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Autore: Melisanna    19/03/2018    8 recensioni
La storia è un sequel della one-shot 'Aka, Toro!' che pubblicai diversi anni fa, sempre su questo sito. Questa storia si può leggere anche sola, ma consiglio di leggere prima l'altra, per non perdere molte sfumature. Ci sono alcune divergenze dal Canon, ma non sufficienti da giustificare la definizione di AU o What-if.
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Jun se ne andava sempre per primo. A volte si alzava e spariva mentre Kojiro stava ancora dormendo, lasciandolo a svegliarsi solo nel letto sfatto, con la testa pesante per il sonno pomeridiano, il sesso soddisfatto e il petto greve. A volte sgusciava via appena avevano finito, si rivestiva nella penombra mentre lui lo fissava da sotto le palpebre, osservando il suo corpo snello coprirsi di quegli abiti che lo allontanavano da lui, non più Jun e di nuovo Misugi.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Jun Misugi/Julian Ross, Kojiro Hyuga/Mark
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Grazie a Melantò per avermi continuato a betare fino alla fine con una cura e una pazienza da editor professionista. Grazie a tutti voi che state leggendo e commentanto. E grazie a Kojiro e Jun che sono stati disponibili a fare questo viaggio con me. Per ora li saluto qui, come e dove lo vedrete alla fine del capitolo, più in là... si vedrà!

Aprì la porta dell’appartamento insensatamente grande che Tadashi aveva comprato per lui. Le case in Italia erano tutte enormi, gli davano un senso di vertigine e lo facevano sentire ancora più solo. Tadashi si affacciò dalla cucina. – Come sono andati gli allenamenti? – chiese e Kojiro si accorse che cercava di nascondere la tensione sotto le parole. Il contratto di Kojiro era stato il suo grande colpo e le difficoltà che stava incontrando a integrarsi con la squadra lo preoccupavano anche più di quanto non preoccupassero Kojiro stesso.
Il fatto era che non si integrava bene con l’Italia, con quella gente che ti fissava con insistenza, parlava troppo e a voce troppo alta e ti chiamava per nome come se ti conoscesse da sempre. Improvvisamente non era più quello più alto, forte e potente, ma uno dei tanti e doveva stringere i denti e allenarsi ancora più di prima, per non sentirsi un dilettante accanto a quei giocatori provenienti da tutto il mondo. Ma anche allenarsi con quel suo masochistico piacere per la sofferenza non andava più bene improvvisamente. Improvvisamente quello che ci si aspettava da lui non era più che finisse gli allenamenti più tardi di tutti gli altri, grondante di sudore e con i muscoli doloranti. Il medico sportivo l’aveva sottoposto a una miriade di test, il cui unico scopo pareva farlo sentire umiliato e violato, come un toro pronto a essere mandato al macello. E da quei test era risultato mancante. Come un peccatore davanti al suo Dio.
Il medico sportivo – che aveva un nome liquido con troppe consonanti e parlava gesticolando con mani nodose ed espressive dalle lunghe dita, come sembrava che gesticolassero tutti in Italia o forse ancora di più e guardava Kojiro da sopra un naso lungo e aquilino, con occhi grigi che Kojiro avrebbe preferito fossero severi e invece erano cordiali e divertiti – il medico sportivo, insomma, gli aveva porto i suoi esami e gli aveva detto che non sapeva che allenamenti gli avessero fatto fare fino a quel momento, ma chiunque fosse stato il suo allenatore era un criminale, perché con quegli allenamenti Kojiro, a venticinque anni, si stava distruggendo, le sue articolazioni e i suoi tendini prossimi al punto di rottura.
– I piedi di un cinquantenne, hai almeno due fratture da sovraccarico trascurate, una ancora molto evidente, qui sulla spina calcaneare – aveva detto con gli occhi grigi che erano cordiali e divertiti, nonostante stesse dicendo a Kojiro che tutto quello che aveva fatto nella vita, l’aveva fatto nel modo sbagliato, indicando, con una delle sue lunghe dita, una chiazza grigia, su una delle lastre sul diafanoscopio – E un’altra qui, sul primo metatarso del piede destro. Stai cominciando a sviluppare un’artrosi precoce alle ginocchia a causa dell’erosione cartilaginea e hai tendinopatie più meno gravi su tutti i gangli articolari.
Kojiro l’aveva guardato, senza sapere cosa rispondere. Se c’era una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni era che il dolore era qualcosa che andava preso e fatto proprio e accettato come parte necessaria e integrante della vita e che preoccuparsene era da deboli, che l’essenziale era andare sempre avanti per sé stessi e per la squadra. Che non ci si poteva fermare, che essere ammalati o infortunati non era una scusa per rallentare, mai.
Jun non l’aveva mai fatto. Ed era una delle ragioni per cui Kojiro si era sempre sentito schiacciato da lui, perché per quanto lottasse, la forza di Jun non l’aveva mai avuta.
Il medico sportivo, dalle mani nodose ed espressive, aveva sospirato ed aveva appeso un’altra lastra al diafanoscopio. – La parte peggiore è questa. Hai una calcificazione avanzata del quadricipite sinistro.  Per arrivare a questo punto dev’essere il risultato di un infortunio avvenuto più di un anno fa. Per quale ragione non ti sei fatto visitare subito?
Kojiro rimase chiuso nel suo mutismo, non voleva neppure essere scontroso nei confronti del medico dalle mani espressive e dagli occhi cordiali, ma le sue domande si aprivano su abissi che lo lasciavano in preda alla vertigine. Abissi che sussurravano i suoi vuoti, le sue mancanze, il suo strenuo bisogno di essere il migliore, in ogni modo, ad ogni costo, perché ciò che era il massimo per gli altri non era abbastanza per lui e di punirsi, con la fatica e il dolore, fisico e mentale, perché il suo massimo non era mai abbastanza.
– Dovremo fare un’ecografia per avere una visione più chiara della situazione, ma la fisioterapia sarà lunga e non ti assicuro una ripresa completa
Kojiro non sapeva nemmeno di doversi riprendere. Il dolore, anzi i dolori, che avvertiva alla fine di ogni allenamento, di ogni partita, persino di ogni pomeriggio in quelle camere di albergo, le cui porte aveva chiuso per sempre, abbandonato, rifuggito, ma che non riusciva a dimenticare, erano parte integrante della sua vita, erano accolti come compagni benvenuti, presenze familiari.
Fisioterapista e personal trainer avevano completamente sconvolto le sue abitudini quotidiane, lasciandolo con una quantità di tempo libero che non sapeva come sfruttare, che lo faceva sentire perpetuamente a rischio di affogare. E l’allenatore – che era stato un tempo un calciatore che Kojiro aveva ammirato, sbirciando quel poco che poteva cogliere dai televisori nei bar, perché a casa sua, quando l’allenatore era ancora il calciatore che Kojiro ammirava, il televisore non c’era mai stato – l’allenatore, che Kojiro aveva ammirato, ma non riconosceva dietro la giacca Ralph Lauren e i Ray-Ban scuri, gli aveva imposto di lavorare meno sul potenziamento e più sulla tattica e Kojiro si era ritrovato a scuola, a cercare di imparare a memoria schemi che aveva sempre ignorato, perché lui era sempre stato quello che andava avanti – da solo o al massimo con Takeshi al suo fianco, che lo seguiva senza bisogno di spiegazioni – e tirava in porta, certo di fare gol, purché fosse abbastanza vicino.
Ora si trovava a giocare da mediano, perché l’allenatore trovava troppo grezzo il suo gioco di piedi e preferiva usare la sua testardaggine e la sua resistenza per rafforzare il centro. Quanto alle partite ufficiali, Kojiro continuava a restare in panchina. Restava in panchina, perché doveva riprendersi dagli infortuni, restava in panchina, perché non era all’altezza di quei giocatori internazionali che sembravano divertiti e imbarazzati al tempo stesso davanti a un giapponese che giocava a calcio. ‘Non sapevo che i giapponesi giocassero a calcio’ era la prima frase che gli diceva ogni nuova conoscenza, sembrava che nessuno resistesse, non solo a pensarlo, ma a dirlo. Sembrava che nessuno resistesse al bisogno di dire tutto quello che gli passava per la testa e Kojiro, tutto sommato, era contento di capire ancora poco di quella lingua piena di consonanti, melodiosa e straniera, perché così poteva scrollare la testa e passare oltre e non essere costretto a rispondere a quelle affermazioni, che trovava inconcludenti e vuote, senza sembrare troppo scostante e ombroso come lo rimproverava di essere Tadashi. Tadashi usava altre parole in verità – Sei una testa di cazzo Hyuga, una grandiosa testa di cazzo, un vero stronzo. Cerca di essere un minimo più cortese. Pensa agli zeri su quel contratto e sorridi. E fai quello che ti dicono.
– Dicono che non devo fare niente. Niente. Allenamenti tre volte a settimana e amichevoli la domenica, amichevoli in cui comunque starò in panchina. Che cazzo faccio tutto il resto del tempo?
– Esci, fatti degli amici, trovati delle ragazze da scopare. Ti adorano le ragazze. Ci hai fatto caso che ti adorano? Sei esotico, gli piaci. Trovati delle ragazze. Ma non metterle incinta, non voglio casini.
Perciò Kojiro usciva e camminava per quella città straniera, sotto un cielo a volte azzurro, ma spesso plumbeo e si domandava se era tutta così, l’Italia, e tutte quelle storie del sole e del mare e dell’arte fossero cazzate o se fosse solo che era capitato nella città più di merda di tutte. Per far felice Tadashi, un paio di volte, aveva lasciato che dei compagni di squadra lo portassero fuori, ma il loro stile di vita non era qualcosa che potesse condividere e neanche capire, il modo in cui si lasciavano sfuggire il denaro dalle mani come se non se ne accorgessero nemmeno, come se le banconote fossero davvero solo pezzi di carta e, anche se Kojiro poteva afferrare, a un livello puramente intellettuale, che se lo sarebbe potuto permettere anche lui di spendere duemila euro per una bottiglia di champagne senza battere ciglio, lo spettro della povertà aleggiava sempre intorno a lui, privandolo di qualsiasi piacere potesse provare, nel vedere il suo denaro svanire per cose di cui non sentiva il bisogno.
Le ragazze da scopare, invece, non le aveva trovate. Loro avevano trovato lui. Kojiro sapeva perfettamente che alle ragazze piaceva e in Italia si facevano molti meno problemi a farglielo capire che in Giappone, ma Kojiro si era sempre defilato. Jun era lontano, dall’altra parte del mondo e al di là del suo desiderio e lui non sentiva più il bisogno di avere uno schermo che nascondesse la sua ossessione agli occhi del mondo – ormai era seppellita talmente in profondità, sotto al rancore, al dolore e all’umiliazione da essere irraggiungibile, persino per lui. Non c’era più bisogno delle sue Idol da capelli ossigenati, perché la stampa italiana non era abbastanza interessata a lui e non ce n’era più bisogno, perché quel desiderio, che un tempo era sicuro gli si leggesse in faccia, adesso non era neanche più sicuro di provarlo.
Perciò Kojiro si era limitato a camminare per Torino, il cappuccio della felpa tirato su e gli occhiali scuri a nasconderlo dal mondo, finché Tadashi non aveva deciso che era suo dovere di manager rendere la sua vita più glamourous. Tadashi che si era trasferito in quell’attico insensatamente grande  – che aveva comprato lui stesso per Kojiro, con i soldi di Kojiro – nel momento in cui si era accorto di quanto lui, Kojiro, in quell’appartamento si sentisse solo e perduto. Tadashi che si assicurava che lui seguisse alla lettera le indicazioni del dietista, ma che faceva il possibile perché Kojiro mangiasse giapponese il più spesso possibile, perché Kojiro era cresciuto con il riso e il ramen e il misoshiro, con la zuppa del supermercato e i piatti a pochi yen delle bancarelle, non era come Wakabayashi o come Jun che erano a loro agio con la cucina occidentale e lo prendevano cordialmente in giro, o, forse, non così cordialmente, quando si trattava di Jun, forse cordialmente solo all’apparenza, perché tra loro non erano mai scherzi, ma sempre un gioco di forza, che era anche un gioco di desiderio e lussuria e forse amore, ma, prima di tutto, di forza. Tadashi si assicurava che sulla tavola di Kojiro non mancasse mai qualcosa che lo facesse sentire a casa, che addolcisse la nostalgia, la feroce, crudele mancanza dei suoi pochi amici e dei suoi molti fratelli. Tadashi che gli procurava gli sponsor, che riusciva a rivendere la sua immagine per quantità di denaro incomprensibili per Kojiro e che, a ogni pagamento, faceva arrivare un bonifico alla madre di Kojiro, senza che gli fosse chiesto niente. Tadashi aveva deciso che Kojiro si stavo rovinando il fegato, a vagabondare senza meta per Torino, con il cappuccio tirato su e gli occhiali scuri a tenere il mondo fuori.
– Devi essere in forma per lavorare, Hyuga, e passare il tempo a tenere il broncio non ti aiuta. E va bene che l’aria da tenebroso ti dona e che Gabbana ne va pazzo, ma chissenefrega di quella checca, sei un cazzo di calciatore, sei un testimonial, non sei un modello, quindi trovati qualcosa di divertente da fare e sorridi.
Ma Kojiro qualcosa di divertente da fare non aveva neanche idea di dove cominciare a cercarlo. E Tadashi, che come manager non si arrendeva mai davanti a niente, aveva deciso di dover essere lui a trovarlo, qualcosa di divertente, che facesse sorridere Kojiro e non gli facesse tenere il broncio tutto il tempo, così che fosse un buon calciatore e un buon testimonial e continuasse a guadagnare per entrambi. O forse Tadashi si accorgeva, come si accorgeva sempre di tutto, di quanto Kojiro si sentisse perduto e solo e confuso, al punto da non sapere neanche da dove cominciare, per sbrogliare quei sentimenti e capire cosa provava veramente e, per Tadashi, Kojiro era sì il suo miglior cliente, quello che moltiplicava come per magia il suo conto in banca, ma era anche l’uomo che guardava con reverenza e imbarazzo, quando pensava che Kojiro fosse distratto.
Così Kojiro si era improvvisamente trovato seduto in prima classe, accanto a business man con Mc e DELL e donne con abiti logati Gucci e YSL e Balenciaga, su treni italiani che avevano sedili di pelle ed erano chiamati “Alta-velocità”, ma arrivavano con almeno un’ora di ritardo. I primi mesi, il perenne ritardo dei mezzi di trasporto aveva sorpreso Kojiro, ma non aveva mai sorpreso Tadashi che, come sempre, sembrava sapere sempre tutto e aspettarsi sempre tutto e prendeva biglietti con largo anticipo e infilava in borsa riviste per sé e libri che era convinto Kojiro avrebbe apprezzato. E Kojiro quei libri li apprezzava. Per quanto i suoi venticinque anni li avesse dedicati alla fatica fisica e allo sport e ben poco allo studio, aveva scoperto che immergersi in un libro placava il nervosismo e l’ansia che lo accompagnavano in continuazione, dava un senso al suo movimento, che sembrava così caotico e scomposto, aiutava il suo spirito a trovare la calma. Leggeva classici soprattutto, il libro dei cinque anelli e il Genji Monogatari e il padiglione d’oro, che sembravano parlargli di quel suo perenne conflitto tra la ricerca della perfezione nella fatica fisica e la pace dell’anima e di come ricomporlo, ma aveva scoperto di apprezzare anche la letteratura occidentale, prima come trascinato da un mondo all’altro dalla lievità di Ishiguro, poi sopraffatto e ingoiato dalla grandezza di Dickens e Melville.
Così Kojiro sedeva sui sedili di pelle, mentre, al suo fianco, Tadashi non smetteva di lavorare, e lasciava che quelle parole di secoli passati alleggerissero la sua solitudine e placassero la sua confusione e, quando scendevano dal treno, Kojiro si trovava nell’Italia che si era aspettato prima di partire, quella del mare e del sole e delle opere d’arte e Tadashi lo guidava da una strada all’altra, da un museo all’altro, con la sicurezza di una guida professionista e lo lasciava passare ore a vagare per le sale dei Musei Vaticani o degli Uffizi o per Castel sant’Elmo o per le strade di Venezia o di Napoli, mentre Tadashi continuava a parlare al telefono, davanti al Front Office, con un Xperia nero e sottile come quello che aveva più di un anno prima, quando Kojiro aveva scoperto che la Juventus lo voleva comprare. Un monolite nero e sottile come quello di allora, ma che non era lo stesso, Kojiro lo sapeva. Sapeva  che Tadashi aveva cambiato almeno tre telefoni nel frattempo, se c’era qualcosa su cui Tadashi non si faceva problemi a spendere – Tadashi si faceva pochi problemi a spendere su quasi tutto, ma in particolare non se ne faceva su quello – era tutto ciò che poteva renderlo più rapido ed efficiente sul lavoro, perciò cambiava telefoni e computer con la velocità con cui altri, altri come era stato Kojiro un tempo, cambiavano calzini.
Kojiro si allenava, seguendo quegli allenamenti così diversi da quelli a cui era abituato e cercava di sorridere di più e non tenere il broncio, perché era un calciatore e un testimonial e non un modello e chissenefrega se Gabbana andava pazzo per la sua aria da tenebroso, anche se il contratto che Tadashi gli aveva fatto firmare con lui e il suo socio aveva sopra quasi altrettanti zeri di quello con la Juventus. Si sottoponeva alle sedute di fisioterapia, che erano l’unico momento in cui si sentiva quasi tornato alla normalità, la sua normalità, quella in cui soffrire fisicamente e mentalmente è quello che ci si aspetta e il dolore che gli provocava la fisioterapia gli riportava alla memoria ogni allenamento passato, ogni partita e persino quelle camere di albergo di cui aveva chiuso le porte per sempre; quelle camere d’albergo dai lenzuoli bianchi dai profumi anonimi e dai bagni impersonali e dai bagnoschiuma che odoravano di relazioni spezzate. Tornava la sera in quell’attico insensatamente grande e trovava Tadashi che lavorava e mentre lavorava non si scordava di controllare che il cuoco avesse preparato per Kojiro un pasto bilanciato, ma che non gli facesse sentire troppa nostalgia delle zuppe comprate al supermercato e dei piatti che acquistava per pochi yen alle bancarelle. Kojiro non riusciva a capacitarsi che qualcuno potesse cucinare per lui, tantomeno che qualcuno controllasse cosa gli veniva cucinato; se da una parte la presenza di Tadashi lo confortava, dall’altra non faceva che rendere i suoi abissi di vuoto, mancanze, senso di colpa, strenuo bisogno di essere migliore ancora più profondi. E, nei giorni di riposo, viaggiava e leggeva e lasciava che fosse Tadashi a organizzare tutto, sicuro che lo avrebbe fatto per il meglio.
------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------Tadashi si affacciò dalla cucina chiedendo – Come sono andati gli allenamenti? – e Kojiro si accorse che cercava di nascondere la tensione sotto le parole.
– Non sono andati male – rispose, perché non erano andati male e perché Tadashi non aveva bisogno di preoccuparsi ulteriormente. Kojiro faceva fatica a integrarsi con la squadra e ancora più con l’Italia, con quel paese di gente che ti fissava con insistenza, parlava troppo e a voce troppo alta e ti chiamava per nome come se ti conoscesse da sempre e aveva un’idea dell’impegno e della dedizione che erano il contrario di quello a cui Kojiro era abituato, ma Kojiro non si era mai arreso nella sua vita. Non si era mai arreso alla fatica, allo sconforto, al dolore, non si sarebbe arreso davanti a una sfida che era esattamente l’opposto, anche se lo metteva molto più in difficoltà di quegli allenamenti che il medico sportivo, dagli occhi grigi cordiali e divertiti, aveva definito criminali.
– Ci sono un po’ di partite che dovresti vedere. Ti ho segnalato tutte le parti interessanti. Tra sei mesi c’è un’amichevole della nazionale contro la Cina e sarai in squadra.
– Guarderò le partite. Qualcuno in particolare?
– Ozora e Wakabayashi come sempre. Wakabayashi non sembra neanche essersi infortunato a questo giro, vediamo se resta in piedi fino ai mondiali, altrimenti ci sarà Wakashimazu e per te potrebbe essere anche meglio, almeno evitate di saltarvi alla gola, tra un tempo e l’altro. Guardati per bene Misaki e Matsuyama, hai bisogno di qualcuno che ti tenga il gioco e non puoi sperare di avere sempre in campo Sawada, loro due sono un ottimo supporto, sono quello che ti serve.
– Misaki è il gemello siamese di Ozora e Matsuyama mi detesta da quando avevamo dieci anni.
– Hyuga, lo so che sei una testa di cazzo, lo sappiamo entrambi, ma fai il professionista e non rompere. Guardati anche Misugi, è tornato in forma perfetta ed è furbo come un serpente a sonagli, stai sicuro che il regista sarà lui a questo giro e non Matsuyama.
Kojiro cercò di non pensare a cosa sarebbe stato, tornare a giocare accanto a Jun, dopo tutto quel tempo, dopo quelle camere d’albergo e quelle porte chiuse e poi si ritrovò a pensare se pensava qualcosa ancora di tutto quello, se c’era qualcosa che era rimasto, qualcosa che era sopravvissuto al rancore, al dolore e all’umiliazione. Se c’era ancora spazio per il desiderio e la passione. E forse no, non era rimasto più niente, persino il desiderio e la passione si erano spenti, sotto il peso di un bisogno più profondo, che Kojiro si portava dietro da sempre – da quando era un bambino a cui era stato chiesto di crescere troppo in fretta, un ragazzino che si doveva occupare di sua madre e i cui fratelli minori erano come figli – un bisogno, seppellito nei suoi abissi di vuoti, mancanze e sensi di colpa, di essere amato e di amare senza che quell’amore si diluisse fino a sparire nel senso del dovere. Jun aveva saputo smantellare un pezzo alla volta Il suo senso del dovere, la sua tenacia e la sua ostinazione che gli impedivano di godere di qualsiasi piacere che non fosse ottenuto a prezzo della sofferenza, aveva spalancato gli abissi che Kojiro teneva sprangati con la forza della sua taurina volontà e poi li aveva messi a tacere con la sua presenza. In quelle impersonali camere d’albergo, tra quelle lenzuola bianche dal profumo anonimo, Kojiro aveva trovato gli unici momenti di pace della sua vita, gli unici momenti di pace vera, non quella ottenuta sfiancandosi con gli allenamenti fino a smettere di pensare. Ma intanto gli abissi si erano spalancati e, quegli incontri, composti di dita lunghe che spingevano i bottoni nelle asole, di sole pomeridiano che disegnava geometriche ombre su un corpo asciutto, di bagnoschiuma che odoravano di albergo e relazioni spezzate, di corpi elettrici, sangue che pulsava e abbandoni sempre più dolorosi e solitudini incolmabili, non erano stati più sufficienti per Kojiro, perché ormai quel suo bisogno, perpetuamente represso, di calma e affetto e amore, non era più in grado di rinnegarlo.
Non era in grado di rinnegarlo nemmeno adesso, ma per quanto Jun l’avesse umiliato, una parte di Kojiro sapeva che quel giorno si era arreso volontariamente, che non avrebbe mai abbandonato la carriera per una relazione, che non poteva fare a meno di qualcosa per cui lottare, non poteva rinunciare a tendere alla perfezione, a cercare di essere il migliore e non avrebbe mai, per niente al mondo, permesso a qualcuno, persino a Jun che era sempre stato più ricco di quanto Kojiro potesse immaginare, di mantenerlo.
E aveva visto abbastanza del mondo per capire, dopo che Jun l’aveva costretto a farlo, che era impossibile separare il lavoro in campo e una vita sentimentale stabile. Se non eri famoso abbastanza ti facevano fuori anche solo per un sospetto di omosessualità, se eri abbastanza bravo e famoso, nessuno era disposto a credere nelle tue preferenze, anche se non facevi troppo per nasconderle, ma, un rapporto alla luce del sole con un altro uomo, non sarebbe stato perdonato a nessuno.
Guardò Jun giocare, come aveva chiesto Tadashi, e cercò di concentrarsi sul suo gioco di piedi, sui suoi schemi sempre più precisi, sul modo in cui comunicava con i compagni e non su quelle gambe asciutte che erano state il suo tormento, sulle gocce di sudore sul viso elegante, sui capelli castani incollati alla fronte, com’erano stati l’ultima volta che si erano incontrati in una camera d’albergo, una di quelle camere dalle lenzuola bianche le cui porte Kojiro aveva chiuso per l’ultima volta.
Lo guardò giocare e cercò di essere un professionista, come voleva Tadashi e come Tadashi lo riteneva veramente essere, nonostante gli dicesse che era una testa di cazzo. Guardò giocare Misaki e Izawa e Ozora e Wakabayashi e guardò Ken e Takeshi e ammirò il modo in cui erano migliorati, Takeshi soprattutto, modesto e mai appariscente, ma sempre presente in campo. Sempre presente in campo e fuori, il suo migliore amico, lui e Ken con il suo sorriso ampio e vederli giocare insieme, senza di lui, gli fece avvertire ancora di più la loro mancanza e la sua solitudine.
Kojiro mangiò il suo menu bilanciato, ma abbastanza simile a quello a cui era abituato da non sentire troppo la nostalgia; guardò le partite, cercando di essere professionale e non pensare, bevendo del cognac versato da una bottiglia di cristallo uguale a quella che si trovava nel suo appartamento di Tokyo, un bicchiere e poi due e forse tre, mentre Tadashi, seduto al tavolo da pranzo, ticchettava sulla tastiera del computer senza riposo. Tadashi non sembrava conoscere cosa fosse il riposo e per quello si intendevano così bene, loro due. Kojiro finì di guardare gli spezzoni di partita elencati da Tadashi e poi andò in bagno, il bagno insensatamente grande di quell’appartamento insensatamente grande, si spogliò e si infilò sotto la doccia e rimase, per un tempo che gli parve infinito, fermo, sotto l’acqua gelida che gli sferzava le spalle e il cranio. L’acqua e forse l’alcool si portarono via i pensieri e i ricordi e la nostalgia e la razionalità, lasciando un vuoto affamato.  E, quando Kojiro uscì dalla doccia, fece qualcosa che non avrebbe voluto, o forse non avrebbe dovuto o forse, che, semplicemente, non si sarebbe mai perdonato, anche se lo avesse voluto e avesse potuto.
Tornò nel soggiorno, in cui il ritmico ticchettio della tastiera del computer non si arrestava, ancora bagnato, l’acqua che lasciava una scia lucida sul parquet. Tadashi alzò alla testa e, per una frazione di secondo, giusto una frazione, perse il suo autocontrollo, quell’autocontrollo che non perdeva mai, davanti a Kojiro, bagnato e nudo e scalzo sul parquet e lo fissò come abbagliato, come Kojiro sapeva di aver fissato Jun, mentre l’altro si contorceva nell’orgasmo, gli occhi serrati e la bocca spalancata. Ma Tadashi sbatté le palpebre e recuperò il suo autocontrollo, molto più rapidamente di quanto avesse mai fatto Kojiro. – Che cazzo hai stasera, Hyuga? Ti ho lasciato bere un bicchiere di più e dai spettacolo. Forza, muoviti che ti porto a letto.
Ma Tadashi non aveva ancora finito di alzarsi in piedi e il suo autocontrollo era solo un’altra maschera, come lo era quella di Kojiro, come lo era stata quella di Jun, e Kojiro gli affondava le dita brune in una spalla, lasciando tracce bagnate sulla camicia candida e con l’altra mano gli stringeva la nuca e premeva le labbra contro le sue e cercava di colmare quel vuoto affamato, con l’odore e il contatto e il calore altrui. E Tadashi, ovviamente, gli lasciò prendere tutto quello che voleva, come Kojiro aveva sempre saputo che avrebbe fatto e Kojiro si prese tutto e la mattina dopo si sentì un ladro.
La mattina Kojiro si sentì un ladro, ma Tadashi non sentiva derubato. Kojiro lo trovò che parlava al cellulare, mentre controllava il cuoco che preparava la colazione esattamente come tutte le altre mattine. L’unica differenza fu che chiuse la telefonata un poco più bruscamente del solito e lasciò il cuoco a sé stesso per farsi incontro a Kojiro.
– È solo sesso, Hyuga. Sesso, ma potevi dirmelo prima. È il mio lavoro tenere i tuoi segreti, ma non posso tenerli se non me li racconti. – Lo studiò da sotto i ciuffi corvini che gli coprivano la fronte con occhi penetranti – Non mi dirai che cosa avevi in testa ieri sera, vero?
Hyuga lo guardò, lo guardò veramente, per la prima volta in anni di collaborazione e vide il fisico tonico e il volto squadrato e lo spazio ampio fra gli occhi e le sopracciglia folte e dritte che rendeva il suo sguardo aperto e sincero. Lo guardò e scosse la testa – Non è solo sesso. Sono stanco.
Tadashi voltò il capo, sfuggendo il suoi occhi, stringendo le labbra in una linea dura – Mi devi dare sempre problemi, vero? Ancora non so perché ho accettato di lavorare per te – Abbassò la testa, i capelli che gli nascondevano il volto – Va bene. Va bene, naturalmente. Ci penso io.
Rialzò la testa, lo sguardo di nuovo deciso e professionale.
– Tu non fare niente. Anzi no. Fai quello che ti dico io. E basta.
Kojiro fece spallucce, fare quello che diceva Tadashi era parte della sua quotidianità. Non sapeva perché aveva detto quello che aveva detto, il senso di colpa aveva un peso che non voleva ammettere, ma era vero che era stanco, era stanco da troppo tempo. Da quando si era chiuso dietro le spalle quelle porte d’albergo per l’ultima volta, o forse da quando le aveva aperte, o forse da ancora prima, dalle sue relazioni clandestine e le sue Idol dalle voci acute e i capelli ossigenati.
Kojiro non smise di sentirsi un ladro, ma lasciò che Tadashi organizzasse anche quell’aspetto della sua vita con la sua perfetta efficienza. Gli allenamenti e la dieta e la fisioterapia e le amichevoli la domenica, in cui a volte lo facevano finalmente giocare, e le partite di campionato, seduto in panchina, continuarono come prima e continuarono i viaggi in prima classe, sulle sedie di pelle di treni ad Alta-Velocità in perpetuo ritardo. Gli scaffali della libreria di Kojiro si continuarono a riempire e lui continuò ad aggirarsi per Torino con il cappuccio tirato su e gli occhiali scuri, ma Tadashi lo costrinse a frequentare qualche modella, qualche attricetta, famose a sufficienza perché non destasse stupore la loro presenza al fianco di un calciatore della Juventus e testimonial di Dolce & Gabbana, ma non abbastanza perché le riviste di gossip fossero interessate ad approfondire la loro relazione. Tadashi lo costringeva a frequentarle, ma mai per troppo tempo, mai per un tempo sufficiente, perché qualcuna lo potesse conoscere veramente, sempre che fosse possibile conoscerlo veramente e, in verità, erano più quelle che lo lasciavano loro, dopo un po’, stanche di essere tenute a distanza, del contrario.
– Diranno che è perché sei giapponese, cultura diversa e bla, bla, bla. Va bene così. Hanno troppa poca fantasia e troppa paura per immaginarsi qualcosa di diverso – diceva Tadashi, ogni volta che una di quelle donne senza nome spariva. Tadashi, invece, non spariva. Semplicemente c’era, in un modo che era diverso da prima solo per delle sfumature. Spengeva il telefono o smetteva di ticchettare sulla tastiera del computer, quando si accorgeva che Kojiro aveva bisogno di parlare e aspettava pazientemente che Kojiro commentasse gli allenamenti o leggesse ad alta voce un brano di un libro che gli stava piacendo e che, probabilmente, Tadashi conosceva, dato che tutti i suoi libri glieli procurava Tadashi stesso, oppure, nei rari, rarissimi momenti, in cui riusciva a cedere a una debolezza, ammettesse che gli mancavano Takeshi e Ken e la sua famiglia. Si sedeva con lui durante i pasti e mangiavano insieme e Tadashi sembrava capire sempre se Kojiro preferiva il silenzio o il suo chiacchiericcio sommesso e le sue battute sarcastiche. E a volte, quando erano soli e non stavano parlando di lavoro, Tadashi lo chiamava Kojiro.
E c’era il sesso, perché, anche se non era soltanto sesso, il sesso c’era e ogni volta Kojiro cercava di tenere fuori dalla mente le immagini fulminee di gambe asciutte e lunghe dita e di un volto elegante con gli occhi serrati nell’orgasmo e di un amante carismatico e sadico, davanti a cui anche la sua forza e la sua tenacia cedevano, perché sapeva sempre come domarlo, come contenere la sua eccitazione e impedirgli di sfogarla, finché Kojiro non cedeva, godendo di quella sottomissione. Kojiro cercava di tenere fuori le immagini e i ricordi e concentrarsi sull’uomo paziente e attento, caustico e intelligente, che cedeva al suo tocco in modo assolutamente non professionale e, quando un’immagine o un ricordo gli si presentava alla mente, si sentiva un ladro.
Tadashi gli fece ottenere quindici giorni di ferie per tornare in Giappone per il diploma di sua sorella.
– Una settimana è più che sufficiente – aveva protestato Kojiro.
– No, non è sufficiente. Credi che non ti veda, Hyuga? A me non importa, essere dall’altro capo del modo, ma tu deperisci dal bisogno di passare del tempo con la tua famiglia. Per non parlare di Wakashimazu e Sawada.
– Posso stare benissimo da solo.
– Non essere idiota. È chiaro che non puoi e dato che sei socievole come un rinoceronte con le emorroidi, se non prendi fiato finirai per soffocare.
E naturalmente Kojiro sapeva perfettamente chi aveva ragione. Baciò il neo che Tadashi aveva alla base del collo, perché non sapeva come rispondere, né tanto meno come esprimere la sua gratitudine.
– Sono solo quindici giorni di ferie, non farla tanto lunga, quando torni ti farò trovare così tanto lavoro che rimpiangerai di essere partito.
Tadashi aveva ragione. Kojiro stava morendo per la fame di affetto e per la nostalgia e quindici giorni a casa di sua madre – che non era più la casa piccola e malandata che avevano quando lui era bambino, ma era comunque molto più piccola del suo attico a Torino – quindici giorni in compagnia dei suoi fratelli, quindici giorni in cui poté parlare faccia a faccia con Ken e Takeshi e uscire a bere con loro come se non fosse passato un giorno dalla sua partenza e giocare a calcio nel campetto di quartiere, come quando erano bambini, quindici giorni a Tokyo, a casa sua, senza persone che ti fissavano con insistenza e parlavano troppo a voce troppo alta e ti chiamavano per nome come se ti conoscessero da una vita e invece non sapevano niente di te, niente di chi eri veramente, erano ciò di cui Kojiro aveva bisogno.
Quando tornò, trovò Tadashi ad aspettarlo in aeroporto, come sempre impegnato in una telefonata, il Sony Xperia, il sottile monolite nero, che era nuovo e appena un po’ più grande del precedente, attaccato a un orecchio. Lo aspettava appoggiato contro una colonna, le gambe accavallate. Kojiro si trattenne a guardarlo, costringendosi a vedere il fisico tonico che aveva ignorato per anni e gli occhi espressivi, perché glielo doveva, perché si sentiva un ladro e perché Tadashi, paziente e attento, caustico e intelligente, non aveva gambe asciutte e un sadismo sottile, ma lo faceva sentire bene.
Tadashi si voltò e lo vide, si affrettò a chiudere la telefonata e sorrise. Sorrise di un bel sorriso aperto e sincero, un sorriso che Kojiro gli invidiava.
Quattro mesi dopo il medico sportivo dagli occhi grigi cordiali e divertiti, guardava gli esami di Kojiro da sopra il lungo naso adunco e sorrideva soddisfatto. – La fisioterapia è andata meglio del previsto, la calcificazione si è molto ridotta e le microfratture si sono saldate, ti resteranno i dolori quando viene l’umido, ma c’è poco da fare. Le tendinopatie nel complesso sono migliorate, ma non c’è da aspettarsi che guariscano mai del tutto. Meglio di così non si poteva fare.
Kojiro lo guardò senza sapere cosa dire, come sempre. Era positivo che non si potesse fare meglio di così o era destinato alla pensione?
– Puoi tornare in campo. Segui le tabelle di allenamento e non strafare, se tutto va bene puoi tranquillamente continuare a giocare per altri dieci o quindici anni. Ti aspetta un’artrosi precoce, ma faremo il possibile per ridurre i danni.
Il medico raccolse gli esami e porse la cartella clinica a Kojiro. – Tra due settimane parti per un’amichevole della nazionale giapponese, vero? In bocca al lupo.
– Crepi – disse Kojiro, sollevato che, per una volta, la risposta fosse semplice.
La risposta era semplice, ma le emozioni che gli provocava l’idea di tornare a giocare in nazionale, anche se solo per un’amichevole, lo erano molto meno. Aveva continuato a guardare le partite di Jun, cercando di essere professionale, di chiudere la mente a immagini e ricordi e aveva continuato a cercare di saziare il suo vuoto con l’odore e il contatto e il calore di Tadashi, ma l’idea di rivedere l’uomo, il cui pensiero l’aveva ossessionato fin dall’adolescenza, che aveva, baciato, morso, scopato così tante volte, lo turbava di un turbamento che si nascondeva nel ventre, stringendogli le viscere.
Durante il viaggio in aereo, Tadashi continuò a lavorare al computer, apparentemente inconsapevole del turbamento che si nascondeva nel ventre di Kojiro, stringendogli le viscere, ma mentre Kojiro fissava le nuvole fuori dal finestrino, sentì le ciocche setose di Tadashi sfiorargli la mandibola.
– Tra una decina d’anni sarai troppo vecchio per continuare a giocare e, con il carattere di merda che ti ritrovi, non esiste che tu faccia l’allenatore. Allora ti darò la vita che vuoi. Una casa tranquilla, una famiglia, bambini se li vuoi. Ci penso io.
Kojiro si voltò a guardarlo sorpreso, ma Tadashi si era già rimesso a lavorare e fissava lo schermo del computer come se non si fosse mai distratto.
Il primo giorno di ritiro, Kojiro scoprì con disappunto che la vista di Jun non era meno conturbante di quella che ricordava. L’altro era distante e padrone di sé stesso come sempre, aveva sempre gambe asciutte, al cui fascino Kojiro soccombeva e lunghe ciglia castane che ombreggiavano gli occhi luminosi. Kojiro si chiuse in un silenzio aggressivo, il battito del suo stesso cuore che gli rimbombava assordante nelle orecchie. Vide Tadashi discutere con Gamo mostrandogli la sua cartella clinica e le indicazioni del fisioterapista e dell’allenatore, osservò lo scambio che da lontano sembrava muto, ma doveva essere accalorato e poté immaginare facilmente Tadashi che minacciava di non lasciarlo giocare, se non fossero state seguite le indicazioni della squadra con cui aveva firmato un così vantaggioso contratto. Gamo chiamò Misugi a prendere parte alla disputa e Kojiro guardò il suo amante passato discutere con quello attuale del suo destino: uno pacato e rilassato, come sempre un principe perfetto davanti a tutti, l’altro educato e cordiale, ma altrettanto inamovibile di una quercia secolare. Gamo, più impaziente di entrambi, sbottò e li lasciò discutere fra loro, scaricando l’irritazione sui giocatori in campo. Tadashi e Misugi dopo un po’ si strinsero la mano e Misugi si fece incontro a Kojiro.
– Nakamura è ancora più ostinato di come lo ricordavo. Spero che tu lo paghi molto bene, perché non te lo meriti.
Kojiro rispose con appena un cenno del capo, chiedendosi se le parole di Jun sottintendessero altro. Jun era sempre avanti a lui, c’era sempre qualcosa nelle parole di Jun che si perdeva, qualcosa che gli sfuggiva o a cui arrivava troppo tardi.
– Sarà meglio che tenga d’occhio sia Gamo che te. Se ti rompi in allenamento ci aspetta una causa così stratosferica da mandare in bancarotta la nazionale.
Kojiro annuì di nuovo, incapace di parlare davanti a quell’uomo che ancora sapeva risvegliargli un turbamento nel ventre, un turbamento che gli stringeva le viscere.
Fu felice di potersi dedicare alla fatica fisica e alla concentrazione sul gioco, nonostante sapesse di avere addosso sia gli occhi di Tadashi che di Misugi e non riuscisse a non chiedersi quanto ci fosse di professionale e quanto di tutt’altro che professionale in quegli sguardi, perché nel suo, di sguardo, quando si posava sulle gambe asciutte di Misugi e sul suo profilo elegante o quando incontrava gli occhi intenti di Tadashi,  di professionale c’era ben poco.
Nonostante il nervosismo e gli sguardi che continuavano a seguirlo e il senso di oppressione che non lo abbandonava, i giorni del ritiro passarono rapidamente e la partita finì con un soddisfacente due a due, entrambi i gol del Giappone messi in rete da Kojiro, che si trovò a pensare, per la prima volta, che quegli allenamenti tre volte a settimana e quelle amichevoli la domenica e gli schemi che lo costringevano a imparare, tutto sommato non erano così male.
La sera Kojiro cenò con la squadra. Ascoltò Wakabayashi parlare di come si trovava in Germania, con più interesse di quanto avesse mai fatto prima, ora che anche lui viveva in una città aliena e distante; Ozora annunciò titubante il suo fidanzamento e, anche se Kojiro sapeva, come sapevano tutti, che era solo questione di tempo, lo invidiò per la facilità con cui poteva avere quello che a lui era precluso; Matsuyama cercò di provocarlo, deridendo il modo in cui Kojiro si lasciava dire cosa fare dal suo manager e la sua neonata attenzione agli infortuni, ma Kojiro si sentiva troppo in debito con Tadashi per lasciarsi trascinare in una discussione del genere. E comunque Tadashi aveva avuto ragione, Misaki e Matsuyama erano in grado di servire i palloni di cui Kojiro aveva bisogno per andare a rete e Kojiro era abbastanza professionale da ammetterlo. Con Ken e Takeshi, bevve, rise e si rilassò e il turbamento che si nascondeva nelle sue viscere si sciolse un poco. Misugi era seduto dall’altra parte del tavolo, che parlava tranquillamente con Izawa e lui e Kojro si ignorarono o finsero di ignorarsi per tutta la sera.
Rientrò in camera presto e preparò le valigie per ripartire l’indomani mattina. Era già pronto per andare a letto, quando sentì bussare alla porta. Sentì bussare e pensò che si trattasse di Ken o Takeshi che si erano dimenticati qualcosa, perciò non perse tempo neanche per infilarsi una t-shirt sopra i boxer. Così quando aprì la porta, era nudo, se non per i boxer e Jun era in piedi davanti a lui con gli occhi scuri e febbrili come non glieli aveva mai visti, se non quando facevano sesso.
– Posso entrare? – La voce controllata, ma che vibrava appena e forse Kojiro non era stato il solo a continuare a pensare a quelle camere d’albergo per tutti quei mesi, mesi in cui non si erano visti, né sentiti e Kojiro aveva pensato di aver chiuso quelle porte definitivamente.
Si sentì travolto dal rancore, dal dolore e dall’umiliazione che l’avevano perseguitato per quasi due anni, dal ricordo delle parole crudeli e tranquille che Jun gli aveva detto guardandolo negli occhi, dal ricordo delle sue stesse parole, dall’aver lasciato le sue debolezze venire allo scoperto, i suoi bisogni più profondi, quei bisogni che salivano dagli abissi che Jun aveva scoperchiato e poi rifiutato. Si sentì travolto dal rancore, dal dolore e dall’umiliazione e al tempo stesso dal desiderio e dalla passione, che Jun continuava a provocare in lui.
Jun che per gli altri era un principe dal cuore di cristallo, fragile e perfetto come un vaso della dinastia Ming, ma che per lui era un torero dalla spada di acciaio, suo tormento e sua estasi.
Fece appena un passo indietro, un passo che non era neanche un passo completo, era più un accenno di un passo, ma che per lui, che non arretrava mai, era la cosa più difficile che avesse fatto in vita sua, solo quanto bastava perché Jun avesse lo spazio per entrare e chiudersi la porta alle spalle. E poi le mani dalle dita lunghe erano tra i suoi capelli selvatici e le labbra soffici contro le sue e Kojiro era di nuovo solo un corpo elettrico e un frastuono di sangue nelle orecchie e il rancore e il dolore e l’umiliazione non erano dimenticati e neanche accantonati, ma erano solo alimento per il fuoco del desiderio.
Quando ebbero finito, Jun non si alzò subito, come aveva sempre fatto. Rimase sdraiato, un braccio inarcato sopra la testa, gli occhi castani che fissavano il soffitto come per cercare risposte alle sue domande, che forse erano anche le domande di Kojiro o forse no. E Kojiro lasciò che il pensiero tornasse al sesso che c’era appena stato e analizzò il piacere e il dolore, il rancore e l’affetto, l’umiliazione e il desiderio che si mescolavano in modo inestricabile e colse il filo di una malinconia che non aveva avvertito, finché le sensazioni avevano preso il sopravvento sui pensieri, una malinconia che aveva pervaso ogni secondo di quel sesso, che era stato così simile a quello che avevano condiviso per due anni, quasi tutte le settimane, non più di una volta, ma raramente meno, ma che era stato anche del tutto diverso.
– Non era mai successo durante un ritiro.
– No, ma non pensavo ci sarebbe stata un’altra occasione.
Continuarono entrambi a guardare altrove, come se il peso dello sguardo dell’altro fosse troppo da sopportare, per poter riuscire a parlare.
– Un’occasione per cosa?
– Non lo so. Non so tutto, non so quasi niente, ma so che mi sei mancato e non avevo il diritto di sentire la tua mancanza e che avevi ragione quando dicevi che è solo quando siamo insieme, che sono vivo fino in fondo.
Kojiro chiuse gli occhi e pensò che, forse, se non fosse stato lui, avrebbe pianto.
– So che non lascerò Yayoi e che non ci vedremo per chissà quanti mesi ancora e che tu non sei più mio da rivendicare. Prima era tutto, stasera è stato solo sesso e rabbia. E soprattutto è stato un addio.
E a quel punto Kojiro pensò che forse stava piangendo davvero, che aveva capito cos’era quella malinconia che aveva pervaso tutto, fin dall’inizio, da quando aveva visto Misugi sulla porta con gli occhi scuri e febbrili. Misugi, non più Jun, mai più Jun, perché non potevano tornare indietro, nessuno dei due. E c’era un uomo paziente e attento, caustico e intelligente, che non aveva gambe asciutte e un sadismo sottile, ma lo faceva sentire bene.
– Ti ho amato molto, avrei dovuto dirtelo prima, non sarebbe cambiato niente, ma sarebbe stato più onesto.
Kojiro voltò il viso dalla parte opposta, perché ora era sicuro di stare piangendo e non sapeva se erano lacrime di rimpianto o di sollievo e non voleva che Misugi lo vedesse.
Misugi si alzò e si vestì e non si riavviò i capelli, osservandosi allo specchio per assicurarsi di essere perfetto, come aveva sempre fatto, e uscì chiudendosi la porta alle spalle. Kojro non lo osservò da sotto le ciglia, come aveva fatto per due lunghi anni, ma continuò a fissare la finestra e lasciò che quel turbamento, che si nascondeva nel suo ventre e gli stringeva le viscere, si sciogliesse in lacrime silenziose.
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La mattina dopo, nel ristorante dell’albergo, trovò Tadashi che lo aspettava, lavorando al computer – come sempre non sembrava conoscere riposo – e facendo colazione all’occidentale. Tadashi si era ambientato molto più rapidamente di lui.
Si girò a guardarlo e il suo sorriso ampio e sincero gli illuminò il viso – Tra ventiquattr’ore ti aspettano gli allenamenti. Sarai nel video promozionale del nuovo profumo di D&G, le riprese dureranno una settimana, per cui ci sarà un po’ da barcamenarsi e il Mister ti vuole in campo per la prossima partita di campionato. Pronto a partire?
Kojiro sorrise appena, di uno di quei suoi sorrisi rari e discreti e mentre rispondeva – Sì – per la prima volta dopo molto tempo, non si sentì un ladro.
 

 
  
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