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Autore: TheLastMidnight    06/03/2018    2 recensioni
Rivisitazione in chiave dark delle fiabe "Cappuccetto Rosso" e "La bella e la bestia".
Dornennest è un villaggio che sorge in mezzo a quella che viene chiamata semplicemente "la Foresta": un oceano di alberi oltre il quale nessuno degli abitanti ha mai voluto mettere piede. Chi vive a Dornennest ha accettato di vivere nella paura: paura di ciò che si cela nel profondo della Foresta, paura della Creatura, paura del Nuovo Principe giunto a sostituire il precedente, morto a causa di una inspiegabile pestilenza. Tutto ciò che è diverso o ignoto genera paura, e trattato come un nemico da allontanare o combattere.
Persone come Liesel Holzhacker - diciannove anni, non sposata, e con una mantella rossa con il cappuccio che l'accompagna ovunque vada, specialmente quando si reca dalla nonna, la "strega" del villaggio - sono stigmatizzate dalla società. Liesel è diversa dalle altre ragazze di Dornennest: sa leggere e scrivere, non si adatta alle convenzioni, e molti mormorano che sarà lei la prossima strega.
Quando la Creatura un tempo creduta sconfitta riemerge dalla Foresta e comincia a mietere vittime, Liesel è la prima a venire colpita dall'isteria collettiva: e per salvarsi, non le resta che accettare un pericoloso compromesso...
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo I
 
La canzone del pazzo
 
 
 
The maiden she would to the cottage go
Linden trees quiver in the grove
So she took the path through the forest blue
She was carrying the fruit of love.
 
And when she reached the forest blue
Linden trees quiver in the grove
There she met with a gray wolf
She was carrying the fruit of love.
 
[Garmarna, Varulven]
 
 
 
       Tutte le cose più terribili a cui assistetti in vita mia, le vidi con la neve.
Nevicava la notte in cui venni al mondo, così mi raccontarono. Mia madre morì quella stessa notte.
Nevicava quella volta in cui mio padre, tagliando la legna nel bosco, per errore si piantò la scure in una gamba. E nevicava quando quindici dei migliori uomini di Dornennest vennero trovati massacrati alle soglie della Foresta.
Ironia della sorte, nevicava anche il giorno in cui mi sono sposata.
 
       Sono nata in un luogo dove l'inverno inizia alla metà di ottobre e giunge al termine solo a marzo inoltrato. La neve cominciava a cadere presto e copiosa, si depositava sul terreno mettendovi radici come le querce secolari della Foresta, si sedimentava e formava uno strato di ghiaccio che impiegava mesi a sciogliersi. Naturalmente molte piante, per non dire ogni tipo di coltivazione, morivano a causa del gelo, e alla fine di quei lunghi inverni c'era sempre qualcuno a Dornennest che non avrebbe visto l'estate successiva.
L'inverno portava con sé la neve, e la neve a sua volta portava la fame, la carestia, la malattia e la morte.
L'inverno era un generale spietato che non risparmiava nessuno, uomo, donna o bambino. E sin da piccoli ci era sempre stato insegnato a temerlo.
Ma d'altra parte, ai bambini di Dornennest veniva insegnato ad avere paura, di moltissime cose.
Della Foresta. Dei lupi. Degli spiriti maligni. Della Creatura. Persino della strega.
 
       La strega. Così la chiamavano tutti. Ma per me, lei era semplicemente nonna.
 
***
 
       Nevicava anche quella mattina; per l'esattezza, era la prima nevicata dell'anno, la nevicata che annunciava l'arrivo dell'inverno.
Me n'ero resa conto ancor prima di aprire gli occhi. La nonna sosteneva che io avessi sempre avuto una sensibilità particolare per i fenomeni naturali, sin da quand'ero bambina. Era un sesto senso, diceva lei, anche se era sempre molto vaga sul come questa mia presunta capacità funzionasse e cosa riguardasse con precisione. Io la pensavo diversamente da lei, non credevo di aver nessun potere nascosto o simili, ma lei era così convinta nelle sue affermazioni che con il tempo avevo smesso di contraddirla.
La mia stanza si trovava nella parte più alta della casa, appena sotto il tetto, in quella che mio padre doveva aver costruito con l'intento di farne una soffitta o un fienile. A otto anni, quando ero tornata a vivere in quella casa, riuscivo a starci in piedi; adesso, sebbene io non fossi alta, ero costretta a muovermi in essa strisciando e camminando carponi sul pavimento.
Non c'erano finestre a quell'altezza della casa, ma la mia sensazione – o sesto senso – sulla neve venne confermata quando vidi una lenta pioggerellina di fiocchi bianchi cadere sulle assi al centro della stanza. Alzai lo sguardo e vidi che la neve stava penetrando da un'apertura stretta e lunga fra le travi del soffitto e la paglia che lo ricopriva. Sospirai e scostai le coperte, strisciando dal giaciglio di paglia e stoffa fino ad arrivare all'apertura. Il tetto della casa era spiovente, e in quel punto era abbastanza alto da permettermi di restare in ginocchio. Provai a spostare la paglia in modo da chiudere l'apertura, ma i fili bagnati si strapparono fra le mie dita. Alla fine mi rassegnai a stracciare un abbondante lembo della tenda che separava la mia stanza da quella di mio padre e di Gudrun; l'arrotolai e lo conficcai nell'apertura fino a che non fu completamente tappata e la neve smise di penetrare dall'esterno.
Sulle assi la neve si era trasformata in una pozza d'acqua. Stavo per strappare un altro lembo della tenda, ma il pensiero di quante sberle mi avrebbe dato Gudrun quando si sarebbe accorta che avevo danneggiato qualcosa solo per asciugare dell'acqua, unito all'idea che, se avessi diminuito ancora la barriera che separava la soffitta dal primo piano allora non sarei più stata costretta solo a sentire i gemiti e i grugniti ma anche ad assistere all'intero spettacolo, mi fece desistere.
Sistemai meglio quella chiusura di fortuna che avevo applicato ed esplorai le parti circostanti a essa. Casa di mio padre non era molto diversa da quella di Dornennest: al villaggio, le uniche costruzioni in pietra erano la taverna, la chiesa e alcune dimore degli individui più importanti o ricchi – senza contare, naturalmente, il castello del Principe, ma quello era quasi un mondo a se stante –, mentre le altre erano tutte stamberghe tirate su con paglia e legno. Il nostro tetto aveva dato segni di cedimento già l'inverno precedente, ma dal momento che mio padre non se ne poteva occupare e il denaro per pagare qualcuno che lo facesse al posto suo non c'era, ci avevamo dovuto pensare io e Gudrun con i mezzi che avevamo a disposizione.
Il tutto si era risolto in una pantomima patetica in cui io mi ero arrampicata sul tetto grazie a una scala a pioli prestataci dalla nostra vicina di casa e ci ero rimasta tutto il pomeriggio; non avevo potuto fare molto se non rinforzare un po' le assi con altra paglia e chiodi e martello, e sostituirne un paio che erano marcite; il tutto con Gudrun a terra che mi urlava insulti al minimo errore e un capannello di persone che si era radunato là intorno sperando che io cadessi.
A Dornennest la morte non era una cosa nuova. Nessuno si stupiva se un vecchio tirava le cuoia, se un bambino moriva per la febbre o se la malattia o una pestilenza si portava via metà villaggio – come era accaduto l'anno precedente.
Ma la morte violenta di qualcuno aveva sempre il suo macabro fascino. E Liesel Holzhacker che si rompeva l'osso del collo cadendo dal tetto sarebbe stata una storiella divertente da raccontare per almeno tre settimane.
Comunque fosse, io e Gudrun non eravamo riuscite a riparare il tetto; ne avevamo solo ritardato il crollo. Avremmo dovuto trovare una soluzione al più presto, se volevamo evitare di venire sepolti vivi durante il sonno.
Faceva freddo.
Dedussi che la nevicata dovesse essere piuttosto abbondante, perché riuscivo a sentire i fiocchi che si accumulavano sulla paglia del tetto. Anche le assi del pavimento erano gelide. Da sempre, in qualsiasi stagione dell'anno, dormivo con addosso una camicia da notte; Gudrun me ne aveva cucito un paio, una di lana per l'autunno e l'inverno e una di panno per la primavera e l'estate; questo era stato quando avevo otto anni ed ero appena tornata a casa. Sebbene non fossi cresciuta tanto in altezza e nemmeno fossi ingrassata, con gli anni naturalmente si erano ristrette, e così io e Gudrun ci eravamo dedicate alla sublime arte dell'arrangiarci ancora una volta in modo da fissare il danno con il minor dispendio di soldi e mezzi possibile. Il risultato era che adesso la camicia da notte di lana aveva le maniche più lunghe ma in compenso mi lasciava scoperte le gambe dal ginocchio in giù.
Gattonai fino al materasso imbottito di paglia sistemato all'angolo della soffitta e mi ci sedetti; strofinai con forza le mani su e giù per le gambe in modo da all0ntanare per la pelle d'oca. La candela che avevo rubato la sera precedente era spenta, dritta accanto a due abbandonati fiammiferi consumati.
L'arrivo della prima neve non coincideva solo con la venuta dell'inverno, ma con il mio addio a quella stanza in soffitta per i mesi successivi. Dormire là dentro sarebbe stato impossibile, sarei di sicuro congelata, così Gudrun mi permetteva di sistemarmi un giaciglio di fronte al camino. Anche se il fuoco non era acceso, lì faceva comunque più caldo.
Camera mia era stata arrangiata al mio ritorno in modo da poter ospitare una bambina di otto anni, e non era mai cambiata sostanzialmente. In un agolo, dove il tetto era più basso, era sistemato il materasso imbottito di paglia e fieno, con due coperte e niente guanciale. Il resto dell'arredamento consisteva in un brocca d'acqua con un catino di legno e in un baule in cui erano sistemati i miei pochi vestiti. Non essendoci finestre l'unico spiraglio di luce proveniva dalla fessura fra le assi del pavimento e l'orlo della tenda che separava la soffitta dalla camera di mio padre e Gudrun, e per leggere ero obbligata a rubare di tanto in tanto una candela.
Gudrun diventava una belva quando qualcuno prendeva una candela senza il suo permesso. Una volta mi aveva scoperta e mi aveva tirato il mestolo con cui stava cucinando la minestra. Diceva che le candele non andavano sprecate per idiozie come leggere, come facevo io, che andavano conservate e centellinate per illuminare la cucina d'inverno, quando il sole calava presto, e che in ogni caso lei e mio padre non raccoglievano i soldi dagli alberi per comprarle. Non le davo torto, anzi. Ma spiegarle le mie ragioni sarebbe stato inutile: ci avevo già provato una volta, a dodici anni, e mi aveva tirato uno schiaffo così forte da farmi perdere l'equilibrio, gridandomi che non dovevo contraddirla. Adesso un ulteriore tentativo forse non mi avrebbe fruttato un ceffone, ma sapevo che Gudrun non avrebbe capito neanche se avesse voluto.
Gudrun era analfabeta, e se l'era sempre cavata nella vita anche senza saper leggere e scrivere. Era normale che lei la ritenesse una capacità inutile. E poi, se c'era una cosa che non tollerava di sentire erano discorsi anche solo lontanamente collegati allo studio e alla magia.
Così, l'unico modo che avevo per leggere i libri che la nonna mi dava era rubacchiare di tanto in tanto una candela. Gudrun le teneva in una cesta sulla mensola più alta sopra al camino, così che Kristin non potesse raggiungerla e rovesciarla. Non potevo prenderne una tutte le sere, altrimenti di sicuro sarei stata scoperta, ma una ogni tanto non destava i sospetti di nessuno.
La cosa buona del dormire giù in cucina, era che avrei potuto leggere fino a tardi senza preoccuparmi di risparmiare le candele.
Vidi che l'acqua nel catino era congelata. Ruppi il ghiaccio picchiandoci contro con le nocche, e mi lavai la faccia e le braccia con l'acqua gelida. Poi aprii il baule e iniziai a vestirmi. Sentivo dei rumori provenienti dal piano terra, alcune stoviglie che venivano spostate, il crepitio del fuoco e i versetti di Kristin.
Qualcosa, forse una pentola, cadde a terra con un gran fracasso. A esso seguì una sonora imprecazione da parte di Gudrun. Sospirai, e decisi che me la sarei presa più comoda nel vestirmi. Non avevo voglia di affrontare i malumori della mia matrigna troppo presto.
 
       Oltre alla soffitta, casa di mio padre aveva altri due piani. Il primo era il pianterreno, a cui si accedeva immediatamente dopo aver salito i tre scalini dell'ingresso e aver varcato la porta: era la stanza più grande della casa, la maggior parte della quale era occupata dal camino. Accanto a esso, Gudrun e io sistemavamo i ciocchi di legno per accendere il fuoco, e sopra al camino c'erano diverse mensole su cui erano posti i piatti, le pentole e gli arnesi da cucina con cui la mia matrigna si affaccendava per la gran parte della giornata. Sempre accanto a esso c'erano la zangola, una piccola tinozza di legno in cui lavavamo le stoviglie e diversi cesti di vimini, mentre il resto della stanza era occupato da un tavolo con due sgabelli e una pelliccia d'orso polverosa e mezza tarlata. Mio padre l'aveva comprata da uno dei commercianti che venivano a Dornennest ogni due settimane, su ordine di Gudrun, la quale voleva qualcosa su cui far giocare Kristin senza che si sporcasse sul pavimento. La mia matrigna aveva steso la pelle d'orso in un punto in cui non fosse troppo lontana dal camino, così che la bambina non patisse il freddo, ma neanche troppo vicina, per evitare che si bruciasse. Kristin sembrava stare molto bene, in quel perimetro di pelo. Sebbene stesse imparando a gattonare, raramente si spostava da lì – e se succedeva c'era sempre qualcuno che la riportava immediatamente indietro – e d'altra parte lì aveva tutti i suoi giocattoli. Non erano molti, solo una decina di cubetti di legno che avevo commissionato al falegname – e per i quali mi ero beccata un cretina spendacciona da parte di Gudrun – una bambolina che le avevo costruito con alcuni pezzi di stoffa che la moglie di mio padre aveva scartato dai suoi lavori di cucito, e una palla anch'essa di stoffa imbottita di paglia.
Sempre sulla pelle d'orso c'era la culla di Kristin – culla che peraltro stava diventando troppo piccola a mano a mano che la mia sorellastra cresceva. Completava il quadro l'unica finestra della casa, alta e ampia, protetta solo dal vetro e priva di tende, così che la luce del sole e della luna entrassero giorno e notte; accanto a essa, c'era una sedia che era di esclusiva proprietà di Gudrun, e sulla quale la mia matrigna si sedeva almeno due o tre ore al giorno per cucire e lavorare a maglia. Ai suoi piedi, infatti, c'era un cestino con all'interno gomitoli di lana, ferri da cucito e pezzi di stoffa. Di fronte alla sedia, c'era il regalo di nozze di mio padre per Gudrun: un arcolaio in legno di ciliegio.
In fondo alla cucina, protetta da sguardi indiscreti da un lungo telo fissato a dei ganci nel soffitto, c'era una tinozza di legno in cui versavamo l'acqua presa dal pozzo per fare il bagno.
Il secondo piano non era altro se non un terrazzo interno a cui si accedeva tramite una scala a pioli, ed era stato adibito a camera da letto. Non c'era nient'altro che un letto a due piazze che era stato prima dei miei genitori, e che ora mio padre condivideva con Gudrun.
Una seconda scala a pioli collegava la stanza matrimoniale alla soffitta dove io dormivo.
Non appena posi il piede sul pavimento della cucina, la punta del mio stivale destro venne colpita dalla pallina di Kristin. La bambina sgranò gli occhi, incantata dal movimento che la pallina aveva compiuto rotolando fino a me. La raccolsi e gliela rilanciai indietro in modo che finisse direttamente in mezzo alle sue gambe.
Kristin la prese e se la ficcò in bocca.
Mi avvicinai alla pelle d'orso. Kristin quel giorno indossava una camicina di lana con l'orlo fino ai polpacci e con le maniche troppo lunghe, tanto che le coprivano anche le mani. I piedini erano scalzi. Mi chinai accanto a lei e glieli tastai, scoprendoli gelati, allora recuperai un paio di calze dal cesto del cucito.
Gudrun era in piedi appoggiata contro al tavolo, mentre con un cucchiaio raschiava una poltiglia di latte e avena dal fondo di una scodella di legno.
- Che fai?- brontolò, a bocca piena. Teneva il capo chino, la fronte aggrottata e non mi guardava negli occhi mentre parlava; sì, era decisamente di cattivo umore.
- Ha i piedi gelati - spiegai, terminando di infilare le calze a Kristin. Mi rialzai.- Nevica.
- E secondo te non lo so?!- abbaiò Gudrun di rimando. Decisi che era meglio non aprire la bocca fino a che non fosse stata lei a interpellarmi. Fatto che, mi aspettavo, sarebbe avvenuto molto presto: con l'arrivo dell'inverno c'erano sempre parecchie cose da fare.
Gudrun gettò la scodella e il cucchiaio nell'acqua della tinozza, poi afferrò due ceste di vimini e le sbatté malamente sul tavolo. Mi avvicinai.
- Se stai aspettando la colazione, scordatela - borbottò.- Sono le sei e mezzo del mattino, se avessi voluto mangiare ti saresti dovuta alzare prima. Dai, muoviti!- mi tirò un cesto di vimini dritto nello stomaco; lo afferrai al volo prima che cadesse. Gudrun m'indicò anche un secchio rovesciato contro la gamba del tavolo.- C'è la vacca da mungere. E vedi di raccogliere anche le uova delle galline, oggi aspettano le consegne in quattro. Devi passare dalla vecchia Schreiner, dalla Schmied e da sua figlia e dalla moglie del giudice Richter. A proposito della moglie del giudice...prima di andare, passa dentro a prendere il burro. E chiedile se ne può comprare due pezzi, oggi, ci aiuterebbe.
- Va bene...
Gudrun mi squadrò da capo a piedi, con la sua solita espressione critica, ma non disse nulla. Sapevo cosa stava guardando, ma ormai ci ero abituata da anni.
- Guarda bene che oggi abbiamo parecchio da fare. Quindi se vuoi andare da...quella, sappi che prima finisci di fare il tuo lavoro, e poi puoi andare.
- Come al solito, no?- la risposta non dovette piacerle molto, ma evidentemente il malumore e la preoccupazione per l'arrivo dell'inverno erano così forti da sovrastare anche l'impulso di tirarmi qualcosa. Gudrun mi passò accanto come in genere passava accanto al vecchio Huey – rapida, sguardo fisso e falsamente indifferente – e andò a inginocchiarsi di fronte alla tinozza piena, cacciandoci dentro le braccia fino a sotto il gomito.
Kristin non aveva smesso di succhiare la pallina, ma aveva cambiato espressione. L'avevo vista seguire l'intera conversazione fra me e sua madre con attenzione, e adesso aveva puntato gli occhi castani al soffitto. Ebbi la sensazione che stesse ascoltando la neve cadere.
Mi riscossi.
- Dov'è papà?- chiesi, senza distogliere lo sguardo dalla bambina.
- Dove vuoi che sia?- grugnì Gudrun, e capii che non aveva voglia di affrontare l'argomento.
Mi sistemai la mantella sulle spalle, mi tirai il cappuccio sul capo e tolsi il chiavistello alla porta. Prima di uscire, lanciai un ultimo sguardo a Kristin: non aveva smesso di ascoltare la neve.
 
       Prima che nascessi – così mi avevano raccontato – il padre di mio padre aveva costruito un porticato dietro la casa. Si trattava di una stamberga di sette metri per cinque in cui era riuscito a incastrare un recinto e un piccolo pollaio.
Entrai e chiusi la porta in modo che non entrasse il freddo. Scrollai la mantella per liberarmi dei fiocchi che si erano posati sopra.
Aprii le cellette delle galline e raccolsi le uova; quella mattina nel cestino ce ne furono solo sette. Poi posai il cesto a terra, presi lo sgabello che usavo tutte le mattine ed entrai nel recinto.
Fino a circa un anno prima avevamo tre mucche. Poi c'era stata la pestilenza, e solo una si era salvata.
Spinsi il secchio sotto le mammelle dell'animale e mi sedetti sullo sgabello. Le feci qualche carezza sullo stomaco per tranquillizzarla, poi iniziai a mungerla. Era un momento tranquillo, quello; sebbene molte persone potessero provare disgusto, a me piaceva. Mi faceva sentire rilassata e mi dava modo di riflettere.
Ripensai alla pestilenza. Molti dissero che si trattava di vaiolo, altri di colera e altri ancora di peste bubbonica. Io però avevo letto i libri di medicina della nonna, e avevo saputo sin dall'inizio che non si trattava di nessuna delle tre. Comunque fosse, agli abitanti di Dornennest non era mai importanto granché di dare a ogni cosa il proprio nome corretto. Per loro quella era una pestilenza, e come tale fu chiamata.
Venne, come ogni male, anche quella con l'inverno.
Era circa metà ottobre, la neve aveva iniziato a cadere già da due settimane, quando i primi animali cominciarono a morire. I primi tempi nessuno capì la gravità della cosa. Che una vacca o un asino morissero era sempre una disgrazia per i proprietari, ma non era un avvenimento così poco comune da destare sospetti.
La consapevolezza di un'epidemia cominciò a farsi strada al terzo mulo trovato morto nel giro di una settimana. Lo schema era sempre lo stesso: la bestia iniziava ad avere una brutta cera, il giorno dopo smetteva di mangiare, tre o quattro giorni a seguire stava palesemente male, e in capo a una settimana la trovavano morta nella stalla. Qualcuno, come mio padre o il povero cacciatore Jäger, avanzò anche l'ipotesi che si trattasse di omicidi, che qualcuno desse agli animali dei bocconi avvelenati come si faceva con i randagi, ma anche il medico di Dornennest – per quanto alla prova dei fatti si fosse sempre rivelato un perfetto incapace – aveva presto smentito questa teoria.
Era chiaro che fosse una malattia a uccidere gli animali. Peccato che tutti fossero troppo occupati a piangere la perdita del loro bestiame, per pensare che questo morbo avrebbe potuto colpire anche gli esseri umani.
Se ne accorsero quando ormai era troppo tardi.
Le persone cominciarono a morire come avevano fatto gli animali. I sintomi erano sempre gli stessi: la vittima accusava stanchezza, perdita di appetito; poi sopraggiungeva la febbre, la difficoltà a respirare, e infine la vittima iniziava a dormire sempre di più e sempre più a lungo, fino a trascorrere giorni interi senza svegliarsi mai, nemmeno per mangiare o espletare dei bisogni fisiologici. Sopravviveva una, due, al massimo tre settimane, e poi moriva così, nel sonno, senza essersi mai risvegliata.
La cosa si trascinò per mesi. Ricordai com'era Dornennest a quel tempo: un villaggio fantasma, l'ombra di se stesso, un agglomerato di case ammassate sotto un sole grigio e gelido e immerso in un silenzio mortale, rotto solo dai singhiozzi di chi rimaneva e dai lamenti di chi se ne andava. Il medico e il borgomastro cercarono di fare il possibile: abluzioni, trasfusioni di sangue, quarantene.
La nonna mi disse subito che tutto ciò non sarebbe servito a nulla, e a dire la verità anche io avevo avuto la stessa impressione. In effetti fu così. Le cure del dottore non servirono a nulla se non, forse, a ritardare la morte e a prolungare le sofferenze.
Nessuno sapeva a cosa fosse dovuta la malattia. Padre Abel, durante le sue prediche della domenica, sosteneva si trattasse di una punizione divina. Non sapevamo nemmeno se la pestilenza avesse colpito solo Dornennest o se si fosse estesa a tutto il regno – non arrivò mai nessun tipo di aiuto, e vedendo qual era la situazione anche i mercanti smisero di venire al villaggio.
Ma in fondo, com'era tipico di chi era nato e cresciuto a Dornennest e lì sarebbe morto, a nessuno importava veramente delle cause e delle spiegazioni. Tutti erano concentrati sulla disgrazia presente che stava dimezzando la popolazione del nostro villaggio.
E poi, così com'era arrivata – piano piano, silenziosa, graduale –, la pestilenza se ne andò.
Il borgomastro disse che era merito delle quarantene. Non so se avesse ragione, ma il dato di fatto fu che le vittime diminuirono fino a scomparire. Aumentò un poco il numero di chi si salvava, fino a che nessuno accusò più i sintomi della malattia.
Sarebbe azzardato dire che Dornennest tornò a vivere...ma almeno, tornò a respirare.
Anche se ciò che si lasciò alle spalle la pestilenza fu tutt'altro che piacevole...
Trasalii non appena venni raggiunta dal rumore secco di colpi contro il legno. Elsie, la mucca, emise un muggito di disapprovazione quando inavvertitamente le strinsi troppo forte la mammella.
- Scusa, scusa...- bisbigliai, e carezzai il dorso a Elsie.
Papà e Gudrun la chiamavano semplicemente la vacca, ma io avevo preso l'abitudine di riferirmi a lei con il suo nome, come se fosse stata un essere umano. La mia matrigna era andata in bestia, quando l'aveva scoperto. Sosteneva che agli animali non dovesse essere dato un nome, perché un nome creava legami e non era bene che qualcuno – specialmente un bambino – creasse un legame con qualcosa che un giorno, presto o tardi, si sarebbe trovato nel piatto.
Era stata Kristin a chiamarla così. Elsie era stata la sua prima parola. Un giorno, quando aveva sette mesi, ero andata con lei nella stalla a prendere le uova, tenendola in braccio. Lei aveva visto la mucca, le aveva puntato contro un ditino e aveva esclamato:- Elsie!
Ed Elsie era stata. Non avevo idea del perché Kristin avesse etichettato la mucca con quel nome, né dove lo avesse sentito, dato che si trattava di un nome proprio di persona ma non c'era nessun'altra Elise a Dornennest se non, appunto, la vacca.
Da parte mia, fingevo puntualmente d'ignorare la forte assonanza fra “Elsie” e “Liesel”.
I colpi si ripeterono altre due o tre volte. Tolsi il secchio da sotto Elsie e aprii il cancelletto del recinto, uscendo fuori.
- Dimmi, Gudrun. Cosa c'è?
- Gudrun? Il fatto che tu mi confonda con la tua matrigna mi offende, sappilo!
Riconobbi la voce, e ridacchiai. Le gridai di entrare.
La porta della stalla si spalancò lasciando entrare un freddo spiffero di vento e alcuni fiocchi di neve. Helene scivolò dentro con la grazia di una silfide, richiuse il battente appoggiandovi contro la schiena.
Si concesse qualche secondo per riprendere fiato, poi si staccò dalla porta e scrollò la neve dal lungo mantello marrone chiaro. Helene indossava un vestito con la gonna a balze bianca e marrone lunga fino alle caviglie, il corsetto marroncino e le maniche bianche a sbuffo. Sulle spalle portava un mantello con il cappuccio, e ai piedi aveva due magnifici stivali neri nuovi di zecca. Anche i guanti erano bellissimi, due manopole di lana, nere e che avevano l'aria di essere soffici e nuove di zecca tanto quanto gli stivali.
Helene si accorse che le stavo guardando e sorrise.
- Belli, vero? Sono un regalo di Albert.
- Ti stanno bene - mi complimentai, poi presi il tridente e infilzai un grosso agglomerato di fieno. Lo sollevai e lo posi nella mangiatoia di Elsie.- Come mai qui? E come mai così mattiniera? Lo so che di solito ronfi fino alle dieci passate - la canzonai.
- Mi ha svegliato la neve. Uno spiffero dalla finestra. Avevo detto a Fred di aggiustarla...
- Vedrai che adesso che è arrivato l'inverno lo farà.
- Lo spero, o morirermo congelati. Ho portato un po' di colazione, ti va di dividerla con me?- si avvicinò ed estrasse dalla tasca del grembiule del pane nero e un pezzetto di formaggio; li spezzò a metà entrambi e me ne porse una porzione.
L'accettai e la ringraziai. Il brontolio del mio stomaco stava diventando quasi imbarazzante. Non era la prima volta che restavo senza colazione, ed Helene lo sapeva. Gudrun imponeva delle regole ferree su tutto, in particolar modo sui pasti. Sosteneva che colazione, pranzo e cena fossero dei momenti sacri che tutta la famiglia doveva condividere insieme. Era sempre stata molto religiosa, ma dopo che lei e Kristin erano scampate alla pestilenza, questo sentimento si era esacerbato. Ormai pregava a qualsiasi ora del giorno, la domenica non si limitava più solo ad andare a messa ma si confessava ogni volta, e al momento dei pasti pretendeva la massima puntualità. Se tardavi anche solo di un minuto, beh, allora potevi scordarti di mangiare, loro avevano già ringraziato Nostro Signore e lei non ammetteva intrusioni.
In cuor mio sospettavo che fosse anche una tecnica per fare in modo che mio padre tornasse a casa in tempo almeno per i pasti e lei si dovesse risparmiare la vergogna di andarlo a recuperare.
Sgranocchiai un po' di pane e formaggio, quindi recuperai il sacchetto del mangime gettato in un angolo e cominciai a distribuirlo alle galline. Prima della pestilenza ne avevamo dieci, ne erano rimaste quattro.
- Come mai qui?- ripetei la domanda di poco prima.
Helene alzò le spalle con noncuranza, come a dire che non c'era un motivo preciso. Non ci credetti. La conoscevo letteralmente da una vita; sapevo che quando voleva comunicare qualcosa d'importante all'inizio ostentava sempre indifferenza, quasi ritenesse le sue informazioni di poco conto.
Stetti al gioco, e le domandai come stesse suo fratello.
- Oh, Fred? Benone. Un po' nervoso, ma sai com'è, quando arriva l'inverno e con quel che è successo l'anno scorso...- Helene si umettò le labbra carnose e screpolate. Tutte le ragazze di Dornennest, me compresa, le avevano sempre invidiato quella labbra. A dire la verità, Helene era la più invidiata e ammirata del villaggio per la sua bellezza.
Era stata eletta Regina di Maggio per cinque anni consecutivi, e alle feste del villaggio era sempre quella che più di tutte riceveva inviti a ballare. Helene aveva una bellezza contadina, molto lontana da quella esile e malaticcia delle nobildonne, ma per questo più apprezzata in un luogo come Dornennest, dove fra le qualità di una buona moglie vi era l'essere energica e robusta in modo da aiutare il marito in casa e nei lavori più faticosi, da sostenere numerose gravidanze e da partorire dei neonati sani e forti. Era alta, molto più alta di me e delle altre ragazze e donne del villaggio, con la vita sottile ma con i fianchi rotondi e un seno prosperoso, gambe lunghe e lisce, che Helene ungeva con olio e burro quando ne avanzava un poco in casa; i capelli erano biondi e le arrivavano fino alle reni, e anche a essi dedicava una gran cura, spazzolandoli a lungo ogni sera e intrecciandoli in occasione di ogni festa o la domenica per andare a messa; aveva gli occhi neri e il naso dritto, le guance magre ma non incavate, e il pallore della sua pelle non rimandava affatto alla sensazione di malattia, bensì conferiva delicatezza ai suoi tratti.
- Pensi che ricapiterà?- mi domandò all'improvviso; capii che si stava riferendo alla pestilenza. Stavolta fui io ad alzare le spalle, e risposi che non lo sapevo. Helene era molto suggestionabile e bastava poco perché si preoccupasse, quindi negli anni avevo imparato a mostrarmi spavalda ai suoi occhi anche quando in realtà morivo dalla paura.
Non sapevo se la pestilenza sarebbe tornata, e di certo non la volevo indietro. Pensai che avrei potuto chiedere alla nonna. Lei certe cose le sapeva...come o perché, mi era ancora oscuro, ma lei sapeva.
Ma non sarei potuta andare da lei se prima non avessi terminato le faccende a cui mi aveva assegnato Gudrun. Decisi che se volevo vedere la nonna, quel giorno, mi sarei dovuta dare una mossa.
 
       Helene mi aspettò sui gradini di casa mentre io rientravo di corsa e prendevo il burro che Gudrun aveva preparato per la moglie del giudice, poi ci incamminammo insieme verso la piazza di Dornennest per portare a termine le consegne. Il campanile della chiesa batté le sette del mattino: era ancora presto, prima delle otto non mi avrebbe ricevuto nessuno, così ce la prendemmo comoda.
Helene non aveva bisogno di lavorare, a differenza mia. Suo fratello, Fred Kürschner, era un conciatore di pelli come lo era stato il padre; guadagnava abbastanza bene, ma se anche in due non avessero vissuto più che dignitosamente, il fidanzato di Helene avrebbe fatto qualsiasi cosa purché la sua promessa sposa non si sporcasse le mani, tanto più che aveva i mezzi per evitare che ciò accadesse.
Dornennest era silenziosa. Gli unici rumori che si sentivano erano il frusciare delle foglie mosse dal vento e lo stridore del violino scordato del vecchio Huey.
Ci imbattemmo in lui mentre ci avvicinavamo alla piazza del villaggio. Il vecchio Huey era seduto sui gradini di quella che era stata la casa degli Arbeiter, ma che dopo la morte dell'intera famiglia – padre, madre e sette figli – a causa della pestilenza era ridotta a una catapecchia disabitata. Il borgomastro si era premurato d'informare i mercanti che provenivano dalla città che c'era ancora un'abitazione rimasta senza proprietari, a Dornennest, ma ancora dopo mesi la stamberga degli Arbeiter era ancora disabitata.
- Albert dice che se non ci andrà ad abitare nessuno, la abbatteranno - mi aveva informata una volta Helene mentre ci passavamo accanto; io non avevo dubbi che sarebbe andata così: nessuno voleva venire a stare a Dornennest.
Per il momento, però, era la casa del vecchio Huey. Anche se lui non è che ci abitasse in senso proprio: si limitava a sostare sui gradini o, quando pioveva o faceva freddo, a dormire sotto al porticato. Era in quei momenti che mi dispiaceva che la casa degli Arbeiter venisse abitata da altri o, più probabilmente, abbattuta: almeno quel povero diavolo aveva un posto dove ripararsi.
La neve continuava a cadere, ma i fiocchi erano piccoli e misti ad acqua, e non tirava vento. Il vecchio Huey teneva il suo violino scordato incastrato fra la barba bianca e sporca e la scapola, e pizzicava le uniche due corde dello strumento. Canticchiava una nenia stonata.
Le gambe erano distese lungo i gradini, e coperte di neve.
Ci avvicinammo a lui, tenendoci però a debita distanza. Il vecchio Huey non era mai stato violento con noi ragazze, ma di tanto in tanto capitava che fracassasse una bottiglia sulla testa di qualcuno o che mordesse chi lo infastidiva. Ci rivolse un sorriso con soli due denti giallognoli, l'espressione assente e istupidita come sempre.
- Buongiorno, Huey...- salutò timidamente Helene; la cosa mi sorprese. In genere lei aveva paura del vecchio Huey, anche se non le aveva fatto niente. Rimasi a guardarla impietrita mentre estraeva dalla tasca del grembiule un altro pezzetto di pane e glielo porgeva con la punta delle dita. Lui l'afferrò con le sue mani lerce e dalle unghie annerite, poi prese a divorarlo come un lupo famelico che avesse appena catturato un cervo dopo settimane di caccia. Vidi che Helene tratteneva una smorfia, poi prese dal grembiule due monete e le lanciò a terra ai piedi del vecchio Huey.- Per comprarti qualcosa di caldo...- aggiunse timidamente, a mo' di giustificazione, ma lui ignorò il denaro. Non lo vide neanche. Si limitò a finire il tozzo di pane, poi ci guardò entrambe e scoppiò a riderci in faccia.
La risata fu più un grido, a dire il vero. Il vecchio Huey spalancò la bocca sdentata e cominciò a ridere a squarciagola. Helene trasalì e balzò all'indietro. Scivolò sulla neve e dovetti tenerla per un braccio per non che cadesse.
Il vecchio Huey andò avanti a ridere per trenta secondi buoni, poi prese a pestare i piedi a terra mentre batteva le mani a ritmo.
- Mantello rosso, finirai dritto in un fosso. Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso!- cominciò a cantilenare; prese il violino e ricominciò a pizzicare le due corde, con l'effetto che alla sua voce sdentata si aggiunse anche lo stridore dello strumento.- Mantello rosso, finirai dritto in un fosso. Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso! Mantello rosso, finirai dritto in un fosso. Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso...
Helene mi tirò a sua volta per un braccio.
- Andiamo!- m'incitò. Se anche avessi voluto oppormi non avrei potuto, perché Helene mi tirò così forte da farmi schiodare gli stivali dal terreno e costringermi a seguirla a passo di marcia in modo da lasciarci alle spalle il vecchio Huey.
Tuttavia, anche quando ci fummo allontanate riuscimmo ancora per un po' a udire quella cantilena alle nostre spalle.
- Mantello rosso, finirai dritto in un fosso...Mantello rosso, l'occhio del cadavere è fisso...
Mi aggiustai la mantella sulle spalle.
- Perché gli hai dato il tozzo di pane e i soldi?- non era una novità in sé e per sé, ma lo era che a farlo fosse Helene. Il vecchio Huey viveva di carità, si sapeva: dormiva dove capitava, mangiava gli avanzi che la moglie dell'oste teneva in serbo per lui a fine giornata, poteva ubriacarsi a proprio piacimento quando i ragazzi del villaggio volevano prendersi gioco di lui e le pie donne di chiesa, come la moglie del giudice Richter, la sarta, la perpetua o come lo era stata la madre di Albert, puntualmente cucivano per lui abiti pesanti per l'inverno.
Helene non era mai stata fra queste pie donne. Non che fosse cattiva – anzi, nel limitato numero di persone che conoscevo, lei era forse quella con più buon cuore, un buon cuore che spesso le avevo invidiato per riuscire a vedere il bello e la purezza anche dove non ce n'erano –, ma il vecchio Huey le faceva paura.
Spesso mi capitava di pensare a lui come la vecchia quercia secolare che sorvegliava l'entrata alla Foresta: come lei, il vecchio Huey c'era sempre stato.
Nessuno sapeva come si chiamasse. Huey era il nome che gli era stato dato da Padre Abel, il nostro storico prete, e a cui lui rispondeva. Ed era sempre stato così: senza nome, senza casa, senza soldi, senza famiglia, sempre vecchio e sempre pazzo. Giravano diverse leggende su di lui: c'era chi diceva che avesse perso l'intera famiglia in un rogo e che fosse impazzito dal dolore, e chi invece sosteneva che fosse un ex soldato disertore dell'esercito dell'Imperatore, andato fuori di testa a causa degli orrori della guerra.
Non era uno di quei matti che però sono fondamentalmente innocui, comunque; il vecchio Huey non infastidiva mai nessuno per primo, ma se eri tu a infastidire lui, beh, allora potevi star certo che non si sarebbe fatto mettere i piedi in testa. E non gli serviva essere ubriaco – anzi, quando beveva diventava docile come un cagnolino, tanto che gente come Fred Kürschner o Stefan Jäger spesso si prendeva gioco di lui facendolo ballare sui tavoli della taverna o lanciandogli un osso nella roggia perché si tuffasse a riprenderlo – già da sobrio e pur sdentato dava di quei morsi e tirava di quei pugni che mettevano al tappeto anche i giovani più robusti del villaggio.
Ma con le donne e i bambini no, non alzava un dito. Neanche se i monelli che giocavano nella piazza gli facevano le linguacce o gli tiravano i sassi. Al vecchio Huey piaceva stare con i bambini, giocare con loro e farli divertire.
Anni prima, quando io ed Helene avevamo entrambe quattro anni e stavamo giocando fuori da casa dei suoi genitori, il vecchio Huey si era avvicinato e aveva iniziato a farci delle boccacce per farci ridere. Io avevo riso a crepapelle, Helene invece era corsa a rifugiarsi fra le braccia di sua madre, che non aveva atteso un attimo per scacciare il mendicante a colpi di bastone.
A Helene il vecchio Huey faceva paura. Diceva di non sapere perché, la spaventava il fatto che non ci fosse con la testa e che non si sapesse nulla di lui. D'altra parte, non c'era da stupirsi: Helene, a differenza mia, aveva sempre avuto paura dell'ignoto, di ciò che non riusciva a toccare con mano.
- Albert mi ha consigliato di farlo - rispose, torturando un lembo del mantello fra le mani.- Ha detto che sarebbe opportuno che io cominciassi a...sai...mostrarmi gentile con le persone...assumere un comportamento appropriato alla mia posizione, ha detto così.
- Non ho capito. Che intende con comportamento appropriato?- la guardai.- Si riferisce alla tua posizione di sua fidanzata?
- Sì, all'incirca...credo che intendesse, mostrarmi pia e caritatevole, farmi vedere ben vestita a messa, fare delle visite di cortesia alla signora Richter e alla signora Dietrich. Sai...il genere di cose che faceva sua madre - aggiunse.- Te la ricordi, vero, la signora Herrmann?
- Certo che me la ricordo, ma...- di colpo, tutto mi fu chiaro. Collegai immediatamente tutte le informazioni, e il mio volto s'illuminò senza che potessi controllare l'espressione facciale.
Risi e diedi un'affettuosa gomitata a Helene.
- Ah, è così allora!- esclamai; Helene provò a schernirsi, ma io la presi sottobraccio e mi feci più vicina a lei.
Abbassammo entrambe la voce, continuando a camminare vicine.
- Era questo che eri venuta a dirmi, stamattina?- ridacchiai.
- Non proprio questo, ma comunque c'entra...
- Allora, è confermato?- le diedi un buffetto sul braccio.- Te l'ha chiesto?
- Non è che me l'ha proprio chiesto...- Helene era imbarazzata ma le leggevo nello sguardo che moriva dalla voglia di raccontarmi tutto.- Ha chiesto il permesso prima a suo padre e poi a mio fratello, e loro hanno detto di sì. E' successo domenica scorsa, dopo la messa. Sono tornata a casa e Fred mi ha comunicato la notizia, e mi ha chiesto se anche io ero d'accordo. Naturalmente ho risposto di sì.
- E poi? Che è successo?
- Beh, niente di che...il borgomastro ha invitato me e Fred a pranzo a casa sua e loro due e Albert hanno discusso dei preparativi del matrimonio. Voglio dire, non proprio dei preparativi, degli...aspetti pratici, ecco. Quando fare la cerimonia, quante persone invitare, e dove andremo ad abitare io e Albert dopo sposati...di certo non possiamo stare a casa mia, e il borgomastro vorrebbe che ci trasferissimo da lui...
- Quando vi sposate?
- Il marzo prossimo. Appena sarà finito l'inverno. E a questo proposito...- Helene rallentò il passo e mi guardò di sottecchi; era arrossita e si stava mordicchiando il labbro inferiore.- Ti andrebbe di accompagnarmi?
- Dove?
- All'altare. Voglio dire...non nel senso di accompagnarmi, ma...ecco, mi chiedevo se volessi farmi da damigella.
M'irrigidii e il sorriso mi si spense sulle labbra. Non riuscii a controllarmi. Sperai che Helene non se ne accorgesse, ma mi bastò guardarla per capire che se n'era accorta eccome. Raddrizzai le spalle.
- Albert lo sa?- gracchiai.
Helene sembrò sorpresa dalla domanda ancor più del mio comportamento. Mi fece un'infinita tenerezza. Quando dicevo che Helene aveva un buon cuore, intendevo dire anche che era profondamente ingenua. Tendeva a vedere il buono ovunque, anche dove non ce n'era, e questo spesso le impediva di cogliere il male.
O il pregiudizio.
Forse, mi dicevo spesso, era a causa del buon cuore di Helene che io e lei eravamo amiche. Lei era una delle poche persone che non cambiavano lato della strada quando m'incontravano, o che non dava troppo peso al fatto che fossi la nipote della strega. O che trovasse sinceramente carino il mio mantello rosso.
- No - rispose, perplessa.- Perché?
- Allora dovresti prima parlarne con lui - sentenziai, asciutta, sperando che il discorso si chiudesse lì, almeno per quel giorno. Helene forse non ci sarebbe arrivata mai da sola, ma ero sicura che una volta che Albert le avesse detto che non gradiva la mia presenza – soprattutto come damigella di sua moglie – al matrimonio, lei avrebbe messo da parte me per compiacere il fidanzato.
Eravamo amiche, ma conoscevo Helene: io venivo sempre dopo suo fratello Fred e dopo Albert, com'era giusto che fosse. Mi avrebbe messa da parte; ci sarei stata male, ma sapevo che era meglio per Helene, per la sua nuova posizione.
- Non capisco...- Helene ci era visibilmente rimasta male.
- Ho solo detto che prima di chiedermi una cosa così importante dovresti prima parlarne con Albert – tergiversai.- E' il tuo futuro marito, o no?
- Sì, ma lui mi ha detto che potevo invitare chi volevo...e che potevo scegliere io chi mi avrebbe fatto da damigella...
- Probabilmente perché pensava che l'avresti chiesto a qualcun altro...- mi morsi la lingua non appena mi lasciai scappare quelle parole, ma ormai era fatta. Mi maledissi mentalmente.
- E a chi?
- Non lo so...ad esempio, alla secondogenita degli Schmied, oppure alla figlia del giudice Richter...- buttai lì sul momento dei nomi scegliendoli fra la lista di ragazze nubili che sarebbero risultate gradite ad Albert e a suo padre. Anche se forse Hilda Richter non era la scelta migliore come damigella della sposa: il borgomastro aveva sperato fino all'ultimo che suo figlio chiedesse a lei di sposarlo, ed era rimasto un po' deluso quando Albert aveva proposto il matrimonio a Helene, che era sì la più bella ragazza di Dornennest ma era anche la figlia e sorella di un semplice conciatore; ritrovarsi la potenziale ex fidanzata del tuo futuro marito, grondante di bile, il giorno delle tue nozze, era forse la peggior maledizione che una sposa potesse ricevere.
- Ma Albert lo sa che noi e Hilda non siamo amiche, e nemmeno con Adalicia ci frequentiamo molto...
- Non credo che pensasse a me in ogni caso.
- Ma perché ti comporti così?
- Senti, non ti ho detto di no...ho solo detto che prima dovresti chiedere ad Albert se anche lui è d'accordo...!- sbuffai. Non mi andava di approfondire il discorso, non alle sette e mezza del mattino, non nel centro del villaggio e non con la neve. Comunque andasse ero sicura che Albert non sarebbe stato d'accordo, e se anche lui lo fosse stato per amore di Helene ci avrebbe pensato il borgomastro a opporsi con tutte le sue forze.
Volevo essere la damigella di Helene al suo matrimonio. Lo volevo con tutta me stessa. Ma non volevo rischiare di rovinare la reputazione della mia migliore amica solo per soddisfare il mio ego o solo per il gusto di sputare metaforicamente in faccia al borgomastro, a Padre Leonhard, al giudice a tutta Dornennest.
- Va bene...- mormorò Helene, chiaramente ferita dal mio mancato consenso entusiasta.
Mi dispiacque infinitamente per lei, ma pensai che era meglio così. Sin dal giorno – circa sei mesi prima – in cui Helene si era precipitata sotto casa mia saltellando per la felicità, con una foga tale che per lo spavento Gudrun aveva rovesciato a terra un intero bacile d'acqua, dicendomi che Albert Edel – sì, sì, proprio lui, il figlio del borgomastro!, come se a Dornennest ci fossero stati chissà quanti Albert Edel – l'aveva invitata a fare una passeggiata insieme dopo la messa della domenica, avevo avuto ben chiaro come sarebbe andata a finire.
Quel pensiero mi fece sentire ancora più in colpa. Sapevo che il tempo che mi restava da trascorrere con Helene era limitato, e che conoscendo come Albert e suo padre la pensassero su di me questo tempo sarebbe scaduto ancor prima di marzo. Non volevo che la mia amica fosse arrabbiata con me.
Pensai disperatamente a un modo per smorzare la tensione. Mi venne in aiuto il fatto che fossimo ormai giunte in prossimità della bottega del fornaio, e che il profumo che proveniva da essa fosse sempre in grado di stuzzicare lo stomaco di entrambe.
Inspirai a fondo e la scossi per un braccio.
- Mamma mia, lo senti?- esclamai.- Te lo ricordi?
Helene chiuse gli occhi e inspirò a sua volta.
- Focaccia con olio e rosmarino!- la riconobbe.- Certo che me la ricordo! Ce la comprava sempre la mamma quando uscivamo dalla chiesa la domenica...
- Quanto mi manca...
- Già, anche a me - non sapevo se si riferisse a sua madre o alla focaccia, ma non mi lasciai comunque sfuggire l'occasione.- Oggi Gudrun mi ha chiesto di vendere una doppia porzione di burro alla moglie del giudice...se accetta frego la mia matrigna e con i soldi ci compriamo due focacce...
- Oh no, non devi spendere i soldi della tua famiglia per me...!- provò a rifiutare, ma non avevo intenzione di permetterglielo. La presi a braccetto e mi feci più vicina a lei.
- Stai scherzando, spero? Gudrun si prende sempre tutto il denaro anche se la metà del lavoro lo faccio io...direi che per una volta una focaccia io e te ce la meritiamo. E poi, bisogna festeggiare la nuova arrivata...
- Chi?- Helene mi guardò confusa.- Gudrun aspetta un altro bambino, forse?
- No. Sto parlando di una nuova arrivata a Dornennest, la signora Helene Edel - forzai una risata, ma per fortuna quella di Helene che seguì suonò sincera.
Il campanile della chiesa batté le otto del mattino. Un brusio sommesso e qualche chiacchiericcio, unito al rumore delle persiane che si spalancavano, ci annunciò che il villaggio era ufficialmente sveglio.
La neve continuava a cadere.
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti, e grazie per aver letto fino a qui. Questa non è la prima storia che pubblico su EFP, ma è la prima che pubblico con un back-up account. Come avete potuto leggere dall'intro, si tratta di una rivisitazione che unisce due fiabe, Cappuccetto Rosso e La bella e la bestia – in particolare per quanto riguarda quest'ultima, cercherò di attenermi il più possibile alla versione originale e alla trasposizione cinematografica di Jean Cocteau del 1946, facendo solo qualche accenno al classico Disney del 1991.
Mi rendo conto che questo capitolo è un po' lento e forse anche un po' noioso, ma vi assicuro che tutto ciò che ho scritto qui – la pestilenza, la famiglia della protagonista, il villaggio – servirà in futuro. Nel prossimo capitolo ci sarà una presentazione un po' più puntuale di Dornennest, della protagonista e degli effetti che la pestilenza ha avuto sul villaggio, e si comincerà a entrare più nel vivo della situazione.
Nel frattempo, sarei molto felice se voleste lasciarmi un commento – so che si dovrebbe scrivere per piacere personale, ed è ciò che faccio: ma le critiche costruttive sono sempre ben accette e aiutano a migliorarsi, inoltre mi piacerebbe sapere se la storia vi può interessare e se volete che la continui.
Ciao a tutti e al prossimo capitolo.
Un bacio,
TheLastMidnight
   
 
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