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Autore: The3rdLaw    04/03/2018    1 recensioni
Sabrina, una ragazza ormai diciottenne, decide in un giorno molto importante di scavare in un capitolo buio della storia della sua famiglia, che ebbe luogo quando lei era ancora troppo piccola per comprenderlo. (3126 parole)
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Di compagnie indesiderate e altre seccature
 
23 ottobre 2005
La piccola Sabrina non aveva osato perdere di vista la sua mamma da quando lei le aveva dato la tristissima notizia, che non aveva neanche capito fino in fondo: le aveva detto che lo zio Riccardo era andato in cielo con gli angeli, come nonna Maria l’anno prima; ma, quando l’aveva sentita di nascosto parlare con il papà l’aveva sentita dire una parola strana, che iniziava con la S di “serpente”. Non sapeva cosa volesse dire, ma le faceva tanta paura: forse per il tono che la mamma aveva usato, forse per il pesante silenzio che l’aveva seguita.
A Sabrina lo zio Riccardo stava molto simpatico: si vestiva sempre in modo buffo, diverso dal papà; sapeva cantare, ballare, suonare il piano e la chitarra; le leggeva sempre le fiabe facendo le voci ai personaggi, proprio come piaceva a lei, e la sua casa era sempre piena di oggetti strani, che lui diceva di non toccare. Era stato lui a farle capire che Babbo Natale era solo lo zio Luigi in costume e le aveva insegnato tante cose, come fare le cornicette e scrivere il suo nome in corsivo. Quando gli chiedeva che lavoro facesse, lui le rispondeva sempre: «Posso essere tutto ciò che vuoi, piccoletta».
Nessuno al piccolo funerale pianse quanto lei: ora gli angeli avevano una buona compagnia, certo, ma non potevano lasciarle il suo caro zio ancora per un po’?
A poco erano servite le parole della mamma e del papà: lei le diceva con le lacrime agli occhi di non piangere, mentre il papà aggiungeva freddo che non sarebbe servito a nulla.
 
Nonostante l’enorme tristezza iniziale, piano piano Sabrina sembrò essersi ripresa, finché un giorno, dopo circa una settimana dal funerale, alla mamma arrivò una lettera. La bambina, spinta dalla curiosità tipica della sua età, le chiese di chi fosse. La mamma rispose, con voce tremante ed occhi arrossati: «Di tuo zio».
«Zio Luigi? Che di…».
«Non zio Luigi; zio Riccardo». La mamma si coprì la bocca con la mano, come stesse pensando: “Non avrei dovuto dirlo!”.
«Zio Riccardo? Ma non era andato tra gli angeli?».
La mamma si morse un labbro.
«L’ha scritta prima di… prima di andare tra gli angeli. È roba di lavoro, non t’interessa. Va’ a giocare, ora», tagliò corto.
Sabrina capì che forse era meglio lasciarla da sola, quindi fece come disse.
 
22 ottobre 2017
Erano passati dodici anni da quando lo zio Riccardo era “andato tra gli angeli” – come gliel’aveva detto la mamma allora – e Sabrina aveva da poco compiuto diciotto anni.
Nonostante fosse passato tanto tempo, ogni 22 ottobre Sabrina aveva sempre dedicato un pensiero allo zio, anche se i suoi ricordi di lui si facevano di anno in anno sempre di meno. C’era da dire, però, che le poche immagini che il suo cervello aveva conservato intatte erano vividissime, come pochi suoi ricordi infantili. Nelle poche immagini mentali che ancora aveva di lui cercava disperatamente qualche segno nel suo aspetto o nel suo comportamento che potesse farle capire perché avesse voluto “andare tra gli angeli” così presto, interrompendo bruscamente la sua vita in quel modo – suo padre le aveva raccontato qualche anno prima che s’era impiccato – ma era tutto inutile: nei suoi ricordi era sempre incredibilmente allegro. Di sicuro la sua mente da bambina aveva filtrato quei messaggi impliciti del linguaggio parlato e corporeo che era troppo piccola per riconoscere e comprendere.
Quell’anno, però, le cose sarebbero cambiate: il suo essere neo-adulta le aveva conferito il coraggio di chiedere una cosa che non avrebbe mai osato chiedere prima.
Quella sera, dopo aver finito di studiare filosofia, andò con il cuore a mille da sua madre, che era in soggiorno a leggere aspettando che anche suo marito tornasse da lavoro. Sapeva che odiava essere interrotta mentre leggeva – quella era una delle tante cose che loro due avevano in comune – ma non voleva più aspettare un minuto di più.
«Mamma, ricordi lo zio Riccardo?».
Lei sembrò colta all’improvviso da quella domanda improvvisa.
«Certo, perché me… ah, sì, oggi sono dodici anni. Come passa veloce il tempo…». Sospirò, e in quel sospiro Sabrina sentì tutto il peso dei ricordi di una vita passata assieme, una vita finita troppo presto.
«Già, riguardo questo… ti ricordi che ricevesti una lettera?».
La mamma impallidì.
«Sì».
«Non erano solo cose di lavoro, vero?».
«No, ma… insomma, perché vuoi saperlo?».
«Ce l’hai ancora conservata?».
La mamma aveva gli occhi lucidi.
«Sì, certo che ce l’ho conservata! Non vorrai mica leggerla?».
Stavolta fu Sabrina a sospirare.
«Mamma, ormai sono adulta. Lo sai quanto volevo bene allo zio Riccardo, anche se l’ho conosciuto per troppo poco: credo di aver diritto di sapere…», disse, omettendo l’ultima parte del breve discorsetto che s’era preparata.
La mamma sorrise, mentre due lacrime le scesero sulle guance.
«Non l’ho mai fatta leggere neanche a tuo padre… ma è vero che a lui Riccardo non era mai piaciuto… sai una cosa? Hai ragione, hai il diritto di sapere, ma devi promettermi di non parlare di quello che leggerai con nessuno all’infuori di me».
«Promesso». Parlarne non aveva mai fatto parte delle sue intenzioni, quindi quella promessa non cambiò nulla.
La mamma allora si alzò dal divano e accompagnò sua figlia nel ripostiglio, dove si trovava una vecchia cassettiera di legno. Aprì il primo cassetto e ne tirò fuori il suo unico contenuto: una vecchia busta, indirizzata a lei.
«Tieni. Rimettila a posto appena hai fatto e sta’ attenta a non rovinarla».
Sabrina ringraziò sua madre, quindi lei le diede un bacio sulla fronte e se ne andò.
La ragazza si chiuse in camera sua e aprì la busta, da cui uscirono due fogli, scritti a mano su entrambi i lati. La grafia di suo zio era piccola e ordinata, con poche cancellature. Chiedendosi se avesse scritto tutto di getto o se avesse fatto delle brutte copie, Sabrina iniziò a leggere l’ultima lettera del suo defunto zio.
 
22 ottobre 2005
Carissima Elena,
Quando leggerai questa lettera, se tutto andrà secondo i piani, io sarò già morto. Hai letto bene, morto, non ci girerò attorno: ho deciso di farla finita e tu sei l’unica a cui me la sento di spiegare il perché.
Insomma, noi siamo sempre stati così, fin da piccoli: tu eri la sorella maggiore, matura e ragionevole, e io il fratello minore svitato. Dopo aver letto questa lettera, capirai che forse ero ancora più pazzo di quanto tutti voi credevate, ma ormai poco m’importa: voglio solo dire la verità a qualcuno, e chi altri potrebbe essere questo qualcuno se non la mia cara sorella?
Per farla breve, potrei dire di aver deciso di morire per colpa di una donna, ma ciò non le renderebbe giustizia: di tutte le persone che sono andate e venute nei trentadue anni della mia vita, quella vipera non ha mai lasciato il mio fianco, neanche quando avrei voluto tanto che lo facesse. Ora, non stare a pensare a tutte le donne che ho conosciuto, cercando di capire a chi mi stia riferendo: non la conosci, è impossibile che la conosci, non te ne ho mai parlato e, anche se in varie occasioni ti è stata proprio di fronte, tu non hai mai notato la sua presenza, così come non l’ha mai fatto nessun altro.
La incontrai per la prima volta alle scuole medie: accadde quando il professore d’arte diede al disegno di un mio compagno un voto più alto del mio, o una sciocchezza del genere. Lei mi arrivò all’improvviso accanto mentre stavo tornando a casa: era una ragazzina come me, aveva i lunghi capelli corvini, occhi verdi e la carnagione chiarissima.
«Certo che Simonelli sa disegnare davvero bene», mi disse. «Ti piacerebbe essere come lui, non è vero?».
«Chi sei? Vattene», le risposi, e poi continuai sulla mia strada. Quando mi voltai, dopo pochi passi, non la trovai da nessuna parte.
Quel breve incontro mi aveva lasciato una sensazione di disagio che non se ne andò mai del tutto via e che non riuscivo a definire, ma lei non riapparve più per molto tempo.
Tornò quando avevo sedici anni, già donna mentre io dovevo ancora finire d’essere ragazzo, per non lasciarmi mai più. Neanche ricordo quale fosse stata l’occasione precisa, avendola sentita blaterare e rimproverarmi implicitamente per migliaia di cose: sembrava che la sua professione fosse quella di gettare sale sulle ferite.
Ogni volta che diventavo spettatore del successo di qualcun altro – in qualunque ambito possibile – era inevitabile avere i suoi occhi verdi fissare quel successo e dirmi con fare saccente quanto quella persona fosse migliore di me. Iniziò con i successi artistici, per così dire: leggevo un bel libro? “Peccato che non avrai mai la creatività di quell’autore!”. Mi trovavo ad osservare un quadro? “Immagina la soddisfazione di quell’artista appena ebbe finito questo capolavoro! Tanto non la proverai mai”. Ascoltavo una canzone dal ritmo piacevole e con un testo intelligente? “Non sarai mai un genio come queste persone!”. Guardavo un bel film? “Non avrai mai lo stesso carisma di questi attori”.
Era fastidiosa, fastidiosissima, ma ancora sopportabile. Poi iniziò ad attaccare i miei insuccessi “personali”. Non riuscivo più a parlare con nessuno, perché ogni volta che mi veniva raccontato qualche evento piacevole, lei mi sussurrava all’orecchio, con quella sua vocetta da so-tutto-io, “Dovresti essere felice per loro: di sicuro stanno vivendo meglio di te”. Per farla stare zitta, troncai  tutti i rapporti che riuscii a troncare (a proposito, se ti è sembrato che nel periodo 1992-1996 ti stessi evitando è proprio per questo). Neanche così, però, riuscii a fermarla: mi bastava vedere per strada un gruppetto di amici o una coppietta perché lei mi ricordasse di quanto fossi diventato solo. Una volta, mentre ero in pubblico mi capitò, mentre mi stava facendo uno di quei discorsetti, di urlarle contro: «Sei tu che mi hai fatto diventare così!». Tutti si girarono verso di me e mi guardarono come se fossi stato un matto; e intanto lei, maledetta, se la rideva.
Verso i ventitré anni, mentre continuavo a saltare da un lavoro all’altro per non morire di fame come attore di teatro, credetti di capire cosa sbagliavo quando lei mi straziava con le sue parole: il più delle volte le rispondevo, o comunque mi atteggiavo in modo da farle capire che quantomeno le stavo dando retta. Decisi quindi d’iniziare ad ignorarla: ai primi tempi fu estremamente difficile, visto che di solito mi parlava all’orecchio oppure guardandomi dritto negli occhi ma, dopo che ebbi cercato di riprendere una sorta di vita sociale costante, iniziai ad abituarmi alla sua voce come uno s’abitua al ronzio fastidioso di un insetto che non si riesce proprio a schiacciare o cacciare. Allora lei provò ad alzare il tono, ad incalzarmi anche su cose insignificanti: la perfezione di un bel tavolo in legno o il gusto nel vestire di un passante a caso; poi, vedendo che ciò non funzionava, si fece furba e decise di prendere la strada opposta: per la prima volta da quando era tornata, quella donna fatta di veleno e chiacchiere tacque.
Vorrei tanto dire che fu un miglioramento – e all’inizio anch’io ebbi quella speranza – ma, ahimè, mentirei se lo facessi. Ero così abituato al suo cianciare, ormai, che il suo silenzio mi pesava più di mille delle sue parole; e poi, ora più che mai, riuscivo a percepire il suo sguardo fisso su di me. Mi era sempre vicina, attaccata – ti eri mai chiesta perché a un certo punto avevo iniziato a mantenere sempre una certa distanza, in ogni senso, quando parlavo con qualcuno? – e oltre al suo sguardo iniziavo a sentire sempre più spesso anche il suo tocco gelido. Ormai non se ne andava più neanche durante gli spettacoli, e più di una volta avevo rischiato di rovinarmi la performance.
Incapace di trovare un’altra geniale strategia per cambiare la situazione (e probabilmente a questo punto l’avrebbe solo peggiorata), la storia continuò così fino ad alcuni mesi dopo, in un’occasione che dovresti ricordare bene, o almeno spero. Infatti, dopo mesi di silenzio, la prima volta che la risentii parlare fu quando mi annunciasti che ti saresti sposata con Stefano: era l’anno 1997, ma ricordo tutto come se fosse ieri. Appena l’annuncio passò dalla tua bocca alle mie orecchie, sentii una mano gelida toccarmi da dietro, con le sue unghie lunghe come artigli che mi graffiavano la nuca. Non riuscivo neanche più ad ascoltarti parlare di chissà cosa, perché ero troppo impegnato a provare e fallire ad ignorare quella voce che non m’era mancata per niente.
«Vedi? Tua sorella si è laureata e si sta sposando con un uomo impeccabile, non un buono a nulla come te. Non sei contento per lei?».
Avrei tanto voluto esserlo, lo giuro, e ci ho anche provato, ma forse ti accorgesti anche allora che all’inizio non avevo preso molto bene il vostro matrimonio: Stefano non mi andava molto a genio, mi sembrava troppo perfetto per essere reale, e poi ero sicuro che quella volta la voce di quella donna m’avrebbe davvero fatto impazzire.
“Beato Stefano, che ha un lavoro stabile e ben pagato”, “Che brava Elena, ha trovato l’uomo ideale e sta per mettere su famiglia!”, “E tu,  a relazioni come stai?”. Dopo quest’ultima domanda, mi guardava sempre con un sorriso ancora più strafottente del solito, ed è facile capire perché: insomma, sono rimasto scapolo fino all’ormai vicina fine dei miei giorni.
Dal momento in cui mi annunciasti il tuo matrimonio, quella serpe usò tutte le armi in suo possesso per tormentarmi: il suo sguardo verde e perforante, il suo tocco gelido e le sue parole di veleno; non riuscivo più ad ignorarla come un tempo.
Quando nacque tua figlia, poi, il 16 ottobre del 1999, non riuscii a dormire per cinque notti di fila, perché lei non voleva lasciarmi andare davvero mai. Non ti riporterò neanche una parola tra i miliardi che mi rivolse quei giorni e soprattutto quelle notti, perché è meglio che mi porti certi pensieri che m’infilò a forza nella mente nella tomba insieme a me. Ponderai delle cose che nessun buon fratello, cognato o zio dovrebbe mai ponderare, mettiamola così.
Dopo quel periodaccio, le cose sembrarono tornare come prima, ossia un po’ meno peggio. Passavano gli anni, la piccola Sabrina si faceva sempre più bella e, odio ammetterlo, godevo molto ogni volta che mi raccontavi delle nottate passate appresso a lei e di tutti gli altri problemi che causava a te e a tuo marito. Sai, forse è per questa meschina ragione che volevo tanto bene alla vostra bambina: forse, ripeto, non l’amavo perché era figlia di mia sorella, ma perché era la causa di centinaia di sue sofferenze, che mi facevano temporaneamente sentire superiore a lei, nella mia condizione di vita. Mi duole tantissimo dirtelo, ma ho visto quel piccolo angelo sotto quell’aspetto molte, troppe volte.
Cosa più grave dei miei pensieri, però, era lo stato della compagnia teatrale: stava cadendo a pezzi, con membri ormai storici che se ne andavano (ricordi Andrea? E Lucia? E Rachele?), e ormai ci salvavamo solo con i pochi spettacoli che mostravano alle scuole. Come puoi ben immaginare, conoscendo la mia indole e conoscendo ormai anche il mio “problemino”, questo mi rese insopportabile qualunque cosa avesse a che fare con il mondo dello spettacolo. Ogni volta che mi capitava di sentire di attori, cantanti, musicisti o ballerini famosi mi sentivo la testa scoppiare e il famigerato tocco gelido sulla spalla, insieme a parole che ormai erano diventate futili: avevo imparato non solo a prevederle, ma addirittura a pensarle spontaneamente. Monologhi interiori che iniziavano con la domanda “Cos’hanno loro in più di me?” erano all’ordine del giorno.
E così arriviamo a qualche settimana fa: la compagnia s’è ufficialmente sciolta e da allora non so più cosa fare della mia vita, o meglio non sapevo cosa farne fino a qualche momento fa. Dallo scioglimento della compagnia, mi sono barricato in casa per uscirne solo per andare al bar e lavorare per non morire di fame; non parlavo con nessuno se non strettamente necessario e ascoltavo, per la prima volta con piacere, le parole della mia più fedele compagna. E più la sentivo dire quanto qualunque persona, animale o cosa fosse migliore e più felice di me, più mi ritrovavo a darle ragione.
Il mio noioso racconto finisce proprio durante la mattinata di oggi, quando mi è arrivata l’illuminazione. Onestamente, non so dirti se ci ho pensato io o se me l’ha dovuto dire la mia compagna dagli occhi verdi: forse è stata una cosa simultanea. Così ho deciso di porre fine alla mia inutile, miserevole vita. Sai, riguardando indietro a tutta questa storia, forse sono stato troppo duro con questa donna di cui ti ho parlato, e che mi sta ancora fissando adesso, mentre scrivo, e si chiede perché ci stia mettendo tanto: se non fosse stato per lei, chissà per quanto tempo avrei cercato di tirare ancora avanti nella vana speranza di ottenere qualcosa di simile a un successo.
Ho finalmente finito d’annoiarti, sorella mia, ma prima di andarmene voglio solo dirti che mi dispiace d’essere stato il peggior fratello sulla faccia della Terra: meritavi di meglio, e ora sono contento che tu l’abbia trovato in Stefano.
Ora devo proprio lasciarti: sento la mia fredda signora stringermi le sue dita di ghiaccio attorno alla gola, e credo proprio che la lascerò fare.
Addio, Riccardo
 
Le ultime tre righe sembravano essere state scritte con molta più fretta rispetto al resto della lettera.
Sabrina si coprì gli occhi con le mani, attenta a non macchiare i fogli con le sue lacrime. Aveva così tanti pezzi di pensieri sparpagliati nel cervello da non riuscire ad elaborarne neanche uno di senso compiuto.
Non riusciva a capire: come poteva suo zio non solo vedere, ma anche sentire e percepire il tocco della donna dagli occhi verdi se quella non esisteva veramente? Era davvero così pazzo, o tutta quella era stata solo l’ultima, macabra invenzione poetica di un uomo particolarmente bizzarro? Insomma, sperava che lo fosse. Il fatto di avere uno zio suicida era entrato a far parte della sua normalità molto presto, ma quella roba scritta sulla lettera era tutto fuorché normale: certe cose si sentivano solo negli ospedali psichiatrici!
Rimise con estrema cura i due fogli nella busta, anche se avrebbe voluto bruciarli, quindi la ripose nella cassettiera del ripostiglio e tornò da sua madre, che intanto si era messa a guardare la televisione ma non sembrava prestare davvero attenzione a ciò che accadeva sullo schermo.
Senza dire niente, Sabrina si sedette accanto a lei; alla mamma, Elena, l’ultima persona a cui lo zio Riccardo probabilmente aveva pensato prima di farsi uccidere dalla propria follia, bastò guardarla un attimo in faccia per capire tutto: spense la televisione e abbracciò la figlia, dicendole solo: «Sono sconvolta quanto te», prima di scoppiare in lacrime.
 
   
 
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