oltre le palpebre mentre un gemito gli moriva in gola, sotto le labbra di Akira che gli lasciavano un primo bacio sul collo. Ogni volta che posava la bocca sulla sua pelle, Goro si sentiva sempre più perso, e nemmeno gli dispiacque di immaginare che Akira lo mordesse, lasciandogli addosso segni del suo passaggio. Lui tremava nel suo letto, ad occhi chiusi, e Akira rideva contro il suo orecchio. Senza sapere come, di preciso, Goro scoprì che non indossavano più i loro abiti, aveva completamente dimenticato la pioggia. La mano di Akira si muoveva su di lui in un ritmo sempre più veloce ed erratico, stringendo ora insieme entrambe le loro intimità, strappando a entrambi respiri bollenti, gemiti che controvoglia raggiungevano le labbra e non facevano altro che rinnovare il piacere. Goro ansimò sempre più forte, arricciando i piedi sotto le lenzuola e non avendo più la forza di nascondere le proprie emozioni. Raggiungendo il limite, Il suo corpo fu scosso da spasmi, prima di spegnersi e lentamente tornare calmo.

Nella stanza piena dei suoi respiri irregolari, attimo dopo attimo la mente tornò a schiarirsi. Il silenzio calò su di lui, sulla sua fronte imperlata di sudore, come un velo gelido, e il ragazzo si ritrovò ammutolito, sentendosi sporco non solo negli abiti. Quando fu in grado di realizzare l’accaduto, immediatamente si domandò cosa ci fosse di tanto sbagliato in lui e si vergognò come un ladro, sentendosi in colpa per aver permesso al suo subconscio di sfruttare il volto di uno sconosciuto per dare sfogo alla sua perversione. Provò una punta di odio verso se stesso, per il proprio essere contro natura, per l’aver macchiato quel brevissimo ricordo con la sua devianza, che doveva anche rimanere il suo più grande segreto.

Se non fosse sceso dalla carrozza e non fosse andato a cercare quel ragazzo, forse avrebbe sognato di sistemare le proprie valige o di scrivere una lettera a suo padre, per comunicargli che era giunto a destinazione sano e salvo. Il disappunto di non aver saputo trovare il ragazzo e di non essersi potuto scusare, pur avendo camminato lontano fino a quella locanda, in che modo, esattamente, avevano portato a un seguito così malsano?

Col cuore che batteva forte nel suo petto al solo ricordo, si maledisse per le emozioni che ancora provava, vivide e reali. Non sembrava un sogno, si disse e continuò a pensarlo come un mantra. Non sembrava un sogno. Ma doveva esserlo. Probabilmente, quel ragazzo non si chiamava nemmeno Akira, e lui aveva inventato tutto dall’inizio alla fine, perché semplicemente non si conoscevano. La sua prima notte ad Esteria già gli si prospettava come un segno di malaugurio, e mentre sospirava, decidendo finalmente di alzarsi per cambiarsi d’abito, seppe che non avrebbe più chiuso occhio per molte ore a venire. Fuori dalla finestra, la pioggia era cessata.

 

 

 

 

 

Angolo dell’autrice.

Questa storia è stata pensata e ideata grazie all’ispirazione di una delle sempre bellissime challenge di Fanwriter, in questo caso si tratta di quella intitolata “Rainy Time”. Sfortunatamente, a causa di mie circostanze sfavorevoli, non sono riuscita a scrivere né a pubblicare in tempo, ma le idee che mi erano venute mi piacevano e mi mancava tantissimo scrivere storie con ambientazioni fantasy, quindi non ho rinunciato a buttare tutto giù.

Si tratta della primissima storia che scrivo in cui si presenta una scena con tematiche erotiche e la cosa mi ha messa molto in ansia! Non ho mai scritto davvero di questi argomenti e vorrei imparare a trattarne in maniera appropriata. Fatemi sapere cosa ne avete pensato, se l’avete trovato forzato, fuori luogo, scritto male o in maniera volgare, o magari invece se vi è piaciuto e vi ha emozionato. Pensate che il rating sia adatto o che vada alzato?

Grazie a tutti di aver letto e di essere arrivati fin qui!

   
 
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