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Autore: _Frame_    18/03/2018    4 recensioni
1 settembre 1939 – 2 settembre 1945
Tutta la Seconda Guerra Mondiale dal punto di vista di Hetalia.
Niente dittatori, capi di governo o ideologie politiche. I protagonisti sono le nazioni.
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[On going: dicembre 1941]
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[AVVISO all'interno!]
Genere: Drammatico, Guerra, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Miele&Bicchiere'
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164. Testarda e Permalosa

 

 

Diari di Islanda

 

Non ho poi così tanti ricordi di quando ero piccolo. Per lo più ricordo frammenti di immagini che non riesco nemmeno a collegare fra loro, come ritagli di un quadro o tessere di un puzzle, ma sono comunque memorie che conservo gelosamente nel cuore e che non voglio dimenticare, perché hanno pur sempre contribuito a formarmi e a farmi diventare la nazione che sono. Certi ricordi possono addirittura sembrare inutili, superficiali, senza scopo, ma un significato ce l’hanno, anche se non è sempre facile da trovare.

Mi ricordo la prima volta in cui ho posato i piedi nudi sull’erba ghiacciata della mia terra, la prima volta in cui mi sono retto da solo sulle mie gambe, la mia prima alba, la prima volta in cui ho sentito il vento della mia nazione soffiarmi fra i capelli, la prima sensazione di buio e smarrimento che ho provato quando ho realizzato di essere solo in una landa sconosciuta e sconfinata tutta da scoprire, la prima volta in cui ho carezzato il piumaggio di Puffin, e la prima volta che sono stato preso in braccio da mio fratello e accolto dal resto della mia famiglia.

Non ho intenzione di dimenticare nulla di tutto ciò, nemmeno i ricordi più spiacevoli. Le tante lotte e litigate fra noi cinque, le continue guerre, le minacce fra Danimarca e Svezia, la volta in cui ho visto lui e Finlandia andarsene e allontanarsi senza sapere se sarebbero tornati, se saremmo mai più stati una famiglia, o se un giorno anche io avrei dovuto lottare contro di loro.

Anche quando sono cresciuto, anche quando ho cominciato a reggermi davvero sulle mie gambe e a prendere piena consapevolezza della mia natura di nazione, quella paura non è mai svanita, e sono sempre vissuto nel timore che un giorno sarebbe successo di nuovo, che loro quattro avrebbero di nuovo litigato e che ci saremmo ritrovati divisi. Era una paura innaturale, non avrei dovuto preoccuparmi per loro perché per una nazione nulla conta di più del suo stesso paese, e invece io continuavo a sentirmi legato a loro come un normale essere umano. Non avrei mai creduto che un giorno io stesso sarei stato trascinato dentro quella lotta, perché ho sempre guardato il loro conflitto da lontano, sempre protetto da qualcuno più forte di me, sempre standomene aggrappato alle gambe di mio fratello e di Danimarca, proprio come un vero bambino umano.

Quando poi mi sono ritrovato nel bel mezzo della battaglia, ho rivissuto quella paura, ma sotto una luce nuova. Dovevo combattere, questo era indiscutibile, ma dovetti anche scegliere di far del male a coloro che più amavo per non vederli morire. Dovetti scegliere il male minore. Sembra un paradosso ma è così, esattamente come mio fratello mi aveva affrontato per non farmi finire sotto la furia di Prussia. Io stesso dovetti dimostrare di aver imparato quell’ultima lezione, agendo a mia volta in quella maniera.

Continuai a imparare. Imparai che il dolore non può essere cancellato, che non possiamo sottrarci alle sofferenze e alle difficoltà, ma possiamo controllarle e affrontarle per far sì che diventino parte di noi, aiutandoci a superare e a combattere quelle che verranno poi. Ma lo imparai forse nella maniera peggiore. Lo imparai quando mi ritrovai a combattere contro Danimarca, io e lui soli, come due nemici qualsiasi.

 

.

 

Il latrato di Inghilterra si propagò attraverso la distesa di nuvole, superò i boati delle cannonate che si stavano consumando fra gli scrosci delle onde saltate in aria sotto gli schianti delle salve, e raggiunse le orecchie di Islanda. Islanda rilassò la tensione delle mani chiuse attorno alle energie della King George V e del Norfolk, scivolò di un passo di lato, e girò lo sguardo di striscio verso il punto del cielo da dove era provenuto quell’urlo di dolore.

Il corpo di Inghilterra crollò sul tappeto di foschia. Prussia si rialzò, si elevò davanti a lui con il braccio teso e la mano serrata. Gli aveva appena scaricato un pugno sullo stomaco ricucito, atterrandolo. Inghilterra tremò sotto uno spasmo di dolore, rovesciò il viso di lato affondando la guancia nella nebbia, contrasse la schiena dando un colpo di reni e tornò immobile, a pancia all’aria.

Una botta di panico si abbatté su Islanda, dolorosa come se fosse stato lui a incassare il pugno sullo stomaco. “Inghilterra!” Calò le braccia, sciolse la presa attorno ai globi di energia con cui aveva sparato le raffiche di salve addosso alla Bismarck, e volò verso Inghilterra. Prussia si appese con una mano al fianco insanguinato, lanciò uno sguardo fugace a Islanda – due scie di luce rossa nella foschia – e si spinse all’indietro, finendo risucchiato dalle nuvole. Scomparve. Islanda terminò la corsa cadendo in ginocchio, raccolse le braccia di Inghilterra e gli fece sollevare le spalle, rialzandolo da terra. “Stai bene? Ti ha riaperto la ferita?”

Inghilterra strinse i denti ed emise un altro lungo e rauco lamento di agonia. Tremò ancora. Violenti crampi di dolore gli scossero il corpo annaffiato dal sangue che stava continuando a trasudare dalle piaghe riaperte sotto le bende, sottilissimi nastri di fumo serpeggiarono da sotto le maniche e dal bavero della giacca, e si sciolsero al vento come polvere. Inghilterra guadagnò un singhiozzo di fiato che lo fece sobbalzare fra le braccia di Islanda. “S-sta...” Riaprì le palpebre. Feroci e roventi fiamme smeraldine gli accesero le iridi. Le pupille, ristrette come aghi, bucarono la foschia e puntarono le nuvole dov’era appena sparito Prussia. “Scappando.” Grugnì un altro lamento e si torse in avanti per allacciare un braccio attorno alla pancia.

Anche Islanda spostò lo sguardo sulla nebbia che si stava riaddensando. Lampi bianchi e rossi tambureggiarono fra le nuvole, il fumo proveniente dalle esplosioni tinse la foschia di un fitto e colloso color catrame, gli schianti del combattimento scossero il cielo come una serie di martellate date a una lastra d’acciaio. Islanda scosse il capo. “Non importa,” gli disse. “Non pensarci. Non può comunque andare lontano.” Strinse di più le braccia attorno a quelle di Inghilterra, indurì i muscoli delle spalle, e compì un passo all’indietro per sollevarlo. Il corpo di Inghilterra si appesantì di colpo e trascinò di nuovo tutti e due con le ginocchia a terra.

Inghilterra si accasciò, stropicciò una fitta e scura espressione di dolore, e rotolò sul fianco tenendo il braccio spremuto contro la pancia. Si massaggiò il ventre attorno alla medicazione, e dentro di lui fiorì di nuovo l’immagine della ferita che si scuciva, dei lembi di pelle che si riaprivano lasciando scivolare fuori una massa informe di sangue e budella fumanti. Ingoiò fiato e paura. Sbatté di nuovo gli occhi che lacrimavano sudore, mise a fuoco la distesa di nuvole ma la vista rimase appannata, come filtrata da un vetro sporco. Troppa foschia, maledizione. Piantò un gomito a terra e si trascinò da solo verso il panorama del campo di battaglia. Grappoli di lampeggi brillavano sulle sagome della Rodney, della King George V e del Norfolk, tutti spari diretti contro la barriera di vapore e schizzi d’acqua che fiammeggiava attorno alla Bismarck. Inghilterra assottigliò le palpebre e scavò ancora con lo sguardo. Dove diavolo è il Dorsetshire? Se solo... se solo fosse già nel mio campo di manovra, allora potrei... Chiuse e riaprì la mano con cui non si stava reggendo la pancia, tastò l’umidità in cui era immerso, e la sensazione di freddo gli punse il cervello. Già, si disse. Potrei! Fece scivolare la mano tremate davanti a sé, appiattì il palmo verso il basso, e diede un debole taglio all’aria, srotolando il pannello di comando.

Lo sguardo di Islanda finì catturato dall’improvviso abbaglio verde comparso davanti a Inghilterra. “Cosa...” Islanda aggrottò un sopracciglio. “Cosa fai?”

Nell’angolino in basso a destra della planimetria del campo di battaglia, una quarta nave britannica giaceva silenziosa nel suo piccolo rettangolino poco distante da quello della Bismarck. Accanto a lei si leggeva ‘HMS Dorsetshire-40’.

Inghilterra affilò un ghigno aguzzo. Stese l’indice verso la nave appena comparsa, e i suoi occhi luccicarono di dolore e di follia.

Islanda realizzò quello che stava per succedere e trasse un ansito che lo lasciò a bocca aperta. Non vorrà mica... “No, non farlo!” Tese la mano verso il polso di Inghilterra. “È troppo –”

 

 

Hai selezionato incrociatore pesante HMS Dorsetshire-40, classe County. Prego, selezionare un’opzione.”

 

Trasferimento

Ancoraggio

Comandi Artiglieria

 

 

Inghilterra si scostò dal tocco di Islanda e prese i comandi dell’incrociatore. L’energia del Dorsetshire crebbe dentro il suo corpo dolorante, gli ingabbiò il cuore in una morsa elettrica, e gli indurì i muscoli come una frustata.

Islanda aggrottò un’espressione di rimprovero e fu costretto a sorreggerlo di nuovo. “Inghilterra, lascia stare, usa solo la Rodney, non puoi sforzarti in questa maniera!”

Inghilterra digrignò e sbuffò fra i denti. “I siluri.” Tossì. La gola rauca e il respiro affaticato. “Ora...” Torse le spalle all’indietro, tremò, e resistette al peso dell’incrociatore che gli premeva sul petto. “Ora che è la Bismarck incendiata, dobbiamo,” boccheggiò ancora, “dobbiamo cominciare a silurarla. È solo con i siluri che affonderà, perché le falle la faranno riempire d’acqua.” Scivolò via dalle braccia di Islanda, tornò a cadere in ginocchio fra le nuvole, schiacciò il peso sui gomiti, e strisciò in avanti per avvicinarsi alle sagome delle sue navi. “Cessiamo il fuoco con le salve.” Altri respiri affaticati gli scossero la schiena. “Il fumo dell’incendio e delle esplosioni sta creando troppa foschia, ci rendono la mira poco precisa.” Distese il braccio rimanendo sdraiato, strinse e riaprì la mano più volte per condensare fra le dita l’energia del Dorsetshire, e i suoi occhi tornarono a brillare di combattività. “Io continuo a usare i pezzi principali solo con la Rodney, e per il resto pensiamo solo a silurarla.”

Lo sguardo di Islanda vacillò di incertezza e tornò a ripercorrere il corpo di Inghilterra che non riusciva nemmeno a reggersi sulle ginocchia. Islanda si morse il labbro. “Va...” Sospirò. Non poté fare altro che accettare. “Va bene.”

Inghilterra gli rivolse uno sguardo di approvazione. Usò un braccio per ripararsi il viso da una zaffata di vento e fumo rigettata dal combattimento sottostante, accostò le dita all’occhio destro – quello che gestiva la vista del Dorsetshire –, roteò i polpastrelli assestando la mira a nove virgola tre miglia nautiche, e fece lo stesso con l’altro occhio – quello della Rodney –, fermandosi a sei miglia. Rivolse la vista sgranata di verde e nero in mezzo alla foschia che regnava attorno a lui e a Islanda, concentrò lo sguardo dove l’energia di Prussia si stava affievolendo, trasmettendogli comunque quella sensazione di odio e rabbia che gli faceva accapponare la pelle, e guadagnò un respiro più profondo e dolorante. “Islanda,” spinse il gomito di lato per girarsi verso di lui, “ora...” Altri respiri affaticati gli appesantirono la voce. Inghilterra stritolò i pugni e mostrò un’espressione più buia. “Ora tu insegui Prussia, lo raggiungi...” Guardò Islanda negli occhi. Fiamme vive arsero nelle sue pupille ristrette dal dolore. La sua voce gorgogliò come un ringhio, aspra e graffiante. “E lo uccidi.”

Islanda impallidì di colpo e smise di respirare, sentendo il cuore cadergli nello stomaco. Si sentì trafitto da quell’occhiata e da quelle parole come se Inghilterra gli avesse conficcato un dardo di fuoco fra le costole. Sotto di loro tuonò un’esplosione più violenta che scosse l’intera distesa celeste, ma lui non se ne accorse nemmeno.

“Anche se avrei voluto farlo io,” continuò Inghilterra, “non,” tremò di nuovo, le sue labbra vibrarono di fatica, “non riesco nemmeno stare in piedi e devo,” lasciò cadere il capo fra le spalle, “devo dare precedenza alla battaglia e alla vittoria, anche se significa mettere da parte l’orgoglio. Ormai Prussia è a terra, non può reagire, e dobbiamo toglierlo di mezzo prima che possa riprendersi.” La cicatrice sotto l’ombelico non si era riaperta, ma emanò lo stesso una pulsazione bruciante. Inghilterra strinse di più il braccio attorno al ventre, strizzò la mano sulla stoffa della giacca, e rivisse il momento in cui Prussia gli aveva piantato il pugnale nello stomaco, spruzzando fiotti di sangue e tranciandogli la carne. Il momento in cui lo Hood si era spaccato in due ed era esploso in una bolla di fuoco e luce. “Colpisci la Bismarck e falle esplodere il cuore, distruggila da dentro. Distruggi quella corazzata tramite il suo legame con Prussia.”

Islanda rimase a occhi sbarrati, lo sguardo allibito. “Distruggerne il cuore? Ma...” Brividi di paura gli corsero nel sangue, tremarono attraverso il suo corpo scosso dal vento. “M-ma io non so se...”

“Fallo!” Inghilterra staccò la mano dalla pancia e gli agguantò la giacca, tirandolo a sé. Gli occhi bruciarono come fiamme verdi, l’ombra della fronte aggrottata affilò un’espressione di minaccia che gli ombreggiava il volto. “Devi farlo ora, finché Prussia è svenuto e non ha la forza di muoversi.” Altro sangue trasudò dal suo corpo martoriato, rivoli scarlatti colarono attraverso la mano che aveva serrato sulla giacca di Islanda, il dolore si fece acuto e insopportabile come una corona di aghi piantati nel cervello. “Devi ammazzarlo, Islanda.” Inghilterra tremò ancora. I suoi occhi luccicanti di rabbia e sofferenza assunsero una sfumatura di supplica. “Non lasciare che scappi, non lasciare che ci sfugga un’altra volta, ammazzalo adesso. Sbrigati!”

Islanda deglutì. La gola gli si era seccata, aveva la bocca amara e impastata. Aprì le mani e si guardò i palmi, ancora bianchi per lo sforzo di aver sorretto due navi alla volta. Fargli esplodere il cuore? Socchiuse gli occhi, flesse le punte delle dita, ed evocò la sensazione di affondare il tocco nell’anima della corazzata, di stringere la presa attorno alla durezza del suo cuore pulsante e di infrangerne il guscio in un colpo solo. I nervi delle braccia si tesero, le mani bruciarono e il battito accelerò. Islanda sospirò. Annuì. “D’accordo.” Sfilò le braccia dalle spalle di Inghilterra, si rialzò, strinse le mani sui fianchi impugnando tutto il coraggio che gli batteva il corpo, e allungò un primo passo nella nebbia.

I tuoni della battaglia continuarono a scoppiare sotto di lui, il chiarore dei lampeggi spalancò la via di luce in mezzo alle nuvole, i fumi neri si divisero conducendolo dove il cielo era più limpido. Islanda agitò le dita, scaldò le mani formicolanti. Devo farlo. È il mio dovere, lo è sempre stato. Sotto di lui, l’incendio si dilatò sulla sovrastruttura della Bismarck. Le fiamme si espansero, si aggrapparono alle due torrette di prua, si impennarono verso il cielo rigettando sbuffi color catrame, e nascosero gli scoppi di luce provenienti dai cannoni che continuavano a sparare. Islanda corrugò la fronte, affondò un passo più lento e indeciso. Ma ora che colpirò Prussia e che disintegrerò la corazzata, cosa succederà? La Bismarck esploderà come lo Hood? E allora loro due... Il ricordo di Danimarca e di Norvegia sfrecciò attraverso la sua mente e provocò un doloroso tuffo al cuore. Saranno ancora a bordo? Moriranno anche loro assieme a Prussia? Affogheranno assieme al resto dell’equipaggio?

Islanda si avvicinò ancora e finì solleticato dalla fioca energia ancora respirante di Prussia, debole ma pungente come un vento di spilli sulla pelle. Divaricò le dita, preparò il colpo, i suoi occhi rabbuiarono. Ma non posso farmi fermare da questo, non posso, ormai è troppo tardi. Un altro passo, e la foschia davanti a lui si dissolse, sciogliendosi come vapore.

Il corpo di Prussia giaceva immobile, riverso sul fianco, circondato da riccioli di nuvola aperti come un guscio attorno a lui. Gli occhi chiusi, i capelli cadenti sulla faccia pallida, un braccio disteso davanti a sé e l’altra mano aggrappata al petto, le dita chiuse attorno alla luce argentata della croce di ferro.

Un moto di compassione scosse il cuore di Islanda, gli intristì lo sguardo. Mi dispiace, Prussia. Gli fu davanti, chiuse gli occhi per non guardarlo in faccia mentre lo uccideva, e distese il braccio. Non volevo finisse così fra noi. Divaricò le dita, si lasciò circondare da una spirale di energia elettrica proveniente dalla King George V, ne tastò il calore e il respiro, sincronizzando i battiti con quelli della nave, e flesse le punte delle falangi incontrando la solita resistenza tiepida e molliccia. Caricò il colpo che lo avrebbe ucciso assieme alla Bismarck.

 

♦♦♦

 

27 maggio 1941,

Oceano Atlantico Settentrionale,

Bordo della Corazzata Bismarck

 

Danimarca corse attraverso il corridoio invaso dal fumo, strinse gli occhi per resistere al bruciore del pulviscolo, trattenne il fiato per non respirare quell’aria scottante che era come un’inalata di fuoco, e si lasciò alle spalle il trambusto di voci, esplosioni e passi in corsa che si stavano propagando assieme all’incendio scoppiato sul ponte superiore. Il calore dell’incendio si dilatò bruciando attraverso le pareti e inseguì la sua corsa come un intreccio di braccia fiammeggianti. Le sirene d’allarme continuavano a squillare. Strida lunghe e acute come grida di terrore.

Danimarca saltò fuori dai fumi, si aggrappò allo spigolo di una parete, compì la curva correndo e sbattendo la spalla contro il muro opposto, e raggiunse la porta aperta della sala operazioni. “Norge!” Entrò nella camera, diede una sventolata al fumo che gli era rimasto incollato ai vestiti, e riprese fiato. L’aria affumicata e odorante di ferro fuso gli diede la nausea. “Giù è...” Boccheggiò, si tappò la bocca sopprimendo due tossiti roventi, e allentò la chiusura del bavero attorno al collo. Rivolse il pollice alle sue spalle. “È scoppiato un incendio.” Tossì ancora sputando una nuvoletta di fumo grigio.

Gilbird si girò per primo verso di lui e i suoi occhietti neri luccicarono di preoccupazione. Norvegia si sfilò le cuffie che aveva indossato per inviare gli ultimi messaggi radio ai convogli di soccorso che non sarebbero arrivati in tempo, le riappoggiò davanti al quadro di controllo e annuì. “Lo so.” Si passò una mano fra i capelli sudati e diede una strofinata alla nuca. “Fra le torrette Bruno e Caesar. Sta già divampando verso il ponte superiore e sta intaccando anche le batterie contraeree.” Guardò il soffitto. Le strilla delle sirene continuarono a gridare, altre cannonate scossero le pareti della camera, l’aria divenne ancora più calda e pregna dell’odore del fumo, e la corazzata divorata dall’incendio ruggì un profondo rantolio di dolore. Norvegia aggrottò le punte delle sopracciglia, il suo sguardo rabbuiò. “Prussia aveva ragione: sta per scendere l’Inferno in terra.”

Altre esplosioni martellarono attraverso le mura e il soffitto, scossero l’ambiente attorno a loro come se si fossero trovati all’interno di una scatola di latta. Le grida dei marinai si unirono a quelle degli allarmi, i loro passi continuarono a correre e a sbattere attraverso i corridoi, i ruggiti dell’incendio si espansero scottando attraverso l’aria sempre più rarefatta e pesante da respirare. Gilbird saltellò davanti ai quadri di controllo, guardò in alto, zampettò ancora dando due battiti d’ali, si girò, ripercorse la lunghezza dei pannelli, emise un piccolo cinguettio, e continuò a tenere il muso alto verso la presenza del padrone che sentiva farsi sempre più debole e dolorante.

Danimarca prese ancora fiato, diede un’altra sventolata con la mano davanti al viso, distolse lo sguardo dall’entrata della camera, e indurì l’espressione. “Evacuiamo.”

Norvegia lo guardò di striscio. “Cosa?” gli fece. “La nave?”

“No,” rispose Danimarca. “Le torrette. Tanto due di loro hanno già smesso di funzionare, ed è inutile tenere gli uomini là dentro aspettando che si arrostiscano come polli allo spiedo.” Corse al telefono appeso alla parete, accanto ai pannelli di controllo, e raccolse la cornetta. “Ora chiamo le stazioni di comando e...” Accostò il ricevitore all’orecchio. Nessun rumore, nemmeno un fischio, la linea era staccata. Danimarca serrò le dita attorno alla cornetta, graffiandoci le unghie sopra, e soppresse un ringhio di frustrazione. “Merda!” Sbatté il telefono. “Le linee sono saltate.” Ci fu un’altra esplosione più secca, le pareti della camera traballarono di nuovo, le luci sfarfallarono, e un nevischio di polvere piovve dal soffitto.

Norvegia tese una mano davanti alla fronte e sollevò lo sguardo. “Forse c’è un problema al quadro elettrico.”

Danimarca annuì, amareggiato. “Dev’essere stato il colpo di poco fa che ha sfracellato la stazione di controllo dell’artiglieria.”

“Ma le due torrette ancora funzionanti stanno lo stesso continuando a sparare, anche senza il suo supporto.” Norvegia aggrottò un sopracciglio e mostrò un’espressione scettica. “Come...”

Altre tuonate a ripetizione esplosero all’esterno della sala e si propagarono lungo il corridoio assieme ai gorgoglii dell’incendio che continuava a crescere.

Danimarca si aggrappò con una mano alla sporgenza di un pannello per non perdere l’equilibrio e piantò saldamente i piedi sul pavimento oscillante. Sbuffò. “Stanno sparando indipendentemente, non c’è altra spiegazione.”

Norvegia si appoggiò a sua volta al muro e fece roteare lo sguardo. “Alla cieca, quindi.”

“Tipico di Prussia.” Danimarca torse le labbra in un mezzo ghigno di esasperazione e si contenne dal ridacchiare. “Non si fermerà nemmeno quando la corazzata sarà già sott’acqua. Fino a che sarà in grado di sparare, lui sparerà.”

Altri scossoni si abbatterono sulla camera di comando. Danimarca sbandò e sbatté con la spalla alla parete, Norvegia scivolò con un piede di lato per divaricare le gambe e tenersi anche lui aggrappato alla parete tremante. Le luci saltarono e tornarono dopo un rapido sfarfallio, il trambusto delle esplosioni superò le strilla delle sirene. Gilbird svolazzò e tornò ad atterrare sul quadro delle apparecchiature radio, si rimise a muso alto, zampettò avanti e indietro, e riprese a cinguettare sbattendo le ali a ogni rimbalzo. Danimarca lo notò e corrugò un sopracciglio. Perché si agita tanto?

“Continuerà a sparare,” ripeté Norvegia, a voce bassa e meditabonda. Strinse le mani alla parete e un’ombra di preoccupazione gli velò lo sguardo. “Ma per quanto tempo sarà ancora in grado di farlo?”

Una scossa di tensione si arrampicò lungo la schiena di Danimarca. Lui seguì lo sguardo di Gilbird, fissò il soffitto, e si avvicinò alla presenza di Prussia che diventava sempre più debole da percepire. “Cosa credi che gli starà facendo Inghilterra?”

Norvegia guardò in alto a sua volta. Scosse il capo. “Non lo so.” Si staccò dalla parete e compì un passo senza reggersi. “Ma...”

Una cannonata centrò la corazzata e l’eco tuonò attraverso l’intero corpo d’acciaio. Gilbird spiccò il volo e perse una piuma per la paura. Norvegia perse l’equilibrio, cadde in avanti e Danimarca lo acciuffò al volo. Riccioli di fumo entrarono dal corridoio, scivolarono sul pavimento districandosi come tentacoli, e invasero la sala comandi, evaporando in una nebbiolina che odorava di bruciato.

Danimarca sentì il sangue bruciare. Il battito vivo e prepotente del suo cuore galoppante gli ordinava di continuare a combattere e di fare di testa sua per poter sopravvivere. “Ci stanno continuando a colpire!” Rimise Norvegia in piedi, lo strinse per le spalle e si chinò a guardarlo negli occhi. “Ascolta, il nostro compito qui è quello di tenere al sicuro questi uomini, perciò faremo così.” Gli rivolse la punta dell’indice. “Cerca un ufficiale e mandalo a evacuare le due torrette fuori uso, fa’ uscire gli uomini, fai indossare a tutti sia i giubbotti di salvataggio che le maschere antigas. Senza il telefono non possiamo nemmeno comunicare con le altre sale di comando, e nemmeno con le centrali dei boiler e quelle elettriche, quindi manda qualcuno a occuparsi anche degli operai che stanno lavorando laggiù.”

Norvegia lo squadrò con espressione scettica. Sentì odore di bruciato, e non era per il fumo dell’incendio appena entrato nella sala. “E tu invece cosa credi di fare?”

Altre esplosioni scossero la corazzata, altra polvere si sbriciolò dal soffitto, qualcosa cadde dalla scrivania e rotolò lungo il pavimento, e le luci sfarfallarono di nuovo.

Danimarca inspirò a fondo. Sfilò le mani dalle spalle di Norvegia, si rimboccò le maniche, allentò il bavero della giacca, e puntò di nuovo lo sguardo al soffitto. “Vado a salvare Prussia.”

Gilbird planò sulla scrivania, e i suoi occhietti luccicarono di speranza e gratitudine.

Danimarca corse verso l’uscita della camera. “Lo riporto a bordo, se è ancora vivo,” esclamò dalla soglia. “Tu intanto avverti un ufficiale e poi aspettami di nuovo qui.” Corse via prima che Norvegia potesse protestare e che riuscisse a fermarlo.

Tornò a immergersi nel fumo che aleggiava nel corridoio, si tappò un orecchio per resistere agli strilli ondeggianti delle sirene d’allarme, e accelerò la corsa come se avesse avuto le fiamme dell’incendio a bruciare sotto i piedi. Il calore gli invase le narici, la bocca e i polmoni, soffocandogli la gola. Danimarca si tappò il naso e chinò la fronte per non respirare direttamente contro il tunnel di fumo. Continuò a correre. Non puoi morire, crucco. Non qui. Guardò in alto, sbatté le palpebre davanti agli occhi che si stavano arrossando, e inviò i suoi pensieri direttamente a Prussia. Anche se io stesso vorrei ammazzarti per tutto quello che ci hai fatto e che ci stai facendo passare. Ma non è ancora giunta la tua ora, e non puoi crepare in questo modo, te lo impedisco! Calò la mano lungo il fianco, unì le punte delle dita, le schioccò, e si smaterializzò. Abbandonò la corazzata.

 

♦♦♦

 

Islanda distese il braccio tremante verso il corpo accasciato di Prussia, spalancò la mano, il vento gli passò fra le dita divaricate facendo sfrigolare l’energia elettrica accumulata dalla King George V da cui stava per sparare. Un’espressione di conflitto gli attraversò il volto, una scossa di compassione gli intristì gli occhi. Mi dispiace, Prussia. Restrinse le palpebre e allontanò lo sguardo dall’immagine del suo corpo distrutto, del suo viso spento, della mano aggrappata al luccichio argentato della croce di ferro. Islanda sentì sulla sua stessa pelle tutta la sofferenza che Prussia aveva provato combattendo per la sua nazione proprio come avevano fatto lui e Inghilterra. Non volevo finisse così fra noi.

Alle sue spalle, ancora accasciato fra le nuvole, Inghilterra serrò i pugni e irrigidì, colto da una scossa di tensione e aspettativa sfrecciata attraverso il cuore. Il battito accelerò, sudore gelato gli bagnò la pelle, lo stomaco si chiuse in una morsa di ansia. I suoi occhi lucidi e ristretti di dolore divorarono la scena. Inghilterra si morse il labbro, una riga di sangue gli corse attraverso la fronte, solcò quell’espressione da disperato. Fallo, fallo, Islanda, uccidilo! Non fartelo scappare! Ammazzalo senza pietà!

Islanda inspirò. Chiuse gli occhi, flesse le punte delle falangi, e si preparò a schiacciare il pugno e a stritolare il cuore della corazzata con un ultimo e micidiale colpo.

Un’ombra si materializzò dietro a Prussia con la velocità di uno schioppo di tuono. Lo protesse con il suo corpo, impennò un braccio, e scagliò via la mano di Islanda colpendogli il polso.

Islanda sobbalzò per lo spavento e arretrò. “Ah!”

Anche Inghilterra strabuzzò lo sguardo sulla scena, restando a bocca aperta. “C-cosa?” esclamò. “Ma quello...”

Danimarca calò la mano con cui aveva respinto il colpo di Islanda, raccolse le spalle di Prussia, si allacciò il suo braccio attorno al collo, e forzò un passo all’indietro per tirarlo su. “Dai, crucco,” disse fra i denti. “Non crepare adesso.”

Islanda rimase a bocca aperta, paralizzato, con la mente congelata, incapace di reagire. Si guardò la mano con cui non era riuscito a sparare, la rigirò percependo ancora lo schiaffo di Danimarca sul suo polso, vivo come un’impronta fosforescente, e sentì un tuffo al cuore.

Danimarca resse il corpo inerte di Prussia contro di sé, raddrizzò le spalle, e sventolò un saluto verso Inghilterra, sorridendogli malignamente. “Grazie della consegna!” Incrociò un ultimo sguardo con Islanda, gli fece l’occhiolino, e stese la mano per tornare a smaterializzarsi.

Islanda scrollò il capo, si riprese, come colto da una scossa alla testa, e tese il braccio verso Danimarca. “A-aspetta, non...” Danimarca e Prussia svanirono in uno schiocco di dita. Il tocco di Islanda trapassò il cumulo di foschia che si era arricciato dopo la loro scomparsa e afferrò il vuoto.

Islanda strizzò due volte la mano dentro la nebbiolina. Si ricordò di sbattere gli occhi solo quando cominciarono a bruciare, e di chiudere la bocca solo quando cominciò a sentire il sapore ferroso sulla lingua e il peso dell’aria premere sui polmoni che avevano smesso di respirare. Girò la mano verso di sé. Tremava. Uno sciame di pensieri gli ronzò attorno alla testa e rimbombò fra le pareti del cranio come le esplosioni che tuonavano sotto di lui. Era... era lì, realizzò. Era lì a un passo da me, tanto da riuscire a toccarmi. Islanda si strinse il polso e lo accostò al petto come se si fosse trattato di aggrapparsi a quella rapida immagine di Danimarca che gli era sfrecciata davanti agli occhi. Lo aggredì una violenta ondata di nostalgia. Le palpebre bruciarono, una morsa di fuoco gli soffocò il battito del cuore. Eravamo così vicini.

“Quello era davvero Danimarca?”

Islanda si girò verso la voce appena emersa dalla foschia.

Inghilterra strinse una mano contro la spalla, zoppicò di due passi in avanti e gli sfilò accanto. Continuava a sanguinare, la schiena era ricurva e il passo incerto, ma era di nuovo in piedi.

Islanda balbettò. “I...” Deglutì. “Io... mi dispiace. Non pensavo...” Si strinse nelle spalle, facendosi più piccolo. “È comparso all’improvviso e...”

Inghilterra compì un altro passetto zoppo e lo superò. “Prussia non può combattere,” mormorò. Il suo sguardo era distante, come se non lo avesse nemmeno ascoltato. “Ma Danimarca e Norvegia possono ancora farlo al posto suo. Possono ancora farlo.” Allargò le palpebre annerite e infossate nel pallore del viso, e un lampo di illuminazione gli accese gli occhi. “Non avevo minimamente considerato l’idea che anche loro due avrebbero potuto fare la differenza.”

Islanda sussultò e sudò freddo. Dentro di sé, cominciò a capire.

Inghilterra sbuffò e torse un mezzo ghigno di spietatezza. “Se sarà Danimarca a terminare il lavoro di Prussia, se intende davvero continuare a prolungare la sua agonia, sarò ben lieto di accontentarlo. Quel Nordico...” Calò il braccio e contrasse la mano. Vene bluastre si ingrossarono fra le nocche, ramificarono dove la pelle era nuda, libera dalle bende, e pulsarono a ritmo del suo battito. “Farà la fine che desidera.”

Islanda ghiacciò sotto la spinta del vento. La pressione dell’aria gli scaricò addosso una zaffata di brividi gelati lungo il collo e la schiena. Tornò piccolo, debole e impotente, come la prima volta in cui aveva posato piede sul campo di battaglia di quella guerra.

 

♦♦♦

 

27 maggio 1941,

Oceano Atlantico Settentrionale,

Bordo della Corazzata Bismarck

 

Danimarca riatterrò nella sala operazioni, accolto dagli strilli delle sirene e dai tremori delle pareti scosse dai ruggiti dell’incendio e dai boati delle esplosioni. Si piegò sulle ginocchia, strinse la presa attorno al corpo di Prussia raccolto fra le sue braccia, e inarcò la schiena per sorreggerne il peso. Riprese fiato con un grugnito. La spina dorsale emise uno schiocco di dolore assieme alle caviglie, e l’improvvisa boccata d’aria asfissiante gli bruciò la gola e il petto.

Gilbird girò la testolina, i suoi occhietti puntarono il corpo del padrone e luccicarono di panico. “Pyo!” Il canarino spiccò il volo e sfrecciò superando la spalla di Norvegia.

Norvegia si girò a sua volta, catturato dal tonfo emesso dai piedi di Danimarca appena atterrati sul pavimento, e sussultò. “Sei già qui.” Era anche lui appena rientrato nella sala operazioni. Corse da Danimarca e si chinò piegando le ginocchia al pavimento. Il suo sguardo volò su Prussia, senza mutare espressione. “È vivo?”

Danimarca allentò la presa, lasciò che le gambe di Prussia si adagiassero sul pavimento, accanto alle zampette di Gilbird già immerse nel suo sangue, ma gli tenne le braccia attorno alle spalle. Scosse il capo con un gesto rapido. “Non lo so,” soffiò con fiato ancora corto. “La ferita però sanguina di nuovo.” Lo stese a terra, scostò le ciocche di capelli che cadevano in disordine sul viso che pareva addormentato, e gli toccò la fronte. Scottava. Danimarca arricciò una smorfia di disappunto. “E la febbre è salita ancora.” Spostò una gamba all’indietro per non sporcarsi troppo con il sangue che stava cominciando ad allagare il pavimento. “Come diavolo fa a bollire se non ha quasi più sangue in corpo?”

Gilbird volò sulla spalla di Prussia, gli saltellò accanto al viso, gli beccò due volte la guancia, flesse la testolina, pigolò, e gli tirò una ciocca di capelli per farlo rinvenire.

Norvegia aspettò che l’eco di una tuonata si ritirasse, allontanò lo sguardo dalla porta rimasta aperta, e tornò a rivolgersi a Danimarca. “Ha battito?” domandò. “Respira?”

Danimarca fece scivolare due dita sulla gola di Prussia, sotto il mento, e stette in silenzio. Non sentì nulla. La vena immobile, il battito impercettibile, il respiro assente. Danimarca scosse il capo. “I-io non lo so.”

Altre cannonate piovvero addosso alla corazzata, le pareti continuarono a scuotersi, qualcosa si rovesciò e sbatté contro il muro tremante, metà delle luci si spensero facendo calare la penombra della camera, e nei corridoi aumentarono i ruzzolii dei passi in corsa appartenenti agli uomini in fuga dalle postazioni appena evacuate.

Norvegia aggrottò la fonte ma tenne lo sguardo freddo. “Cosa facciamo?”

Danimarca lanciò un rapido sguardo alle sue spalle, verso la porta aperta che dava sul corridoio sommerso dalla nebbiolina evaporata dall’incendio. Scosse il capo. “Non possiamo evacuare ancora la nave. È ancora in assetto da guerra, sta continuando a sputare fuoco come un vulcano, e non spetta a noi alzare la bandiera nera. Il comando non è nostra responsabilità ma solo di Prussia.”

“E dovremmo continuare a combattere fino a sbriciolarci?” ribatté Norvegia. “Con Prussia ridotto in questo modo che non sarà mai in grado di dare altri ordini e di dirigere le operazioni?”

Danimarca si morsicò il labbro, diede una rosicchiata con gli incisivi per sopprimere il formicolio di indecisione che gli bruciava nella bocca, e fece scivolare lo sguardo di nuovo su Prussia. Gilbird si era spostato sul suo petto, continuava a scrutare il viso addormentato del padrone e si teneva aggrappato con le zampette alla stoffa della giacca, accanto alla croce di ferro. Danimarca allargò le palpebre. La croce che indossava anche lui divenne più pesante, il bruciore aumentò, corse attraverso le mani e si trasformò in un morboso e primordiale desiderio di cui conosceva bene il sapore. “Forse...” Una fiammata di eccitazione fiorì in fondo al cuore, bruciò fino al suo viso. Danimarca stese un sorriso aguzzo da guancia a guancia, la penombra che regnava nella camera si infossò attorno ai suoi occhi che brillavano di una luce famelica. “Forse ho un’altra idea.”

Norvegia lo guardò storto e non osò indagare.

Danimarca guardò ancora dietro di sé, tornò a rivolgersi a Norvegia e gli strinse una mano. “Ascolta, senza di Prussia non andiamo da nessuna parte, perché è lui che dirige il teatrino, questo è chiaro. Ma finché sarà ridotto così è come se fosse morto, e siamo in balia di noi stessi. E se Prussia ora è un cadavere ambulante è solo perché è ancora legato alla corazzata che sta soffrendo e che gli trasmette tutto il dolore. Perciò...” Si strinse nelle spalle e trasformò il ghigno in un sorrisetto da furbo, come quando stava per annunciare qualche idiozia. “Perciò pensavo... se sottraessimo a Prussia un po’ di quel dolore, e se lo spartissimo con lui in modo da togliergli un po’ di peso e da fargli per lo meno riprendere conoscenza, allora...”

“Vorresti...” Lo stesso lampo di illuminazione attraversò anche lo sguardo di Norvegia. Gli fece aggrottare le sopracciglia in un’espressione di rimprovero che anticipava le sue conclusioni. “Che assumessimo noi i comandi della Bismarck?”

“No, non noi.” Danimarca sollevò il mento e si piantò il pollice sul petto rigonfio, sotto la croce di ferro. “Io lo farò. Tu devi restare qua con Prussia fino a che non si riprenderà.” Rivolse l’indice al soffitto. “Io invece andrò su e continuerò a combattere contro Inghilterra, in modo da prendere tempo.”

L’oscurità sul volto di Norvegia si increspò attorno ai suoi occhi di ghiaccio, accentuò la sua espressione di disapprovazione. “Non puoi.” Tolse la mano da sotto quella di Danimarca e gli cinse il polso bendato, trattenendolo. “La corazzata è troppo danneggiata ed è comunque troppo forte.” Un fremito passò attraverso il suo tocco. Un barlume comparve nei suoi grigi occhi nebbiosi, rendendoli ancora più intensi e profondi, meno distanti. “Ti ammazzerà.”

Il sorriso d’entusiasmo di Danimarca divenne un sorriso più mite e sdrammatizzante ma non abbandonò lo stesso la curva delle labbra. Danimarca fece spallucce. “Meglio morire in battaglia che morire in catene senza aver fatto nulla per impedirlo, no? Siamo pur sempre vichinghi che non aspettano altro che una nobile morte consumata sul suolo di guerra annaffiato dal loro stesso sangue.” Si sfilò dal tocco di Norvegia e gli strinse le mani attorno alle spalle. Lo guardò negli occhi e fece cadere il sorriso in un’espressione più seria e inflessibile. “Però tu devi salvarti. Devi stare qua assieme a Prussia fino a che non rinverrà e poi devi aiutarlo a mettere in salvo tutti questi uomini. Promettimelo.”

Gli occhi di Norvegia rimasero incatenati al suo sguardo, imprigionati in quella penombra velata di fumo e disturbata dalle grida delle sirene, e riuscirono lo stesso ad affogare nell’azzurro di quelle iridi limpide e sincere che non lo avevano mai ingannato e di cui si era sempre fidato. Norvegia sospirò, capì che non c’era altra soluzione, e annuì con un cenno lento e basso. “Sì.”

Danimarca distese un sorriso spavaldo e rasserenato. Gli diede un’ultima stretta di incoraggiamento sulle spalle, si rialzò da terra schiacciando un passo nel sangue di Prussia, e sventolò un cenno con la mano. “Vado e torno.” Corse via tatuando due impronte rosse dietro di sé, e sparì nel trambusto del corridoio invaso dal fumo e dall’odore di bruciato.

Norvegia rimase da solo. Il corpo di Prussia ancora accasciato fra le sue braccia, Gilbird aggrappato con le zampette alla giacca del suo padrone, e gli scossoni dei bombardamenti a far tremare le pareti d’acciaio. Strinse le braccia per non far scivolare Prussia dalle sue gambe piegate, e soffermò lo sguardo sul suo viso pallido rovesciato su una guancia, sulle ciocche di capelli cadenti davanti agli occhi chiusi, sulla sua espressione immobile e priva di dolore, e sulla chiazza di sangue nero che stava diventando sempre più larga attorno a loro.

Norvegia socchiuse le palpebre. Il suo sguardo tornò duro, freddo e impenetrabile come una lastra di ghiaccio. Nel suo cuore fiorì un minuscolo germoglio di pietà accompagnato però da un sano e sincero disprezzo. Spera che non gli succeda niente, Prussia. Perché se qualcuno di noi dovesse rimetterci per colpa tua... Guardò la soglia della camera di comando da cui era uscito Danimarca per buttarsi nella battaglia, trattenne il respiro, e percepì il peso elettrico della sua croce di ferro spingere sullo sterno attraverso la stoffa della giacca. Non te lo perdonerò mai.

 

♦♦♦

 

Danimarca affondò un passo ampio e sicuro nel tappeto di nuvole, attraversò i lampi delle cannonate che stavano esplodendo sotto di lui, superò i profili dei pennacchi di fumo nero che sorgevano dall’incendio già in corso a bordo della Bismarck, inspirò a fondo l’aria salmastra a cui si era mescolato il vapore scoppiato dall’acqua di mare bruciata, e agitò le mani contro i fianchi per scaldare il flusso del sangue attraverso le dita. Compì un altro passo, raggiunse un punto dove la foschia era più rarefatta, e si fermò. Il suo sguardo discese le nuvole, raggiunse la sagoma della Bismarck, e scrutò attraverso le fiammate dell’incendio che divampava sulla sovrastruttura e attraverso i lampi che scoppiavano dalle sue batterie di cannoni. La bandiera tedesca continuava a sventolare, alta e fiera, gonfiata dalle risacche di aria e fumo nero.

Danimarca rinnovò il sorriso. Diede un’altra scrollata alle mani, pregustandosi l’ebbrezza calda e bruciante di avere un’energia simile a corrergli in corpo, e si lasciò travolgere da un’ondata di entusiasmo e di aspettativa. Il suo cuore batté rapido, gonfio di emozione. “Sai, bellezza, su una cosa il tuo padrone aveva proprio ragione: è da quando ti sono salito addosso che non ho fatto altro che desiderare provare a tenerti fra le mani almeno una volta.” Danimarca raddrizzò le spalle, tenne la postura salda e ferma fra le spire di vento che gli soffiavano attorno come braccia d’aria ghiacciata, e si portò la mano al petto, sopra la croce di ferro. Strinse le dita. “Ma non lo farò da burattino.” Avvolse il ciondolo, diede uno strattone, e se lo staccò di dosso. Piegò il braccio sopra la testa, calpestò un passo in avanti, e scagliò via la croce con uno slancio. La scintilla d’argento attraversò un pallido raggio di sole, brillò un’ultima volta e scomparve, precipitò in mare finendo inghiottita per sempre dalle onde. Danimarca trasse un gonfio sospiro di sollievo, spinse il petto all’infuori, si cinse i fianchi e distese un sorriso inorgoglito. Si sentiva leggero, i polsi non bruciavano più ed era libero di respirare a pieni polmoni come se si fosse slacciato un collare dalla gola. “Lo farò da nazione libera.” Intrecciò le mani, fece schioccare le dita, e appiattì un palmo verso il basso. Srotolò il pannello luminoso davanti a sé.

Racchiusa nel suo rettangolino al centro del campo di battaglia, la Bismarck lampeggiava di rosso, circondata dalle quattro navi britanniche che la stavano massacrando di cannonate e silurate. Danimarca accostò l’indice alla corazzata tedesca e si fermò, colto da una scossa di eccitazione. Agitò i polpastrelli brucianti, un groviglio di emozione gli si annodò in fondo allo stomaco, il cuore accelerò, e dovette mordersi il labbro per contenere un risolino. Merda, non vedevo l’ora di farlo! Pigiò il riquadro della Bismarck.

 

 

Hai selezionato corazzata Bismarck, classe Bismarck. Prego, selezionare un’opzione.”

 

Trasferimento

Ancoraggio

Comandi Artiglieria

 

 

Esitò di nuovo, chiuse gli occhi, inspirò, espirò, e annuì mentalmente. Pronto. Pigiò ‘Comandi Artiglieria’.

L’energia della corazzata Bismarck gli precipitò addosso come un fulmine piovuto dal cielo, lo attraversò con la prepotenza di una flagellata di fuoco, contrasse il battito del cuore, e gli trafisse il cranio sollevando il tetro scricchiolio dello schianto che rimbombò fino in fondo all’anima. Danimarca sbiancò e soffocò un gemito di dolore. Gli occhi sgranati divennero lucidi, si infossarono in una profonda ombra di sofferenza. Fu come se avesse infilato un dito bagnato dentro una presa della corrente.

Cadde in ginocchio, serrò le braccia attorno alla pancia per placare le pulsazioni di dolore che gli stritolavano lo stomaco, e tremò sotto gli spasmi che lo aggredivano a ogni boccheggio. Il peso della corazzata lo schiacciò come se gli fosse piovuta addosso una slavina di sassi appuntiti. Zanne invisibili gli attanagliarono il cuore, ruggendo e sbuffando ruggiti di protesta a ogni morsicata. Danimarca si sentì sbiancare di paura. Mi... mi sta... L’incendio sotto di lui divampò spalancando una fiammata color sangue. L’eco di fuoco ruggì anche nella sua testa e aprì un doloroso vuoto allo stomaco. Danimarca schiacciò una mano alla bocca, tossì due volte, e un sapore ferroso gli invase le guance. Staccò la mano dalle labbra. Lacrime di sangue piovvero dalle dita, rigarono il palmo, e gli sporcarono la manica di rosso. Danimarca ansimò, colto da un’altra martellata di panico. Mi sta rigettando! Crampi di dolore gli schiacciarono le ossa, i polmoni si contrassero accorciandogli il respiro, lo stomaco si torse spremendo un conato di nausea fino alla bocca. Di nuovo quella presenza estranea si dimenò dentro di lui, come se stesse cercando di uscire dal suo corpo.

Danimarca strinse i denti per non far uscire altro sangue dalla bocca, indurì i muscoli, e la combatté. “Dai, brutta stronza di una crucca, smettila di fare la difficile!” Sollevò una gamba gemendo per lo sforzo, piantò il piede a terra, spinse le spalle a piegarsi in avanti, ma non riuscì ad alzarsi da terra. Sudore gelato gli colò dal viso, continui tremori gli scossero l’arco della schiena dolorante, altri tossiti che sapevano di sangue gli squassarono lo stomaco e i polmoni. “Non capisci che ti stanno ammazzando, stupida?” le gridò contro. “Devi lasciare che ti aiuti, o Inghilterra finirà per disintegrarti a forza di cannonate!”

Il ruggito della Bismarck crebbe di nuovo dentro di lui, feroce come quello di una belva che azzanna le sbarre di una gabbia, che agita le zampe riempiendo il metallo di graffi e che sbatte le spalle alle pareti per sfondare la sua prigione. Quella voce furiosa gli stava urlando: ‘Ti odio, non sei la mia nazione, non hai il diritto di toccarmi, levami le tue sporche mani di dosso’.

Danimarca ricominciò a sentire quel brivido di timore e incomprensione corrergli attraverso le viscere. Ma perché non collabora? Come può una nave da guerra avere così tanto potere e tanto arbitrio su di me che sono pur sempre una nazione? Si staccò anche l’altra mano dallo stomaco e spalancò entrambi i palmi davanti al viso. Fumavano, la pelle era rossa e scottava come la faccia febbricitante di Prussia. Danimarca deglutì. Tutto quel peso che gli gravava addosso lo tenne schiacciato con le ginocchia sulle nuvole e lo fece rabbrividire di paura e rispetto. Cosa diavolo c’è nell’anima di questa corazzata?

La voce di Inghilterra, “Bene, bene, bene”, si fece largo in mezzo alla foschia e lo raggiunse come un pungolo elettrico fatto schioccare dietro la nuca. La sua ombra celata dalla nebbia si dilatò, divenne più alta e nitida, e un ghigno di scherno si stese fra le labbra. “Ma guarda che bravo questo cagnolino che viene a proteggere il suo padrone.” Inghilterra emerse, fermò il passo, e sollevò lo sguardo sorridente premendo gli occhi affilati su Danimarca.

Una seconda sagoma si materializzò dietro di lui. Islanda zampettò dietro la spalla di Inghilterra, vi rimase nascosto, e diede solo una rapida e timorosa sbirciata verso Danimarca. Lo guardò con occhi tristi e spaesati, carichi di quella stessa nebbia che gli volteggiava attorno.

Danimarca intercettò il suo sguardo. Il suo viso si distese, i suoi occhi si rasserenarono, e le labbra si flessero in un piccolo ma caldo sorriso rassicurante. Durò poco. Danimarca spostò di nuovo lo sguardo su Inghilterra e lo fulminò con disprezzo. “Non sto proteggendo Prussia.” Pestò di nuovo un passo a terra, fece forza con le spalle, raddrizzò le gambe, e si tirò su. Traballò, riprese equilibrio, e indicò verso il basso. “Sto proteggendo la nave,” annunciò. “Sto proteggendo le vite di questi uomini, sto proteggendo me stesso, e sto proteggendo Norge.” Schiacciò il pugno e lo portò davanti al viso in segno di minaccia. “E credimi che combatterò contro chiunque pur di uscirne vivo.”

Islanda sussultò. Percepì la stessa scossa di paura che aveva provato prima, quando aveva visto quella luce spietata e assassina impadronirsi del volto di Inghilterra. Contro chiunque...

Inghilterra rise, ma lo fece piano – la pancia gli faceva ancora troppo male. “E come pensi di farlo?” lo schernì. “Impugnando i comandi di una corazzata che non ti appartiene e che per di più è già mezza distrutta?” Appiattì il sorriso. Il suo volto ridivenne cupo come la notte. “Stanne fuori, Danimarca, questa non è la tua battaglia.”

Danimarca tornò a stendere un gonfio e presuntuoso sorriso che gli illuminò la faccia. “Ah, davvero?” Compì un passo, premette il piede sentendo il peso della corazzata vibrare attraverso il muscolo del polpaccio, e puntò l’indice contro Inghilterra, contro il sangue che lo bagnava e che continuava a gocciolare dalle ustioni riaperte. “Forse Prussia ti avrà tranciato a metà e avrà anche fatto esplodere il tuo incrociatore. Ma lo sai chi è stato a sparare il colpo che ti ha dato fuoco?” Affilò il ghigno. Si premette il pollice sul petto e salì sulle punte dei piedi, elevandosi sul piedistallo d’oro. “Sono stato io.” Altre esplosioni tuonarono dalle imbarcazioni e le colonne di fumo si ersero alle sue spalle, trascinate dagli ululati del vento.

Inghilterra ammutolì. Si lasciò travolgere passivamente da un’ala di vento che gli scompigliò i capelli sulla fronte e sulle guance, e rimase a occhi sbarrati. Inarcò un sopracciglio. “Cosa?” Lo sguardo vacillò, solo stupito e non arrabbiato o sconvolto.

Islanda invece sentì un tuffo al cuore, la bocca cadde spalancata, si sentì ghiacciare come se fosse precipitato nelle acque dell’Atlantico. Ma... Arretrò di un passo e squadrò Danimarca con un’espressione sconcertata. Ma è stupido? Cosa gli è saltato in mente di dirglielo? Vuole proprio farsi uccidere?

Danimarca arricciò la punta del naso, gonfiò una smorfia da pallone gonfiato, e allargò di più le spalle. “Sono stato io a sparare il colpo dal Prinz Eugen che ha incendiato il tuo incrociatore, sono stato io ad abbrustolire sia lui che te. Quindi se vuoi davvero vendicarti dello Hood...” Spalancò le braccia e flesse due volte le mani chiamando Inghilterra a sé. “Allora fatti sotto e prenditela con me!”

Qualcosa tuonò alle spalle di Inghilterra. Il rimbombo si propagò all’interno del suo petto, fumo nero sorse attorno a lui come un largo mantello d’ombra, il vento gli soffiò addosso e agitò i capelli davanti agli occhi ancora persi nel vuoto. Inghilterra trattenne un sospiro, irrigidì il corpo ricoperto dalle piaghe sanguinanti, e tornò a quel giorno. Rivisse il dolore perforante del momento in cui la salva del Prinz Eugen aveva perforato lo Hood e aveva spalancato la prima fiammata di calore sulla struttura dell’incrociatore. Il dolore che lo aveva travolto, l’odore nauseabondo e soffocante della carne sciolta ai vestiti, il sapore viscido del sangue in bocca, la consistenza appiccicosa del fumo evaporato dalle piaghe, il terrore che aveva provato nel vedere la sua pelle gonfiarsi ed esplodere senza riuscire a fermare le fiamme che la stavano divorando.

Gli occhi di Inghilterra si accesero di rosso, i suoi pugni bendati spremettero altro sangue fra le dita, le braccia tremarono, e dentro il suo cuore ribollì l’ingorda sensazione di vendetta che aveva provato poco prima, quando aveva pestato il piede sul corpo moribondo di Prussia. Inghilterra squadrò Danimarca con quegli occhi iniettati di sangue e odio. E invece è stato lui. È stato lui a ridurmi così. Mosse un primo passo, calpestò le nuvole squagliando uno sbuffo di condensa sotto la suola, contrasse le mani grondanti di sangue, e si preparò a scaricare su Danimarca tutta quella furia ribollente che gli fiammeggiava attorno.

Islanda sentì un’altra botta di dolore cadergli sul petto. Oh, no. Adesso lo uccide! Lo ridurrà in briciole pur di vendicarsi! Cosa... Si guardò attorno, i pensieri ronzarono confusi attorno alla testa, le sue gambe tremarono, cominciò a non sentire più le nuvole sotto i piedi. Cosa devo fare per impedirlo? Senza che nemmeno lui capisse il perché, nella sua mente riemerse il ricordo di qualche giorno prima, quando si era trovato davanti allo sguardo freddo di Norvegia che lo osservava da dietro il profilo del suo braccio disteso e avvolto dai fumi delle esplosioni. Un lampo gli attraversò la testa, potente e improvviso come una delle cannonate ricevute da suo fratello, e lo illuminò. Per proteggermi, realizzò Islanda. Lui mi ha colpito per proteggermi. Era l’unico modo per evitare che Prussia mi uccidesse. E ora... Una morsa di conflitto si strinse attorno al suo cuore. Islanda strizzò gli occhi, gettò il capo in mezzo alle spalle, tremò nel vento, e raccolse tutto il coraggio che gli correva nel sangue. Ora dovrò farlo anch’io! “Fermo!” Superò Inghilterra, spalancò le braccia, e si mise fra lui e Danimarca.

Inghilterra sbatté due volte le palpebre, confuso, e i suoi occhi persero la sfumatura fiammeggiante. “I-Islanda...” La miccia di rabbia che ancora regnava nel suo cuore gli riaccese subito lo sguardo. “Togliti,” gli ordinò. “Lui è un nostro nemico, non posso –”

“Lo faccio io!” esclamò Islanda. Il cielo attorno a lui divenne più buio, la condensa attorno alle sue gambe si addensò, risalì le caviglie seppellendolo fino alle ginocchia, e un piccolo vortice di vento gli soffiò attorno, rendendo l’atmosfera più gelida. Islanda tornò a incrociare gli occhi con Danimarca ma gli rivolse uno sguardo ostile, restrinse le palpebre e affilò gli occhi che scintillarono come lame d’acciaio. “Adesso sono io il tuo avversario,” gli disse con tono solenne. “Sono io il tuo nemico. E se sei davvero disposto a combattere contro chiunque pur di salvarti la vita...” Schiacciò i pugni. Il turbine di vento accelerò, addensò la nebbia nera attorno a lui e ingrossò il suo tono di voce. “Allora affrontami.”

Anche lo sguardo di Danimarca si velò di smarrimento, come quello di Inghilterra, ma gli bastò un battito di palpebre per riacquistare la stessa luce sfrontata e gonfia di determinazione che aveva trascinato con sé quando si era materializzato in cielo. Sorrise. Sorrise di contentezza e di orgoglio, sentendo il cuore bruciare di emozione. “Oh, Isla.” Aprì le mani, rivolse i palmi verso l’esterno, e agitò le dita per cominciare ad attrarre l’energia della corazzata. “Caro e amato fratellino mio...” L’aura della Bismarck si dilatò attorno a lui, aprendosi come un ventaglio, e rese il suo viso più buio, il suo sguardo più serio. Danimarca guardò Islanda negli occhi così a fondo che gli parve di toccargli l’anima, esattamente come stava toccando quella della corazzata. “Lo sai, questa è sempre stata una delle nostre più grandi paure. Siamo sempre stati terrorizzati all’idea che un giorno saremmo stati costretti a combattere contro di te, quando saresti cresciuto e diventato grande e indipendente come noi.” Scosse il capo. “Combattere contro una nazione che abbiamo cresciuto noi stessi e che abbiamo amato con tutto il nostro cuore... non abbiamo nemmeno mai voluto pensare a come avremmo reagito, non volevamo nemmeno credere che un giorno sarebbe successo per davvero.”

Quelle parole raggiunsero Inghilterra come una frecciata fra le costole, lo colpirono con un dolore che aveva già provato sulla sua pelle, e gli trasmisero un sentimento di cui aveva già tastato il sapore amaro.

Danimarca sospirò. “Ma a quanto pare il giorno è arrivato davvero.” Il suo sguardo si riaccese come l’aura di fuoco che gli brillava attorno, si caricò di forza e di combattività. “E so benissimo cosa dovrò fare.”

Inghilterra esitò, ancora frastornato, ed ebbe l’istinto di spingere un passo all’indietro. Scosse il capo, ma non riuscì a scrollarsi di dosso quella sensazione pungente che gli avevano trasmesso le parole di Danimarca – combattere contro una nazione che abbiamo cresciuto noi stessi, non abbiamo nemmeno mai voluto pensare a come avremmo reagito – e che gli era rimasta incastrata dentro come una spina. Si avvicinò a Islanda. Gli parlò con tono più mite e insicuro. “Islanda, non...”

“Islanda.” Ma la voce più forte di Danimarca lo sovrastò. “Tu sei la mia famiglia, ti voglio bene con ogni briciolo della mia anima, e non ci sarà mai nulla che cambierà il nostro legame e che cancellerà l’affetto che provo per te. Ma questa è la guerra, purtroppo.” I suoi occhi assunsero una sfumatura più triste. “Mi dispiace solo che questa lezione tu l’abbia imparata stando affianco a Inghilterra e non affianco a noi. Mi dispiace non averti mai preparato a tutto questo.” Chinò lo sguardo, nascose la sua colpevolezza. “Perdonaci per essere stati dei codardi, e per averti trattato sempre e solo come un bambino e mai come una vera nazione.”

Islanda sussultò. Il nero attorno a lui sbiadì, come una fiamma leccata dal vento, e anche nei suoi occhi si riflesse un barlume di tristezza. “A-anche a me dispiace.” Allontanò lo sguardo, colpevole anche lui. “Mi dispiace non averlo imparato prima. E di aver sempre accettato di nascondermi dietro di voi.” Schiacciò i pugni. Saette sfrigolarono fra le falangi, l’aura magnetica crebbe attorno a lui, ingrossata da una soffiata di vento, e i suoi occhi ridivennero freddi come sfere di ghiaccio elettrico. “Ma anche io non mi fermerò davanti a questo!”

Le prime cannonate esplosero, bucarono la foschia, sfrecciarono fra le due formazioni intrecciando i loro fischi, e riaprirono il combattimento illuminando il cielo nuvoloso con i loro lampeggi.

Danimarca scartò un passo all’indietro, distese il braccio sorreggendosi il polso già dolorante con la mano libera, spalancò le dita, afferrò l’anima della Bismarck che ruggiva dentro di sé, e schiacciò il pugno. Fu come spremere un riccio di mare fra le dita.

La salva esplose dalle fiamme dell’incendio. Il contraccolpo risalì il braccio e gli azzannò la spalla come una corona di denti d’acciaio. Danimarca gemette. “Ah!” Staccò la mano dal polso e si aggrappò alla spalla. Si massaggiò la giuntura e sudò freddo per il dolore che gli pulsava nell’osso. “Porca...” Lo sguardo gli cadde oltre le nuvole, catturato dalla luce dell’incendio che si stava consumando sulla Bismarck. I cannoni binati delle torrette Anton e Bruno crollarono, afflosciandosi come fiori morti, e le punte sbatterono sulle basi delle batterie. La tensione sul viso sudato di Danimarca si trasformò in una scura espressione di spavento. Oh, no! I cannoni sono proprio andati. L’impianto idraulico delle torrette dev’essere saltato, per questo non riescono più a stare sollevati. Strinse di più la mano attorno alla spalla, piegò il gomito e fece roteare il braccio per sgranchirsi le giunture. Devo cavarmela solo con i cannoni delle altre due.

Anche Inghilterra gettò lo sguardo verso la Bismarck che stava sparando con meno insistenza. Squadrò i cannoni ammosciati delle due torrette e inarcò un sopracciglio. “Le torrette stanno collassando,” mormorò. Aprì una mano attorno alla bocca, inspirò forte, e urlò verso Islanda. “Ora, Islanda! Non sulle torrette, sulla sovrastruttura!”

Islanda sbatté gli occhi per riformare il mirino attorno alle iridi e annuì senza nemmeno voltarsi. “Sì!” Si lanciò di nuovo all’attacco, distese il braccio, spalancò la mano in mezzo alle spirali di nebbia, e stritolò la presa. 

La King George V sputò la sua cannonata. La salva attraversò la distesa di mare, si tuffò fra le fiamme dell’incendio, e perforò la poppa della Bismarck. L’esplosione tuonò, risucchiò a sé una bolla di fiamme, e si dilatò facendo di nuovo divampare un cratere di fuoco e fumo.

Danimarca contrasse una prima espressione di dolore, piegò le spalle in avanti, si aggrappò con una mano all’anca, vacillò sotto i tremori che si erano riversati su di lui, ma rimase in piedi.

Islanda sgranò gli occhi, e nelle sue pupille brillò un primo allarme, una prima luce di consapevolezza. L’ho... colpito? Si guardò le mani ancora tremanti ed emise un sobbalzo, come se si fosse reso conto solo in quel momento di quello che aveva fatto. L’ho colpito davvero?

Di fronte a lui, Danimarca soffiò un rantolio a denti stretti e si massaggiò la sporgenza dell’anca, affondando il tocco lungo tutto il fianco. Merda, che male.

La voce del pannello d’allarme lo destò facendogli alzare gli occhi sulla luce verde.

 

 

Attenzione. Corazzata Bismarck colpita. Aperta falla sul fianco sinistro di poppa. Attenzione. Incendio in corso sulla sovrastruttura. Timone in avaria, impossibile manovrare la nave.”

 

 

Danimarca emise un altro mugugno di dolore, oscillò di lato, si resse il capo per fermare un giramento di testa, e riprese equilibrio. Soffiò un sospiro liberatorio. Okay. Inspirò, espirò, e placò le pulsazioni di dolore che ancora battevano a ritmo del suo cuore martellante. Okay, posso farcela. Non è grave, sono ancora in grado di combattere. Se solo... Restrinse le dita di una mano, raccolse di nuovo l’energia della Bismarck che gli fluiva nel sangue, flesse il polso ma incontrò resistenza. I muscoli si indurirono, come se avesse avuto di nuovo una catena d’acciaio allacciata al polso, a tirarlo verso il basso. Danimarca strinse i denti, tentò ancora con uno strattone più violento, e la sua mano fumante grondò copiosi rivoli di sudore. Se solo la nave mi... Di nuovo un ruggito di protesta della corazzata gli brontolò attraverso il petto. Lo divorò da dentro, con l’insistenza di un piccone che batte sempre più a fondo conficcandosi nel cuore.

Danimarca tossì, si tappò la bocca, e ricacciò in fondo allo stomaco i conati al sapore di sangue che gli avevano riempito le guance. Ghignò. Il fremito di eccitazione non lo aveva ancora abbandonato. “Permalosa come il tuo padrone, eh? Ma mi sta bene: ci so fare con gli individui difficili.” Pestò un passo in avanti, tenne i gomiti piegati, forzò i muscoli delle spalle a reggere il peso che stringeva fra le mani, e avanzò torcendo di nuovo la schiena in un arco di spasmi e dolore. La forza della Bismarck custodita nella sua anima gli risucchiò le energie dai muscoli, rese il suo corpo pesante e molle, come fatto di sabbia bagnata. Il sorrisetto di Danimarca vacillò. “P-però potresti anche essere un po’ più collaborativa di così.” Altri ruggiti della Bismarck gli grugnirono nelle orecchie. L’anima della corazzata si rivoltò e gli affondò una serie di colpi nelle sue viscere, come tanti pugni scaricati da una mano invisibile.

Danimarca sputò un grumo di sangue e bile, serrò un ringhio di minaccia nei confronti della nave, e si strofinò la manica sulla bocca sporca di rosso. “D’accordo.” Tornò a distendere il braccio, sgranchì le dita che erano dure come gesso, e socchiuse l’occhio per inquadrare la King George V anche senza il mirino calibrato. “L’hai voluto tu, crucca.” Schiacciò la salva. Il contraccolpo gli tornò indietro, ancora più violento di quello precedente, gli ribaltò il braccio e schioccò all’altezza della spalla, slogandogliela. Danimarca finì sbalzato a terra, sbatté la schiena, rigettò un altro tossito di sangue, e tremò aggrappandosi alla spalla indolenzita.

Islanda distese la mano con cui prima aveva sparato ed esitò di nuovo. Oh, no. Compì un passo verso Danimarca, tese il braccio per raggiungerlo, ma si afferrò il polso, costringendosi ad abbassare il tocco e a tornare indietro. Gli occhi luccicarono di dolore. La Bismarck... lo sta distruggendo.

Danimarca rotolò sul fianco. Strinse la presa attorno al braccio paralizzato dal crampo di dolore, e agonizzò. “M-maledetta,” ansimò due volte, “corazzata.”

Il pannello d’allarme non si fece attendere.

 

 

Attenzione. Salva esplosa all’interno del cannone di destra della Torretta Dora. Torretta Dora danneggiata. Impossibile eseguire il riarmo.

 

 

Danimarca gorgogliò un grugnito lamentoso. Maledizione. Si diede una spinta sulle ginocchia, piegò le spalle in avanti e continuò a massaggiarsi quella slogata. Sbatacchiò le palpebre, ancora intontito, e spostò lo sguardo di nuovo sulla sagoma della corazzata in fiamme sotto di lui. I due cannoni della Torretta Dora puntavano verso l’alto, ad angolatura massima. Immobili e ingovernabili. Danimarca schioccò la lingua fra i denti. È andata anche quella. Quindi ora potrò sparare bene solo con la Caesar, dato che la Anton e la Bruno sono già rotte. Pestò un piede a terra e si rialzò tenendosi aggrappato alla spalla indolenzita. Respirava a fatica, continuando a sentire le picconate attraverso il cuore. Ma come faccio se la corazzata non mi dà retta e rifiuta di farsi guidare come si deve? Per di più...

Tossì ancora e altro sangue sgorgò dalla sua bocca. Si strinse il petto e contrasse il ventre dolorante. Gli faceva male la pancia, i polmoni respiravano a fatica, ogni battito del cuore era una coltellata fra le costole. L’anima della Bismarck racchiusa nel guscio del suo corpo era un cancro che lo divorava dall’interno, consumandolo come una candela.

Danimarca si strofinò la mano sulla bocca, la trovò di nuovo insanguinata. Un brivido di paura gli gelò il petto. Quanto reggerò in queste condizioni? Quanto resisterò prima di consumarmi sotto la sua forza?

Anche Inghilterra si accorse di quello che stava succedendo. Squadrò il sangue sulle mani di Danimarca, l’incendio sulla Bismarck, e di nuovo il suo corpo tremante che non riusciva a reggere il peso della corazzata. Soffiò uno sbuffo. Che stupido. Mettersi contro una corazzata di tale calibro e cercare di domarla... Scosse il capo ed esibì un minuscolo sorriso di soddisfazione. Ma era proprio ora che la sua presunzione venisse punita una volta per tutte. E non è certo un problema mio. “Continua, Islanda, non dargli tregua!”

Islanda si ridestò. Ritirò il braccio che aveva teso verso Danimarca, scrollò il capo, riprese a correre compiendo una virata attorno alla sua King George V, e restrinse le palpebre per far roteare il mirino calibrato. Perché... Concentrò la vista sgranata di verde sul profilo di Danimarca protetto dal velo di foschia che li separava. Perché ci siamo ridotti a questo? Distese di nuovo il braccio e riaprì la mano. Ma non posso esitare. Perché se non ci penso io ci penserà Inghilterra, e allora per lui sarebbe davvero la fine. Schiacciò il pugno due volte di seguito e fece scoppiare due cannonate lampeggianti. Abbassò gli occhi per seguire la traiettoria delle salve – entrambe piovvero in mare, sollevando colonne d’acqua davanti all’incendio – e tenne lo sguardo fisso sulla Bismarck, catturato dalla nuvola di fiamme e fumo che la circondava come un mantello. Una smorfia di disprezzo gli arricciò le labbra. Spero solo che Prussia sia vivo e che sia in grado di portarli in salvo prima che io sia costretto a sparare il colpo definitivo.

Danimarca si destò a sua volta, diede una scrollata alle mani sporche del sangue che si era pulito dalla bocca, e corse anche lui. Strinse più forte la mano attorno alla spalla slogata, tirò su il braccio forzandosi di non tremare troppo, e sparò tre colpi di seguito addosso a Islanda.

Le scie delle cannonate si intrecciarono, i boati delle esplosioni scossero le onde, il calore del fuoco gonfiò il cielo di fumo, la luce rossa tinse le nuvole del colore del sangue.

Inghilterra si riparò il viso con un braccio, arretrò per sottrarsi all’odore acre del fumo e al bruciore del fuoco sulle sue guance, ma i suoi occhi rimasero incollati sul combattimento, rapiti dallo scontro fra le due nazioni. Seguì i gesti di Islanda, si soffermò sulla freddezza del suo sguardo, sulla tensione elettrica che gli sfrigolava attorno. Tutta questa ferocia, tutta questa freddezza nel colpire Danimarca che è colui che ti ha cresciuto e che ti ha sempre protetto... Inghilterra sospirò, abbassò le palpebre. Si vede che hai sangue da guerriero nordico nelle vene, Islanda. Nemmeno io avrei mai creduto che saresti arrivato a tanto. Persino io, se mi trovassi in una situazione del genere, davanti a qualcuno a cui...

Un’altra cannonata fracassò l’aria, e quel suono secco come uno schiaffo gli tornò a sbattere in faccia le parole pronunciate da Danimarca prima dell’inizio dello scontro. Lo colpirono con lo stesso dolore, con la stessa familiare sensazione di malinconia. “Siamo sempre stati terrorizzati all’idea che un giorno saremmo stati costretti a combattere contro di te, quando saresti cresciuto e diventato grande come noi.”

Inghilterra strinse i pugni, tremò, e allontanò il viso dalla battaglia, strappandosi dai ricordi e dal momento in cui anche lui si era ritrovato ad affrontare una scelta del genere.

Dietro il fumo, altri scoppi si incrociarono, elevarono un pennacchio d’acqua che toccò le nuvole e infittì l’aria di vapore e di un pungente odore di bruciato. Islanda corse al riparo dietro la nebbia, boccheggiò a fatica, sentendo i polmoni scottare e i muscoli cominciare a farsi più deboli e pesanti da sostenere. Si asciugò il sudore dalla faccia, sgranchì le dita indurite dai crampi, tornò a evocare l’energia della sua nave, e aspettò di sentirla ardere sul palmo come se stesse reggendo un tizzone acceso. Dai, ti prego, vai a segno, metti fine a questo strazio! Piegò il gomito, compì uno slancio resistendo a una fitta di dolore alla spalla, e scaricò un colpo più violento.

La salva esplose dalle bocche di fuoco, tracciò una scia ad arco, e precipitò fra le fiamme che si stavano consumando sulla Bismarck. Si schiantò sulla Torretta Bruno, già in pendenza, sfracellò la parete posteriore che franò sul ponte, e alimentò l’incendio con un’altra fiammata.

Danimarca finì trafitto da un crampo più doloroso che lo morsicò all’altezza del petto. Gemette aggrappandosi a quel chiodo di sofferenza che gli si era piantato nelle costole, ricadde con le spalle in avanti, zoppicò, tornò a fermarsi, e respirò a fatica, troppo debole per contrattaccare.

Il pannello d’allarme brillò su di lui.

 

 

Attenzione. Corazzata Bismarck colpita. Colpita parete posteriore della Torretta Bruno. Torretta inutilizzabile. Attenzione. Incendio in corso sulla sovrastruttura. Timone in avaria, impossibile manovrare la nave.”

 

 

Islanda sgranò gli occhi, la sua vista raccolse quell’immagine, quell’esitazione, il profilo di Danimarca che non riusciva più a reggersi e a contrattaccare, e provò un violento guizzo al cuore. Sta cedendo! Gli corse incontro. Contrasse di nuovo le mani e caricò un altro colpo da scaricargli addosso. Devo fare come ha detto Inghilterra. Devo distruggere la corazzata tramite il corpo di chi la guida. È l’unico modo!

Danimarca scosse il capo, tirò su gli occhi, li incrociò con quelli di Islanda, e ricambiò lo sguardo di sfida che corse fra loro come il guizzo sfrigolante di una saetta. Riaprì le mani, tornò a circondarsi dell’energia della Bismarck, e anche lui gli si lanciò contro.

Islanda strizzò gli occhi per non guardarlo in faccia. Perdonami. Strinse i denti per farsi forza. Ti prego, perdonami. Allungò le ultime falcate di corsa. Ma non ho altra scelta!

I loro corpi si incontrarono. Islanda sentì una mano di Danimarca passargli di striscio sulla spalla, e l’altro suo braccio affondare contro il suo fianco, schiacciandogli il gomito sul costato. Islanda contrasse la mano destra, la sollevò di colpo e gliela spinse sul petto. Affondò l’altra mano contro la sua pancia, schiacciò il pugno sui muscoli contratti, rigirò le nocche spingendole verso l’alto, e gli affondò la cannonata nello stomaco, facendola esplodere direttamente contro di lui.

Il boato tuonò sotto di loro. La salva brillò, travolse la sovrastruttura della Bismarck piegando l’incendio sotto la sua vampata, e fece saltare in aria la plancia. Una bolla di luce, fiamme e frammenti d’acciaio si dilatò, si specchiò fra le onde, e rigettò una colonna di fumo nero che si spalancò come un fungo toccando le nuvole.

Islanda sentì la tensione del corpo di Danimarca sciogliersi sotto le sue mani, cedere come se si fosse spento, svuotato di ogni energia. Gli allacciò le braccia attorno al busto, gli schiacciò il viso contro il petto, strizzò forte le dita sulla giacca aggrappandosi a quell’abbraccio disperato, e si lasciò cadere assieme a lui.

Crollarono fra le nuvole. I loro corpi si accasciarono e finirono sommersi dalla foschia che si era spalancata attorno a loro in una corona di riccioli bianchi.

Islanda non mollò la presa, si aggrappò al corpo di Danimarca più che poté, e non osò sollevare la faccia rintanata contro il suo petto, graffiandosi la guancia contro un freddo bottone dorato che spingeva contro lo zigomo. Serrò le mani, trattenne il respiro fino a che non sentì l’eco del boato appena esploso ritirarsi sotto di loro e risucchiare le vibrazioni dalle nuvole, ma non riuscì lo stesso a udire alcun battito provenire dal corpo di Danimarca. Tutta l’energia della King George V che gli stava ancora bruciando dentro cominciò a dissolversi, si ritirò lasciando un buco nel petto di Islanda, un vuoto che si riempì della stessa violenta ondata di nostalgia che lo aveva già aggredito prima, quando aveva visto comparire Danimarca dall’altro lato del cielo. Il cuore si gonfiò di dolore, il bruciore risalì il viso arroventandogli gli occhi, tremori gli scossero la schiena, e un primo singhiozzo gli spezzò il respiro. “Mi dispiace.” Islanda si strinse più forte a lui. Ne cercò il profumo familiare, ora nascosto da quello della guerra, da quello della nazione che lo teneva prigioniero, e non desiderò altro che tornare bambino e stargli in braccio come quando si addormentava avvinghiato alla sua spalla. “Mi dispiace.” Singhiozzò ancora, girò la guancia premendo il viso sul suo sterno, e si rintanò, soffocato dai dolorosi battiti del cuore che continuava a soffrire e a lacrimare. “Mi dispiace.”

Un piccolo sussulto vibrò attraverso il petto di Danimarca. Il cuore tornò a battere sotto scossetta elettrica e fra le labbra soffiò un debole respiro liberatorio. Danimarca si lasciò avvolgere dal calore trasmesso dall’abbraccio di Islanda, provò sollievo dopo tutte le scazzottate di protesta ricevute dalla Bismarck, dopo aver incassato tutto quell’odio, e incurvò un piccolo sorriso di consolazione. Finalmente un po’ di tepore. “Su, su, non è niente.” Sollevò una mano tremante dal fianco e la posò sulla testa di Islanda. Gli passò una soffice carezza fra i capelli umidi di sudore. “Sei stato bravissimo.” Gli cinse la nuca, lo tenne più stretto a sé, godendosi a sua volta quell’abbraccio che gli era tanto mancato, e accostò il viso al suo, sfiorandogli la pelle con le labbra. “Ascoltami, Isla,” gli mormorò. “Tu non hai fatto nulla di sbagliato, okay? Sei grande, adesso, non hai più bisogno di noi, ed è giusto che tu ci combatta se è necessario. Siamo una minaccia alla tua alleanza, alla tua nazione, e tu stai facendo la cosa giusta.” Fece correre le dita fra le sue ciocche di capelli, strinse delicatamente all’altezza della nuca per tenerselo stretto e godersi quell’abbraccio prima di dirgli di nuovo addio. I dolori trasmessi dalle cannonate tornarono a pulsare attraverso le ossa e i muscoli. Danimarca tremò, trattenne il fiato con un sussulto, e si tenne aggrappato a Islanda. “Siamo tanto fieri di te, sai?”

Islanda soppresse un altro singhiozzo fra i denti e strizzò gli occhi per contenere le lacrime fra le palpebre brucianti. “T-ti prego...” Allentò la presa, sollevò le spalle e si strofinò la faccia con la manica della giacca. “Ti prego, ascoltami. Torna...” Guardò Danimarca dritto negli occhi, nel profondo di quell’azzurro che non era comunque mutato nonostante la presenza tedesca a stargli incollata come un’ombra, nel profondo di quell’anima troppo superba per essere inquinata. “Torna sulla corazzata e salvatevi,” gli disse. “Salvatevi tutti e due e lasciatela affondare. Vi recuperiamo noi, penserà Inghilterra a riportarvi in salvo, non vi succederà niente, e anche,” un altro fremito gli scosse la schiena e le braccia ancora allacciate a Danimarca, “anche se le vostre nazioni saranno ancora in mano all’Asse, noi potremo lo stesso essere di nuovo assieme.”

Gli occhi di Danimarca si spostarono verso il cielo e rimasero sbarrati fra le nuvole. Nella nebbia lattea chiazzata dal nero delle fumate, le immagini del giorno prima corsero come il nastro di una pellicola.

Prussia chino sotto il diluvio che cadeva sul ponte della Bismarck, il sangue a gocciolare dal suo corpo contratto di dolore, e il suo sguardo teso e rabbuiato da un’ombra che accentuava il rosso delle iridi. Le sue parole crudeli contro lui e Norvegia. “Finlandia dirigerà una delle tre direttive d’attacco. E l’unico motivo per il quale ha accettato di combattere dalla nostra parte è perché lo abbiamo minacciato di far del male a voi nel caso avesse rifiutato. Se voi doveste morire o se doveste passare fra le mani di Inghilterra, Finlandia allora non avrebbe più motivo di stare sotto i nostri ordini, e tutto il piano andrebbe in fumo.”

Danimarca strinse le mani, i polsi bruciarono, il peso della prigionia tornò a gravare su di lui, tenendolo incatenato a un legame che non era ancora in grado di spezzare. Sospirò, triste, e scosse il capo tenendo gli occhi bassi. “Non possiamo.”

“C-cosa?” Islanda gli strinse le mani sul petto, lo scosse con un fremito di incomprensione, e i suoi occhi arrossati riassorbirono le lacrime di rabbia. “Ma perché no?” disse, proprio come un bambino.

“Perché...” Danimarca si strinse nelle spalle. Tornò a incurvare quel piccolo sorriso di consolazione che sfumò il suo sguardo in un’espressione di arrendevolezza. “Perché dobbiamo proteggere Finlandia.”

Islanda sbatté due volte le palpebre, incredulo. “Finlandia?” Inarcò un sopracciglio, il suo sguardo vacillò, le labbra tremarono. “Ma cosa stai dicendo? Finlandia è...”

Il pannello d’allarme della Bismarck lo interruppe con la sua voce metallica.

 

 

Attenzione. Incendio in corso sulla sovrastruttura della corazzata Bismarck. Torrette principali danneggiate, impossibile eseguire l’attacco. Timone in avaria, impossibile governare la nave.

 

 

Danimarca scivolò sul fianco, ancora fasciato dalle braccia di Islanda, e si piegò su un gomito per sporgersi verso la corazzata in fiamme. Soffiò un sospiro pesante e sconsolato, asciugò dell’altro sangue che gli era colato dalla bocca. “Ormai è ingestibile.” Un soffio di compassione gli attraversò il cuore, spegnendo le fiamme d’odio che aveva provato nei confronti della Bismarck. “Poveraccia. È praticamente un pezzo di ferro galleggiante.” Eppure non affonda ancora. La bandiera tedesca continuava a svolazzare, sospinta dalla risacca di vento infuocato, incurante dell’incendio e delle cannonate nemiche che continuavano a pioverle addosso. Danimarca non riuscì a nascondere un sincero e fastidioso sentimento di ammirazione e rispetto nei suoi confronti. Quella dannata nave è davvero testarda come il suo padrone. Si girò, strinse le spalle di Islanda, tenne salda la presa, e avvicinò il viso al suo. “Ascoltami. Di’ a Inghilterra di tenere gli occhi a Est, capito? A Est.”

Islanda gli rivolse di nuovo quell’espressione spaesata. Non seppe cosa pensare. “Cosa?”

“Diglielo!” insistette Danimarca. “Qualsiasi cosa succeda...” Strinse la presa sulle sue spalle, indurì lo sguardo diventato serio di colpo. “Deve tenere gli occhi a Est.”

Islanda restò rigido, aggrottò la fronte. “A Est?” Girò lo sguardo e puntò la vista verso la linea d’orizzonte che dava a est, verso la sfera lattea e appannata del sole appena sorto dalla distesa dell’oceano. Ma cosa significa? È da là che arriveranno fra poco gli U-Boot o la Luftwaffe? Cosa...

Danimarca non gli diede tempo di chiedere altro. Lo abbracciò tornando a tirarlo a sé, gli fece posare il capo sulla sua spalla, premette la guancia alla sua e gli diede una strofinata ai capelli. “Devi sopravvivere, Isla.” Irrigidì la stretta, godendosi il loro ultimo abbraccio prima di lasciarlo andare. “Sopravvivi e continua a combattere fino alla fine.” Slacciò le braccia dal corpo di Islanda, tirò le spalle all’indietro, si diede una spinta con le gambe, e si smaterializzò, scomparendo come uno sbuffo di nuvola. Il vento lo trascinò via, di nuovo a bordo della Bismarck in fiamme.

Le braccia di Islanda si congelarono a mezz’aria, ancora tese verso l’immagine dissolta di Danimarca che era svanito davanti ai suoi occhi sgranati, lucidi, e persi nel grigio del cielo affumicato dalla battaglia. Islanda sospirò con un sussulto, strinse e riaprì le mani, afferrando il vuoto, e un ronzio frastornante gli trapassò la testa. Il calore di quell’abbraccio e i suoni di quelle parole gli apparvero distanti e opachi, come i ricordi di un sogno.

Un’ombra gli camminò affianco, lo superò, arrancò di un passo più incerto e zoppicante, e si portò di fronte alla sagoma della Bismarck assalita dalle cannonate delle navi britanniche.

Islanda rimase in ginocchio, sollevò lo sguardo verso l’ombra, e lo chiamò con un mormorio. “I-Inghilterra...”

Inghilterra non lo guardò nemmeno. Piegò i gomiti contro i fianchi, aprì le mani volgendo i palmi verso l’esterno, contrasse le dita, raccolse le energie attraverso le mani fasciate dalle bende insanguinate, e si circondò di una spira di vento ed elettricità. Flesse un polso, spinse il braccio in avanti, guidò la rotta della Rodney davanti alla prua della Bismarck, e schiacciò il pugno.

La Rodney fece fuoco e sparò sul fianco destro e sinistro della nemica. Una delle salve centrò la Bismarck a prua, perforò la sovrastruttura, trapassandola, e uscì a poppa con un altro scoppio di luce e frammenti.

Inghilterra insistette. Racchiuse le energie del Dorsetshire nell’altra mano, spinse in avanti il braccio ignorando la fitta di dolore al muscolo, scaricò i siluri subacquei dall’incrociatore, e fece brillare anche i cannoni delle torrette.

L’incendio della Bismarck si dilatò. Enormi petali infuocati si spalancarono e la inghiottirono in un abbraccio di fiamme bianche e rosse. Il fuoco divorò i tralicci, risalì le strutture degli alberi e delle antenne, inghiottì le batterie contraeree, abbracciò i cannoni delle torrette principali, si espanse lungo la sovrastruttura investendo anche le ciminiere, e rigettò una massa di fumo bianco e spumoso. La bandiera tedesca continuava a sventolare, le onde continuavano a schiantarsi sullo scafo ma non si innalzavano. La corazzata non stava affondando.

Gli occhi di Inghilterra andarono a fuoco come la tempesta che si stava consumando dalle sue mani fumanti e insanguinate. Caricò altri colpi e calpestò un altro passo più prepotente. “Affonda!” gridò alla Bismarck. “Affonda, stronza di una corazzata, affonda!”

Islanda si costrinse a riprendere a respirare e a far battere di nuovo il cuore agghiacciato dalla paura. Spostò un ginocchio fra le nuvole, raddrizzò la gamba per alzarsi, e tese un braccio verso di lui. “Inghilterra, fermati!” Il suo corpo tremò, svuotato di ogni energia. Islanda ricadde fra le nuvole, si alzò di nuovo, e implorò Inghilterra con occhi ancora lucidi per il pianto che non era riuscito a versare quando si era ritrovato fra le braccia di Danimarca. “Ti prego, smettila!” gli urlò. “Ormai ha smesso di sparare, è già sconfitta, non serve più colpirla!”

“Non sta affondando!” Inghilterra piegò un braccio, schiacciò il pugno, e sparò ancora. “È ancora a galla! Perché è ancora a galla?” Una zaffata di fumo gli soffiò davanti al viso, nei suoi occhi lucidi di furia si specchiò il profilo della bandiera tedesca che continuava a sventolare, e quell’immagine fu un umiliante pugno allo stomaco, come quello che Prussia gli aveva scaricato poco prima sulla pancia. Inghilterra strinse i denti per resistere al fantasma di quel dolore, “Come fa a essere ancora viva?”, e sparò ancora.

Una delle salve si schiantò alla base dell’albero maestro. I tralicci si spezzarono, l’albero si sbriciolò, schiacciato dagli artigli di fuoco, l’incendio si espanse come un’ala, si abbatté sul fumaiolo che scomparve dietro la luce e il calore. Scintille bianche spruzzarono in mezzo ai fumi catramosi dell’incendio e piovvero fra le onde scosse dalle cannonate che continuavano a perforare il mare. L’acqua riflesse il rosso cremisi dell’incendio. Un rosso intenso e vivo, come se la Bismarck stesse sanguinando.

Inghilterra soffiò un grugnito di fatica fra i denti. “Perché non muore?” Altri colpi esplosero dalle sue mani, continuarono a massacrare la corazzata ormai immobile e sconfitta. “Perché?

Islanda si strinse nelle spalle, scivolò all’indietro e cadde seduto. Finì sommerso dall’ombra di Inghilterra coronato dalla luce sanguigna delle esplosioni e dell’incendio. Spalancò le palpebre, rimase a bocca aperta, il suo cuore accelerò, gonfio di paura, e i suoi occhi lucidi si riempirono di angoscia, continuando a riflettere quell’agonia che pareva non avere fine.

   
 
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