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Autore: FedyOoO    18/03/2018    0 recensioni
Halley Wright è una ragazza canadese priva di sentimenti. L'unica cosa che riesce a fare è commentare in modo cinico e sarcastico tutti gli avvenimenti intorno a lei ed è troppo impegnata a stare sola con sé stessa per occuparsi delle esigenze altrui.
A sedici anni compirà un viaggio che le cambierà la vita e modificherà il suo modo di vedere il mondo: imparerà cosa sono la paura, la compassione, il coraggio, la tolleranza e, se all'inizio erano le divinità del pantheon nordico a volerle impartire una lezione, a quel punto sarà proprio Halley che insegnerà loro qualcosa di ancora più grande.
Finalmente, ecco a voi la versione estesa; aggiornamenti ogni domenica, si spera.
Genere: Avventura, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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«Halley…Halley!» la chiama la voce.
«Chi è? Chi sta parlando?»
«Questo non ha nessuna importanza. La cosa che conta è che dovete andare».
«Andare? E dove? Se pensi che obbedirò a qualcuno che non ha neanche il coraggio di farsi vedere ti sbagli. Ho di meglio da fare che andare dovunque tu voglia mandarmi. Dormire, ad esempio».
«Quello che voi pensate non ha alcun valore: un messaggero verrà a prendervi. Fate buon viaggio!»
«Col cavolo!», urlai svegliandomi nel mio letto nel cuore della notte, la fronte imperlata di sudore. «Tsk, era solo uno stupido incubo…dopo tutto questo tempo mi sorprende che io riesca ancora a immaginare qualcosa. Oh beh, era comunque solo frutto della mia fantasia, quindi non dovrò preoccuparmene», aggiunsi poi assumendo un tono più sereno. Mentre pensavo a voce alta mi alzai dal mio comodo giaciglio -una brandina di ferro arrangiata in un lurido e oscuro monolocale- e mi diressi verso il lavandino per prendere un po’ d’acqua. Non potei fare a meno di notare le gocce di liquido che stillavano dal rubinetto malridotto e arrugginito; sospirai.
«Quell’idiota di Brad non lo ha ancora riparato: sono settimane che quest’affare perde. Ma cosa è saltato in mente al giudice quando ha deciso di mandarmi a vivere con mio padre? E ancora peggio a quel genio dell’assistente sociale che ha visto questo scempio e ha confermato che poteva andare bene…no, non va affatto bene, invece. Stupida società».
Ad ogni modo aprii il rubinetto mezzo rotto -benché non fosse per nulla in buone condizioni, almeno l’acqua scorreva- e mi riempii un bicchiere, scolando poi velocemente il contenuto. Nel tornare a letto mi capitò di lanciare una fugace occhiata verso lo specchio, e quello che vidi fu questo: una ragazza più morta che viva; due profonde occhiaie solcavano il viso pallido, contornato da un groviglio di riccioli spettinati color paglia: sarebbero sembrati benissimo il nido di una rondine, se fossero stati corti; ma invece non lo erano: da anni non vedevo un parrucchiere. Mi soffermai poi sul mio fisico, e a quel punto non sapevo dire se fosse peggio quello o la mia orribile faccia da zombie. Non ero né alta, né bassa, ma certamente ero troppo magra e i miei muscoli completamente flosci, complici la denutrizione e la mancanza di esercizio fisico; soffrivo anche di ipertiroidismo, giusto per completare il quadro. Non avevo forme: a sedici anni suonati si vedeva a malapena un accenno di rigonfiamento sul mio petto, tanto che non avevo neanche bisogno di portare un reggiseno, e i fianchi erano dritti come una parete da arrampicata. Scossi la testa e con indifferenza tornai verso la brandina, stendendomi di nuovo sopra le lenzuola; era estate, quindi non c’era bisogno di infilarsi sotto le coperte. Non che ci fossero delle vere coperte in effetti: erano delle vecchie tende trovate in un cassonetto che avevo recuperato e lavato. Nonostante quello pseudo-letto fosse scomodissimo, ero così stanca che non ci misi tantissimo a dimenticarmi dello squallore in mezzo al quale vivevo ed addormentarmi.
«…quanti sono, con oggi?»
«Non saprei…probabilmente tre o quattromila anni».
«Forse avresti dovuto pensarci bene, prima di combinare questo disastro. E dire che sei così arguto e intelligente».
«Lo sai che quello che ho fatto andava fatto, donna. Era per il bene dell’Universo».
La figura femminile sospira rassegnata.
«Ogni volta che fai qualcosa, la giustifichi così. Ma per una volta, invece di fare il bene dell’Universo, avresti potuto fare quello dei tuoi figli, lo sai?»
«E tu lo sai meglio di me che non sarebbe mai stato possibile, vero? È da quando sono nato che le norne hanno deciso per me questo destino».
Un altro sospiro da parte di lei.
«Sì, lo so. E so anche un’altra cosa».
«Che cosa?» chiede l’uomo, gli occhi che brillano di curiosità nonostante siano rossi e iniettati di sangue su un viso completamente deturpato da bruciature.
«Che lì, in quel posto, tutti ti definiscono malvagio. Ma la verità è che sei troppo buono per loro, talmente buono da sacrificare i tuoi poveri bambini pur di permettere ai loro sederi mosci di continuare a presenziare ai banchetti e bere idromele a tutto spiano mentre tu sei qui legato a delle pietre con l’intestino del tuo primogenito, completamente sfigurato dal veleno di serpente. Hai mai pensato che non se lo meritassero?» sentenzia lei, il tono di voce colmo di risentimento; lo stesso tono di voce di una madre in lutto e una moglie in eterna pena.
«L’ho sempre pensato, ma non posso farci nulla: la mia natura è questa».
«Vado a svuotare la mia coppa».
E come lei si allontana, il veleno cola sul volto dell’uomo che comincia a dimenarsi come un forsennato: e la terra trema.
«Ma che diamine…chi erano quei due?» mi chiesi massaggiandomi la testa. Avevo fatto un sogno strano, ancora una volta. Parlavano di serpenti, figli sacrificati per il bene dell’Universo…seriamente, come facevo ad avere una fantasia tanto fervida? Guardando fuori dalla finestra mi accorsi che era ormai l’alba e che dovevo necessariamente iniziare la giornata. La scuola l’avevo abbandonata due anni prima per mantenere quel tossico alcolista di mio padre Brad e me stessa, così avevo iniziato a cercare lavoro e lo avevo trovato come commessa in un negozio di abbigliamento. Sì, ero sottopagata per via della mia giovane età, ma quantomeno i soldi che guadagnavo bastavano per non morire di fame e pagare l’affitto. Mi diressi verso il bagno per prepararmi, ma non ci arrivai mai in quell’angusta stanzetta che comprendeva un water insozzato, un minuscolo lavandino e il vano doccia, perché caddi svenuta per terra prima di raggiungerla.
Il luogo in cui mi risvegliai non era certo casa mia. E per certi versi fortunatamente, aggiungerei. Mi guardai attorno e realizzai di essere in una radura: la vegetazione intorno era fitta come non l’avevo mai vista, si respirava un’aria umida che aveva un forte odore di rugiada, e in lontananza potevo ammirare una sorgente d’acqua limpida, la quale scorreva da chissà dove; sembrava quasi un mondo extraterrestre. Si sentiva chiaramente il cinguettare di alcuni uccelli e versi di altri animali. Molto vagamente riuscii a distinguere un rapace, un’aquila probabilmente: le avevo viste in un documentario una volta, e il loro richiamo era tutto quello che ricordavo. I cespugli intorno erano colmi di bacche rosse, e in quel momento mi ricordai che non avevo fatto colazione.
«E se fossero velenose?» mi chiesi, e desistetti dal prenderne anche una sola per provare. La vita che conducevo sicuramente non era idilliaca, ma diamine, nemmeno la prospettiva di una morte prematura era così allettante. Rimasi un po’ seduta sull’erba ad ammirare i dintorni. Il cielo era terso e la brezza fresca faceva ondeggiare i miei lunghi capelli scompigliandoli più di quanto non fossero già, mentre il sole li colpiva ravvivandone i riflessi e facendoli assomigliare di meno alla paglia secca. Stetti lì per un tempo indefinito; da quando non mi potevo permettere il lusso di rilassarmi così? Dopo aver riordinato un po’ le idee mi alzai e cominciai a mettere i primi passi perlustrando, per quanto mi concedesse il buonsenso, quello strano e sconosciuto territorio. Mi accorsi immediatamente che non vi era alcuna traccia di intervento umano in quel posto, ma non mi chiesi il motivo. In qualche modo credevo che in fondo fosse meglio così e la solitudine non mi dispiaceva. Non mi era mai dispiaciuta a dir il vero; quando andavo a scuola non parlavo mai con nessuno e quando ho smesso di andarci quelle persone non hanno cominciato a mancarmi affatto. Anche allora non avevo alcun amico e francamente mi stava bene così; avevo fin troppo a che fare con il mio cervello ed ero troppo occupata a badare che mio padre non ci lasciasse le penne tra risse al pub e spacciatori che reclamavano il proprio denaro, per avere una vita sociale. Non che mi importasse qualcosa di quel fallito, ma averlo sulla coscienza sarebbe stato solo peggio. Ammesso sempre che ne avessi ancora una di coscienza, s’intende.  A un certo punto credetti di essermi addentrata troppo nella vegetazione, giacché la sorgente era completamente sparita dal mio campo visivo e intorno a me non riuscivo a vedere altro che alberi altissimi dai tronchi ricoperti di muschio ed erba ovunque. Realizzai dopo un po’ di essermi persa, e di conseguenza presi a vagare smarrita per quell’enorme foresta, finché non sentii dopo un’imprecisata quantità di minuti delle foglie che si muovevano più o meno ritmicamente. Mi mossi istintivamente verso il fruscio proveniente da poco lontano e da un cespuglio spuntò fuori un grosso scoiattolo. Fin lì tutto sarebbe stato normale, se non ché il suddetto iniziò a parlare.
«Si identifichi, signorina. È strano trovare gente da queste parti, quindi è necessario che lei lo faccia».
Rimasi allibita al punto che le mie facoltà cognitive si ridussero pressappoco a quelle di un procione in fin di vita: ci misi parecchi secondi per rispondere a quella strana richiesta con una domanda che il secondo immediatamente successo mi fece venire voglia di darmi un ceffone da sola per quanto mi aveva fatta apparire stupida.
«Come, scusa?»
Ovviamente quello inarcò un sopracciglio, o almeno lo avrebbe fatto se gli scoiattoli avessero le sopracciglia, e mi guardò sospettoso. Due erano le cose: o pensava che stessi facendo la finta tonta, o che lo fossi realmente. In entrambi i casi non ci avevo fatto esattamente una bella figura.
«Ha capito benissimo: si presenti. Deve dirmi il suo nome, la stirpe da cui proviene, razza...»
Provò a insistere, ma il bizzarro animale non finì la frase perché io lo interruppi.
«Ma che...stirpe? Razza? Di che cosa stai parlando?!»
Ero decisamente confusa: davvero non riuscivo a capire che cosa intendesse. Ad ogni modo non ebbi mai modo di presentarmi come lo scoiattolo voleva, giacché una ragazza vestita con un’armatura e dalle grandi ali di corvo ci si parò davanti e parlò.
«Sempre così diffidente, Ratatoskr. Non c’è nulla da temere: questa ragazza è la Prescelta di cui ci aveva parlato Mìmir», e ciò detto si voltò verso di me. «Halley Wright, giusto?»
«Sì, sono io», risposi. Avevo ancora parecchie incertezze e molti dubbi riguardo a quanto stava succedendo, ma l’espressione di quella tipa non era minacciosa. Aveva un aspetto strano, questo è sicuro, ma mi sentivo piuttosto tranquilla, per cui la lasciai continuare.
«Povera ragazza, non devi capirci niente di quello che sta succedendo. Il luogo in cui ti trovi è la Radura di Hvergelmir, dove scorre l’omonima sorgente che contribuisce a mantenere in vita Yggdrasil, il grande frassino che sorregge i nove mondi. Questo scoiattolo è Ratatoskr, che vive tra le fronde di Yggdrasil, mentre il mio nome è Hildr e sono una valchiria. Normalmente il mio compito è quello di vigilare sui campi di battaglia e condurre i guerrieri morti con onore nella Valhalla, la dimora degli spiriti valorosi, per conto del sommo padre degli dei Æsir, Odino, o a Fólkvangr, dalla dea Freyja; tuttavia in questo caso sarò la tua guida durante la visita dei mondi più ostili dell’universo. A prendere il mio posto in seguito sarà il grande e saggio Mìmir, che ti farà strada attraverso le località più pacifiche e meglio di me saprà spiegarti cosa vogliamo che tu apprenda».
Quando finì scoppiai in una fragorosa risata. Quella strana tipa stava dicendo così tante assurdità che non sapevo neanche io cosa pensare, ma ero sicura che tutta quella situazione fosse terribilmente grottesca.
«Che cos’è, uno scherzo? Una candid camera? Andiamo, finiamola con questa pagliacciata e riportatemi a casa mia!»
«Non è possibile, giovane umana» intervenne lo scoiattolo, che era rimasto zitto fino a quel momento. «Il suo ritorno a casa non è consentito fino al compimento della profezia»
Ancora con quella storia: prescelta, profezia...anche se fosse stato, chi mi avrebbe assicurato che stessero dicendo il vero? In ogni caso pensai che se fossi stata al gioco mi avrebbero lasciata andare prima o poi, così mi tranquillizzai e diedi loro corda.
«D’accordo, ho capito. Dunque, quale sarà la nostra prima tappa?» chiesi rivolgendomi alla “valchiria”.
«Abbi pazienza. So che hai fretta di sbrigare questa faccenda e tornare a casa, ma prima di partire dobbiamo pensare a come farti ambientare qui».
«Che intendi?»
Hildr si allontanò di circa un paio di metri da me e alzò un braccio verso il cielo; roteò poi il polso e ventiquattro simboli apparvero sospesi in aria, tracciati con fasci luminosi di diversi colori.
«Queste sono rune», spiegò. «Le hai mai viste?»
«Uhm…in qualche film fantasy, forse», azzardai. La valchiria roteò gli occhi.
«Ho capito, non sai di cosa si tratta. Vedi, le rune sono strumenti magici molto potenti e che ti saranno parecchio utili qui».
«Non vedo come», ribattei. «La magia è roba per bambini che credono ancora nelle fiabe: non esiste, né sulla Terra né da nessun’altra parte. Questa cosa che hai appena fatto è sicuramente un trucchetto ottenuto con qualche gioco di luce e raggi laser».
Lei dovette averla presa come una sfida, considerando ciò che disse e fece dopo.
«Ah, sì? Allora ti darò una dimostrazione».
Così Hildr cominciò a far roteare quelle rune. Una di queste, una semplice linea verticale, mi colpì. In un primo momento non mi accorsi di nulla ma, quando subito dopo provai a muovermi, mi trovai paralizzata.
«Allora?», fece la valchiria. «Ci credi alla magia adesso?»
Cercai di risponderle, ma le mie labbra erano serrate. Non potevo muovere nulla, neanche gli occhi: ero come una statua di pietra.
«Isa, la runa del ghiaccio» precisò, curandosi davvero poco del fatto che io non stessi neanche respirando. «Nel linguaggio della divinazione immobilizza qualunque bersaglio. L’unico modo per sciogliere questo incanto è usare questa».
Un altro simbolo, stavolta più articolato e che aveva la forma di una clessidra messa in orizzontale, mi colpì così come aveva fatto Isa, e di colpo potei tornare a muovermi e parlare. Respirai per un po’ affannosamente nel tentativo di recuperare l’aria che fino a quel momento non avevo respirato, dopodiché mi sforzai di parlare.
«C-che hai fatto?», chiesi, un po’ incredula e ancora un po’ scioccata da cosa era appena successo.
«Questa qui era Dagaz, il giorno. Ha il significato di “illuminazione” o “trasformazione”, motivo per cui può annullare gli effetti di qualsiasi altra runa. Volendo, avrei potuto usare anche Kenaz, ovverosia il fuoco: è un incanto che richiede un minore dispendio di energia. Così facendo però ci avrei messo molto più tempo, dovendo aspettare che il ghiaccio fondesse, e tu probabilmente saresti morta. Ora capisci quanto è importante saper usare le rune per sopravvivere, qui?»
Mi trovai costretta ad annuire e dargliela vinta: da come l’aveva descritto, me l’ero vista davvero brutta.
«D’accordo Hildr, mi hai convinta. Quindi, come imparo ad utilizzare le rune?»
«Per farla semplice, devi innanzitutto conoscere i loro significati; a quel punto, concentrandoti intensamente su ciò di cui hai bisogno e sulla runa corrispondente, dovresti riuscire a richiamarle come strumenti di supporto. In ogni caso, devi sceglierne una in particolare e che ti rappresenti. Pensa intensamente a te stessa, concentrati solo su quello ignorando tutto il resto, e la tua runa marchierà il tuo corpo, rendendoti capace di proseguire il viaggio».
Feci come mi aveva detto e mi focalizzai sulla mia persona. Qual era un mio tratto distintivo? Qual era la mia maggiore capacità? Qual era il mio elemento?
Dopo una manciata di minuti sentii un bruciore sul braccio sinistro e aprii di scatto gli occhi, per gettare subito lo sguardo verso la parte del corpo interessata dal dolore. Vidi un’ustione circa otto centimetri sotto la spalla: aveva la forma di una delle rune evocate da Hildr. Era una linea dritta verticale e, sul lato destro, erano tracciati due segmenti più piccoli e obliqui, rivolti verso il basso.
«Interessante», commentò la valchiria. «Sembra che la tua runa sia Ansuz, il linguaggio. O, come la chiamiamo da queste parti, la bocca di Odino. Sai, credo sia proprio adatta a te, con la lingua lunga che ti ritrovi».
Scrollai le spalle: ora che ero stata marchiata ritenevo che avrebbe potuto giovare accantonare per un po’ questa storia delle rune. E poi sul serio, Ansuz è adatta a me perché ho la lingua lunga? Se Hildr non avesse avuto una spada enorme e luccicante l’avrei già presa a pugni. Sapendo tuttavia che questo non avrebbe risolto nulla, cambiai semplicemente argomento.
«Dunque, di grazia, ora che mi sono ambientata potresti dirmi dove siamo dirette?»
Hildr mi guardò infastidita. Appena mi ha vista era dolce e carina con me, ma mi è bastato mostrarle la mia vera natura per raffreddare notevolmente il suo comportamento nei miei confronti: non mi sarei stupita affatto se la runa che mi avesse marchiata fosse stata proprio Isa.
«Innanzitutto, chiedi le cose con più gentilezza», sentenziò. «Comunque, il viaggio comincia con Helheim, il regno dell’oltretomba governato da Hel, figlia di Loki l’ingannatore».
«Iniziamo con qualcosa di allegro, allora!» commentai sarcasticamente, ricevendo un’occhiataccia da parte di Ratatoskr e un sospiro rassegnato di Hildr.
«Se hai finito possiamo anche andare: sali sul mio cavallo» mi intimò, e feci come mi aveva detto; dopodiché ci alzammo entrambe in volo: lei con le proprie ali e io in groppa al cavallo alato.
   
 
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