Anime & Manga > Il mistero della pietra azzurra
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Autore: Vitani    07/03/2018    2 recensioni
"Medina, mi chiamò. La mia Medina.
E io sentii lo stomaco stringersi, quasi piansi.
Medina ero io, era il mio vecchio nome, era la fanciulla che ero stata e la donna che lo amava, quella che avevo mortificato sotto un'uniforme, sotto la disciplina, sotto strati di risentimento e insicurezze e dietro un carattere che sembrava di ghiaccio. Era una donna che sentiva la presenza di quell'uomo come non avrebbe mai sentito altro al mondo, sotto la pelle, come il respiro. Era una donna che pur di stare con lui anche una volta soltanto l'avrebbe implorato in ginocchio. Era una donna non diversa nei desideri da quella Grandis che diceva di detestare. Ero io."
Genere: Introspettivo, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Elusys Ra Arwol, Medina Ra Lugensius
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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QUELLA NOTTE LUI DIVENNE

 

 

 

 

Avevo sempre desiderato una cosa, per quanto riguardava il mio rapporto con lui.

Una cosa immediata, naturale perfino in una ragazzina di quindici anni. Qualcosa che non ero mai riuscita a fare, per ritrosia e perché lui, essendo l'uomo che era, non me l'avrebbe permesso.

Avrei voluto... toccarlo.

Anche solo una carezza, anche solo con la punta delle dita.

C'era qualcosa, in me, che era teso verso di lui da sempre, da ancora prima che capissi che lo amavo. All'epoca, da ragazzina, intuivo che avesse a che fare con la tragedia di Tartesso. Ora, donna adulta, so che era il sapore di un dolore condiviso. Soffrivo, per me stessa e per lui, di un male quasi fisico. Gli ero grata per avermi salvato e capivo, in cuor mio, che era lui a soffrire più di tutti. Anche se taceva, sempre. Anche se non ne parlava mai. Gli leggevo il male negli occhi, che divenivano sempre più penetranti e freddi, segno di un'anima che si ritraeva dietro uno scudo. Si scaldava, appena appena, solo quando guardava me. Non capivo il perché, ancora. Immaginavo fosse per via di sua figlia, che in qualche modo vedesse in me una sua sostituta. Tredicenne, andavo da lui e lo abbracciavo. Restava un po' rigido, a volte mi concedeva una carezza sui capelli. A me andava bene così, mi bastava sapere – sentire – che la mia presenza riuscisse a consolarlo almeno un poco.

Proprio così, consolarlo. Ora so che il nostro fu, fin da subito, un sentimento nato dalle ceneri. Non ero ancora in grado di comprendere, all'epoca, che da ciò che restava del dolore potesse nascere altro. Né lo ero a quindici anni, né a sedici, quando infine realizzai di amarlo non come si ama un padre. Vivevamo a Tangeri, a quel tempo. Era una città fiorente, calda, cosmopolita, odorosa di fiori e di spezie, animata giorno e notte dal vociare dei mercanti e dalle sonorità ipnotiche della musica d'influenza araba. Posso dire di essere stata fortunata a crescere là e che si tratta di un luogo che mi manca, tuttora.

Mi mancano anche quei giorni sereni in cui crescevo tutto sommato spensierata, ignorante e priva com'ero dei pensieri che immalinconivano i miei compagni di viaggio, la mia seconda famiglia. Certo intuivo che ci fosse qualcosa. Intuivo che non fosse soltanto la scomparsa di Tartesso a incupire così tanto l'animo di Elusys. Anche io d'altronde avevo sofferto. Mai avrei dimenticato la sorte dei miei famigliari e il disastro che seguì la Luce di Babele. Tuttavia ero giovane, attratta dalla vita più che dalla morte, sedotta da una città dolcissima che di quella vita brulicava. Studiavo, inoltre, e la curiosità verso il creato mi aveva come rinchiusa in una gabbia dorata, affamando il mio animo col desiderio di apprendere sempre di più.

Elusys era un maestro paziente, che esigeva moltissimo e dava altrettanto.

Quelli che trascorrevo con lui erano momenti preziosi. Vedermi studiare con diligenza lo rendeva felice, me ne accorgevo, così mi applicavo quanto più mi era possibile. Mi faceva piacere che mi lodasse, che mi dedicasse il suo tempo e le sue attenzioni. Andavo a dormire la sera e pensavo a come avrei potuto soddisfarlo il giorno dopo. Erano pensieri infantili, innocenti, privi di malizia. C'erano volte in cui, incapace di prender sonno, spingevo il mio pensiero più lontano. Cercavo di immaginare la sua vita di prima, sua moglie, i suoi figli che avevo sempre intravisto soltanto da lontano. Poi mi sentivo in colpa perché, come ogni abitante di Tartesso, rispettavo profondamente la famiglia reale ed ero sinceramente in pena per il destino toccato ai suoi membri. Sapevo però, già da allora, che restare vicino a Elusys era tutto ciò che desideravo. Migliorarmi costantemente in modo da non essergli di peso divenne lo scopo della mia esistenza. Non c'era, in me, altra consapevolezza.

Col tempo imparai a leggere la sua espressione, a comprenderlo senza bisogno che mi parlasse. Imparai a capire quand'era nervoso e non dovevo disturbarlo, quando invece era di buonumore. Quando, infine, pensava al passato. Ci pensava più spesso di quanto facessi io, all'epoca. Ed erano sempre gli stessi ricordi, potrei giurarlo. Era sua moglie Sana'a, il cui assassinio tornava a tormentarlo. Era suo figlio Vinusis, un bimbo innocente plagiato da un mostro. Era Nadia, principessina sorridente e ancora in fasce, forse morta nel disastro, forse no. Erano, ora lo so, tutte le persone morte a Tartesso. Non è che io non capisca le ragioni che lo portarono prendere la decisione finale. Lui, che avrebbe potuto governare la Terra intera a buon diritto se soltanto avesse voluto, aveva scelto di salvare quell'umanità verso cui continuava a sentirsi responsabile. Aveva scelto, per così dire, il male minore. Aveva sacrificato il suo intero popolo per cercare di arginare la piaga di Gargoyle, per impedire che distruggesse il pianeta intero e non soltanto la sua terra d'origine. Era stata una scelta razionale, logica. Una scelta che davvero, pur con tutto l'odio che provai nei suoi confronti quando lo venni a sapere, ero ormai in grado di comprendere bene. Avevo visto molta morte in vita mia, avevo visto a che punto Gargoyle fosse in grado di arrivare e sarò sempre grata del fatto che Elusys non fosse un tale tiranno. Non era questo che non gli perdonavo.

Avevo quindici anni allora, vivevo per il sole fuori dalle tende bianche della mia finestra, vivevo per le rare carezze paterne che lui mi concedeva, per gli ancora più rari sorrisi. Era un uomo gentile ma di poche parole, dallo sguardo a tratti freddo e tagliente come una lama. Ora so che fu il dolore a renderlo tale. So che oltre il muro che s'era costruito intorno batteva un cuore appassionato, ferito e dolcissimo. Un cuore che mi donò senza riserve né dubbi, in quattro mesi che sembrarono un sogno.

Avevo ancora quindici anni, però, e non capivo. Non capivo cosa significasse quel mio sentirmi legata a lui. Cercavo giustificazioni al mio osservarlo di continuo, ogni minuto. Mi chiedevo a cosa attribuire il desiderio di stargli accanto. Era il mio primo pensiero al mattino, l'ultimo alla sera. Sempre. Mi addormentavo con l'animo gioioso, pieno di speranza.

Una sera, tuttavia, fu diverso. Andai a coricarmi con le guance rosse, l'animo in subbuglio e il cuore che mi palpitava nel petto. Fu una notte che trascorsi insonne e che non dimenticherò mai, perché fu la notte in cui per me tutto cambiò. In cui, in poche parole, presi coscienza di ciò che provavo. Cos'era accaduto di particolare? Niente. Elusys mi aveva toccato, quel giorno, sui capelli come talvolta faceva. Una semplice carezza affettuosa, leggerissima, ma che era bastata a mutare il calore della sua mano in un brivido. Una sensazione nuova, inspiegabile, che mi era riverberata lungo la schiena e s'era insinuata nella spina dorsale, fino alle punte dei piedi. Un brivido che non era di paura e che era divenuto un calore diverso, qualcosa che mai avevo provato prima d'allora. Non somigliava al bene che avevo voluto a papà. C'entrava col mio desiderio di stargli vicino, di essergli d'aiuto, col mio guardarlo di continuo. C'entrava con l'emozione che avevo provato quando mi aveva toccata. L'idea che potesse essere amore mi attraversò all'improvviso, mise radici in me tutto d'un colpo. Non ebbi bisogno di altre consapevolezze o di rifletterci, né mi provocò imbarazzo. Ne fui felice.

Proprio così.

D'altra parte non pretendevo che mi ricambiasse. Non mi veniva neppure in mente, allora, che i sentimenti di una ragazzina come me potessero in qualche modo influenzarlo. Era stato il mio re, inoltre. Un re verso cui avevo sempre provato un enorme rispetto. Ero abituata a guardarlo da lontano e andava bene così. Decisi immediatamente che avrei fatto di tutto perché non si accorgesse di quel che sentivo. Avrei tenuto quell'amore per me, sarebbe stato un segreto che mi avrebbe reso più bella la vita.

Fu davvero così, anche se nasconderlo non mi fu semplice come avevo sperato.

Non è mai semplice far finta di niente una volta che si è preso coscienza di qualcosa.

Finivo per guardarlo meno del solito, perché mi imbarazzava, perché temevo il rossore delle mie guance. Temevo i miei occhi, troppo espressivi e rivelatori. Temevo, infine, il tocco delle sue dita. Provò una volta ad accarezzarmi i capelli, il gesto paterno di tante altre volte. Mi morsi le labbra e, involontariamente, mi ritrassi. Sentii addosso il suo sguardo, notai la diversa profondità del silenzio. Non ebbi il coraggio di guardarlo negli occhi ma sospettai di averlo ferito. Non era così che avrei voluto comportarmi. Ma, santo cielo, come spiegargli il brivido che sentivo ogni volta che mi era vicino? Come spiegargli che avrei solo voluto che restasse con me un secondo di più? Come farlo se non riuscivo a spiegarlo neanche a me stessa? Era come una figlia che mi considerava, solo quello. Per lui ero la sostituta della bambina che gli era stata tolta e quello sarei rimasta sempre. Ne ero consapevole e non mi illudevo di avere altre possibilità. Di notte, però, mentre ero sola nella mia stanza e non riuscivo a dormire, mi capitava di sentire un lieve dolore, come una spina che pungeva nel petto. Non versavo lacrime, quelle le avevo abbandonate a Tartesso.

Però...

A sedici anni misi il mio primo rossetto.

Era di un colore rosa scuro, quasi rosso, lo ricordo bene.

Rassegnata a essere la sua bambina mi imbellettai le labbra nella segreta impudica speranza che vedesse in me una donna.

Erano i sogni di un'ingenua.

Inafferrabili.

Ricordo che lo guardai, ebbi il coraggio di farlo, con una sfrontatezza che non mi conoscevo.

Aspettavo forse un suo commento?

Non disse niente.

Mi guardò e non disse niente e il suo silenzio mi ferì.

I suoi occhi erano gelidi, imperscrutabili.

Avevo sedici anni e secondo le leggi di Tartesso ero grande abbastanza da andare in sposa a qualcuno. Ero grande abbastanza per scoprire i segreti dell'alcova, grande abbastanza per avere dei bambini. In un'altra vita avrei abbracciato quel destino, il destino non scritto di tutte le donne del popolo. Questo lui lo sapeva bene. Lo sapeva meglio di chiunque altro. Forse per la prima volta capiva davvero che ero cresciuta. Forse per la prima volta nasceva in lui il germe di ciò che sarebbe venuto. Non lo so. So soltanto che non osò più sfiorarmi da quel giorno in avanti.

Se per un solo istante il suo stomaco si strinse nello stesso modo in cui lo fece il mio mentre lo guardavo, fu bravo a non farmelo capire. Né in quel momento né dopo. Capii che non avrebbe ricambiato mai il mio affetto, ne soffrii enormemente pur rassegnata com'ero.

Passerà, mi ripetevo.

Prima o poi questo amore passerà così com'è arrivato.

E invece...

Non ho mai guardato un altro uomo, né prima né dopo.

Scoprii della Torre di Babele e la forza con cui lo odiai fu pari a quella con cui odiai me stessa perché, nonostante tutto, continuavo ad amarlo. Avevo la risposta per quel che riguardava il suo dolore, quello che avevo abbracciato prima ancora di conoscerlo davvero. Non cambiava niente, per me. Non poteva cambiare, perché io comprendevo la sua sofferenza. Quello che amavo era un uomo che viveva nel rimorso, convinto di aver preso la sola decisione possibile ma che ugualmente non riusciva a perdonarsi. Amavo un uomo che portava addosso il dolore del mondo, che aveva perso tutto, che strenuamente lottava per la sua – nostra – vendetta. Amavo la sua solitudine, la sua intima tristezza. Non avevo paura, di lui non ho mai avuto paura.

Non sono mai stata così debole.

Di questo lui s'è accorto.

Ha capito che ero forte abbastanza da affrontare i suoi fantasmi, da quietarli anche solo per un attimo. Per questo mi ha scelta, infine.

Ed è stato solo quando ho visto emergere, dietro la maschera di “Nemo”, l'Elusys che anche la regina Sana'a aveva conosciuto che ho capito veramente quanto avesse bisogno di amare ancora.

È ancora presto per parlarne, però.

Ho ventun'anni e il Nautilus è stato appena varato. Ho ventun'anni e ha avuto inizio la mia personale caccia alle streghe. Non mi scoccia vivere in un ambiente che, eccettuata Icolina, è completamente maschile. Ho un carattere abbastanza risoluto e sono perfettamente in grado di farmi rispettare. In più sono il vice comandante e nessuno ha mai messo in discussione le mie capacità o il mio titolo. Infine c'è Nemo. Nemo la cui ombra, senza che me ne rendessi conto, mi ha sempre protetta da attenzioni indesiderate. Se qualcuno avesse osato infastidirmi lui non l'avrebbe lasciato impunito, di questo erano consapevoli tutti anche senza bisogno di ordini diretti. Io, dal canto mio, prendevo la vita sul Nautilus e i miei doveri molto sul serio. Così sul serio che, a tratti, riuscivo perfino a dimenticare di amare il Capitano. Certo era una consapevolezza che restava con me, nel profondo del mio animo, ma che non mi causava infelicità. Gli avevo perdonato quello che era successo a Tartesso, davvero. Ero abbastanza intelligente da capire perché avesse dovuto prendere quella decisione, soprattutto sapevo quanto egli stesso soffrisse per quanto era accaduto. Infine, non avevo dubbi circa il fatto che si sarebbe preso le sue responsabilità quando fosse arrivato il momento. Non avrebbe esitato a sconfiggere Gargoyle a costo di sacrificarsi. Da parte mia ero sempre rassegnata. Mi accontentavo ancora di essere la sostituta di una figlia. Mi bastava stargli accanto e andava bene così. Non importava come io lo considerassi, ovvero non come un padre. Ero una giovane donna abituata a mortificare i propri desideri. Poco importava quanto desiderassi toccarlo o baciarlo, non me l'avrebbe mai concesso. Stavamo entrambi in piedi, immobili, di fronte a un muro che ci separava, senza avere la volontà di scavalcarlo.

Io, naturalmente, non ero scevra da desideri carnali.

Si trattava di pulsioni a cui non riuscivo a dare una forma, eppure presenti e dolorose sotto ai vestiti, sotto la pelle. Certo sapevo che certi pensieri erano sconvenienti per una fanciulla. Solo che io, come dire, non ero come le ragazze europee, cresciute all'ombra di un cristiano puritanesimo. Ero una ragazza cresciuta sotto al sole dell'Africa, in una terra florida, opulenta, ricca di profumi e di suggestioni. Non avevo mai avuto timore del mio corpo. Eppure talvolta, raramente, capitava che ci pensassi. Capitava che mi toccassi, la notte, nel mio letto. Raggiungevo un piacere silenzioso, sterile, una magra forma di consolazione per la mia immaginazione troppo fervida. Dopo mi sentivo in colpa perché, ricordati, lui ti vede solo come una figlia. E le figlie non hanno certi pensieri. Neppure le figlie di Atlantide.

A proposito di figlie, c'è una cosa che vorrei puntualizzare: io non ho mai odiato Nadia, mai.

So bene che lei è stata vittima delle circostanze forse più di tutti quanti noi. Non mi sono mai pentita di averla aiutata. Era la figlia dei miei amati sovrani, la principessa, e una ragazza coraggiosa che condivideva con noi il fatto di portare sulle spalle un fardello troppo grande. Infine era la figlia dell'uomo che amavo come nessun altro al mondo, di cui condivideva il carattere più di quanto lei stessa si rendesse conto. In che modo avrei potuto odiarla? Non era odio quello che provavo nei suoi confronti, anzi posso dire di essermi sinceramente affezionata a lei col tempo.

Non era odio.

Era gelosia.

Era la gelosia di una figlia adottiva che vede tornare la legittima erede.

Io ero sicura del mio ruolo accanto a Nemo, sicura che l'essere sua figlia, almeno sulla carta, mi garantisse un posto sicuro al suo fianco. Era quello che volevo, in fondo. Un posto sicuro accanto a lui. Poi lo vidi iniziare a guardarla con occhi che per me non aveva mai avuto. Gli occhi di un padre. Vidi che scorgeva in lei l'ombra di sua madre Sana'a e ne soffriva. Vidi che avrebbe voluto con tutto se stesso rivelarle chi era ma che non lo faceva per non metterla ulteriormente in pericolo. Non potevo fare niente. Era il richiamo del sangue, troppo forte per poter essere ignorato. Loro erano gli ultimi due atlantidi rimasti al mondo.

Chiedevo perdono per il mio egoismo e al contempo non riuscivo a oppormi ai miei sentimenti. Vedevo il mio posto sicuro, l'unico in cui avessi mai desiderato rimanere, venire messo in pericolo. Mi chiedevo insistentemente cosa ne sarebbe stato di me.

Non erano pensieri che mi facessero onore. Lo ammetto, di onore in me ce n'era ben poco. Sono umana, dopotutto. E amavo, l'avrei scoperto a breve, di un amore così terreno da lasciare ben poco spazio alla nobiltà d'animo.

Grandis Granva si chiamava, colei che me l'ha fatto capire nel più brutale dei modi.

Col senno di poi dovrei esserle grata.

È stato grazie a lei che capii, capii davvero, che c'erano altri modi di essere donna, modi che coinvolgevano il corpo, la carnalità e una sfrontatezza che mi lasciava esterrefatta. Oh, ho detestato davvero Grandis. Perché, be', era una bella donna che possedeva un'onestà nei sentimenti che le invidiavo. Lei poteva, già. Poteva corteggiare il Capitano. Lei non era sua figlia. Non era come me, confinata in un ruolo che le andava stretto nonostante abitudine e rassegnazione. Io, maldestra e goffa, cercavo di marcare il territorio mentre lei mi superava ogni volta, con quei costumini stretti e delle grazie palesemente esibite che avrei guardato anch'io se fossi stata un uomo. Col senno di poi mi sono accorta che lui non l'aveva mai guardata nel modo che temevo. Le si era affezionato, la stimava, forse era perfino lusingato dalle sue attenzioni ma non l'aveva mai ricambiata e avrei potuto accorgermene e risparmiarmi molte sofferenze se solo fossi stata meno cieca.

Ricordo la frase di Raoul, il capo-macchinista: “È pur sempre un uomo”.

Come a dire che sarebbe stato naturale se lui l'avesse ricambiata.

Che gli facevano piacere quelle attenzioni, che...

Ricordo quella frase, ricordo quanto mi ferì.

Ricordo le notti trascorse a piangere come una stupida, preda di una rabbia senza nome, chiedendomi a ogni minuto se lei fosse in camera con lui, se stessero.... Pensare che lui la stesse toccando mi provocava un dolore inconsolabile. Lei era bella, d'altra parte, e disponibile. Perché mai lui avrebbe dovuto trattenersi? Certo si parlava del Capitano, un uomo apparentemente di ghiaccio che non aveva mai offerto alcuna gratificazione al suo corpo in tredici anni. Non che io sapessi, almeno. Pregavo che continuasse così. Pregavo ma non riuscivo a credere, insicura com'ero. Sapevo, d'altronde , che le mie erano speranze vane. Non gli potevo stare vicino. Non nel modo che desideravo.

Ero sua figlia.

… Forse.

La verità è che se avessi avuto il coraggio di esternargli prima i miei dubbi non saremmo mai arrivati al punto in cui giungemmo. Lui ci aveva provato, più volte. Mi aveva visto cupa, mi aveva chiesto come stavo, cos'avevo. Non gli ho mai risposto.

E dietro al silenzio crescevano il rancore, la rabbia, la gelosia. Cresceva una me stessa che non riuscivo a perdonare ma che non ero abbastanza forte da ricacciare indietro.

Fino al punto in cui tutto andò in pezzi.

Quando ci trovammo ad affrontare Gargoyle, quando sembrò che fosse tutto perduto, proposi di far saltare in aria la sua nave insieme a quel che restava del Nautilus. Saremmo rimasti tutti uccisi, era vero, ma l'avremmo sconfitto. Ci saremmo vendicati. Le nostre vite valevano forse più di quelle dei morti di Tartesso? Non eravamo forse pronti a morire per la nostra causa, dall'inizio? Era un'occasione perfetta, come non ne avremmo mai più avute. Io, in ogni caso, avevo già perso anche quel poco che mi era rimasto. Avevo perso Nemo e mi restavano per poche ragioni per desiderare di vivere. Quel giorno mi trovai in un vicolo cieco che aveva il volto dell'uomo che amavo. Lui esitò a lungo, infine tacque. L'uomo che conoscevo non l'avrebbe mai fatto. L'uomo che conoscevo si sarebbe preso le responsabilità dei propri errori passati. Non sarebbe scappato in quel modo, con la morte dietro l'angolo in ogni caso.

Glielo rinfacciai nella cabina, dopo avergli sparato al braccio. Gli rinfacciai quello e molto altro, finché il vero motivo della mia rabbia non venne alla luce. Avevo paura. Avevo semplicemente paura di perderlo, e so che è un controsenso. Avevo paura che diventasse una persona che non conoscevo, che la sua vera figlia prendesse il posto che fino a quel momento mi era spettato, il solo posto che pensavo di poter occupare. Lui mi guardava e non c'era odio nei suoi occhi. Non c'era rancore. Era un uomo di grande intelligenza, capiva perché mi comportavo così, a modo suo mi diede perfino ragione. Era ragionevole che lo volessi uccidere, visto tutto quello che era accaduto. Mi disse di sparargli e io lo mancai di proposito perché non ero in grado di fargli del male. Per quanta rabbia avessi in corpo, odiavo me stessa soltanto. Gli confessai tutto, anche che lo amavo, che lo avevo sempre amato. Stavamo per morire, dunque non aveva senso che mantenessi ancora il segreto. Almeno sarei morta con un peso in meno sul cuore. Tutte le parole che non avevo pronunciato in tredici anni uscirono come un fiume, inarrestabili. Lui mi guardava e vedeva una donna senza più niente da perdere. Mi guardava e, ora lo so, pensava a come salvarmi un'altra volta.

Perché, gli chiesi, perché non hai accettato di far esplodere il Nautilus?

La risposta per me era ovvia, era per Nadia che non l'aveva fatto, per non condannare a morte anche la figlia che aveva appena ritrovato. Invece lui mi aveva regalato la risposta che meno di tutte mi aspettavo di sentire.

L'ho fatto per te.

Ho voluto salvarti.

Non potevo permettere che anche tu...

Fu l'attimo in cui qualcosa, in me, si spezzò definitivamente.

Capii all'istante di aver commesso un terribile errore di valutazione. Non ero sua figlia, no. Ero la persona che gli era stata accanto per tredici anni e... teneva a me. Teneva a me abbastanza da rinunciare anche alla vendetta. E io meglio di chiunque altro potevo comprendere di che portata fosse per lui un'affermazione del genere. Avevo trascorso buona parte della mia vita a cercare di aiutarlo e fu così che commisi il secondo errore di valutazione. Mi sentii in colpa, all'improvviso. In colpa per essere viva, in colpa perché il mio essere viva ci era stato di peso. Allora mi puntai la pistola alla tempia, giurando di restituirgli la vita che aveva salvato. Speravo di liberarlo, davvero.

Sparai.

Udii lo sparo e ancora non mi capacito di averne avuto il coraggio.

Quello che mi arrivò, però, fu il dolore di uno schiaffo.

Crollai a terra, piangendo.

Io non so che cosa scattò in lui in quei momenti, capisco però che qualcosa nel suo animo s'era incrinato già da prima. So che la nostra fu una sequenza di errori che ci rimbalzammo a vicenda, uno dopo l'altro, e il vero miracolo fu che proprio questi errori scatenarono ciò che accadde dopo. Eravamo consapevoli di essere stati di nuovo a un passo dalla morte. Ne eravamo usciti e non avevamo più niente da nasconderci. Ed eravamo stanchi, sconvolti, affamati di vita.

In capo a pochi giorni sarei stata di fronte a lui, con l'animo finalmente a nudo, e avrei abbandonato ogni incertezza. In quel momento pensavo soltanto alle sue parole, al fatto che si fosse pentito di quanto aveva fatto a Tartesso, a quanto profondamente mi volesse viva.

Pensa a quello che devi fare, mi disse.

Aveva capito da tempo, da uomo perspicace qual era, che c'era qualcosa che mi logorava.

Aveva capito che quel qualcosa riguardava lui.

Sulla plancia di comando del Nautilus si era trovato davanti una donna che chiedeva di morire. Una donna talmente divorata dalla paura, dalla gelosia e dall'incertezza da essere arrivata a rifiutare la vita. Forse non aveva compreso quanto profondo fosse il mio desiderio di morte fino a quel momento. Se n'era accorto quando gli avevo proposto di suicidarci col Nautilus. Solo allora davvero aveva capito. Aveva visto che donna distrutta ero diventata. Non ho mai saputo se si sia sentito in colpa per questo, ma so per certo che fu lì che nel suo animo s'aprì una crepa. Lì realizzò che non voleva lasciarmi morire. Non si comportò come fece per senso di colpa nei miei confronti, però. Si comportò così perché, ora lo so, mi amava. Non avrebbe sopportato di vedermi morire anche se neppure lui, ancora, sapeva che nome dare ai suoi sentimenti. Sapeva di essere il solo a potermi salvare. Era solo lui a esercitare un tale potere su di me, da sempre.

In seguito avevo sentito i suoi occhi addosso mentre stavo china a terra e piangevo tutte le lacrime che non avevo versato in tredici anni. Li avevo sentiti ma non ero stata in grado di capire perché mi osservassero. Pensavo che se ne sarebbe andato, non lo nego. Stavamo affondando, aveva ben altro a cui pensare oltre a me, che avevo appena tentato di ucciderlo. Eppure stava lì, immobile, a scrutarmi come se cercasse qualcosa in se stesso. Udii la voce di Raoul, lontana, sepolta fra le mie lacrime. Non si può vivere di solo odio, diceva, ed era a Nemo che stava parlando. Oh, io lo sapevo. Avevo odiato Elusys ma l'avevo anche capito, infine. Il mio amore per lui, che io stessa avevo creduto passeggero, s'era rivelato più forte di ogni altro mio sentimento. E lui... era come se se ne accorgesse in quel momento per la prima volta. Vedermi così priva di speranza, così pronta a gettar via la mia esistenza, gli aveva fatto più male di quanto potessi immaginare. Oh, ma lui era affezionato a me più di quanto immaginassi, al punto da non esserne del tutto consapevole.

È stato in quel momento che l'ha capito, potrei giurarci.

È stato nel momento in cui mi sono puntata la pistola alla tempia e ho premuto il grilletto.

Perché davvero, piuttosto che uccidere lui era molto più facile uccidere me stessa.

Tanto non mi era rimasto niente per cui vivere, nemmeno la vendetta.

E lui, che mi conosceva meglio di chiunque altro, se ne accorse immediatamente.

Il dolore del suo schiaffo ancora lo ricordo, così come ricordo la punta delle sue dita che esitava su quel punto esatto, sulla mia pelle, solo pochi giorni più tardi.

Raoul, che sarebbe diventato uno dei pochi testimoni della nostra relazione, aveva voluto ricordargli che poteva ancora salvare me e salvare anche se stesso.

Almeno per quel poco tempo che ci era rimasto.

La vita che aveva salvato gliel'ho restituita. Non nel modo che avevo in mente in quella cabina, però. Non uccidendomi ma amandolo fino alla fine e dimostrandoglielo in ogni modo che conoscessi. Fu felice in quegli ultimi quattro mesi. Lo so perché me lo disse. Lo so perché vidi emergere un lato di lui che avevo sempre intravisto sotto le crepe del suo animo, un lato che penso avesse mostrato solo a Sana'a e ai suoi amici più intimi. Il suo lato gentile, premuroso, perfino un po' impacciato nel manifestare i suoi sentimenti.

Me ne accorsi nei giorni che seguirono l'affondamento del Nautilus, quando eravamo ormai in salvo. Non diceva niente ma il modo in cui mi guardava era cambiato. Qualcun altro non se ne sarebbe reso conto, ma io, che l'avevo osservato tutta una vita, riuscivo a leggere la sua espressione come un libro aperto. Non era un cambiamento così evidente, non è che i suoi occhi avessero iniziato ad ardere d'amore all'improvviso, anzi era risoluto come al solito nel dare ordini e affidare incarichi. Solo che, quando mi guardava, lo attraversava un'ombra di incertezza. Era come se non sapesse bene cosa fare o come comportarsi, così mi trattava come aveva sempre fatto eccettuata, appunto, quella piccola ombra. Io la colsi immediatamente. Facevo finta di niente, mi comportavo come sempre, buttata anima e corpo nella nuova missione e coi capelli ormai corti. Non avevo più niente da nascondergli. Gli avevo riversato addosso gli strascichi dell'odio e quelli ben più forti dell'amore e questo mi aveva lasciata sfinita, a cercare di capire che cosa mi fosse rimasto. Lui forse pensava a me con la pistola puntata alla tempia, a me che sparavo e a lui stesso che a malapena riusciva a impedirmi di morire. Pensava a quanto dolore questo gli avesse provocato. Pensava alla mia confessione. Pensava a tutto questo e a molto altro, e il fatto stesso di sapere gli impediva di continuare a far finta di nulla. Non era una persona così meschina e mi aveva sempre voluto bene. Avrebbe voluto solo aiutarmi ma temeva una mossa sbagliata e soprattutto... aveva paura. Come me. E ancora adesso sembra impossibile.

Io, almeno, avevo un filo a guidarmi.

Avevo il cuore che sobbalzava ogni volta che lui mi parlava, oltre alla gioia di essere viva.

Mi ero liberata di tutto ciò che mi attanagliava l'animo, dell'odio e della rabbia, gli avevo confessato di amarlo da una vita e avevo pianto finché gli occhi non mi avevano fatto male, fino a farmi scoppiare la testa, fino a non sentire più niente dentro. Poi avevo ricucito gli strappi, lentamente. Avevo sentito l'odore della sua giacca e capito che mi aveva salvato un'altra volta. Avevo capito anche di amarlo sempre, come prima.

E che niente sarebbe stato mai più com'era, perché ormai tra noi c'era la consapevolezza.

Non ero più solo io a guardare lui in silenzio.

Era anche lui che guardava me, con quell'incertezza.

Sapevo che pensava, che cercava di capire.

Sapevo anche che non potevamo più continuare così.

Decisi di andare a parlargli, semplicemente.

Ero ancora rassegnata al fatto che non mi avrebbe mai amata ma non riuscivo a dimenticare la sua espressione mentre rivelava di avermi voluta salvare. Che io volessi morire a tal punto era qualcosa che non sarebbe mai riuscito a sopportare e non potevo evitare di sentirmi in colpa al pensiero di quanto dolore gli avessi causato. Io, almeno, avevo l'amore. Avevo la certezza che l'avrei amato sempre, qualsiasi cosa fosse accaduta, e questo mi dava una via da seguire. Una via nitida, chiarissima. S'intende, non andai da lui con l'intenzione di passarci la notte. Davvero non credevo di interessargli in quel senso. Intuivo soltanto che era confuso e volevo scusarmi con lui, fargli capire che gli volevo bene, che se mi voleva ancora accanto non l'avrei abbandonato. Dovevo farlo io.

Quella sera mi guardò a lungo, senza parlare.

Attese che finissi di dirgli quel poco che mi era rimasto da dire.

Poi mi toccò la guancia con la punta delle dita, lì dove mi aveva colpito.

Medina, mi chiamò. La mia Medina.

E io sentii lo stomaco stringersi, quasi piansi.

Medina ero io, era il mio vecchio nome, era la fanciulla che ero stata e la donna che lo amava, quella che avevo mortificato sotto un'uniforme, sotto la disciplina, sotto strati di risentimento e insicurezze e dietro un carattere che sembrava di ghiaccio. Era una donna che sentiva la presenza di quell'uomo come non avrebbe mai sentito altro al mondo, sotto la pelle, come il respiro. Era una donna che pur di stare con lui anche una volta soltanto l'avrebbe implorato in ginocchio. Era una donna non diversa nei desideri da quella Grandis che diceva di detestare. Ero io.

E ammetterlo mi costò.

Mi costò capire una volta di più che ero fatta di carne e sangue.

Pensai che me l'avrebbe letto in faccia, che avrei dovuto tenergli nascosta la mia voluttà per non metterlo in difficoltà e non complicare la situazione più di quanto già non fosse. Lui dovette accorgersene, però, perché esitò con la punta delle dita sulla mia guancia. Esitò a scostarle, come se stesse soppesando la mia reazione. Io trattenni il fiato, evitai di guardarlo negli occhi ma le mie guance rosse, ne sono certa, mi tradirono. Così come mi tradì la pelle d'oca, che lui pure non poteva vedere, e il fatto che tremassi leggermente. Quando finalmente trovai il coraggio di alzare lo sguardo, due lacrime corsero giù lungo il mio viso. Le ignorai, mi sforzai di farlo. Lo amavo, tutto lì. Era solo questo.

Mi abbracciò.

Fu questione di un attimo, mi cinse la schiena e mi strinse forte, una mano fra i miei capelli. Io tentai di ritrarmi, colta di sorpresa, ma lui era forte. Mi tenne ferma contro di lui e io riconobbi l'odore familiare della sua giacca, sentii il suo respiro vicino al mio. Allora mi rilassai, colta da un brivido, e lo ricambiai. Restammo a lungo così, immobili, concentrati a contare i nostri stessi respiri. Pensavo ancora che sarebbe finita così, semplicemente. Pensavo ancora che il suo fosse il tentativo un po' goffo di consolare una ragazzina. Pensavo fosse così che mi vedeva. Pensavo che non s'accorgesse della curva dei seni sotto la tuta bianca, né di quella dei glutei, che non vedesse le gambe perfette né sentisse il calore e il profumo della mia pelle.

Pensavo che non gliene importasse.

Che avesse imparato, negli anni, a fare finta di niente.

Che almeno lui, che non era umano, riuscisse a fare i conti col desiderio.

Non era così semplice. Se si fosse trattato di questo soltanto, credo che avremmo esitato di meno o che al contrario saremmo riusciti a venirne a capo con la volontà. Il punto era che ci volevamo bene, ce n'eravamo sempre voluto. Poco importava che fosse il bene di un padre verso una figlia, il bene di una donna verso un uomo o qualsiasi altro tipo di bene. Non volevamo ferirci. Io, però, reagivo alla sua presenza. Era un istinto che mi pulsava dentro, indefinito eppure inconfondibile, alimentato dalla sua stessa vicinanza. Lo amavo, non volevo che le cose fra noi si cristallizzassero in quel limbo indefinito. C'era davvero una parte di me che l'avrebbe implorato in ginocchio. Fammi tua anche una notte soltanto, anche se non mi ami, tutto per non sopportare un attimo di più questa frustrazione. Guardami come un donna anche solo per un attimo. Ho sempre voluto toccarti. Ho sempre solo voluto toccarti.

E con quei pensieri indegni nella testa mi scostai appena, inspirai e poggiai le labbra sulle sue. Almeno quello ce l'avevo ben chiaro, così come il fatto che non avevo proprio più niente da perdere. Non mi importava come sarebbe finita. Non mi importava che il cuore mi battesse all'impazzata, che avessi il terrore di venire scacciata. Fu un bacio caldo, lieve, un tocco di labbra che mi lasciò le gambe deboli come acqua. Lui mi sorresse.

Due cose non dimenticherò mai di quel momento.

Il tremito lieve della sua bocca ancora sulla mia e gli occhi con cui mi guardò subito dopo.

Occhi incerti, perfino spaventati.

Non dimenticherò mai l'esitazione che vi lessi.

Erano gli occhi di chi non sa che strada prendere, forse per l'unica volta nella sua vita.

Io, invece, lo sapevo benissimo.

Fu una delle notti più dolci della mia esistenza, non per l'atto in sé quanto per tutto ciò che ne fece da contorno. Scoprimmo molte cose, quella notte, su noi stessi prima ancora che l'uno dell'altra. Stesi uno accanto all'altra ci baciammo a lungo come se a nessuno dei due interessasse andare oltre, come se ogni bacio fosse una crepa che si sanava. Come se davvero non avessimo aspettato altro che quello. Accettavo le sue carezze sulla mia pelle come se fossero stati doni preziosi. Sentivo il suo peso addosso, il suo corpo, caldo, vivo, e scoprivo di non aver mai voluto altro. Quello era il mio posto, il mio vero unico posto. Quando infine mi guardò come per capire fino a che punto potesse spingersi, io gli sorrisi e mi sedetti. Ero felice come mai avrei creduto possibile, ubriaca di quella gioia mi spogliai davanti a lui, con le guance arrossate e gli occhi bassi per quel po' di imbarazzo che ancora provavo. Non sarei tornata indietro per tutto l'oro del mondo. Mi guardava con una tale tenerezza! Fu come un risveglio, per me. Fu scoprire qualcosa che avevo sempre conosciuto, che avevo sempre tentato di afferrare senza conoscerne il nome. Furono i brividi languidi di piacere sotto la sua bocca che mi mordicchiava la pelle, il solletico del suo respiro contro il mio collo. Appena prima che entrasse in me gli sussurrai che lo amavo. Volevo che sapesse che non me ne sarei pentita mai.

Dopo mi accarezzò a lungo, piano, baciò ogni centimetro del mio corpo come se volesse memorizzarlo contro la pelle. Mi chiese se stavo bene, se mi aveva fatto male, guardandomi con tanto affetto da farmi stringere il cuore. Sono pronta a giurare che avesse gli occhi un po' lucidi, che provasse la mia stessa commozione. È difficile esprimere come ci sentissimo, quanto il nostro cuore fosse pacificato. Era come se il dolore, le ansie e le paure degli ultimi tredici anni fossero svaniti. Come se si fosse acquietato perfino il desiderio di vendetta. Non avremmo mai dimenticato né avremmo mai perdonato Gargoyle, ma potevamo perdonare almeno noi stessi. Potevamo cominciare a vivere per qualcosa che non fosse pura vendetta. Avevamo sopportato il dolore per tredici lunghi anni e capivamo solo in quel momento, l'una tra le braccia dell'altro, quanto stremati davvero fossimo. Era una lotta che ci aveva logorati. Era un dolore che ci aveva sempre accomunati, il dolore di aver visto distrutta la nostra vita, la nostra terra, di aver perso tutti coloro che amavamo. Raoul, che a Tartesso aveva perso figli e nipoti, era stato più saggio di noi. Aveva capito bene quanto inutile fosse lasciarsi dominare dall'odio e dal senso di colpa. Aveva capito che non meritavamo niente della sofferenza che ci stavamo infliggendo, ed era solo grato del fatto che fossimo vivi. Non pensai a tutto ciò in quel momento. In quel momento, semplicemente, respiravo contro il suo corpo. Sentivo il mio cuore battere, sentivo il suo cuore battere, l'alzarsi e abbassarsi della pancia al ritmo del respiro. Sentivo le sue braccia che mi cingevano la schiena, il tepore, le mie gambe intrecciate alle sue. Di tanto si muoveva appena, un dito, la testa, o si accomodava meglio contro il materasso. Finché mi baciò la tempia, piano. Allora gli sorrisi.

Capii che, in tutti quegli anni, avevamo sempre e solo avuto paura.

Paura di essere felici.

Avevamo avuto paura di perdonarci, che la felicità ci distogliesse dalla vendetta.

Avremmo scoperto quant'era più bello combattere per garantire un futuro a chi amavamo.

Cercai le sue mani, intrecciai le dita alle sue.

Strinsi.

Lui mi ricambiò, mi accarezzò un poco la schiena e ci addormentammo così.

Non avevo ancora idea del fatto che avremmo trascorso insieme ogni notte, da lì in avanti.

In verità ero convinta che sarebbe stata davvero l'avventura di una volta.

Pensavo che lui l'avesse fatto per farmi un favore, quasi, per pietà verso di me.

Non era così. Elusys era una persona corretta fino all'estremo, non avrebbe mai giocato con me o coi miei sentimenti e in seguito mi sarei data della stupida per averlo anche solo pensato. Però ero giovane e molto bella e lui, dopotutto, un uomo. Avevo la consapevolezza che sarei potuta essere anche solo il capriccio di una notte e che non mi importava. Mi sarebbe andato bene anche così. Lui, però, aveva esitato. Rivedo ancora quegli occhi da bambino impaurito. Non è che temesse me o se stesso. Sapeva bene che io per lui non ero un gioco, non ero mai stata un gioco. Solo che baciarmi o fare l'amore con me significava scavalcare un muro che per tredici anni era stato insormontabile. Significava ammettere di essere feriti, ammettere di aver bisogno di amare. Ammettere di essere vulnerabili, di desiderare. Avemmo fortuna, noi due, perché pur con tutto il male che ci eravamo inflitti a vicenda in anni di silenzi e incomprensioni eravamo stati sempre uno accanto all'altra e ci eravamo sempre voluti bene. Così, quando ci fu la volontà, trovarci fu facile. Fu facile capire che ci eravamo sempre amati, forse in modo diverso o forse no, e che l'amore in sé non cambiava niente di quello che eravamo perché era sempre stato lì. Anzi. Aiutò me a diventare donna, ad acquistare una fiducia che non avevo mai posseduto. Mi aiutò a superare le mie incertezze, a riscoprire in me la fanciulla sensuale e libera di Tangeri, quella che non temeva la femminilità e l'amore. Aiutò lui ad aprire il cuore, e fu la cosa più importante. A volte, mentre sentivo crescere in me il piacere, mi scoprivo a desiderarlo tanto da star male. Allora lo imploravo davvero, svergognata come mai avrei sognato, di darmi tutto. Lo imploravo fra i sospiri, fra i gemiti, quasi piangendo, inarcandomi sotto di lui per sentirlo di più. Lo imploravo e lui mi abbracciava e mi leccava sotto l'orecchio e il respiro mi si spezzava. Volevo che mi desse tutto, sì, e non soltanto nell'atto fisico. Volevo che mi desse tutto quello che gli riempiva il cuore, la rabbia e il dolore e il desiderio e l'amore, che mi desse tutto quello che lo opprimeva e anche quello che gli regalava gioia. Io, il mio cuore, gliel'avevo già dato tutto da tempo. Il corpo ne fu il naturale complemento. Lui mi dava la vita, ogni volta che mi si sprigionava dentro, ogni volta che mi guardava con quello sguardo che avrei imparato essere solo mio, ogni volta che mi baciava e che mi parlava. L'ho amato immensamente.

E lui, ci tengo a dirlo, ha amato me.

Quella prima volta fu l'unica in cui lo vidi esitare, ma non fu per incertezza verso quello che sentiva. Mi voleva quanto io volevo lui e i nostri corpi in tal senso non mentirono mai. Se esitò fu per via di se stesso. Quando mi aveva salvata ero poco più che una bambina, lui un uomo già oltre i trent'anni. Non era il fatto che fossi giovane, no, quello non contava più di tanto. Era il fatto che, lo sapeva, non sarebbe uscito vivo dalla battaglia che ci apprestavamo a intraprendere. Con tutto ciò che questo comportava. Era per questo che mi aveva legalmente adottata, anni prima, per darmi i mezzi per vivere quando lui non ci fosse stato più. Le azioni che aveva compiuto a Tartesso avrebbero preteso in cambio la sua vita in ogni caso. Io stessa l'avevo seguito sul Nautilus avendo ben chiaro da sempre che prima o poi l'avrei perduto. L'amavo anche per questo, perché non era un codardo ma era sempre stato pronto a prendersi le sue responsabilità. Si sacrificò, alla fine, per qualcosa di perfino più nobile. Si sacrificò per permettere a noi – Nadia, Jean, me stessa, nostro figlio e tutto l'equipaggio – di continuare a vivere. Si sacrificò non per pagare i conti col passato ma per garantire a tutti un futuro. E credo che questa sia stata la più grande lezione che potesse impartirci. Io, da parte mia, ho cercato di proteggerlo fino alla fine ma non l'ho mai odiato per la scelta che fece. Da madre posso dirlo, avrei fatto la stessa cosa.

Non credo che in quei momenti lui avesse certi pensieri in testa. Il suo fu piuttosto un timore istintivo, il timore che ciò che avremmo fatto potesse lasciarmi distrutta e in qualche modo far perdere a lui di vista se stesso.

Fu il contrario.

Lo capimmo subito, entrambi, e non ci lasciammo più.

Durante i quattro mesi che trascorremmo insieme cancellò i miei dubbi uno dopo l'altro.

Furono i mesi più belli e intensi della mia vita.

Il giorno che seguì la prima notte fu, per così dire, normale. Mi svegliai col cuore che mi batteva all'impazzata, temendo di aver sognato. Ero in camera sua, però, anche se lui doveva essersi già alzato da un pezzo. Sospirai e mi ricacciai sotto le coperte. Non ero ancora pronta ad affrontarlo e volevo, soprattutto, godermi ancora un poco quel momento di tranquillità. Mi alzai e andai a lavarmi nel bagno privato della cabina del comandante. Era qualcosa che non mi sarei mai permessa di fare in condizioni normali, ma non osavo rivestirmi senza essermi lavata. Mi sciacquavo la faccia e pensavo, sommariamente, a come avrei affrontato il capitano e il resto dell'equipaggio. Mi chiesi se quel che era successo si leggesse sul mio viso. Se qualcuno avrebbe fatto allusioni o battute o... no, non era possibile che sapessero. Ero come al solito. Solo, col cuore molto molto più leggero. D'altra parte ero brava a far finta di niente e non avevo dubbi circa il fatto che ci sarei riuscita anche stavolta.

Poco importò, quel giorno, che il mio sguardo si soffermasse su Nemo un po' più a lungo e con più tenerezza. Il resto dell'equipaggio c'era abituato, sapevano tutti fino a che punto lui fosse il centro del mio universo. Per il resto non ci furono contatti né parole particolari tra di noi, solo quella formalità che ci era sempre servita da scudo e che avremmo mantenuto di fronte agli altri fino alla fine. Non è che non ci fidassimo, è che avevamo un equipaggio da comandare e una guerra da vincere. Le questioni personali, semplicemente, non c'entravano.

Solo una volta ci incrociammo in corridoio e lui mi sfiorò le dita con la mano.

Appena appena, così di sfuggita da farmi dubitare che l'avesse fatto casualmente.

Nel tardo pomeriggio, poco prima di cena, mi concessi un bagno. Più s'avvicinava la notte più sentivo il bisogno di rilassarmi. La verità era che non sapevo cosa fare. La verità era che, e stentavo ad ammetterlo, avevo bisogno di lui come mai prima. Non osavo sperare che per lui fosse lo stesso. Avevo bisogno di stargli accanto, però, di stringerlo forte, di... di toccarlo. Ancora. Non mi sentivo patetica. Inaspettatamente ripensai a Grandis. All'impegno che ci metteva, là dove io mi tiravo indietro. Al fatto che non avesse paura di mostrarsi per quel che era, una donna affascinante – perché lo era, lo ammetto – e con dei desideri ben precisi. Non aveva mai temuto se stessa, lei, e c'era qualcosa di invidiabile nel modo in cui riusciva ad amare.

Ebbene, forse era giunto il tempo anche per me di pensare a ciò che io desideravo.

Lui, lui soltanto, in modo viscerale.

Era colpa di tutto quel che era successo, l'affondamento, gli spari, l'essere quasi morti un'altra volta ed essere ancora vivi insieme, e poi l'amore, l'amore, l'amore, la sensazione del suo corpo contro il mio che ancora mi faceva avvampare.

Non mi aveva detto che potevo tornare da lui.

Chissà, magari ero stata davvero lo sfizio di una sera.

Oppure ero stata un errore.

Non me l'aveva neppure proibito.

Andai.

Col cuore che mi batteva a mille, la gola secca, la camicia da notte addosso e la pelle profumata di sapone. Deglutii di fronte alla porta della sua cabina.

La verità è che avrei sofferto se mi avesse invitata ad andarmene.

Mi avrebbe spezzato il cuore.

Bussai, senza garanzie.

Avanti, mi rispose.

Lo vidi quando la porta della cabina si aprì. Vidi la sua espressione, sorpresa, forse un po' emozionata. Vidi il modo in cui si sporse in avanti, involontariamente, il modo in cui tese una mano verso di me. Allora capii. Feci un passo, poi un altro, mi gettai fra le sue braccia. Le sue dita affondarono nella stoffa della mia camicia da notte e lui mi strinse, forte, come se non dovesse lasciarmi mai più. Non ero solo io ad aver bisogno di lui. Entrambi avevamo bisogno l'uno dell'altra. Era una consapevolezza così immensa che davvero per un attimo rischiai di esserne sopraffatta. A sopraffarmi invece fu la sensazione del suo corpo. Mi scostò una delle spalline della camicia e mi posò un bacio proprio alla base del collo. Lo sentii, quel bacio, quasi con dolore.

Elusys, sussurrai.

Voglio toccarti.

E lasciai che la camicia da notte scivolasse via dal mio corpo, gli restai nuda davanti senza alcuna vergogna.

Voglio toccarti, ripetei, e allungai una mano.

Esitando solo un poco gliela posai sul petto. Sentii il suo cuore battere forte sotto le mie dita e ne fui felice. Lentamente lo spogliai, grata che me lo lasciasse fare. Ero tranquilla, gioiosa perfino. Sapevo perfettamente cosa volevo fare, sapevo quale fosse la strada che avevo percorso per arrivare fin lì. Sapevo che mi avrebbe permesso di arrivare dove desideravo.

Restò nudo di fronte a me e solo allora pronunciò il mio nome, Medina.

Medina.

Mh?, risposi.

Mi baciò la fronte, poi le palpebre, lasciò un piccolo morso sulla punta del naso e io sbuffai perché mi fece il solletico. M'accorsi che sorrideva. Gli sorrisi a mia volta e lo baciai sulle labbra.

Non provavo alcun tipo di imbarazzo né avevo alcuna inibizione.

Ero certa che mi avrebbe lasciato fare quel che volevo.

Con la testa poggiata alla sua spalla, gli assaggiai la pelle con la punta della lingua.

Lasciai agire la ragazza che lo amava sopra ogni cosa e che era curiosa di scoprire lui, se stessa e tutto quanto. Lasciai parlare le mie mani. Lasciai che ogni parte del mio corpo lo desiderasse.

Non aveva il corpo di un ragazzo.

Di quello me ne accorgevo bene anche se non avevo mai visto davvero un ragazzo nudo.

Aveva il corpo di un uomo non più giovane, un corpo che l'età aveva solo leggermente appesantito, meno scattante di quello di un ragazzo ma solido come una roccia. Mi era sempre sembrato così, anche quand'ero bambina, ma ora che potevo guardarlo senza l'uniforme addosso m'accorgevo di come fossero curve le sue spalle, appena appena, come se il peso del dolore e dei rimorsi lo stesse fiaccando a poco a poco. Gliele massaggiai, poi lo abbracciai e lo tenni stretto, senza parlare.

Qualcosa che non dimenticherò mai è il calore di quel corpo.

La tenerezza di lui che chiudeva gli occhi, mi si affidava.

Le sue mani che mi percorrevano la colonna vertebrale, si fermavano, a loro volta mi stringevano.

Lui che mi baciava piano, a lungo, profondamente.

Sembra strano pensare a Nemo in questi termini. Sembra strano pensare che un uomo apparentemente rigoroso come lui nascondesse invece un lato tanto affettuoso, tanto dolce, tanto fragile. Avevo avuto senz'altro modo di accorgermene in tredici anni, ma durante i quattro mesi che trascorremmo insieme a Tartesso la sua natura, quella di Elusys, mi apparve lampante. Era un uomo pieno di ferite e di rimorsi, il cui animo già piagato era stato ulteriormente incrinato dal ritorno di Nadia e dai miei stessi sentimenti. Era un uomo dall'animo nobile, e questo lo sapevo. Un uomo capace di provare sentimenti tanto intensi da distruggerlo e capace di indicibili tenerezze.

Gli accarezzai la nuca, le guance. Assaggiai la sua pelle con le dita prima, con la bocca poi.

Lui mi concesse tutto.

Sapevo, naturalmente, chi lui fosse. Che cosa fosse. Dopo di lui, ero la persona che conosceva meglio la civiltà di Atlantide. Mi aveva insegnato ogni cosa. Conoscevo l'Exelion, ero stata la prima a capire che era quello a cui puntava dirigendosi a Tartesso, e sapevo dei poteri curativi delle Pietre Azzurre. Il corpo di Nemo, però, aveva una cicatrice. L'impronta di un colpo di pistola vicino alla spalla, spiccava sulla pelle scura come una luna pallida dai contorni slabbrati. Conoscevo anche la storia di quella. Sapevo che era Gargoyle che gli aveva sparato, mentre tentava di impedire che oltraggiassero il corpo di sua moglie e rubassero la sua Pietra Azzurra. Era stato Raoul a raccontarmela, non Elusys. Elusys non parlava mai di se stesso.

Baciai quella cicatrice e udii un suono sommesso, quasi un singhiozzo strozzato.

Elusys non disse niente ma sentii che si stringeva a me un po' più forte.

Gli sorrisi, gli accarezzai le guance.

Va tutto bene, sussurrai, siamo qui, siamo vivi, siamo insieme.

Quella notte lui per me divenne un odore, un sapore e una forma.

Quelli della sua pelle, che respiravo mentre strofinavo la testa contro il suo collo, che assaggiavo con la lingua e con le labbra, che memorizzavo sotto le dita e con ogni altra parte di me.

Erano sensazioni di cui mi scoprivo affamata, notte dopo notte.

A volte, mentre ce ne stavamo vicini sotto le coperte, mi alzavo per andare in bagno. Dopo tornavo, mi arrampicavo di nuovo fra le coperte e mi accoccolavo fra le sue braccia. Talvolta mi accarezzava la schiena, le natiche, lentamente. Si insinuava in me e io rispondevo con un brivido, perché l'avrei voluto ancora e ormai sapeva esattamente quali carezze mi facessero impazzire. Gli piaceva vedermi così. Gli piaceva da matti osservarmi mentre fremevo di piacere sotto le sue mani, col respiro spezzato e gli occhi lucidi. Gli piaceva, soprattutto, vedermi completamente libera.

La nostra fu una relazione molto carnale, non ho problemi ad ammetterlo. In parte, certo, sentivamo l'esigenza di non sprecare tempo perché non sapevamo davvero quanto ce ne restasse prima dell'ultima battaglia. D'altro canto, però, sarebbe stato probabilmente così comunque. Ci volevamo davvero, io e lui. Anche se avessimo avuto tutto il tempo del mondo, avremmo trascorso ugualmente abbracciati tutte le notti. Per troppo tempo eravamo stati soli, isolati e infelici. Fare l'amore o coccolarci come due ragazzini significava guarirci. Significava leccare le nostre ferite, dimenticare il dolore quel tanto che bastava da capire che non era necessario vivere per quello. Significava assaporare attimi di felicità preziosa, sentire di essere ancora vivi, riscoprire quella vita che credevamo perduta. Per me, in particolare, era come vivere un sogno. Era l'uomo che amavo, l'unico uomo che abbia mai amato, l'unico che abbia desiderato proteggere fino alla fine. Dopo di lui c'è stato mio figlio, nostro figlio, e basta.

Dopo quelle prime notti le cose fra noi iniziarono a cambiare.

Acquisimmo quell'intimità che derivava dallo stare a stretto contatto l'uno con l'altra, imparammo a parlarci liberamente poiché tutti i nostri errori erano dipesi dal silenzio. Lui imparò ad aspettare che io mi svegliassi prima di uscire dalla sua cabina. Imparò a darmi il buongiorno, a baciarmi la fronte, e c'era in questo una tenerezza che non saprei neppure descrivere. Finché una mattina me lo trovai ancora accanto, che mi guardava dormire accovacciata fra le sue braccia, e invece di alzarsi mi strinse ancora un po' e si rimise giù accanto a me. Allora capii che era cambiato tutto, davvero, senza che alla fine dei conti fosse cambiato niente.

Io continuavo a non avere occhi che per lui e lui era ancora il capitano.

Solo che, al contempo, era più sereno.

Sorrideva.

Sorrideva e lasciava che lo toccassi quando eravamo soli, che lo baciassi, che lo contraddicessi e che gli ripetessi quanto lo amavo. Lasciava che gli dicessi che era bello, sbuffava un po' divertito perché non so quanto ci credesse, ma per me era vero. L'ho sempre trovato un uomo bellissimo. Adoravo accarezzargli il bel volto fiero, adoravo i suoi occhi neri, a volte ardenti, a volte dolcissimi, accesi di un amore che stentavo a credere fosse per me. Avrei passato ore a coccolarlo così, a riempirgli di baci il naso, la fronte e le guance, e mi divertivo tantissimo quando me lo lasciava fare con quella tolleranza benevola che si ha verso un cucciolo vivace a cui, sotto sotto, si vuole un gran bene. Io ridevo, ridevo tantissimo. Quando le porte della sua cabina si chiudevano, la sera, quello diventava il nostro mondo privato, in cui eravamo noi due e basta. Un mondo in cui eravamo privi del peso dei nostri ruoli, privi di oneri, in cui potevamo toglierci le divise e starcene ovattati sotto coperte candide o stretti nell'abbraccio dell'acqua tiepida di una vasca e non c'era Gargoyle, non c'erano Nadia né Sana'a né Tartesso né il dolore o la vendetta.

C'eravamo noi, coi nostri corpi e un piacere che sarebbe parso irreale se non fosse stato così vero. Sapeva il cielo quanto ne avessimo bisogno, di capire che eravamo degni di essere amati, degni di amarci, pur con tutto il carico di difetti e paure e colpe. Abbracciammo tutto, ogni angolo di noi stessi, in quei quattro mesi. Ci sbattemmo le nostre fragilità in faccia e le scavalcammo mano nella mano.

Circa Nadia non mi preoccupavo. Non avevo dubbi che lei e Jean fossero ancora vivi, e lei aveva la Pietra Azzurra che l'avrebbe protetta e guidata sana e salva fin dove doveva giungere. Circa Sana'a, la nostra regina, scoprii che ci pensavo io più di quanto facesse lui. A volte capitava che mi chiedessi con che occhi mi guardava mentre stava con me, a chi pensasse quando mi baciava. Erano pensieri sciocchi e infantili, me ne rendevo perfettamente conto. Inoltre non ho mai preteso che la dimenticasse, tutt'altro. Sana'a era una donna e una sovrana che rispettavo e amavo profondamente. Mai avrei creduto di essere degna dell'affetto dell'uomo che aveva amato anche lei. Di quell'uomo desideravo soltanto alleviare il dolore e se poteva, anche solo per un'ora, dimenticare sul mio petto o fra le mie dita o nel mio corpo, allora mi bastava.

Lui fece molto di più.

Mi fece capire che la felicità, quella che credevo perduta per sempre, esisteva.

Accadde in un momento in cui stavamo nella vasca da bagno, quella sua privata, lui poggiato al bordo con la schiena e io seduta tra le sue gambe. Mi accarezzava le braccia, piano, mi lavava la pelle con l'acqua tiepida. Io stavo a occhi chiusi, con la testa accostata al suo collo, ad ascoltarlo respirare. Poi si mosse. Lentamente, come dal nulla, voltò un poco il capo e mi baciò sulla tempia, vicino agli occhi. Indugiò, mi strinse a sé un poco più forte.

Medina, sussurrò come per caso, come a se stesso.

La mia adorata Medina.

Così capii che mi amava davvero.

E capii che il mio solo desiderio era stargli accanto fino alla fine, per sempre.

Dopo, mentre gli asciugavo e pettinavo i lunghi capelli castani, mi chiese di parlargli del futuro che immaginavo. Il futuro, per dire il vero, era qualcosa a cui non avevo mai più di tanto pensato. Era qualcosa che vedevo lontano, impossibile. Perché per noi, con la guerra che combattevamo, era improbabile potesse esistere un dopo.

Gli diedi una risposta banale, ma sincera. Gli dissi che volevo stare con lui, in una casa vicina a quella di Nadia e Jean, così che lui e la figlia potessero recuperare almeno in parte il tempo perduto. E tu? Mi arrischiai a chiedergli. Che futuro vorresti?

Ci pensò un po', tanto che dubitai avrebbe risposto.

Poi mi prese una mano, se la portò alle labbra.

Usò il presente.

Voglio sposarti.

Perché non sapeva dove stesse il futuro.

E mi sposò davvero.

Una settimana dopo, nella quiete di quella stessa stanza.

Quando mi mise al dito una fedina d'argento ricordai qualcosa che avevo creduto di aver dimenticato. Lui, Elusys Ra Arwol, in quanto discendente della famiglia reale di Atlantide era anche sommo sacerdote della nostra religione, custode delle Pietre Azzurre e, in un certo senso, divinità egli stesso.

Quando mi mise la fedina d'argento al dito, mi abbracciò e mi sussurrò all'orecchio le frasi di rito della nostra civiltà, nella nostra lingua madre. Mi legò a sé con un vincolo indissolubile. Legalmente era un matrimonio che non avrebbe mai avuto valore, ma per noi significava tutto.

Mi mise la fedina d'argento al dito e io piansi, stretta a lui come una bambina.

Aveva sul volto un sorriso che non dimenticherò mai.

Ti amo, mi sussurrò.

Ti amo, mia Medina.

 

 

 

 

N.d.A. Niente da fare, io di questi due non mi stancherò mai. E niente, si tratta di nuovo di una variazione sul tema delle solite scene, perché sì. Doveva essere anche molto più breve e invece sono uscite una ventina di pagine. Anticipo che ho già in mente la prossima, che sarà però narrata dal punto di vista di Raoul perché mi sembra giusto dare un po' di spazio a lui che è sempre stato il capitano della ship fin dal primo momento.

Per il resto sto plottando allegramente la long seguito ideale della storia, che ormai penso scriverò sul serio e che avrà per protagonista Etienne, che chi ha letto “I giorni dell'amore” sa essere la mia versione del figlio di Electra e Nemo. Lui sarà il protagonista ma conto e spero di dare il doveroso spazio anche a tutti gli altri personaggi, specialmente a Nadia e al suo rapporto col fratellino minore.

Fatemi sapere che ve ne pare! A presto!

 

Vitani

 
   
 
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