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Autore: Restart    09/03/2018    0 recensioni
2003
Sarah Habbott ha vent'anni ed è all'inizio del suo ultimo anno alla Queen Mary.
Non ha ancora deciso che lavoro fare, che vita cominciare.
Ha un'ipotetica vita da favola, ma in realtà non è tutto rose e fiori. Soprattutto quando viene a sapere che al posto della sua adorata professoressa di letteratura è arrivato uno sfigato epico, uno che va a giro in bicicletta, che ha un ridicolo accento scozzese e aspetto piuttosto insipido.
Nessuno sa il suo nome, si conosce solo come Il Professore.
Ma in lui c'è qualcosa di molto più profondo, che Sarah scoprirà man mano che il tempo passa.
Genere: Commedia, Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Sarah
 
«Sarah, ho bisogno di un consiglio» la voce di mia sorella sembra quasi un pigolio. Ha la porta di camera sua socchiusa e sta facendo vedere solo la testa. «Puoi venire a darmi una mano?». Sbuffo e malvolentieri la vado ad aiutare, ma mi fermo sulla soglia. In camera sembra esplosa una bomba. Tutti i suoi vestiti sono sparsi da ogni parte, mentre lei indossa solo l’intimo. È disperatissima, non sa come fare. Si mangiucchia le unghie già corte di suo e i suoi capelli sono raccolti in una coda spettinata.
«Non so che mettermi. E sono in ritardo. Sono nella merda fino al collo» . Si accascia a terra e continua a fissarmi ansiosa, con un espressione che mi fa sfuggire un risolino divertito.
«Non ridere, stronza» mi ammonisce puntandomi il dito magrissimo contro. «È la prima volta per me, lo sai benissimo. Per questo, sei profondamente pregata di aiutarmi». Cavoli, non ho mai visto mia sorella così agitata. Deve essere qualcuno di veramente significativo per lei, la mia sorellina.
«Lo conosco?» chiedo e lei sembra indugiare. Mi guarda a lungo negli occhi e poi annuisce.
«Dan» bisbiglia, finalmente abbassando lo sguardo e a me scappa una risatina.
«Dan? Dan Hooper? Daniel Brufolo Hooper?»
«Non lo insultare Sarah. Non essere così cattiva. È cambiato molto in questi sei anni» risponde rapidamente, stringendo le sue sopracciglia in un cipiglio rabbioso. «Ho sbagliato a chiederti aiuto. Vattene, dai» mi spinge fuori dalla porta.
«E dai, stavo scherzando, lasciati aiutare Holly» lei smette di spingere e mi guarda in cagnesco. «Ti lascio rientrare solo perché sei l’unica che potrebbe aiutarmi… ma che odore hai addosso?»
«Che cavolo dici?» cerco di annusare la manica del mio maglione e anche se per qualche istante non lo sento, poi piano piano quel profumo pungente mi entra nelle narici. Il suo profumo è addosso a me, nonostante non siamo mai stati troppo vicini. Eppure eccolo, inebriante, buono, ma allo stesso tempo soffocante. Una parte di me vorrebbe che se ne andasse, l’altra no. L’altra vorrebbe che se ne stesse ancora lì, tra le trecce della lana.
«Con chi sei stata oggi pomeriggio, eh?» mi domanda, ma io non voglio rispondere. Le faccio cenno di lasciar perdere e di concentrarci sul problema più grosso, ossia cosa si sarebbe messa quella sera per uscire con Bru- ehm, Dan Hooper.
Ora, vi chiederete chi sia. Beh, è il nostro ex vicino di casa. Un bimbo con dei tristissimi capelli color topo e due occhi grandi e sempre fissi su ogni cosa, come due telecamere. Un nerd fin da piccolo, un bambino fin troppo intelligente per la sua età. E troppo sfortunato, purtroppo. Dopo il divorzio dei suoi si è dovuto trasferire in Irlanda col padre, poi sua madre è morta. Insomma, non è che la sua vita sia andata un granché. Ma ormai sono sei anni che non lo vedo, forse ha ragione lei.
Ci mettiamo a sedere sul letto con le spalle al muro e guardiamo l’insolito disordine della camera. La osservo con la coda dell’occhio e percepisco la sua ansia.
«Sembra molto importante, giusto?» Non risponde, si limita ad annuire lentamente, continuando a cincischiare il bordo della coperta. Allora mi si accende una lampadina in testa. Mi alzo di scatto e corro nella mia stanza. Ritorno pochi secondi dopo con in mano il mio abito rosso. È lo stesso che indossavo la sera del mio primo appuntamento con Micheal, quasi quattro anni fa. È semplice, leggero, stretto in vita  adatto per lei che è senza seno.
«È Jimmy, non ci credo» si mette le mani sulle guance imitando un verso di stupore. È stata proprio lei a chiamarlo Jimmy, ma non mi vuole dire il motivo. «Non ho mai pensato che tu potessi farlo vedere a qualcuno, figuriamoci indossarlo. Che grande onore conoscerti Jim» prende la stoffa della gonna e la stringe tra le sue dita ossute. Quando alza lo sguardo, noto che c’è un velo di lacrime a coprirgli gli occhi. Mima un grazie e io rispondo con un cenno del capo.
«Dai, muoviti che a momenti arriva.» la esorto sorridendo, mentre me ne vado, finalmente orgogliosa di una mia azione.

 
 
Holly

Sarah mi ha aiutato a sistemare i capelli e a passarmi un filo di trucco sul viso. Mi ha sussurrato che sono uno schianto e che Brufolo Hooper sverrà, appena mi vedrà. Ma adesso che sono da sola, qui davanti al grande specchio del corridoio di casa mia, mi sento la solita goffa Holly. Quella bimbetta che da piccola era derisa per il monociglio e per la sua sfrenata passione per il calcio. Non avevo amiche femmine, fatta eccezione per Jackie. La nostra amicizia non ha nemmeno avuto un proprio inizio. Siamo sempre state vicine, sempre. Non ricordo un momento della mia vita senza di lei.
Mi passo la mano lungo le pieghe dell’abito sconsolata. Non mi sento bene, non mi sento a mio agio con questo vestito. Faccio un passo verso le scale per andare in camera mia quando sento il terribile suono del campanello. Eccolo, è qui. Sento i passi di mio padre al piano di sotto dirigersi verso la porta e il mio stomaco si stringe per l’ansia. Non volevo che lo vedesse, non volevo che facesse quei cinquanta passi che separano la strada dal portone d’ingresso.  Sarebbe dovuto rimanere in macchina, io sarei uscita con una scusa senza farmi vedere e sarei andata da lui. Invece no. Non mi ha ascoltato.
«Sei qui per Hollie?» Chiese sospettoso mio padre. Dopo qualche secondo di titubanza rinuncio all’idea di cambiarmi e corro al piano di sotto, prima che gli faccia un interrogatorio. Faccio di fretta le scale, evitando di inciampare con questi stivaletti (anch’essi di Sarah) col tacco, attirando così l’attenzione su di me. Sorrido sornione appena lo vedo. È così carino con quei jeans e con quella camicia azzurra.  Con la coda dell’occhio noto anche l’espressione corrucciata di Ron, che non capisce, o forse non vuole capire.
«Andiamo?» suggerisco, avvicinandomi a lui. Salutiamo velocemente mio padre, che è rimasto impassibile.
«Ti avevo detto di aspettarmi in macchina» lo rimbecco non appena usciamo dal cancelletto del giardino.
«Ti stavo aspettando infatti. O almeno, ti ho aspettato per quaranta minuti. Ma tu non arrivavi.» risponde sinceramente e io non posso fare a meno di arrossire. Sono costantemente in ritardo e penso  questo sia uno dei miei più grandi difetti. M’impegno ad essere in orario, ma tanto so che sempre, anche la cosa più piccola può distrarmi. E così perdo tempo e arrivo tardi agli appuntamenti. Sempre.
«Ma aspettare quaranta minuti ne è valsa la pena, sei uno splendore» deve essersi conto del mio senso di colpa e ha cercato di rimediare con una frase sdolcinata… che volete che vi dica? Con me le frasi sdolcinate funzionano sempre. E il mio arrossire ne è il testimone. Sussurro un timido grazie ed entro in macchina, cercando di nascondere il viso. Lui si mette al volante e poi mi guarda sorridente.
«Ti porto in un posto magnifico» mi dice e poi accende il motore. 
Mi porta a teatro.  A vedere Les Misérables. Se ne è ricordato, allora. Glielo avevo detto la sera che ci siamo rivisti, quest’estate al compleanno di Jackie, che è sempre stato il mio sogno andarci. Non credevo che se ne sarebbe mai ricordato visto che eravamo entrambi un po’ brilli.
Siamo seduti accanto, nel palchetto, ma siamo entrambi troppo timidi perfino per guardarci. Un silenzio angosciante e imbarazzante cala tra noi. Per fortuna lo spettacolo comincia. E improvvisamente io mi sento catapultata nella Parigi agli inizi del 1800. Ci sono anche io, sento quello che sentono i personaggi. Sento tutto il dolore di Fantine convertirsi in lacrime. Con la coda dell’occhio lo guardo: anche lui sta piangendo. La mano, poggiata sulla coscia destra, gli trema visibilmente. Ed è quando vedo questo che faccio una cosa inaspettata. O meglio, inaspettata per me. Allungo la mia e gliela stringo forte. Lui sussulta, quasi impaurito dal mio gesto. Cerco di sorridergli, per quanto mi sia possibile, visto i lacrimoni che non esitano a scendere copiosi, rovinandomi il trucco. Anche lui sorride dolcemente. È così carino. Avvicina a me e mi pulisce il volto con i pollici, facendo scivolare poi i palmi dietro la nuca. Rimane lì, la sua mano, fredda, calda, non lo so nemmeno. Sento un pizzicorio fastidioso che parte dalla punta dei capelli e arriva fino ai piedi. Non so spiegarmelo, e questo m’infastidisce.
Ci fissiamo a lungo, lasciando lo spettacolo al suo ruolo di mero sottofondo. La voce straziante di Fantine è solo una richiesta d’aiuto lontana, ovattata. Mi sembra di essere sola con lui, che tutto il mondo attorno sparisca, o semplicemente non importi. Tutto passa in secondo piano. Adesso c’è solo lui, ci sono i suoi occhi grigi, grandi, tristi, come sempre, le sue labbra arricciate in un sorriso che va piano piano scomparendo. Mi rendo troppo tardi di essermi fermata fin troppo sulle labbra. Improvvisamente le ritrovo sulle mie, dolci, passionali, e finalmente il pizzicorio scompare, come se mi stesse dicendo che va tutto bene, che questa cosa va bene. Il mio primo vero bacio. Mi toglie il respiro, mi sento affogare, ma allo stesso tempo, mi sembra di tornare a respirare di nuovo dopo un periodo di tempo lunghissimo.
La sua mano, che prima si trovava dietro la nuca ora è scivolata nell’incavo tra le scapole. Lo stringo, lo abbraccio forte, non voglio lasciarlo andare. Voglio rimanere così per sempre, vicino a lui, a baciarlo, a guardarlo negli occhi.
All’improvviso si stacca. E sempre all’improvviso torno al mondo reale.
Per il resto dello spettacolo non diciamo niente, rimaniamo solamente abbracciati, immersi nel musical. 
La serata fila liscia come l’olio. Andiamo a cena in un locale veramente carino e accogliente, ma soprattutto dove c’è un tepore che fa rinsavire i miei piedi che avevo smesso di sentire di funzionare qualche minuto fa.
Dan è veramente una persona dolcissima. Per tutta la sera ho la testa tra le nuvole, mi sento persa nel suo sguardo, persa nelle sue parole. Non riesco a capire cosa significhi questa stretta allo stomaco. Non lo so, non riesco a classificarlo e questo mi fa imbestialire. Voglio conoscere ogni mio sentimento, voglio poterlo controllare. E invece no, con lui mi sento in questo turbine che mi scuote, che mi sbatte, che non riesco a fermare. Mi chiedo se questa sia la cosa di cui tutti parlano, questo amore di cui ci riempiamo sempre la bocca. Questo amore che illumina gli occhi di mia sorella quando parla di Mike. Questo amore che fa divenire più evidente quella vena sulla fronte di mio padre quando incrocia gli occhi di mia madre. Quando si sono lasciati credevo che il loro amore fosse finito, invece no, lui la ama sempre così tanto. E io fino a questo esatto istante non lo avevo mai capito. Ma ora sì. Se Dan dovesse andarsene, soffrirei in silenzio, lo odierei in silenzio, ma urlerei ancora il mio amore per lui con ogni parte del mio corpo. Il mio sguardo sfugge sulle nostre mani che si stringono dolcemente sul tavolo.
Lasciatemi in questo posto meraviglioso. In questo momento meraviglioso.

 
 
2014

Oliver mi fissa con i suoi occhioni grigi. La sua manina paffuta mi accarezza la guancia e io gli faccio il solletico sotto il mento. Lo guardo ridacchiare contento. Io lo sono un po’ meno. Vedo la fossetta formarsi sulla sua gota piena. “La sua fossetta”, mi ritrovo a pensare.
Cerco di scacciare dalla mia mente quell’immagine gelida, cristallizzata nella mia mente. Una parte di me è arrabbiata con quella piccola creatura che in realtà non ha fatto niente di male. Ma gli ha rubato tutto. Lo sguardo, il sorriso, il naso. Non sono suoi. Non gli appartengono.
Mi ricordo la prima volta che lo vidi, avvolto in quella copertina azzurra, con quella faccina tonda e rossa. Mi ricordo della rabbia e del dolore che provai appena aprì gli occhi e mi mostrò le sue iridi grigie. Lo volevo dare via, non lo volevo più vedere.
Quel giorno non passai molto tempo insieme a lui. Stette quasi sempre tra le braccia di Sarah oppure di mio padre finché Jackie non arrivò, trascinandosi dietro Eva.
Mi abbracciò stretta e finalmente potei piangere tutte le lacrime che mi tenevo dentro. Mia madre, stupidamente, pensò che fossero lacrime di gioia. Ma non riusciva nemmeno a immaginare tutto il dolore che stessi provando in quel momento. Quel bambino era la sua copia. Tutto in lui mi ricordava dell’altro. E solo in pochi lo capivano. E tutt’ora in pochi lo capiscono.
«Mi manca Jackie, mi manca da togliermi il respiro» avevo singhiozzato sulla spalla della mia migliore amica. Lei non rispose, si limitò a stringere ancora più forte.
E ancora oggi, dieci mesi dopo, la sensazione è la stessa.
   
 
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