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Autore: wrjms    16/03/2018    1 recensioni
Mi capitava spesso di sostenere ironicamente che mi fosse toccata una vita da cani, non soltanto per la funzione proverbiale di tale espressione, quanto più perché, su di me, un anno sembrava gravare quanto sette o anche più.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
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Testamento di un senzatetto morto a vent’anni

Ho quasi ottant'anni ed oggi compio l'estremo atto di annullamento. Ho terminato, ormai - siedo sul mio giaciglio sporco da giorni, ho freddo, non ho parlato con nessuno in mesi. E domani sarò morto.
Che io possa perdonarmi...! Sia maledetto io e la mia testardaggine! Ho lacerato la mia unica possibilità di esistere davvero ed ora non lascio a me stesso altro che questo sporco e melenso canovaccio; non so più a cosa importi aggrapparsi a questo ultimo anelito di sentimento che vado spremendo e mi tremano le mani, le dita sono già livide... eppure mi struggo, premo più che posso sulla carta sino a strapparla, mi sto dilaniando la mente a furia di scavarmi dentro. Detesto le parole che sto liberando e tuttavia ne sono assuefatto; le mie membra tendono in modo disumano per fuggire da questa mia carta sporca ma io ne sono dipendente, mi ci aggrappo con tutte le mie forze, non avrò pace sino a quando non avrò deposto la mia melancolia nera sul foglio.
Ma forse varrà a qualcosa. Domani sarò morto, mi devo fare forza. In qualche ora avrò liberato il corpo dai miei pensieri: li sento, ora, mi sgocciolano dagli occhi sino alle dita. Li sto spremendo per voi. Ma non tentate di scoprire la mia identità – non troverete nomi, qui, e non cercatene – desidero morirne privo.

Fatico a scrivere, ma più soffro più i ricordi mi tornano a galla. Vi dovrò confessare che il periodo della mia infanzia sarà l'unico di cui tratterò con totale concretezza e contingenza. I miei ricordi di allora sono i più vividi; con il tempo, tutto il resto è andato dissolvendosi in un alone di pensieri e paure, come se per sessant'anni fossi vissuto nascosto dentro la mia testa.
Da giovinetto ricevetti un'educazione teorica tanto dalla scuola quanto dai miei genitori. Mio padre era docente, insegnava grammatica da più di trent'anni; era anziano e raramente mi concedeva, nel gioco, il privilegio della sua compagnia.
Mia madre invece prediligeva le scienze. Successivamente alla mia nascita iniziò a collaborare con un editore per la pubblicazione di libri di testo; quelle stesse opere furono quelle che m'accompagnarono nella crescita. A scuola, quella vera, non ci andai mai: intendo dire che, seppur mi recassi nell'edificio che gli altri bambini definivano con quel nome, i miei genitori avevano agito affinché seguissi lezioni differenziate rispetto a quelle degli altri bambini, con la scusa che le mie capacità non fossero adatte agli studi affrontati da un fanciullo nella norma. Non mi era chiaro se questa definizione corrispondesse alla realtà delle cose: in verità non ebbi quasi mai la possibilità di confrontarmi con gli altri infanti, ragion per cui non seppi mai discernere la normalità dalla bizzarria. Ancora adesso, da adulto, mi porto dietro questa lacuna.
Studiavo al buio, ma per ragioni prettamente contingenti: l'aula che mi avevano riservato era malconcia, l'elettricità non funzionava, c'era solo un tavolo e lo condividevo con l'insegnante: un matematico, amico di mia madre, ch'io sospettavo fosse anche il suo editore. I libri su cui studiavo erano per lo più i suoi, o i loro; e quasi esclusivamente mi veniva data la possibilità di apprendere conoscenze teoriche, seppur non nozionistiche, a tal punto che ogni attività pratica mi veniva proibita. A sette anni imparavo le regole dell'algebra, le date della storia, i vocaboli della biologia; a dieci, sapevo destreggiarmi tra la fisica, la chimica, la grammatica. Imparai anche a leggere la musica, ma mai a suonare strumenti. Raggiunti gli undici, quando la mia vista cominciò a difettare, giunsi a lezione con mezz'ora d'anticipo e mi riuscì di aggiustare l'impianto elettrico dell'aula.
Né il maestro né mia madre dissero nulla; per mesi, tuttavia, mi riservarono entrambi un atteggiamento di disprezzo.
Sin da bambino mi fu chiaro che la mia infanzia, se paragonata a quella dei miei coetanei, era segnata da molti più difetti di quanto sarebbe stato auspicabile. Questa mia educazione e quella mia predisposizione che consideravo, per così dire, genetica, fecero crescere in me un sentimento di distacco dal mondo fisico e pratico delle cose: atteggiamento che i miei genitori denotavano come apprezzabile, e che invece gli altri adulti tendevano a disdegnare. Accadeva così spesso che i vicini mi riservassero occhiate penose, quando d'estate passavo le giornate a studiare, che ormai non ci facevo più caso; ma quando i loro figli per sbaglio facevano finire il pallone nel mio cortile non potevo fare a meno di guardarne le forme preso da un non so che di incantamento. Perché era stato loro riservato il privilegio di scegliere cosa farne del proprio tempo, e non a me? Io non conoscevo cosa fosse un'infanzia comune, poiché non ne avevo mai avuta esperienza; ma quando stringevo fra le mani quei palloni buchi ed infangati mi soggiungeva come una strana sorta di nostalgia verso la vita che non avevo mai vissuto.

Per di più causava in me un immenso sentimento di sconforto chi, alla mia stessa età, si era già determinato; insomma quella precisione e quel particolare ordinamento logico che applicavo alle mie materie di studio non mi risultava altrettanto elementare nella conoscenza di me stesso, ragion per cui crebbi presto avvezzo all'invidia. Provavo ribrezzo per chi descriveva se stesso con parole chiare e meditate, ancor di più se questi si dimostravano proni a quella certa organizzazione delle cose future a cui io tanto aspiravo, che a loro invece pareva facilissima. «Come ti vedi tra venticinque anni, Margot?». «Sarò un'avvocata!». «Splendido! E tu, mio caro? Un medico? Astronauta? Pompiere?» ed io nemmeno mi ponevo il problema della mia futura professione, sconvolto com'ero dalla confusione. Tutti attorno a me mi davano l'impressione di poter descrivere con accuratezza scientifica gli umori e le passioni che turbavano loro l'animo; io, invece, vagavo nell'indefinito, ero certo solo di non conoscere affatto me stesso; il tempo che loro impiegavano per tessere la trama del proprio futuro, io lo sprecavo cercando di districarmi, invano, dai fili della mia stessa tela.


E nella tela rimasi.  Man mano che il tempo passava cresceva in me il sospetto che essa fosse controllata da una forza estranea, aliena, o che mentre dormivo qualcuno mi strappasse di nascosto tutti i fili buoni: così mi ammalai. In quel momento non dovevo avere più di quindici anni.
Quanto mi è difficile rievocare i primi ricordi della mia malattia! Con il tempo mi sono abituato alle sofferenze che essa m'impartiva, ma da ragazzino la forza invisibile che mi attanagliava mi pareva straordinariamente estranea e minacciosa. Ancora ricordo la sensazione che mi dava il sudore che mi scorreva, ogni notte, sulla fronte.  Le mie crisi procedevano così: preso dall'angoscia che mi causava l'immenso sentimento di disordine che dominava la mia psiche, che mal combaciava con il controllo che avevo della mia carriera scolastica, stavo sveglio a pensarvi per ore. La mia anima era ed è ispirata all'apollineo, a tutto ciò che è meticoloso, armonico, regolato; pertanto mi turbava profondamente il pensiero ch'io non riuscissi a configurare la mia personale identità con la stessa facilità con cui potevo mettere ordine ad una confusa formula matematica. Osservavo il buio ad occhi spalancati e mi crogiolavo nella sua perfetta pulizia. Oscurità! Aspirazione di ogni perfezionista! Così nitida, così pura; ho desiderato a lungo essere come te, eppure non ho mai avuto successo. Nel buio della notte, iniziavo a credere che se le cose attorno a me fossero state ordinate, allora anche i miei pensieri si sarebbero rasserenati, avrebbero assunto una forma più stabile: così mi alzavo, vagavo per i corridoi, toccavo oggetti, ne monitoravo le posizioni, li contavo come per confermare di aver tutto sotto controllo.
Ben presto crebbi ossessionato a queste mie routine; le ripetevo ogni notte, raramente riuscivo a dormire per più di qualche ora, costantemente pensavo che, se non avessi ripetuto queste mie azioni compulsive, prima o poi io sarei morto soffocato dai miei pensieri, oppure sarei impazzito sino a fare del male a chi amavo. Realmente non mi liberai mai da questo giogo; ma con il tempo riuscii a riequilibrarlo con forze opposte, così che ne potessi, in qualche modo, uscire con un briciolo di sanità.

Ecco quello che intendo. Crebbi; raggiunsi i diciotto, patendo le insidie della mia angoscia per tre lunghissimi anni. E più il tempo scorreva, più provavo disgusto per quel senso di estraneità dal mondo che i miei studi mi avevano forzato a sviluppare. Ero incapace di intrattenere conversazioni; non praticavo sport; non avevo alcun hobby al di fuori del semplice e puro studio della realtà che mi circondava. Eppure ero infuriato con me stesso, con le mie abilità, con i miei genitori: a che pro cercare di comprendere il mondo, se non avevo nemmeno le capacità adatte a gestire e controllare me stesso? È davvero una sensazione devastante, quella di non conoscere se stessi...! Ho accennato prima alla mia difficoltà nell'autodefinirmi, che mi dominava sin dall'infanzia: questa, in età adulta, non fece che peggiorare. Avete mai provato a osservare troppo a lungo il viso di una persona, sino a quando questo non diventi quello d'uno sconosciuto? Le forme del corpo iniziano a perdersi in un confuso sgretolarsi di memoria; prima di potersene accorgere, quei volti diventano tavolozze di vernici mescolate a casaccio. Così io mi sentivo con me stesso. La mia identità, con il tempo, s'era dissolta in un disperdersi di fumo; era scemata, scolorita, disciolta, non me ne rimaneva che un ricordo indistinto. Mescolavo l'acqua sulla tavolozza dei miei colori; ma i pigmenti non c'erano e le mie parole, le mie azioni, tutte si perdevano in uno sgocciolare di trasparenza. Come avrei desiderato essere bello, nitido, colorato di tinte sgargianti ed audaci...! Ma no, ero una deforme sagoma bagnata sulla tela: presto mi sarei asciugato, presto sarei scomparso e m'avrebbero ricoperto dei colori della vita altrui. Ecco quello che intendo quando sostengo che, osservandomi, parevo un estraneo a me stesso: non mi riconoscevo più, perché se c'era mai stato qualcosa da distinguere questo era scivolato via con l'incedere delle mie malinconie.

Così mi capitava spesso di sostenere ironicamente che mi fosse toccata una vita da cani, non soltanto per la funzione proverbiale di tale espressione, quanto più perché, su di me, un anno sembrava  gravare quanto sette o anche più. Intendo dire, insomma, che il peso dei miei doveri, dei miei obblighi, delle mie responsabilità ma soprattutto dei miei pensieri aveva iniziato a schiacciarmi poderosamente, e non sapevo per quanto ancora sarei stato in grado di resistere. A trent'anni mi sembrava di aver vissuto per secoli; ogni giorno, ogni ora pareva durare mesi, anzi spesso confondevo i giorni della settimana, perché un avvenimento del giorno precedente mi pareva essere accaduto già ad una settimana di distanza.
Pensandoci, talvolta, trovavo questa mia visione particolarmente in linea con il presagio che avevo da sempre, quello di una mia morte prematura: mi pareva impossibile, cioè, che le complessissime circostanze della vita umana mi potessero permettere di sopravvivere sino alla vecchiaia, per cui ritenevo assai più probabile ch'io perdessi la vita mentre ancora percorrevo la mia giovinezza. Pertanto mi pareva naturale che vivere cent'anni in venti comportasse un certo avvicinamento della morte, che dalla vecchiaia fisica si sarebbe spostata a quella «senilità spirituale» che tanto vantavo di avere. Con questi elementi già ben disposti concordò anche la mia particolare visione della sentimentalità: pensavo cioè che tutti quei sentimenti ch'avrei provato in cent'anni, se avessi avuto una vita normale, ora li tenessi «schiacciati» e spremuti in trenta; con il risultato che tutto ciò che provavo era almeno due volte più intenso del normale: la prima per la maturità fisica che non avrei mai raggiunto, la seconda per quella vecchiaia della mente di cui parlavo prima.

Depressione ed ossessione crearono in me un certo equilibrio di turbamenti che ebbe esito in una insormontabile apatia, vale a dire nell'unica alternativa alla mia immobile sofferenza. Così le mie paure erano placate da un forte senso di nichilismo e di disillusione; insomma ogni qual volta che in me iniziava a sorgere la paura della morte, espressa nei consueti pensieri ossessivi, a bloccare le compulsioni interveniva la mia amarissima delusione per la vita, che mi convinceva a vedere la morte come una prospettiva dolce, salvifica.
Tuttavia la morte non fu e non diventò mai un obiettivo che avrei desiderato realizzare per mia mano, consapevolmente e volontariamente. La paura che si era sottratta a quel livellamento appena menzionato, quella di ferire i miei cari, m'impediva di progettare definitivamente il mio ultimo - ed unico - atto di autonomia; così vedevo la mia morte come qualcosa che avrei desiderato realizzare in un futuro prossimo, tuttavia mai mentre ancora i miei cari tenevano a me. C'era ovviamente un conflitto tra quelli che, per me, erano divenuti i desideri più pressanti: da un lato quello di liberarmi al più presto da un pesante giogo; dall'altro quello che i miei cari vivessero vite felici e lunghe quanto lo desideravano.
Mi parve che la possibilità di fuga fosse solo una: quella di distanziarmi il più possibile da chi mi voleva bene, con la finalità di non essere amato da nessuno, così che, se per caso fossi morto, nessuno avrebbe sofferto per me. E rispondevo male, rimanevo distaccato, raramente mi lasciavo coinvolgere nel colloquio con chi incontravo per le strade. Cambiai ripetutamente domicilio affinché pochi potessero contattarmi.
Anche così, tuttavia, quando divenni un giovane adulto, non trovai il coraggio di commettere l'azione che per più di un decennio avevo agognato. Una nuova paura, o forse una nuova consapevolezza, era nata in me: quella che la mente umana, soprattutto la mia, fosse estremamente volubile; inoltre un forte dubbio che mi portava a sospettare che, se avessi vissuto altri cinque, dieci, quindici anni forse avrei cambiato idea, riconoscendo la fallacia delle mie idee giovanili, e avrei ringraziato ogni Nume per non avermi permesso di compiere l'azione fatale.

A quarant’anni m’ero trascinato dietro le mie angosce per più di due decenni, ma ancora faticavo nel tentativo di apporre una targhetta alla mia identità. Reputavo che la mia persona fosse, come forse accadeva per tutti, divisa in tre parti, che mi parevano essere in continuo conflitto. Per primo v'era il corpo, che consideravo, per così dire, il trabiccolo della mia funzione primaria, l'automobile di cui mi servivo per andare dove desideravo, ma soprattutto per trasformare il mondo esterno in stimoli per la mia mente. In secondo luogo v'era la mia mente, vale a dire il luogo dove producevo congetture, ragionamenti, ma anche sogni ed aspirazioni, emozioni, sentimenti, e tutto ciò che consiste nello sviluppare gli stimoli che il corpo trasporta all'interiorità dal mondo esterno. Infine v'era la volontà, ossia la funzione che io primariamente utilizzavo e alla quale ero più affezionato; al punto che già dai primi tempi della mia maturità iniziai ad definirmi come una Volontà in primo luogo, e poi come una mente e come un corpo, ma solo incidentalmente.
Perché volli eludere le altre due parti della mia identità? La mia Volontà mi pareva costantemente osteggiata da esse e perciò mi sentivo in dovere di proteggerla. Ogni minuto, ogni ora, ogni giorno della mia vita mi sentivo più motivato a prendere il controllo della mia psiche; eppure il mio corpo era debole, la mia mente afflitta da emozioni, da paure, da ragionamenti sconclusionati. Così costantemente dovevo combattere con le due parti di me che più temevo: da un lato contro il sentimento ed ogni forma di ragionamento, che mi impediva di attuare ciò che la Volontà desiderava saldamente fare; dall'altro dalla mia forma fisica, che, soggetta a deterioramento, non mi consentiva di lavorare quanto lo desiderassi.

Con il tempo il mio corpo non fece che diventare sempre più una seccatura. Quando desideravo pensare e mi stendevo sul divano, chiudendo gli occhi, improvvisamente mi sentivo debole e ricordavo di non aver mangiato per giorni: così dovevo interrompermi, e alzarmi, e procurarmi qualcosa, e sfamarmi. Se poi c'era bisogno che mi sentissi in contatto con il mondo fisico, massimamente quando mi relazionavo con gli altri, il mio corpo spariva, si dissolveva, diventava solo un inganno della mia mente: e così non comprendevo il sesso, i baci, tutte quelle forme d'affetto cioè che si basavano strettamente sulla condivisione di fluidi o sulla vicinanza corporea. Un giorno tentarono di spiegarmelo: "il sesso", mi dissero, "è amore, poiché si fa un dono di piacere all'altro"; io però sapevo che il piacere sessuale, come anche quello che si prova mangiando,  sono stati forniti dalla Natura all’uomo per invogliarlo a riprodursi, e a nutrirsi, e insomma a salvaguardare la specie. Che inquietudine mi provocava questo pensiero! L'amore non era altro che un velo, una glassa edulcorata usata per nascondere una brutta verità.

Mi sentivo, poi, costantemente sospinto da due forze avverse: l'una infantile, innocente, che mi suscitava meraviglia per tutta la realtà che mi circondava; l'altra maligna, anzi lucida, più adulta, che raggrumava i miei pensieri in particelle scure e limacciose, ficcandomele nello stomaco come i sassi al lupo delle fiabe; cosicché costantemente mi sentivo appesantito dal grave che mi si bloccava dentro, e al tempo stesso la mente mi rimaneva imbambolata e spoglia. Con il tempo realizzai che questi miei sentimenti - lo stupore e la pesantezza - non coesistevano mai allo stesso tempo, ma piuttosto si sostituivano l'uno all'altro in un processo ciclico. Ecco come funzionava: tutto aveva inizio - o fine, a seconda del punto di vista - quando da un qualcosa di banale e concreto astraevo un significato veramente inesistente. Così anche quel qualcosa di ordinario mi pareva stupefacente: e questo è sempre stato, per così dire, tanto il mio trampolino quanto la mia rovina. Su questa linea mi ricostruivo una realtà tutta nuova, dove ogni oggetto mondano assumeva un valore meraviglioso e inaspettato. Ed ecco perché questo mio processo non ha mai funzionato: ho sempre voluto cercare il troppo in tutto, non mi sono mai accontentato, e il tutto mi ha sempre sopraffatto. Continuavo ad arrampicarmi su castelli di carte senza fondamenta, mi riempivo della loro grandezza e della loro raffinatezza: ed infine tutto diveniva sempre troppo da sopportare. Cadevo a terra, e mi sentivo come sepolto da giganteschi cavalloni; tutta la realtà si faceva massiccia e densa, grumosa, coagulata, e io non sapevo più da che parte volgermi per trovare un po' di pace da quel mio continuo pensiero. Sprofondavo così nell'apatia. Tutta quell'energia che avevo sperperato per vagheggiare sul mondo e su me stesso si era esaurita; ora me ne stavo come addormentato, catatonico e silenzioso, senza più la capacità di provare sensazioni o di generare pensieri. E questa mia disarmonia, questo mio vuoto contro il tutto del mondo mi sfiancava e mi spremeva fino all'ultimo anelito di sentimento: così rimanevano soltanto il nulla e il nulla, giacché se v'era mai stato qualcosa da ammirare o da cui essere sopraffatto, esso era morto quando era morta la mia passione.

A questi miei occhi abulici e stanchi tutto esisteva solo superficialmente ed io, parimenti, stavo lentamente scomparendo. Costantemente avevo l'impressione di vivere dentro un sogno. Spesso compivo lunghi viaggi in treno o in autobus e, osservando il paesaggio dal finestrino, mi pareva che la realtà si stesse smaterializzando sotto ai miei occhi, cioè che tutto quello che vedevo fosse stato trasfigurato in un mero fantasma della realtà che prima conoscevo. I colori delle cose mi sembravano surreali; e il fatto che io avessi mani, e piedi, e dita che potevo usare soprattutto mi suonava stranissimo, impossibile. Ero io questo corpo? E allora questo braccio? Questo capello? Quest'unghia? Fino a quanto potevo ridurre il mio microscopio e dire ancora: "ecco, questo sono io"? Guardavo i miei occhi e pensavo che quelli erano forse la parte di me più significativa. Poi mi strappavo una ciglia, la stringevo fra indice e pollice umidi di saliva; infine, quando sentivo un lieve soffio d'aria sulle dita bagnaticce, lasciavo andare la ciglia e la guardavo volteggiare in aria. Ero ancora io, quella ciglia? Ora che si era staccata da me? Che aveva fluttuato per chissà dove? Quando aveva smesso, quella ciglia, di essere Me? Allora i miei pensieri diventavano confusi e li scuotevo via, come avevo iniziato a fare di frequente. Tornavo a guardarmi le mani e facevo finta di non sentirmi un batterio intrappolato in un grosso automa.
Le stesse persone che componevano l'universo le immaginavo come tanti miscugli ingarbugliati di circuiti comandati da coscienze tonde e  tentacolari, che manipolavano il corpo tramite leve e pulsanti. Se storcevo un po' gli occhi, le vedevo: sfere trasparenti, di vetro, componevano le loro teste; io le chiamavo biglie. Dentro esse, scie luminose  baluginavano a destra a manca e s'accendevano, si spegnevano, comunicavano fra di loro scambiandosi energia. Sbattevano da una parte all'altra del vetro; mutavano colore e talvolta, quando si facevano piuttosto intense, riuscivano ad attraversare quelle barriere di vetro e a saettare verso le biglie altrui. Così vedevo le persone: teste contenenti pensieri e niente più. I vari corpi che le biglie comandavano mi parevano solo un'appendice, un effetto collaterale. La maggior parte delle volte, quei trespoli li trasformato in supporti invisibili, e proiettavo davanti a me mondi surreali, dove vivevano non uomini ma concetti. Che bello sarebbe stato! Ci saremmo rapportati tramite parallelismi ed antitesi. Stavo intere ore a farneticare su questi miei mondi immaginari.
Altre volte, quando mi concentravo abbastanza, gli strati dei corpi delle persone iniziavano a sfilacciarsi sotto ai miei occhi, e allora non vedevo colleghi e amici ma cadaveri animati: prima veniva meno la pelle, ed io stavo ad osservare muscoli e bulbi oculari ed articolazioni; altre volte mi spazientivo e immaginavo fitte reti di arterie e vene che si muovevano senza il supporto delle ossa, affrancandosi con i loro rami nodosi alle maniglie dell'autobus o portandosi sigarette alle bocche invisibili.
Ed io? Anche io ero questo? Un ammasso disordinato di carne e sangue? Non ne ero sicuro. Ero così distaccato dal mondo corporeo che mi dimenticavo di mangiare e urinare. Per ricordarmi della mia dimensione corporale iniziai a ferirmi leggermente, a provocarmi ustioni o tagli con i fermacarte. Così, anche quando mi perdevo nei miei pensieri, il dolore mi ricordava che esistevo, che avevo un corpo, che la realtà che contemplavo aveva anche una dimensione fisica.
Fu una soluzione duratura? Non proprio. A lungo andare, anche il dolore fu messo in silenzioso. Bruciavo così, lentamente, senza nemmeno che me ne accorgessi. Il pulsare delle ferite rimase, ma non me ne curavo più, similmente a quando, dopo qualche tempo, si smette di percepire alcuni suoni, come lo scrosciare della pioggia durante il temporale, o lo sfrecciare delle automobili nella strada sotto casa.

Perseverai a lungo in questa mia situazione alternata d'indolenza e masochismo; presto, tuttavia, questo non fu più abbastanza. Così mi lasciai sfrattare. Ma non è nella mancanza di fondi che è da ricercarsi la ragione di questa mia scelta; lavoravo sodo e guadagnavo bene, e senz'altro anche senza occupazione professionale sarei ben riuscito, con il denaro che avevo racimolato nei miei anni di stakanovismo, a mantenermi per più di qualche mese.
Ero piuttosto scivolato così profondamente in quell'abisso di apatia e malessere che m'ero convinto di potermene liberare soltanto tramite la mortificazione del corpo. Dovevo essere anche carne e non solo Volontà? Che così fosse...! Avrei lacerato le mie membra sino a quando la fame, la sete, il dolore corporale non avessero soffocato la mia mente e trasformato la mia Volontà in uno stretto impeto di autoconservazione.
Mi ero persuaso che se avessi sofferto nel corpo non avrei più avuto modo di badare ai miei pensieri. Questo era per me l'annullamento più profondo di quella vita immateriale ed astratta entro cui ero stato forzato per tutta la mia vita. Persi così la casa, e il lavoro, e lasciai andare i miei averi. Mi costrinsi a vivere nella strada come il cane che tanto m'ero vantato di essere... e anche allora, tuttavia, non riuscii a liberarmi delle mie sofferenze.
Per mortificare il corpo avevo abbandonato tutte le occupazioni che in passato  mi avevano distratto, anche se minimamente, dalla mia disperazione. Ed ecco che il mio corpo non era in grado nemmeno di soffrire come si deve! Ambivo a provare una fame che mi rodesse l'anima e m'impedisse di pensare; ma la fame che m'era concesso di sperimentare era invero solo esistenziale, ed impossibile da raggiungere.

Una mattina mi svegliai sulla panca del molo. Avevo poco più di settant'anni. Mi ero addormentato supino e in quel momento, aprendo piano gli occhi, vedevo un cielo limpido, azzurro, e nuvole talmente candide da farmi bruciare gli occhi. Ero sul punto di abbassare le palpebre. Poi lo vidi: un aquilone giallo, spigoloso, che sferzava la cupola immacolata; la coda, il filo e, infine, una bambina che ne teneva l'estremo capo, tirandosi dietro il giocattolo mentre correva.

Non mi mossi. Ma come avrei voluto essere quella bambina, avere non il mio corpo, ma il suo! Come sarebbe stato confortante non avere da pensare altro che il gioco! Io alla sua età ero già danneggiato; avrei lasciato cadere il filo ed avrei detto, tutto imbronciato: vola solo ciò che è insignificante… Lei, invece, sembrava non pensare a nulla, di nulla preoccuparsi.

E allora? Avrei desiderato davvero che la mia coscienza venisse impiantata nel suo corpo? Non ne ero sicuro; mi sovvenne il pensiero ch'io, così terrorizzato dall'esistenza, non avrei affatto trovato confortante albergare in un corpo così giovane, la cui morte sarebbe giunta così tardi. Convenni dunque che avrei, piuttosto, desiderato di venir privato d'ogni mio pensiero passato; poi di essere impiantato in qualsiasi altro corpo che non fosse il mio. Non erano i pensieri, bensì i ricordi, le memorie che mi avevano reso così come ero; perciò se avessi dimenticato quelle nozioni di chimica, di storia e di economia che mio padre e mia madre s'erano tanto sforzati di farmi imparare, forse avrei acquisito una visione differente del mondo.

Eppure i calcoli non tornavano. Avrei dovuto acquisire i ricordi di quella bambina? Chi mi garantiva ch'essi fossero davvero più puri dei miei? Infine, una domanda più pressante di tutte le altre. Avevo convenuto che fossero ricordi a determinare le persone e non i loro pensieri presenti, che dai ricordi erano influenzati. E dunque, tolti i miei ricordi, tolti quelli altrui: cosa mi permetteva di distinguere me da un altro? Dalla bambina? Dai pescatori? Dai venditori di frutta? Mi risposi: nulla. Ero spesso stato solito dire: "se fossi nato nel... se fossi vissuto tre secoli fa..." ma solo oggi mi accorgevo che quei pensieri erano errati e che sempre avevo errato nel mio modo di pensare. I ricordi facevano di me me stesso...! Se un indomani mi fossi svegliato nel corpo di un altro, niente mi avrebbe fatto pensare di essere stato strappato ad una prima prigione per essere trasferito in un'altra. Se avessi perduto tutti i miei ricordi in un tragico incidente, mi sarei svegliato come un nessuno, un nulla, uno scarabocchio privo di identità. Pensai: e se io fossi il "se fossi nato nel..." di qualcun altro? Certo non me ne sarei accorto. Davvero io e chiunque altro eravamo fatti della stessa sostanza: la nostra intima identità risiedeva esclusivamente nei nostri ricordi; ma questi non potevano sopravvivere senza il supporto del corpo. Ed ecco il punto di snodo…! Presto o tardi sarei morto, e lo stesso anche chiunque altro ancora fosse allora in vita: venuto a mancare il corpo, venuti a mancare i ricordi, non si poteva dunque dire che saremmo potuto diventare noi tutti una stessa sostanza? Giunsi quindi alla conclusione che io stesso idealmente già ero tutti, e tutti erano me. Ai miei occhi tutto quello che gli altri m'avevano fatto, l'avevo fatto io a me. Io avevo condotto l'aquilone sotto ai miei occhi e io mi ero insegnato le scienze, quando ero bambino. Questa varietà di coscienze in cui avevo sempre creduto non erano altro che un unico ente, spezzettato, introdotto a forza in automi di carne e sangue, colorato poi di tinte differenti. Ma anche queste se ne sarebbero andate: le avrebbe lavate via il tempo, con cura, prima di ricompattare quell’ente e ridistribuirlo ancora.

E che ironia che lo abbia realizzato così tardi nella vita! Ho perso il conto dei miei anni, ma mi sento stanco, non ho più la forza di continuare a pensare. Sono così stremato da questa continua involuzione che non comprendo più se serva a qualcosa cercare di lottare, né ricordo se ve ne sia mai stato un motivo. Mi sento calare le palpebre, ho la schiena incurvata e le membra intorpidite; proprio adesso che mi sembrava di aver trovato un qualche senso a questa vita sto morendo, me ne sto andando, sto diseredando il mio corpo per l'ultima volta. Eppure sarei stato così felice, quando avevo vent'anni, di lasciarmi dietro il corpo come una scorza, di divenire una coagulazione di nulla, un concetto nella mente di qualcun altro! Ricordo una frase tante volte pensata: "vorrei essere un'idea; vorrei rapportarmi con gli altri nelle comparazioni dei poeti".

Come mi veniva facile dimenticarmi del mio corpo! Ed invece ora non posso fare a meno di vedere e toccare: questo mio lenzuolo gelido, questa panchina di legno, questo prato umido; tutti mi sembrano nascondere un grande incantamento. Il mio speculo più giovane m'odierebbe; io però ho compreso che senza il mio corpo non sono che il nulla, ed il nulla non è altro che questo: un nuovo ciclo di esistenza non mia. Eccola, la mia identità! Eccola…! L’ho cercata e ricercata spasmodicamente, ho ravanato il mio cervello invano: e invece è sempre stata in quel corpo che era sotto ad i miei occhi. Finché vivo, sono sicuro di controllare ciò che faccio, ciò che sono; l'esistenza di questa manifestazione marginale di quell’ente è finita e interamente controllata da me, poiché legata al mio corpo. Ma quando stanotte morirò, la cosa si scomporrà in decine di miliardi di parti infinite di sé, e poi si ricompatterà in un'altra manifestazione, e poi in un'altra, poi un'altra ancora. E io non riconoscerò me stesso: i miei ricordi sono indissolubilmente legati a questa mia forma.

Quest'eterna sequenza di corpi che sono io ma di cui io non ho controllo mi terrorizza e mi angoscia. Ma sto battendo i denti, ho freddo e ho quasi ottant'anni; domani sarò morto.

   
 
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