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Autore: Melisanna    05/03/2018    7 recensioni
La storia è un sequel della one-shot 'Aka, Toro!' che pubblicai diversi anni fa, sempre su questo sito. Questa storia si può leggere anche sola, ma consiglio di leggere prima l'altra, per non perdere molte sfumature. Ci sono alcune divergenze dal Canon, ma non sufficienti da giustificare la definizione di AU o What-if.
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Jun se ne andava sempre per primo. A volte si alzava e spariva mentre Kojiro stava ancora dormendo, lasciandolo a svegliarsi solo nel letto sfatto, con la testa pesante per il sonno pomeridiano, il sesso soddisfatto e il petto greve. A volte sgusciava via appena avevano finito, si rivestiva nella penombra mentre lui lo fissava da sotto le palpebre, osservando il suo corpo snello coprirsi di quegli abiti che lo allontanavano da lui, non più Jun e di nuovo Misugi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jun Misugi/Julian Ross, Kojiro Hyuga/Mark
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Un grazie enorme a Melanto, per essersi presa la briga di betare la storia, nonostante i mei periodi intricatissim, la mia pignoleria e la mia dislessia ai massimi livelli. Sei una luce di salvezza in questo mondo oscuro!

Jun se ne andava sempre per primo. A volte si alzava e spariva mentre Kojiro stava ancora dormendo, lasciandolo a svegliarsi solo nel letto sfatto, con la testa pesante per il sonno pomeridiano, il sesso soddisfatto e il petto greve. A volte sgusciava via appena avevano finito, si rivestiva nella penombra mentre lui lo fissava da sotto le palpebre, osservando il suo corpo snello coprirsi di quegli abiti che lo allontanavano da lui, non più Jun e di nuovo Misugi.
Era così da due anni. Quasi tutte le settimane, non più di una volta, ma raramente meno. Mai quando erano in trasferta, ufficialmente perché il sesso non giovava alle prestazioni in campo di Kojiro, ufficiosamente perché farsi scoprire durante un’avventura omosessuale non avrebbe giovato al matrimonio di Jun.
Non gli aveva mai chiesto di trattenersi, di cenare insieme. Di dormire nello stesso letto fino al mattino. Sapeva di volerlo, così come sapeva che Jun avrebbe detto di no e non aveva voglia di sentire quella parola uscire dalle sue labbra. Non gli piaceva chiedere, tanto meno quando aveva già la risposta.
Si limitava a osservarlo, mentre si abbottonava lentamente la camicia, si infilava i pantaloni, si ravviava i capelli, osservandosi appena un secondo allo specchio per essere sicuro di essere perfetto. Ma tanto lui lo era sempre, perfetto.
Kojiro fissava il corpo atletico in controluce contro le persiane da cui filtrava un filo di luce pomeridiana, pensava che avrebbe voluto chiamarlo, dirgli di levarsi quella maledetta camicia e distendersi accanto a lui e fare sesso di nuovo, finché non fosse stata sera, perché, mentre si vestiva, era ancora più sensuale di quando si spogliava, con quelle mani dalle dita lunghe che spingevano i bottoni attraverso le asole uno a uno, tutti, anche quelli delle maniche, tranne i due più in alto, vicini al colletto – sempre tutti, tranne gli ultimi due, perfetta sintesi di eleganza classica e modernità – con i lembi della camicia che accarezzavano le gambe asciutte, perché si infilava sempre i pantaloni per ultimi; Kojiro era convinto che lo facesse per farsi guardare con ancor più famelico desiderio, sapendo quanto lui fosse preda del fascino delle sue gambe.
Sapeva che lui era preda del fascino delle sue gambe e aspettava allora fino all’ultimo prima di nasconderle sotto i pantaloni dal taglio perfetto – pantaloni che Kojiro non aveva mai posseduto, perché anche se adesso avrebbe potuto permetterseli, i negozi di lusso lo intimorivano, lo mettevano a disagio le commesse attraenti e ben vestite che sorridevano meccaniche e sta benissimo con questa, signore e sapeva perfettamente di non essere in grado di distinguere un capo di valore da un altro e quindi continuava a indossare gli stessi jeans e le stesse magliette e a dirsi che non gli importava cosa si metteva addosso. E quando  infine li indossava, quei pantaloni che Kojiro non si riusciva a permettere, Jun lo faceva con lentezza e cura, lasciando a lui il tempo di guardarlo e desiderarlo ancora, ogni minuto, ogni secondo, da sotto le ciglia, mentre infilava il bottone di corno nell’asola e tirava su la zip e chiudeva la fibbia della cintura di Armani. Mentre il sole pomeridiano disegnava su di lui geometrie di luce che ritagliavano un Jun diverso a ogni movimento, si legava le stringhe delle scarpe perfettamente lucidate di Ferragamo – Indossava solo scarpe italiane, solo scarpe di Ferragamo, solo scarpe perfettamente lucidate da qualcuno che avrebbe potuto essere Kojiro se qualcosa in passato, una singola cosa, fosse andata diversamente, se un pallone avesse rimbalzato male, se un ginocchio avesse ceduto, se si fosse ammalato il giorno sbagliato. E poi Jun non era più lì, Misugi si alzava e se ne andava, chiudendosi la porta della camera alle spalle.
Kojiro restava nel letto a fissare il filo di luce sul soffitto, il petto greve, il sesso soddisfatto, mentre un senso di vuoto si faceva largo in lui. Fissava quel filo di luce sul soffitto e sulle pareti, che solo poco prima aveva accarezzato Jun e che poi Misugi aveva spezzato con il suo passo fluido. Aspettava che evaporasse il torpore degli orgasmi, poi si alzava e si trascinava nel bagno impersonale e si lavava con un bagnoschiuma che non era suo e non era di Jun e odorava di albergo e di relazioni spezzate, si infilava una maglietta vecchia e vecchi jeans, perché non gli importava cosa indossava e, anche se gli fosse importato, non avrebbe saputo distinguere un capo di valore da un altro e i negozi di lusso lo intimorivano e lo mettevano a disagio le commesse attraenti con i loro sorrisi meccanici. Scivolava fuori dall’edificio, senza fermarsi dal portiere – era sempre Jun a occuparsi di tutto, perché sapeva come tenere un segreto – e si tuffava nelle strade, il collo del giubbotto alzato e un paio di occhiali scuri a separarlo dal mondo.
Anche quella sera indossava occhiali scuri, quando aveva sentito squillare il telefono. L’aveva sentito squillare già mentre faceva scattare la serratura e sollevò la cornetta mentre sfilava gli occhiali e cercava di adattare la vista alla confortevole oscurità dell’appartamento.
– Dov’eri, Hyuga? Cosa ti ho comprato un cellulare a fare se lo tieni spento? È tutto il pomeriggio che ti cerco, non mi aiuti così, lo sai? Già hai la fama, ampiamente meritata se vuoi il mio giudizio, di essere una grandissima testa di cazzo, se poi manco ti fai trovare, cosa ti aspetti? Non è che all’estero si taglino le vene per darti lavoro, sappilo. Faccio il possibile per presentarti nel modo migliore possibile, ma tu devi smetterla di comportarti da stellina.
Kojiro non ribatté. Dubitava che qualsiasi mirabolante offerta di ingaggio potesse venire influenzata da due o tre ore di attesa, ma Tadashi era un bravo manager e non aveva voglia di discutere.
– Ho fissato un tavolo stasera al Sushitomi alle 20.30. Fatti trovare all’ingresso un quarto d’ora prima, devo controllare che tu sia in condizioni presentabili. Ti ho fatto recapitare un abito a casa, lo trovi sulla sedia in camera, quella di fronte al letto. Ho usato le misure dell’ultima volta, dovrebbe andare bene. Ho già preparato tutto: camicia, calzini, cravatta. Le scarpe metti quelle di Hugo Boss che ti ho comprato il mese scorso e pettinati quei cazzo di capelli. Spero che tu non abbia le occhiaie, non hai le occhiaie vero?
– Non avevo le occhiaie l’ultima volta che ho controllato.
– Quanto tempo fa è stato?
– Mezz’ora fa.
– Ricontrolla.
Gettò una rapida occhiata allo specchio nel corridoio.
– Non ho le occhiaie.
– Va bene. Ti aspetto. Non fare scherzi. Ti ho inviato la mappa sul cellulare, quindi accendilo e vieni in taxi. Non mi importa se è caro, ti puoi permettere tutti i taxi che ti pare.
– Non farò scherzi, accenderò il cellulare, verrò in taxi. Altro?
Non fare scherzi.
– Non ne farò. Adesso posso sapere chi devo incontrare?
– No. Scaramanzia.
– Vaffanculo, Tadashi.
Dopo la cena. Se va bene avremo così tanti soldi che potremo andarcene dove cazzo ci pare, anche a fanculo. O in pensione. O almeno io potrò andarmene in pensione. Tu dovrai continuare a giocare finché reggi.
Mise giù, mentre un fremito gli scorreva dal braccio lungo la spina dorsale. La voce di Tadashi vibrava di eccitazione. Forse si trattava di qualcosa di davvero grosso, stavolta. Una squadra cinese, forse? O magari americana?
Accese il cellulare, che protestò subito vivacemente, sommergendolo di segnali di annunci di chiamate non risposte. Cinque erano di sua madre, due di Takahashi e una di Ken. Tadashi aveva telefonato ben dodici volte. Doveva averlo cercato per tutto il pomeriggio, tartassando anche tutti i suoi conoscenti. Tranne l’unico che avrebbe saputo dirgli dove si trovava. L’unico che avrebbe saputo dirgli dove si trovava, ma che non avrebbe potuto dirglielo, perché anche il suo cellulare era spento e la sua lingua era nella bocca di Kojiro e il suo corpo si inarcava sotto di lui.
In camera trovò adagiato su una sedia, un completo antracite di Armani, accompagnato da una camicia grigia di popeline, da una cravatta bordeaux con dei minuti disegni senape e un paio di calzini in tinta. C’era anche un paio di boxer aderenti. La fiducia del manager nel gusto di Hyuga era decisamente ridotta, probabilmente a ragione.
Si cambiò, cercando di imitare i gesti precisi che aveva osservato Jun compiere poco prima, ma quando si guardò allo specchio si vide stropicciato e rigido e desiderò che ci fosse lì Jun a stringergli la cravatta intorno al collo, a spianargli le pieghe della camicia, a sistemargli le spalle della giacca, con quei gesti precisi, che aveva visto compiergli poco prima, ma che lui non riusciva a imitare. O almeno Tadashi a dirgli che no, non sembrava un perfetto idiota. Armeggiò con il nodo della cravatta per qualche secondo, poi se la strappò dal collo con un gesto infastidito e la gettò sul letto. Tadashi si sarebbe accontentato del completo e della camicia.
Chiamò il taxi e, mentre lo aspettava, riesumò un borsello di pelle di Yamamoto che gli aveva regalato una delle sue ragazze in serie, qualche mese prima. Era un’Idol ed era convinta che Kojiro si sarebbe ricordato ancora il suo nome a mesi di distanza, invece Kojiro non se lo ricordava, ma si era ricordato quel borsello che era di pelle e di marca e a Tadashi sarebbe piaciuto e forse anche a Jun, se Jun avesse potuto vederlo.
Si infilò le scarpe e alle otto e dieci era davanti al ristorante, gli occhiali scuri a nasconderlo dal mondo. Tadashi arrivò nel momento esatto in cui l’orologio di Kojiro – era un orologio pesante, di Gucci, con un cinturino di metallo nichelato, anche quello l’aveva comprato Tadashi e l’aveva regolato lui stesso, perché, diceva, l’ora che a Kojiro doveva importare sapere era la sua, di Tadashi – segnava le otto e quindici. Scese dal taxi quasi al volo, la strada era trafficata e davanti al ristorante erano parcheggiate diverse macchine, tutte costose, blu o nere – quella zona di Shibuya era frequentata solo da uomini d’affari e politici, persone che hanno macchine costose, blu o nere. Parlava al cellulare, un Sony Xperia sottile come una carta di credito, un tagliente monolite nero. Kojiro non l’aveva mai visto senza il cellulare in mano, tranne quando si sedevano a un tavolo con dei clienti. Tadashi non sembrava sapere cosa fosse il riposo. Kojiro pensava che fosse per quello che si intendevano così bene, loro due. Per quello e perché Tadashi lo guardava con reverenza e imbarazzo, quando pensava che fosse distratto. L’aveva scelto tra i candidati che aveva a disposizione per lo sguardo che gli aveva rivolto al loro primo incontro e perché era stato professionale e brillante, nonostante quello sguardo. Aveva intuito che l’avrebbe coperto, sempre, qualsiasi cosa su di lui fosse dovuta trapelare, con tutta la sua cristallina efficienza.
Kojiro a volte si sentiva in colpa davanti all’omosessualità stereotipata di Tadashi, ai suoi bei vestiti, ai modi affettati. Si sentiva in colpa, per come sfruttava la sua attrazione per ottenerne la fedeltà incondizionata – era anche vero che Kojiro era un ottimo cliente e aveva fatto intascare al suo agente più soldi di chiunque altro, perciò forse lui non sfruttava Tadashi più di quanto Tadashi sfruttasse lui stesso, ma Tadashi lo faceva in modo pulito. Soprattutto, però, si vergognava dei suoi segreti e delle sue maschere. Si vergognava dei pomeriggi con Jun e delle ragazze in serie, come quella Idol che gli aveva regalato il borsello in pelle, il borsello che indossava in quel momento e che a Tadashi sarebbe piaciuto.
E Tadashi annuì con approvazione davanti al borsello, mentre spegneva il sottile Sony Experia, e lo faceva scivolare in una tasca degli aderenti pantaloni blu e si adombrò notando la mancanza della cravatta. Si strinse nelle spalle.
– Immagino che questo sia il massimo che posso ottenere da te, non è vero?
Gli raddrizzò il colletto e gli lisciò la giacca, come Kojiro si era immaginato che Jun avrebbe potuto fare e percepì il desiderio reverenziale e trattenuto in quelle mani che lo toccavano. Si chiese se Jun percepisse nello stesso modo il suo, se l’avesse percepito per tutti quegli anni in cui aveva seguito ogni suo movimento con una fame tormentosa, se lo percepisse adesso, che stringeva quella carne tra le dita quasi tutte le settimane, non più di una volta, ma raramente meno. Tadashi gli lisciò la giacca e Kojiro sentì come desiderasse prolungare quel contatto, eppure il gesto fu rapido e quasi schivo, il gesto schivo di chi è convinto che il proprio desiderio potrebbe venire considerato offensivo da chi si ha di fronte. Tadashi era acuto e pungente e pochi sfuggivano alle sue critiche sarcastiche, sembrava conoscere dettagli insospettabili della vita privata di chiunque, eppure era incapace di vedere oltre la maschera fragile di Kojiro, con cui passava buona parte del suo tempo. Il suo stesso desiderio lo rendeva cieco, come, quello di Kojiro, lo aveva reso cieco per anni davanti a Jun.
– Così puoi andare, sei quasi accettabile. Se non aprirai bocca, potremmo perfino cavarcela.
Kojiro si strinse nelle spalle con una smorfia e seguì Tadashi all’interno del locale.
Il Sushitomi era un locale tradizionale, anche se di lusso, con alcuni influssi fusion e la maggior parte delle sedute erano alla giapponese, Tadashi però aveva prenotato un tavolo in un separé con la sedie e la ragione fu presto evidente quando arrivarono i loro ospiti. Insieme alla traduttrice giapponese, c’era un occidentale dai capelli grigi che non avrebbe gradito dover stare inginocchiato sul pavimento per tutta la durata della cena.
Tadashi si inchinò profondamente e la traduttrice si inchinò profondamente. L’occidentale porse la mano che Tadashi si affrettò a stringere.
– Tadashi Nakamura, lieto di incontrarla di persona, signore.
 Kojiro accennò un inchino piegando il capo e strinse la mano che gli veniva porta, mentre l’uomo lo studiava attentamente attraverso gli occhiali dalla montatura di corno. Occhiali spessi, color tartaruga, dalle lenti quadrate, davano un’impressione di solida severità.
– Antonio Glessi – disse con voce chiara e profonda, continuando a trattenergli la mano, mentre lo scrutava e Kojiro pensò che dovesse essere il suo nome, quell’insieme di sillabe, perciò borbottò – Kojiro Hyuga –anche se l’uomo sicuramente lo sapeva e infatti si limitò ad annuire, come qualcuno che ha soltanto conferma di qualcosa che conosce bene.
– Levati gli occhiali – sibilò Tadashi mentre si avviavano al separé.
Kojiro li sfilò e li fece scivolare nel taschino della giacca. L’atmosfera della stanza cambiò leggermente e avvertì l’attenzione dei presenti volgersi nella sua direzione e alcuni sussurri eccitati attraversare la stanza, ma la clientela del Sushitomi era tutta di un certo livello e nessuno si azzardò a fissarlo insistentemente, né tanto meno a rivolgergli la parola.
Si sedettero al tavolo e l’uomo cominciò a parlare in una lingua aliena gesticolando espressivamente con le mani grandi e curate. Kojiro colse soltanto il proprio nome, ripetuto più volte e in modo molto più familiare di come qualsiasi giapponese si sarebbe azzardato a fare.
Poi la traduttrice iniziò a parlare e lo prese una sorta di vertigine.
Tornò a casa solo molto più tardi. Tadashi lo accompagnò fin lì, progettando, calcolando e analizzando per tutto il tempo. Kojiro si era accorto che la mancanza di entusiasmo con cui aveva reagito alla notizia aveva lasciato il suo manager spiazzato e vagamente seccato, ma era ancora troppo confuso per riuscire ad afferrare i propri sentimenti in proposito, tanto meno a esprimerli.
Tadashi gli strinse velocemente un braccio prima di salutarlo.
– Hyuga, non puoi farli aspettare, devi firmare entro la fine del mese. Non fare scherzi, è l’occasione della tua vita.
Indubbiamente lo era. Kojiro annuì vagamente e sparì nell’androne buio. Lo sguardo inquieto di Tadashi lo seguì, mentre si chiudeva il portone alle spalle. Salì le scale con la testa vuota, armeggiò con la serratura blindata e poi si trovò finalmente solo, nell’oscurità famigliare. Gettò su una sedia il cappotto e il borsello e si sfilò le scarpe.
Prese un bicchiere dalla vetrina del salotto e si versò del cognac da una bottiglia di cristallo che teneva sul tavolo di mogano. Non aveva mai veramente imparato ad apprezzare gli alcolici costosi, così come il cibo raffinato e i vestiti di lusso, ma quello glielo aveva fatto assaggiare Wakabayashi una volta che erano in trasferta, Wakabayashi che era un altro di quelli che avevano da sempre posseduto tutto quello che Kojiro non aveva mai avuto e ne conoscevano il valore. Gliel’aveva fatto assaggiare Wakabayashi, una volta che erano in trasferta in Francia e Kojiro l’aveva trovato eccezionalmente buono e ottimo per pensare. Così ne teneva sempre una bottiglia in casa, per momenti come quello, in cui avvertiva più che in altri la mancanza della sua famiglia rumorosa e caotica, dei compagni di squadra e, soprattutto, di Jun.
Affondò nella poltrona di pelle, nella penombra illuminata appena dai lampioni. Ruotava lentamente il bicchiere, facendo ondeggiare il liquido ambrato, che sembrava nero e opaco come vernice, accendendosi solo di brevi lampi dorati quando incrociava i tagli di luce gialla e bevve un breve sorso pensieroso.
Avrebbe voluto parlarne con qualcuno e quasi in automatico la mano corse al cellulare, ma era notte fonda e anche se Takeshi e Ken erano sempre disponibili per lui, chiamarli a quell’ora sarebbe stato fuori luogo. Chiamare Jun era, ovviamente, impraticabile. Kojiro si concesse qualche momento per visualizzare il silenzio placido della sua villa improvvisamente interrotto dagli squilli urgenti del telefono, sua moglie che apriva gli occhi e lo fissava interrogativa, mentre lui prendeva il cellulare e si spostava i capelli castani dal bel volto assonnato.
Tenne in mano il cellulare per qualche secondo, fissando la superficie liscia come per trovare una risposta. Poi digitò rapidamente un messaggio sintetico, sufficientemente anonimo da non poter essere considerato ambiguo.
Devo vederti prima della partita.
Rimase a soppesare le parole per un minuto, rigirandosele nella mente alla ricerca di un punto debole nella formulazione. Chi l’avesse eventualmente letto avrebbe pensato che si trattava di una questione relativa agli allenamenti? Non c’era margine di sospetto? Sembrava qualcosa di troppo personale? Premette invio. Finì il contenuto del bicchiere in un solo sorso, lasciò il bicchiere in cucina, sul ripiano del lavandino e se ne andò a letto, nervoso.
La risposta al messaggio lo aspettava la mattina, sotto forma di un indirizzo e una data. Kojiro sospirò con nervosismo. Avrebbe dovuto attendere due giorni prima di vederlo, ma Jun aveva ragione, come sempre, erano entrambi impegnati negli allenamenti martedì e mercoledì Kojiro doveva posare per la fastidiosissima campagna pubblicitaria di un dopo-barba. Ne avrebbe fatto volentieri a meno e se n’era dimenticato appena Tadashi aveva finito di dirglielo, ma Jun se ne ricordava. Ricordava sempre tutto.
Mandò un rapido messaggio a Takeshi e a Ken, lo mandò rapidamente e senza pensare, perché non doveva controllare di non far trapelare il proprio nervosismo, né il bisogno di parlare. Ken rispose dopo pochi minuti dandogli appuntamento per la sera seguente, Takeshi si aggregò la mattina dopo, scusandosi per il ritardo.
Li trovò entrambi già seduti a un tavolino, quando arrivò, che parlavano animatamente fra di loro. Ken gli rivolse il suo sorriso ampio, mentre Takeshi lo squadrò con un alone di preoccupazione intorno agli occhi scuri. Kojiro si sfilò gli occhiali, tra i mormorii a cui era ormai abituato e si sedette a gambe larghe, occupando come sempre un po’ più dello spazio che gli sarebbe stato dovuto. Non poteva farne a meno, la sua presenza si imponeva, con il fisico massiccio e i modi aggressivi spostava l’aria intorno a sé, costringendo gli altri a concedergli spazio.
– Allora? – Takeshi lo interrogò subito – Cosa è successo?
Ken si limitò a fissarlo da sopra la pinta di Weiss, ma Kojiro poteva sentire la domanda inespressa.
– Mi hanno fatto una proposta di ingaggio. Un’ottima proposta di ingaggio.
– Ma? – chiese Takeshi sospettoso.
– Non ho ancora deciso se accetterò.
– Per che squadra?
Kojiro strinse rapidamente i pugni prima di rispondere. Non era ancora venuto a patti con quell’enormità e formularla ad alta voce avrebbe corrisposto ad accettarla. Nel momento in cui avesse pronunciato quelle parole avrebbe dovuto confrontarsi con quella realtà.
– La Juventus Football Club.
Ci fu un attimo di silenzio. Il primo a romperlo fu Ken.
– Stai parlando della Juventus italiana?
– Sì.
– Quella di Torino? Con la divisa a righe bianche e nere?
– Sì e sì. Quante Juventus conosci?
Ci fu un altro attimo di silenzio.
– E che cazzo aspetti ad accettare? – Esplose Ken, con quell’entusiasmo che avrebbe voluto riuscire a manifestare anche Kojiro.
– Non so. Mi sembra assurdo. Che ci faccio io nella Juventus?
– Sei il miglior bomber del Giappone.
– Del Giappone. Già. C’è solo un altro giapponese in una squadra italiana di serie A, al momento.
– E questo ti preoccupa, veramente? Quanti zeri ci sono su quel contratto? – Le sopracciglia di Ken erano salite così in alto da sparire sotto i ciuffi scuri.
– O c’è qualcos’altro? – Chiese Takeshi investigativo – Non hai mai desiderato altro che andare lontano con il calcio.
Kojiro si scostò i capelli dalla fronte per prendere tempo.
– Forse non pensavo che sarei andato così lontano. Volevo solo essere il migliore qui, in Giappone. E non ci sono mai riuscito. – Una rapida occhiata a bloccare le proteste di Ken – Non veramente, sono solo uno veloce e forte e resistente. E ora mi ingaggiano per la Juventus. Non capisco che cazzo succede.
Ken e Takeshi sprofondarono di nuovo nel silenzio per qualche secondo, fissando l’interno dei loro bicchieri. Kojiro ne approfittò per alzare una mano, chiamare un cameriere e farsi portare una pinta di scura.
– Ci andrai comunque, vero? – Ken lo guardava confuso.
– Ci mancheresti – aggiunse Takeshi.
Kojiro inspirò. Sarebbe andato? Aveva sempre giocato a calcio per trovare il suo posto nel mondo, per sfuggire all’ostracismo della società verso chi non ha niente e non è nessuno. Aveva giocato per la sua famiglia e per i suoi compagni. Aveva giocato per riscattarsi dalla solitudine e dalla povertà. Non poteva fermarsi, poteva solo andare avanti, perché il pensiero di poter tornare indietro lo riempiva di paura.
Solo che non pensava che sarebbe stato così tanto avanti.
Non si era mai abituato ai vestiti di lusso, ai cibi raffinati e agli alcolici costosi, ma si era abituato al suo appartamento silenzioso, si era abituato all’affetto di Takeshi e di Ken, si era abituato all’adorazione di Tadashi e ai suoi commenti sarcastici, si era abituato a quei pomeriggi in albergo, quasi tutte le settimane, non più di una volta, raramente meno e a Jun che spingeva i bottoni nelle asole della camicia, mentre lui lo guardava da sotto le ciglia.
Non era sicuro di poter essere di nuovo solo, solo come uno straniero in un paese straniero, con gente che ti fissa con insistenza attraverso occhiali di corno, gesticola in modo espressivo e ti chiama per nome come se ti conoscesse da sempre.
Non poteva nemmeno continuare a collezionare ragazze in serie, come quella Idol che credeva che lui si sarebbe ricordato il suo nome, quando era solo annoiato dalla loro presenza e dalle loro voci acute. Non poteva continuare a contare le ore che lo separavano da un incontro con Jun e a giacere nel letto, fingendo di dormire, mentre lui si vestiva e se ne andava, lasciando un senso di vuoto a farsi largo in Kojiro.
– Immagino di sì, vero? – chiese, incerto su quello che avrebbe dovuto pensare.
– Andrai ovviamente, – assentì Ken –Non potresti farne a meno.
– Se vorrai – aggiunse Takeshi – Potresti anche non volere.
Kojiro annuì e bevve la sua birra e desiderò che Takeshi avesse detto qualcos’altro, perché le sue parole gli rendevano ancora più difficile prendere una decisione.
Il pomeriggio seguente ci fu il fastidiosissimo servizio per la pubblicità del dopo-barba che Kojiro sopportò con stoicismo e non solo perché Tadashi gli aveva intimato di essere cortese, ma anche perché aveva letto con cura il contratto. Sapeva quanto gli avrebbe fruttato quella giornata di lavoro e nella sua mente era troppo chiaro il ricordo di quando faticava a guadagnare poche centinaia di Yen, per non dare importanza agli zeri che si erano inanellati sotto i suoi occhi.
Tadashi volle controllare le foto personalmente e impose al fotografo di cancellare seduta stante quelle che riteneva non rendessero sufficiente giustizia a Kojiro. Era un bravo agente e Kojiro il suo cliente migliore, soprattutto adesso che stava per firmare un contratto con uno dei club più prestigiosi al mondo.
– Firmerai vero? – Fu l’ultima cosa che gli disse prima di salutarlo – Non fare scherzi, Hyuga, ti prego, non farli.
Kojiro lo fissò in tralice e si strinse nelle spalle.
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Quando entrò nella stanza Jun era già lì. Jun arrivava sempre prima, ed era Kojiro che faceva  sì che accadesse, perché non sopportava l’attesa. Non sopportava di trovarsi da solo nella stanza a chiedersi se sarebbe venuto anche quella volta, a fremere di timore ed eccitazione. Così ritardava sempre, in modo da entrare nella stanza quando Jun era già seduto sul letto con un libro in mano.
Quel giovedì pomeriggio, Jun non era seduto e non aveva un libro in mano. Era in piedi davanti alla finestra e guardava il mondo sottostante. Il sole del pomeriggio accendeva riflessi dorati nei suoi capelli castani e quando si voltò verso Kojiro i suoi occhi sembrarono trasparenti come vetro. Sorrise.
– Buonasera, Hyuga. Cosa…?
Kojiro non gli diede il tempo di completare la frase. Adesso aveva solo bisogno di sentire il suo corpo contro il proprio, di mordergli le labbra, di sentire i suoi ansiti di piacere. Aveva bisogno di scacciare ogni pensiero dalla mente con il sesso e il desiderio.
Avvertì per un momento Jun irrigidirsi, ma si riprese quasi subito dalla sorpresa e si spinse contro di lui. Kojiro gliene fu grato, come gli fu grato delle mani e della bocca che lo accarezzavano e lo stringevano e lo baciavano e lo mordevano, staccando una a una tutte le spine del suo cervello, finché di Kojiro non restò altro che un corpo elettrico e un frastuono di sangue nelle orecchie.
Quando Kojiro si fu rotolato sulla schiena e i pensieri cominciarono a tornare lentamente al loro posto, Jun si alzò e andò in bagno. Kojiro ascoltò lo scroscio della doccia diffondersi nella stanza e poi il ronzio dell’asciugacapelli. Jun tornò nella stanza dopo pochi minuti, fresco e perfetto come quando Kojiro l’aveva trovato in piedi, davanti alla finestra e cominciò a rivestirsi.
– Cosa c’è, Hyuga? Di cosa volevi parlarmi?
Era impossibile sfuggire a Misugi. La voglia di parlargli del contratto, però, aveva abbandonato Kojiro.
Si passò una mano sul volto, cercando di schiarirsi le idee e inarcò il corpo massiccio stirandosi.
– Sono stanco di questa storia – disse alla fine.
Jun lo guardò, abbottonandosi un polsino, con quel suo modo sensuale che spingeva sempre Kojiro a desiderare di chiedergli di tornare a letto.
– Vuoi che smettiamo di vederci? – chiese. Ma era una domanda retorica. Jun sapeva benissimo che lui non avrebbe mai desiderato smettere di vederlo. Solo l’idea lo faceva impazzire.
Buttò le gambe giù dal materasso e si alzò, per fronteggiarlo.
– Sono stanco di vederti così. Stanco di vederti ogni volta in un albergo diverso, stanco di non poterti chiamare quando mi va, stanco di dover fingere tutto il tempo. Sono stanco di tornare tutte le sere in una casa vuota e di cercare di non guardarti quando siamo in campo.
Un fremito di eccitazione lo colse. Era un suicidio. Come gli era venuto in mente? Misugi non avrebbe mai accettato, non si sarebbero più visti, l’avrebbe perso. Eppure, come ogni volta che si trovava di fronte a una sfida, il suo spirito si infiammava e tanto più rischiava di perdere, tanto più si appassionava al gioco.
Jun lo giudicò con freddezza.
– Che ti succede, Hyuga? Sai benissimo come stanno le cose e ti è sempre andato bene fino ad ora. Ho una moglie.
– Non ti importa di tua moglie. Non ti importa davvero di tua moglie. Altrimenti non saresti qui.
Ora che aveva superato il confine che si erano tacitamente dati, le parole scorrevano più facilmente.
Jun sorrise divertito.
– Cosa sai di cosa mi importa, Hyuga? Ci vediamo solo in campo e qualche ora per scopare.
Senza quasi rendersene conto, Kojiro gli si fece più vicino, spostando l’aria intorno a sé, in quel modo che costringeva tutti a concedergli spazio. Tutti, ma non Jun, che parve quasi non accorgersi del movimento, o forse sì, se ne era accorto, ma non se ne interessava, perché Kojiro poteva spaventare gli altri, ma non lui.
– So cosa ti importa, so di te cose che non sa nessun altro. So che non sei mai così vivo come quando sei con me, quando ti levi quella facciata da principino perfetto. Scommetto che per tua moglie sei ancora un principino, non è vero? Non ti ha mai visto, lei, contorcerti negli orgasmi, sporco di sesso e di sudore, mentre ti mordi le dita, non t’ha mai visto con quei bei capelli ordinati incollati alla fronte. Non t’ha mai sentito gridare di piacere mentre ti scopo. Non sa quanto sei bravo a succhiarmelo, quanto ti piace lasciarmi senza fiato quando lo prendi in bocca e…
Kojiro si interruppe spiazzato dalle sue stesse parole, non parlava mai così tanto, non parlava mai così. Era convinto di non essere neanche in grado di metterle in fila, così tante parole.
Jun gli si accostò. – Mi piace quando parli in questo modo, Hyuga – mormorò – Mi hai quasi convito a rimandare la cena.
Un muscolo guizzò sulla mascella di Kojiro, mentre serrava i denti. – Non è di quello che stavo parlando.
– No, stavi parlando del fatto che vorresti che facessimo coming out da un giorno a un altro, io divorziassi e andassimo a vivere insieme. Sbaglio?
Rimase un attimo interdetto. Era di quello che stava parlando? Era quello che intendeva? Non ci aveva riflettuto, sapeva solo che non voleva ancora quelle camere d’albergo e guardare Jun mentre si rivestiva e scivolava via.
– S-sì – balbettò mentre sentiva il suo sguardo sfuggire agli occhi di Jun. Lo voleva?
– Ebbene e se anche io divorziassi? Tu saresti pronto a mollare tutto? Se anche mollassi il calcio, io potrei sempre gestire gli affari di famiglia. Ho una laurea in Economia e esperienza sul campo. Ma tu? Hai messo da parte abbastanza denaro in questi anni?
Kojiro sbatté le palpebre, confuso. Jun era sempre avanti a lui, quando si trattava di discutere.
– Non penserai veramente di poter continuare a fare il calciatore, dopo esserti dichiarato? Ti faranno a pezzi. Smetterai di giocare?
– Io… – Non l’aveva mai pensata in quei termini. Di coming out e di gusti sessuali.
– Sei disposto a rinunciare a giocare? Potrei persino essere ricco abbastanza per entrambi, ma tu vorresti veramente dipendere da me? Vorresti rinunciare a tutto quello che hai ottenuto fin ad adesso?
Jun lo fissò e Kojiro non rispose. Jun si voltò e si infilò i pantaloni e lui seppe di aver perso il momento.
– Andrò a giocare in Italia – disse in preda al panico, cercando di giocarsi l’ultima carta che gli restava – Là non ci conoscerebbe nessuno, guadagnerò bene.
Jun lo guardò da sopra la spalla mentre apriva la porta e Kojiro vide un’ombra di sorriso aleggiargli all’angolo della bocca. – Credi veramente che sarebbe diverso? Come sei ingenuo, Hyuga.
Kojirò rimase a guardare la porta che si chiudeva e poi cadde a sedere sul letto sfatto, improvvisamente privo di energie. Rimase immobile, a testa china, i capelli scuri, umidi di sudore che gli coprivano gli occhi.
Quindi allungò una mano a prendere i jeans che aveva gettato in terra prima. Frugò nelle tasche e prese il cellulare, meccanicamente, con la mente vuota.
– Hyuga! Non mi aspettavo…
– Digli che accetto. Firmo quando vogliono.
Sentì Tadashi che boccheggiava dall’altra parte del telefono.
– Che sorpresa! Cosa ti ha fatto decidere? Conoscendoti mi aspettavo che avresti continuato a fare storie fino all’ultimo per qualcuno dei tuoi capricci. Devo chiamarli subito e iniziare…
Kojiro chiuse la comunicazione e rimase solo. Di nuovo solo in quella stanza di albergo, con l’odore dolciastro del sesso che andava lentamente svanendo e Jun che se ne era andato, scivolando fuori dalla stanza con la sua camicia perfetta e il sorriso che aleggiava all’angolo della bocca.

 
  
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