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Autore: gowanI    13/03/2018    0 recensioni
Mi sono ritrovato in un mondo sconosciuto, in cui ho incontrato esseri solo apparentemente simili a me.
Questo è infatti il primo problema: sono l'unico essere umano vivente in questo pianeta.
Il secondo è che per sopravvivere sono costretto alla convivenza con un megalomane.
Il terzo è che mi sento solo ma le femmine quaggiù sono terribilmente difficili.
Il quarto è che mi trovo reclutato con modalità abbastanza antipatiche nella caccia ad un essere misterioso e, per quel poco che ne sappiamo piuttosto pericoloso.
Se volete sapere qualcosa di più delle mie disgrazie, vi attendo a Tethrinamon.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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                                                                                       FRAMMENTO  DEL  SANGUE

 

 

 

                                                                                                     Juan Nogueira



                                                                                                    Capitolo primo

 

 

 

Benvenuti… Io sono Gowan.
Sarò la vostra guida.
Non siate sorpresi. Sono la persona giusta per il vostro primo giorno nel nostro mondo.
E' stato mio figlio a mandarvi da voi, quando ha saputo dove eravate diretti. Questo vi basta?
Sono lieto di incontrarvi… Vi vedo sereni, sicuramente il vostro viaggio è stato più tranquillo di quello che ho fatto io tanto tempo fa. Quando ero solo un essere umano.
Ve ne hanno già parlato? Ah beh.. presumo allora di essere diventato un personaggio interessante! No, tutti i particolari della mia vicenda non potete conoscerli ancora, ma la strada per il villaggio è lunga, avrò modo di soddisfare ogni vostra curiosità… andiamo?
Fate bene attenzione a seguirmi, perdersi in questa selva è un gioco da ragazzi, non vorrei dovervi cercare ad uno ad uno. E spalancate bene gli occhi; state per assistere ad uno spettacolo come non ne avete mai visti. Vi dirò intanto che la luce che dà vita a questa foresta non è come quella che conoscete nella vostra terra. I suoi riflessi non sono bianchi e dorati, ma verdi ed oscuri. Ogni raggio di sole filtra dai rami robusti di alberi dalla circonferenza immensa e il profumo della terra e di mille arbusti e fiori impregna un'aria quieta, in cui vivono tranquille creature figlie di un’oscurità secolare.
Qui il mezzogiorno non brucia mai; è un'ora in cui le ombre sono leggermente più fonde, e la notte è solo un addensarsi di brume onnipresenti.
Direi che una certa sensualità aleggia ovunque, se le parole avessero ancora, qua, il senso che mi avevano insegnato a dare loro originariamente. Quando io ed Irkayn a metà giornata ci sediamo a fumare davanti alla porta della sua casa, lasciando scorrere il tempo e chiacchierando, non esiste volta che lentamente l'incantesimo della natura e dei suoi colori, delle sue essenze, appena fuori dalle mura del paese, Tethrinamon, non mi catturi la mente. Allora anche io divento un vero figlio di questa selva e non rimpiango assolutamente nessuno degli sbiaditi ricordi della realtà da cui provengo, della mia vita anteriore. Se anche ne fossi in grado non vorrei conservare immagini precedenti al momento in cui i miei piedi iniziarono a percorrere, in esile equilibrio, un tronco sottile, proteso sopra un abisso profondo e lanciato da una sponda all’altra come una freccia.
Quell'arco ligneo superava l'abisso con la grazia aerea ed indifferente del salto di un destriero. Le sue radici, da un lato dello strapiombo, si allacciavano alla roccia con forza, affondandovi profondamente; dall'altro le sue fronde si mescolavano in complessi intrecci alla vegetazione che vi cresceva.
Come vedete non ho dimenticato niente, neppure un dettaglio, dei primi istanti della mia nuova esistenza, quando inconsciamente già mi chiedevo come fossi finito là e chi o cosa mi aveva costretto a salirvi sopra. Tutto quello che riuscivo a ricordare era una lunghissima, terrificante caduta. Avrei potuto guardarmi indietro, verso il punto dal quale, forse, provenivo… ma il mio istinto mi diceva di non farlo, di scegliere di non vedere. Non sapevo niente di me in quell’intenso, alienante attimo che fu per me una vera nascita; e ben poco di più ho poi saputo, se non quello che mi è stato riportato da altri. Sicuramente non fu la volontà a farmi precipitare lontano dal mondo da cui venivo con un volo spaventoso; angelo caduto, o demonio in esilio, cosa io fossi non so, deciderete voi quando avrò concluso la narrazione di questo… di questo mio “viaggio”…in realtà passaggio dal nulla al nulla, dall'oblio immanente nella coscienza alla sensazione della carne, appena nata e subito violata e tormentata.
Ecco, da qui si possono già scorgere i tetti delle case del villaggio. Affrettiamo il passo, ho fame e sento anche i vostri stomaci borbottare in modo poco amabile. Tra cinque minuti al massimo vi mostrerò la mia casa, o meglio, quella del pedantissimo amico che dal giorno della mia caduta mi ospita.( Anche se a volte lui preferisce parlare, riferendosi a me, di “infestazione”… sì… non è sempre gentile e raffinato come sembra, il caro Irkayn).
No, nessuno vi fermerà o vi farà domande all’ingresso del borgo; ci siamo abituati ai visitatori. Le cose sono molto cambiate. Sapete che ho un po’ di nostalgia dei vecchi tempi?
La nostra casa è la prima che vedrete entrando. La noterete per le pareti di pietra nera, su cui salgono rampicanti di rose bianche a non finire. Osservate il colore particolare di quei fiori più piccoli, che con decine e decine di viticci si stringono ai loro fusti, quasi accarezzandoli, e sfuggono nell’incavo del loro abbraccio al fulgore del sole; quel viola scuro non è certo casuale. Le abbiamo volute noi così, sono “le rose del Vespero”.
Vi racconterò dei miei primi ricordi, comunque. Mi condussero qua in uno stato mentale confuso, con il corpo ancora pressato dal dolore. Eppure, per quanto provato, si mescolarono subito nei miei sensi lo stormire degli alberi ed il profumo dei fiori di questo stesso giardino che state adesso ammirando… accompagnato da queste due taumaturgiche sensazioni, come angeli alle mie spalle, varcai la soglia che anche voi state oltrepassando in questo momento.
Io non ho memoria della mia vita precedente, come vi ho detto. Quello fu per me, appunto, il momento della nascita… sono stato presente ai miei primi passi in questo mondo, come se fossi un po’ il padre di me stesso. Perdonatemi quindi se talvolta mi concederò alcuni istanti di silenzio, e magari mi perderò nei ricordi. Dicevamo?
Ah… entrate tranquillamente, nessuno dei miei compagni è a casa adesso. Sedetevi pure in cucina e servitevi di quel buon vino caldo che ho lasciato sulla tavola per voi; a me basterà solo il tempo per caricare bene la mia pipa preferita.
All’inizio ci fu solo la sensazione di cadere. O, esattamente, di essere trascinato dal vuoto verso l’alto ed il basso contemporaneamente. Ma le direzioni in cui venivo smembrato erano in realtà molte più di due.
Non esisteva più per me la nozione del tempo, in modo che potessi dire da quanto stessi precipitando, né una sola luce che mi permettesse di calcolare una minima distanza. Freddo, forse, che si mescolava alla sensazione cocente del terrore ed agli artigli di QUALCUNO che sicuramente mi era vicino, ma invisibile, e mi pungeva assalendomi da ogni parte. I suoi aculei sottili mi trapassavano arrivando in profondità, scavavano famelici la mia carne per poi ritirarsi in vista di un nuovo assalto. Probabilmente stavo per essere divorato, alla fine di quella discesa infernale. Se questa è la morte, mi dicevo nei pochi momenti di lucidità, molto più dolce non nascere mai.
Poi una bolla mi inglobò all’improvviso mozzandomi il respiro. Mi sentii pervadere da una tensione continua, come una corrente elettrica che mi scuotesse incessante, senza mai trovare un punto d’uscita. Ero diventato una sorta di polo magnetico, perché QUALCOSA iniziò a turbinarmi intorno, avvolgendomi e soffocandomi. Era come una scia farinosa. Le sue particelle avvicinandosi si amalgamavano formando un nastro pastoso che chiudeva la mia bocca, le mie narici, ogni poro del mio corpo. Soffocavo senza soffocare, quando in realtà non potevo respirare, PERCHE' NON AVEVO UN CORPO CHE POTESSE MORIRE.
Poi quel corpo inesistente iniziò a gonfiare fino ad aderire alle pareti vischiose della bolla, che resisteva a tutti i miei sforzi di aprire un varco per scappare. Vi sembra troppo, vero? Rincuoratevi, perché alla fine la bolla si infranse ed io ricominciai a cadere.
Ma il freddo che sentivo in quel momento aveva un'altra natura, era vivo, si contorceva e mi lottava contro. Più che cadere avevo l'impressione di ergermi nudo davanti ad un'immensa caverna da cui uscivano gelide, rabbiose folate di vento, il respiro ghiacciato di qualche oscuro essere che cercava di respingermi indietro, nello spazio vuoto della paura e della sofferenza.

ENTRARE NELLA CAVERNA, gridava la mia volontà.

Strisciai per ore prima di arrivare, rannicchiandomi a terra nell' impulso istintivo di radunare le forze. Quando ne ebbi violato il grembo, rotolandomi al suolo come un infame verme, l’oscurità si dissolse e qualcosa ripartì con uno scatto improvviso.
Apparve la luce, apparvero immagini ancora troppo vivide per i miei occhi semiciechi. Il mondo si ricreò intorno a me, il tempo riprese a scorrere mentre io continuavo a tremare. Ero sospeso sull'abisso, steso inerme sopra quell' esilissimo braccio ligneo che univa la parete di roccia dietro me alla terra fresca ed umida della foresta davanti ai miei occhi. Il vuoto mi sibilava sotto, lo sentivo benissimo; sibilava e mi chiamava. Tutto era immobile; tuttavia il moto altalenante di quel richiamo, che attraversava la mia mente e si ritirava come un' onda, mi dava le vertigini, soffocando la mia gola in un vortice di nausea. Mi sollevai oscillando, ancora immerso in quel delirante incubo; poi corsi, corsi verso gli alberi, gettandomi sopra l'erba, ansiosamente stretto dal bisogno di toccare qualcosa di fermo e solido, sfuggendo alle spire del nulla.
Ero fuori dal pericolo... eppure non mi bastava la distanza percorsa, l'orizzonte terso che splendeva sopra di me mi sovrastava come un'ulteriore minaccia, smisurata e terribile come l'abisso da cui ero scappato. Avrei voluto muovermi, ma ogni forza dentro di me si era esaurita con quella corsa stremata. Avvertii vicino suoni rauchi, animaleschi; si tramutarono in una risata bassa, primordiale, quando mi accorsi che era stata la mia bocca ad emetterli.
Non riuscivo ad alzarmi? Avrei continuato a strisciare! Ansimando mi allontanai dallo strapiombo, smuovendo il terreno fino a lasciare un profondo solco là dove passavo. Mi fermai solo quando l'ombra del bosco mi coprì totalmente, lasciandomi cadere seduto contro la corteccia di un' albero gigantesco. Il mio respiro raggiunse lentamente un ritmo normale, permettendomi di avvertire l’immensità del silenzio di quel luogo, che dominava ovunque, arcano e maestoso. Il sibilo del vento scivolava leggero tra fronde ed erba svolgendo volute invisibili, fino a che non mi raggiunse il suono di passi poco distanti.

Si avvicinarono in tre lungo la striscia polverosa del sentiero. I miei occhi si serrarono quando mi accorsi che erano a pochi passi.

L' unica sensazione che conoscevo in quel momento, la paura, mi portava a desiderare di evitare quel contatto. Avrei voluto nascondermi, ma ero distrutto, senza forze. Sentivo ancora la morsa del buio senza confini, dove un tempo imploso su se stesso aveva disintegrato ogni mio ricordo lasciandomi spezzato dentro. Avevo in mente solo la furia gelida sovrastante sopra di me, la caduta inarrestabile a cui non avevo potuto opporre resistenza. La tempesta era forse cessata, ma io mi limitavo a giacere come un gabbiano a cui avessero strappato le ali.
Il dolore partiva dallo stomaco, dalle viscere, e si estendeva a tutto il resto del corpo, pulsando disarmonico come un cuore ferito. Tentavo di attenuare quei lampi di sofferenza che mi scivolavano dentro come gocce di acido per poi schiudersi come fiori maligni chiudendomi su me stesso come un’ istrice. Freddo e nausea mi incatenavano i sensi impregnandoli; tenevo le palpebre abbassate credendo di conquistare in quel modo una stasi nella mia precedente agonia. Temevo che aprire gli occhi sarebbe stato magari rinascere ad una lentissima morte.

Fu il mio udito a tendersi, vigile, ed a cogliere ogni particolare di quelle presenze ormai prossime.
Voci che si alzavano tranquille, una cantilena gioiosa.
La melodia di un canto femminile. Una seconda percezione, meraviglia, sorpresa, entrò nuova nella mia mente.
Sollevai appena il capo, avvertendo ancora le pulsazioni lancinanti di una fascia di nervi doloranti che mi attraversava il collo, e vidi per la prima volta la foresta, il suo manto di smeraldo, il pensoso fremito degli alberi, le fiammelle lucenti del riverbero solare tra i rami.
Tre macchie brune crebbero, avanzando dentro lo sciame di colori in fondo ad una radura lontana fin quando ci potemmo scorgere a vicenda; una madre che teneva i propri piccoli stretti al fianco, le piccole mani che ghermivano le sue dita, intrecciate insieme come steli in un arbusto intricato di rose. Si fermò ad osservarmi mentre la voce, gentile ed esitante, scivolava fuori dalle sue labbra, dominata dall’impossibilità di inquadrare lo strano essere che aveva davanti, abbandonato come una marionetta tra le grosse radici di un ontano.
Nel suo linguaggio sconosciuto, che a me suonava come un’acquosa armonia, mi blandii ancora due o tre volte…
Strano. Non capivo il senso delle singole parole nelle sue frasi, ma questo mi permetteva di afferrare meglio le sue emozioni, i timori che sentivo vibrarle dentro. Poche sillabe, acuto uncino con cui cercava di infrangere il mio silenzio, la mia stanchezza.
Era in piedi, intercettando la luce che veniva dall’alto, da quel labirinto verde lussureggiante, dissolvendosi sul terreno in un tappeto di coriandoli colorati. Osservavo il suo volto e non vedevo nulla di familiare negli occhi leggermente a mandorla, nel suo naso piccolo e diritto, nella sua pelle color dell’ambra. Non ricordavo niente, non avevo neppure cognizione sicura di come dovesse essere la mia faccia, ma presentivo che quella creatura fosse di una razza diversa dalla mia.
Le rivolsi una smorfia di diffidenza, prima di chinare ancora la testa tra le braccia. Altri arrivarono, e nessuno si avvicinò a me più di quanto si fosse avvicinata la giovane madre, che intanto era arretrata leggermente, un passo dopo l’altro. Uno di loro, più alto, sembrava avere autorità sul piccolo gruppo; mi osservava con tristezza e qualcosa che poteva, sì, avrebbe potuto essere comprensione… ma perché ero là, tra esseri di una razza che non avevo mai visto prima? Chi mi aveva trascinato in quel luogo? Loro? O qualche loro simile? Cosa ero, cosa stavo facendo prima di giacere così stordito, come se fossi la preda sfuggita miracolosamente ad una lunga caccia?
Mi invitarono a gesti a seguirli, ma mi rifiutai. Solo quando si allontanarono da me per inoltrarsi tra gli alberi la paura di rimanere solo mise a tacere la diffidenza che mi ispiravano quegli esseri così strani. Li seguii sempre mantenendo una certa distanza e mai camminando in linea retta, come un animale selvatico. Notai che, stranamente, il mio corpo era privo di ferite o contusioni. Avrei potuto pensare che tutta la mia precedente esperienza fosse stata un’allucinazione se i miei vestiti, o quello che ne rimaneva, non fossero stati ridotti a piccoli brandelli. Come se, appunto, fossero stati lacerati da qualche animale. Ma perché allora ero illeso?
Le mie guide, mentre ero intento a farmi queste domande, erano intanto entrate nel fitto del bosco. Ridussi la distanza tra me e loro per non perdermi, fino ad affiancarli. I piedi, che solcavano il terreno senza nessuna protezione, cominciavano a farmi male. Il cammino verso le case di quelle che io non potevo definire altrimenti che “le creature” non fu breve; due o tre volte si fermarono a farmi riposare, offrendomi acqua ed un liquore leggero dello stesso colore della birra ma più dolce, che uno di loro portava dentro una grossa borraccia messa a tracolla sulla schiena.
Iniziai a udire lo scroscio di un fiume ancora invisibile. Il suo percorso doveva trovarsi molto più in basso del nostro sentiero. Ecco, mi sarebbe piaciuto tuffarmi in quelle acque fresche, togliermi i brandelli di tessuto che mi pendevano addosso e dare refrigerio alla pelle. Mi avrebbero vestito come loro? I maschi del piccolo corteo erano uniti da una strana uniformità, portavano quasi esclusivamente tessuti di color nero, e quello che sembrava essere il capo, una collana d’argento con perle incastonate. Ciascuno dei tre aveva con sé una grossa bisaccia semivuota, che mi faceva supporre che fossero reduci da una marcia di alcuni giorni, ma non avevano armi con loro, a parte una lancia ciascuno. Un arco con faretra pendeva dalle spalle di quello che esercitava autorità sugli altri due; il ragazzo biondo che mi aveva osservato con pena quando mi avevano, diciamo così, “rinvenuto”.
Gli altri due, che a malapena mi consideravano, erano di ben poco più anziani, con capelli rossicci, alti e massicci nella corporatura. L’esiguo corredo di cui si erano muniti per il viaggio mi faceva intuire che quelle terre fossero pacifiche, e chi mi accompagnava privo di nemici naturali. La voce del torrente era adesso divenuta più forte, come se la distanza che ce ne separava fosse ormai esigua: il bosco si era fatto meno fitto, segno che ne stavamo uscendo. Vedevo una valle profonda alla nostra destra, monti oltre il suo dislivello ed una montagna altissima in fondo, con un diadema di ghiacciai sulla vetta.
La strada divenne leggermente più ripida e dritta; eravamo diretti là dove il fiume si piegava a gomito lungo la propria corsa, scendendo dalla parte opposta a quella da cui provenivamo. In quel punto si trovava un villaggio, tutto racchiuso in un recinto di palizzate. La madre ed i suoi piccoli erano scomparsi; sicuramente ci avevano preceduto, non avendo effettuato nessuna delle nostre soste. Io intanto ero riuscito a recuperare un po’ di forze; affrettai il passo verso quella che sembrava essere la tappa finale. Avvertivo il fluire di una tranquilla energia, emessa forse da quelle creature o da qualcosa che mi circondava; una forza misteriosa e benefica.
Ero in presenza di qualcosa di sconosciuto, ma adesso le mie reazioni erano quelle di un bambino, curiosità ed impazienza. Condividevo lo stato d’animo di un animale sempre vissuto in cattività, che si vede spalancare davanti uno spazio immenso, senza catene od ostacoli.
C’era qualcosa, in quel mondo ed in quella gente, che ti faceva stare bene anche quando tu non volevi. Ricordo ancora adesso la brezza dolce che scendeva veloce dalla cima del monte e arrivava a sfiorarti come una carezza tra i capelli, mentre un mare di foglie stormiva al suo passaggio.
Chiusi ancora gli occhi, non più per paura ma per fermare nei ricordi quei momenti. Quando li riaprii altre cinque paia di occhi mi stavano osservando: cinque creature che sostavano davanti all’arco d’ingresso al paese, sempre abbigliati con quegli abiti neri con intarsi d’argento.
Seduti sopra una lunga panca di pietra ed intenti a scambiarsi da una bocca all’altra due sole pipe, confabularono con i miei tre accompagnatori di un argomento per niente misterioso; era della mia inspiegabile apparizione che parlavano, lo capivo benissimo. Sembrava comunque che la voglia di occuparsi del mio destino fosse per quelle sentinelle rarefatta come il fumo che soffiavano a larghe volute dalle narici.
Uno di loro mi segnò a dito, poi scrollò le spalle ed indicò una grande casa nera all’inizio del villaggio, tornando poi a preoccuparsi che la divisione dei turni per fumare fosse equa.
Così non restava che scoprire chi vivesse nella casa che avevano indicato.
Varcammo la soglia del grande cerchio ligneo che racchiudeva bellissime dimore, disposte, come avevo visto dall’alto, senza uno schema apparente. Le porte si aprivano in diverse direzioni; non si scorgeva né una piazza né altro luogo che fosse fulcro di vita comune. Tra le case vedevo soprattutto giardini ed orti, separati solo da sottili sentieri per il cammino. E tanti, troppi alberi di salice.
Uno di questi alberi, ad esempio, notevole per imponenza, si trovava nel giardino della casa verso cui eravamo dove eravamo diretti. Seduto sotto quel salice c’era un ragazzo intento a leggere un libro.
Quelle creature sembravano tutte così giovani… dove erano finiti i vecchi, gli anziani? Il ragazzo aveva uno sguardo attento e sveglio, i capelli, lunghi e neri, scendevano inanellati fino alle spalle. Mentre leggeva giocava con le dita con il monile della sua collana, una stella di perle ed argento.
Quando ci vide lanciò il libro a terra e corse dall’arciere del mio gruppo. Si salutarono abbracciandosi e si misero a parlare. Alla fine il ragazzo con i capelli scuri scosse la testa e mi fissò, iniziando a tracciare dei segni sulla mia fronte, accompagnati da una litania ripetitiva. Accostò la sua fronte alla mia, e mi accorsi che improvvisamente riuscivo a capire le loro frasi.
Lui mi sorrise, stregato dalla mia presenza.“ Tu dunque sei un umano… sei una creatura leggendaria, lo sai? Credevo che non sarei mai riuscito ad incontrarne uno in tutta la mia vita!”.
Onoratissimo… ma se io sono leggendario, tu che cosa sei?”
Io sono un mecharys, un Immortale. Mi chiamo Irkayn” rispose inchinandosi.
CHE COSA SARESTI TU?”.
Io sono un Immortale, ti ho detto”.
Mi tirai su in tutta la mia altezza, con uno scatto.
La mia voce adesso era stridula ed il mio sguardo irato si volgeva tanto su Irkayn quanto sulla fila di “creature” dietro di lui, soprattutto femmine, alcune delle quali arretrarono subito. Una ragazza bionda, vestita con abiti maschili, si mosse subito nuovamente avanti, cercando di mostrare un’ ultimo sussulto di coraggio. Le mostrai i denti, come una bestia pronta a mordere. Ci ripensò, sicuramente, perché fece anche lei un’ altro passo indietro.
Irkayn mi fissava severo. I suoi occhi si socchiusero, come se la mente che vi stava dietro cercasse di sondarmi. Intuivo il suo pensiero; era convinto che avrei avuto bisogno di essere domato.
Era bene che capissero invece che non ero assolutamente disposto a farmi mettere le briglie da nessuno; una necessità vitale, che mi fece insistere nel mio atteggiamento di sfida ad oltranza.
ANDIAMO BENE! SONO PASSATO DA UNA DIMENSIONE ALL’ALTRA, SONO STATO AFFERRATO DA ESSERI INNOMINABILI CHE MI HANNO QUASI FATTO A BRANDELLI, SONO PIOMBATO A TERRA CON LE OSSA ROTTE, E TUTTO QUESTO PER FINIRE IN UNA STUPIDA, DANNATISSIMA FIABA PER BAMBINI!”

   
 
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