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Autore: Koa__    20/03/2018    8 recensioni
Sherlock Holmes, eccentrico e severo professore di chimica a Oxford, vive la sua vita tra aule, laboratori e violino. Un'esistenza solitaria, senza amici, né amori. Un giorno, però, nella sua routine entra con prepotenza John Watson, un medico ex militare giunto da poco a Oxford in veste di professore.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Mike Stamford, Nuovo personaggio, Sherlock Holmes, Sig.ra Hudson
Note: AU, Lemon | Avvertimenti: nessuno
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The Platters, Smoke Gets In Your Eyes
 



Sherlock aveva un piano. Come sempre del resto. Ne aveva diversi per qualsiasi cosa facesse, pertanto trovò logico il doverne preparare almeno uno adeguato alla situazione. Per quanto insolita fosse. Non gli era mai successo d’innamorarsi di una persona che fosse reale o viva nel suo stesso periodo storico. Sì, aveva avuto una cotta intellettuale per Mendeleev e un’altra un po’ più seria per Bach, ma loro erano del tutto imparagonabili a John Watson. John era stupefacente, pur non essendo un genio della musica o della chimica, era riuscito a penetrargli la mente e a distruggere ogni sua certezza. Pertanto, ciò che Sherlock si ritrovò a fare nei giorni che seguirono il breve viaggio a Littlewick Green, furono impiegati nella stipulazione di un severo piano di battaglia. Aveva stoicamente ignorato la voce nel suo palazzo mentale (voce che aveva assunto i toni e i modi falsamente gentili di Beatrice MacGill), che da giorni non faceva che ripetergli che l’amore non era una guerra. Lo era davvero, a sua detta. Di lotte, sebbene interiori, ne aveva affrontate abbastanza. In amore c’erano strategie, vittorie, sconfitte e naturalmente la volontà di conquistare territori nemici. Dunque era andato avanti, dritto per la propria strada, stoicamente. Ben fermo nelle proprie posizioni. Aveva un’idea specifica di quel che doveva fare e di come avrebbe dovuto affrontare il nemico, e non aveva alcuna intenzione di lasciarsi distrarre. Era assurdamente determinato e pronto a dar battaglia. La prima mossa fu quella di riflettere. Il pomeriggio seguente all’aver parlato con mamma, se ne stava seduto in poltrona con una tazza di tè stretta tra le mani. La sua mente aveva inconsciamente cominciato a vagare tra tutti quei discorsi sull’accettazione di se stessi e il lasciarsi andare ai sentimenti… In un primo momento, l’ondata di emozioni che gli aveva invaso stomaco e cuore, lo aveva lasciato boccheggiante e stordito, come se qualcuno lo avesse ripetutamente colpito in testa. Successivamente, e con la dovuta calma, aveva ripreso in mano le fila di se stesso. Ci aveva provato davvero, a riprendere il controllo. E in parte c’era riuscito, non senza difficoltà. Era stato rinchiuso nel proprio palazzo mentale per dei giorni, uscendone soltanto per il lavoro e le necessità di varia natura, e finendo poi per rintanarcisi nuovamente appena possibile. A qualcosa, ad ogni modo, quella massiccia opera di restauro di se stesso, era servita. Aveva fatto ordine in corridoi e stanze e, cosa ben più importante, aveva accettato la presenza di John come un fattore inevitabile. Ammettere d’esserne innamorato, oltre che attratto fisicamente, si era rivelata una strategia saggia. Sebbene fosse ancora presente nel suo palazzo mentale, quella muta presenza in ricordi infantili era deliziosamente piacevole da sopportare. Oltre che dolorosa poiché portava a galla domande alle quali Sherlock non avrebbe mai dovuto rispondere. Come sarebbe andata la sua vita se lo avesse conosciuto prima? Ma soprattutto, non è che stava correndo un po’ troppo? Era come se stesse già dando per scontato di piacere a John. Sì vivevano insieme e sì, questi lo sopportava e pareva apprezzare persino i casi a mezzanotte o gli esperimenti maleodoranti in cucina. Però questo non significava che era attratto da lui, non voleva dire che lo amava. Poteva Sherlock avere una speranza? O si stava soltanto comportando come un ragazzino un po’ troppo cresciuto? Come un adolescente alla prima cotta? Confessare i propri sentimenti era stata una liberazione, certo, però non era stato facile scrollarsi di dosso i pregiudizi riguardanti l’amore o i sentimenti. Scacciar via la paura si era rivelato complesso, oltre che inutile, dato che ancora temeva d’esser rifiutato o deriso. Eppure c’era riuscito e dopo giorni di riflessione aveva chiaro il concetto che, desiderare l’amore di una persona, non era la fine del mondo. Non voleva tirarsi indietro, nemmeno per il timore d’esser rifiutato e continuando a ripeterselo, forse, sarebbe riuscito a farselo entrare in testa.

Il momento in cui si decise a passare alla seconda parte del piano, arrivò verso la metà del mese di dicembre. Era una mattina di domenica quando Sherlock Holmes riemerse dalla profondità delle proprie riflessioni. Già Oxford s’addobbava per il Natale, realizzò con una punta d’orrore in volto. Ovviamente lo faceva in quella maniera eccessiva che si rivelava come piuttosto fastidiosa da sopportare. Mrs Hudson e Mrs MacGill erano l’emblema di ciò che Sherlock odiava delle festività natalizie, in pratica erano tutto un fermento di decorazioni e programmi per la vigila. Al 2 di Ship Street era un continuo stilar di liste, ingredienti da comprare e regali da acquistare per tempo. Doveva esserci una povera oca, là fuori, a cui spettava il triste destino d’esser cucinata da quelle due vecchie megere in grembiulino a fiori. Ignorarle fu la cosa più difficile che si era ritrovato a fare negli ultimi tempi. Come non sentirle fare su e giù dalle scale, con pile di omini di pan di zenzero precariamente posati su di un piatto? Era decisamente impossibile non vederle ronzargli attorno con lunghe file di lucine colorate, che finivano con l’appendere ovunque. A peggiorare le cose c’era John, tutto preso da una sorta di euforico entusiasmo festivaliero. John amava il Natale? Poteva c’entrare il fatto che quello era il primo dopo il congedo? Sherlock si ritrovò a rifletterci seriamente, oltre che a chiedersi se durante i natali passati si fosse ritrovato a festeggiare in una pericolosa zona di guerra. John avrebbe gradito delle domande in proposito? Dubitava, considerato che diventava teso le volte in cui qualcuno gli menzionava l’Afghanistan, perciò aveva sempre evitato d’entrare in argomento. Tuttavia Sherlock si ritrovò a chiedersi se non fosse il caso di fargli un regalo, John gliel’avrebbe fatto? Non ne avevano ancora parlato seriamente, ma forse avrebbero potuto cenare insieme. Oh, lo desiderava tanto! Anche se odiava il Natale, l’idea di stare con John era una prospettiva meravigliosamente dolce sulla quale indugiare. Tutto a tempo debito, si riscosse tornando in sé. Questo non era il tempo per divagare, doveva rimanere serio e concentrato per ciò che stava per succedere. Accade proprio in quella domenica pigra e lenta di metà dicembre, da un attimo e all’altro e dopo aver blandamente notato un piovere a dirotto, Sherlock prese la propria decisione. Balzò in piedi, lasciando cadere a terra la vestaglia e corse via.

«Dove vai?» gli domandò John dopo aver sollevato lo sguardo dal libro che teneva in mano. Si trattava di un orribile giallo, in una vecchia copia consunta, dal terrificante titolo che recitava: Omicidio in chiave minore. * Lo stava leggendo appassionatamente già da alcuni giorni, gliel’aveva prestato Mrs MacGill in quanto scritto da una sua lontana cugina o qualcosa del genere; cavolo, doveva iniziare a stare attento quando parlavano! In quel momento, però, ogni buon proposito di scovare l’identità dell’assassino era stata del tutto messa da parte. Lo sguardo acceso e vivace, attento e adesso puntato su di lui in un’espressione interrogativa, esprimeva un chiaro desiderio. Voleva seguirlo, dedusse sentendosi stranamente felice. Avevano già svolto qualche indagine insieme, nulla di pericoloso o particolarmente complesso. Il più importante era stato quel furto d’arte in casa di una giovane ereditiera di Banbury, ** la quale aveva visto la gran parte dei suoi oggetti di valore sparire in un lasso di tempo di cinque minuti. Quello si era rivelato un mistero piuttosto affascinante, risolto nell’arco di una serata. Tuttavia era sempre stato Sherlock a coinvolgerlo, lui a domandargli se fosse interessato o meno. Quella era la prima volta che John si mostrava desideroso di prender parte a un ennesimo, macchinoso mistero. Era soltanto per le bizzarrie oppure c’era dell’altro? Questo, proprio non lo sapeva.
«Caso» gli rispose, pur senza precisare. Naturalmente non amava raccontargli bugie, ma questa era una sorpresa. C’era uno scopo ben preciso dietro a non dirgli la verità. E quello che sapeva delle sorprese era che non bisognava svelare alcunché prima del momento giusto e ne era certo, dato che aveva fatto parecchie ricerche su google. Doveva esser vero per forza, pensò dandosi coraggio. Pertanto si limitò a stirare un gran sorriso, mentre tentava d’indossare la sua consueta maschera enigmatica.
«Vuoi una mano?»
«Non oggi, devo soltanto verificare una mia teoria. Niente di importante. Sarò di ritorno prestissimo.» E una volta detto questo, vorticò su se stesso e prese le scale, lasciando l’appartamento. Non voleva rischiare di farsi scappare un qualche dettaglio o particolare di troppo, pertanto preferì svicolar fuori. Si fidava talmente poco di se sesso… Purtroppo, quel suo scender le scale di fretta non gli permise di notare l’espressione di John, nata d’improvviso sul suo volto. Già, perché lo stupore aveva lasciato subito il posto a una leggera gelosia. John che aveva arricciato le labbra e che poi si era rimesso a leggere quel libro tanto interessante, facendolo però a pugni stretti e con umore nero. Lui però era troppo lontano per saperlo.
 


 
*
 


Insomma, Sherlock aveva un piano. E questo comprendeva anzitutto una lunga doccia calda e l’indossare il proprio abito più elegante (ma senza la cravatta perché quelle davvero non le sopportava, e poi con la cravatta somigliava a Mycroft, quindi no grazie!). Ma questa era la parte relativamente più semplice. Il difficile stava nella preparazione della cena, già perché la sorpresa per John era un qualcosa di cucinato da lui. Questo avrebbe permesso di creare un’atmosfera e, successivamente, di dirgli cosa provava. Sì, era un piano suicida ma al momento non aveva niente di meglio. Sicuramente non si era mai impegnato tanto per qualcuno. Aveva persino una ricetta! Gentilmente regalata da Angelo e che comprendeva ogni passaggio per la preparazione di un piatto di lasagne e quella di un ottimo dessert al caffè, il tutto annaffiato da del Chianti d’annata, ovviamente. Sembrava impossibile per lui l’impegnarsi tanto per render felice qualcuno, assurdo e al punto che la stessa Mrs MacGill lo aveva osservato per minuti e minuti dopo che Sherlock gli era piombato in cucina senza spiegare nemmeno perché avrebbe dovuto cucinare lì da lei. Già, era assurdo ma si era rimboccato le maniche, aveva indossato un grembiule e seguito ogni passaggio. Sebbene avesse francamene perso la pazienza più di una volta, era riuscito anche a fare la spesa. Preparare una cena non era davvero niente di eccezionale, per uno come lui abituato a calibrare  altre sostanze e in ben altre dosi, era stato un gioco da ragazzi. Ragù e besciamella erano venuti davvero ottimi. Insomma ci aveva impiegato delle ore, ma aveva fatto il necessario per preparare una bella e confortevole serata. Aveva anche scelto anche la musica, naturalmente. C’era un vecchio album dei The Platters tra gli effetti personali di John, che doveva essere uno di quei sentimentalismi incomprensibili come vecchi ricordi o altre scemenze del genere. Dopo di questo aveva apparecchiato la tavola pur senza fiori o romanticherie da quattro soldi, soltanto con una vaga parvenza di eleganza e luci soffuse sopra a quel tavolo della cucina ripulito per l’occasione. E ora se ne stava lì, in piedi, in attesa che la persona alla quale avrebbe dovuto confessare di provare dei sentimenti, scendesse di sotto. Era tanto in fibrillazione, d’essersi convinto che di lì a poco avrebbe avuto un infarto e infatti sussultò dopo che ebbe sentito la porta di sopra chiudersi. Il suo cuore prese a galoppare forsennatamente nell’attimo in cui si rese conto che John stava scendendo. Un gradino dopo l’altro. Lentamente. Come se si stesse divertendo nel torturarlo a quel modo. Quei pochi istanti gli sembrarono infiniti e, a peggiorar la sua già tremolante stabilità emotiva, a divorarlo arrivò anche quell’orrenda sensazione di morte. Ebbe mille e mille ripensamenti, durante quei brevi attimi. E riuscì a cambiare idea tante di quelle volte... Aveva addirittura pensato di lasciar tutto così e scappare in camera, chiudendosi a chiave. O ancora di gettare le lasagne dalla finestra e lasciar perdere tutto. Eppure era rimasto fermo. Preda del panico più totale. Con lo stomaco che si attorcigliava e la gola che si stringeva, le mani che tremavano. Fino a quando, a un certo punto, non lo vide. John Watson, vestito in giacca e cravatta che da oltre la soglia della cucina, lo guardava con fare curioso.

«Aspetti qualcuno?» Sì, Sherlock Holmes era un uomo intelligente. Lo era sempre stato, fin da bambino ed era sicuro di esserlo anche adesso. Sebbene lievemente ottenebrato dalle emozioni, riuscì a capire che c’era qualcosa che non andava in John. Perché gli aveva fatto quella domanda? Si era detto convinto del fatto che John avesse intuito la sorpresa, deducendola in anticipo come chiunque sano di mente avrebbe fatto. Era sicuro che fosse questa la ragione per cui era sparito di sopra da circa un’ora, per lasciargli la possibilità di sistemare tutto quanto per bene. Adesso però gli chiedeva se aspettava qualcuno, il che non faceva presagire nulla di buono. Sì, quella dannata paura che già tanto aveva provato in passato, il timore d’esser rifiutato e deriso, non soltanto iniziò a serpeggiargli dentro ma gli divorò lentamente il cuore.
«Io…»
«Non mi avevi detto che ti vedevi con una persona» lo sentì dire con aria tesa. C’era qualcosa in lui che stonava, rifletté Sherlock con curiosità mista a timore. Le sue parole, il suo viso e le sue espressioni erano come una melodia dolce, interpretata in maniera rabbiosa. Non era più calmo e pacato, ma agitato e la sua postura era del tutto differente da quella di poco prima. Aveva serrato le mani a pugno e intristito le labbra in un ghigno corrucciato. Pareva scontento. Ma per quale motivo però?
«Dev’essere qualcuno di molto importante per te, se hai preparato tutto questo... E, dimmi, chi sarebbe questo qua?» gli chiese, con quella che pareva davvero rabbia. Sembrava furioso, oltre che sul punto di trattenersi, ma perché? Gli aveva chiesto con chi si sarebbe dovuto incontrare per quello che, evidentemente, era un incontro romantico. Candele, vino e buon cibo non potevano che essere interpretati altrimenti. E John lo aveva afferrato immediatamente, ciononostante non pensava d’esser lui il protagonista dei desideri di Sherlock e, anzi, pareva disturbato dall’idea che si vedesse con qualcuno. Era forse geloso? La logica lasciava supporre di sì, ma si fidava talmente poco di se stesso che preferì non avallare neanche l’idea. Voleva semplicemente dirgli che aveva preparato tutto quanto per lui. Le lasagne, il vino, il dolce al caffè. Il servizio buono di Beatrice. La musica. Tutto per lui. E per una serata che sarebbe stata sicuramente indimenticabile. Eppure tacque, perché tra le tante ipotesi alle quali aveva pensato, mai avrebbe potuto credere a una cosa del genere.
«Anzi, no, sai che ti dico? Ti lascio campo libero. Anch’io ho un appuntamento stasera.»
«No, i…»
«Buona serata, professor Holmes.» John se ne andò così. Scendendo come una furia i gradini e poi sbattendo la porta giù di sotto. Sherlock invece rimase lì fermo. A lungo. Neanche contò i minuti. Non si rese conto di nulla, seppe soltanto che era vivo perché quel dolore al petto che provava non era certamente prerogativa dei morti. Loro non sentivano nulla, giusto? Si domandò nell’eco del proprio silenzio mentre si accucciava di fronte al camino acceso. Lì rannicchiato, con la testa posata sulle ginocchia, Sherlock chiuse gli occhi sperando di riuscire a scomparire nel nulla. Nel frattempo, quei dannati Platters cantavano ancora.
 
Erano da poco passate le dieci quando riemerse dai propri pensieri, levandosi finalmente in piedi pur non senza difficoltà. Non aveva avuto il coraggio di addentrarsi nel proprio palazzo mentale, sinceramente non ne aveva avuto la forza. Tuttavia aveva analizzato con logica tutto quel che era successo nelle ultime ore, il che gli aveva permesso di arrivare a diverse conclusioni. Presumibilmente tutte sbagliate. Dannazione, ancora non capiva! E lui detestava il non capire, lo rendeva nervoso e tanto che cominciò persino a camminare in tondo per il soggiorno. Aveva distrattamente notato che non c’era più musica, doveva aver spento lo stereo in un moto di rabbia e chissà che altro doveva aver combinato, rifletté dando una rapida occhiata alla stanza che però sembrava essere in perfetto ordine. Era stato uno stupido, questa era la verità. Tutta la determinazione, i piani fatti e preparati, la volontà di stupire John e l’impegno messo nella preparazione di quella cena, erano andati in fumo. Ed era colpa sua. Non importava quanto intelligente fosse in termini di quoziente intellettivo o di conoscenze in ambito scientifico e musicale, gli avvenimenti di quella sera dimostravano incontrovertibilmente che Sherlock Holmes era e restava un idiota. Avrebbe dovuto spiegargli come stavano realmente le cose e invece lo aveva lasciato parlare, permettendogli di trarre delle conclusioni sbagliate. E, ancora peggio, lo aveva fatto fuggire senza fermarlo o dirgli che era tutto un equivoco. No, non aveva fatto niente. Era rimasto immobile a fissare il vuoto, con la mente azzerata e priva di ogni razionale barlume di pensiero. Ma non era soltanto l’incomprensione ad atterrirlo, quanto l’aver in un istante realizzato che John si era vestito tanto elegante per un appuntamento. Sherlock non capiva. Eppure aveva interpretato i segnali correttamente. John non frequentava nessuna donna da mesi. Anzi, in certi frangenti sembrava geloso di lui, vivamente interessato a quel che diceva o raccontava. Eppure adesso si vedeva con una misteriosa tizia e chi mai poteva essere? Una collega? Una studentessa? Perché era questo a esser successo. La giacca, la cravatta, il profumo non costoso ma discreto, l’orologio al polso, era lampante il fatto che si fosse agghindato a quella maniera per una cena importante. Lo aveva perso per sempre, questa era la verità. Aveva indugiato per mesi non accettando d’esserne innamorato, e questo era lo scotto che doveva pagare. Ma era davvero così che stavano le cose? Perché sentiva che non era ancora tutto quanto perduto, sapeva di avere delle possibilità e quella gelosia l’aveva percepita davvero, non poteva essersi sbagliato. Non aveva commesso alcun errore di valutazione; o forse sì? Nah, probabilmente era soltanto una timida e pallida speranza, la sua. Con ogni probabilità gli sarebbe rimasto amico, pur amandolo in segreto. D’altronde era la cosa migliore, per quanto orribile fosse. In fondo, essere amico di John Watson era più di quanto avesse mai osato sperare.

Sherlock rimase per una quantità di tempo non ben definita al centro del soggiorno del 2 di Ship Street. Solo. In maniche di camicia, con la giacca gettata da un lato e della quale si era liberato ore prima. Aveva il viso arrossato, poiché scaldato dalla vicinanza col fuoco, ma dei brividi adesso gli correvano lungo le braccia e la schiena. Non aveva ovviamente sonno e oltretutto sapeva che se si fosse messo sotto le coperte si sarebbe ritrovato a pensare a John, e in questo momento desiderava soltanto dimenticare. Forse suonare sarebbe stata la scelta migliore, di certo la più saggia. Ma non aveva davvero voglia di imbracciare il violino. Al contrario, quella notte, lui aveva voglia di ballare. Era del tutto insensato, ma non desiderava che muoversi per il soggiorno e scordare ogni cosa. Ballare a occhi chiusi e fingere di averlo stretto a sé. Ballare come ora stava facendo, pur senza musica. Facendo finta di reggersi a qualcuno e con quel braccio sinistro sospeso a mezz’aria mentre il destro se ne stava teso ad afferrare il vuoto. Si muoveva in qua e in là, con leggerezza. Carico di quella leggiadria spensierata che gli permetteva danzare al pari di un ballerino. Fece una piroetta, quindi un’altra e poi finse di lanciarsi in un valzer con un’invisibile Watson a fargli da dama. Continuò a girare a quel modo per minuti, o forse ore? Di certo fino a quando i suoi piedi non si fermarono. Da un istante all’altro e senza che Sherlock se ne fosse reso conto pienamente, aveva inconsciamente smesso di ballare. Si era letteralmente bloccato al centro del soggiorno, come se qualcuno l’avesse stregato. La mente svuotata del tutto e il cuore che aveva ricominciato la propria corsa sfrenata. Già perché là, sulla soglia e appena fuori nel corridoio buio, c’era John Watson. John che se ne stava appoggiato appena allo stipite e lo guardava con una strana espressione in viso. Che sorrideva ma pareva in estasi. Che sembrava fremere e trattenersi al tempo stesso. Cosa voleva? Pensò Sherlock in un moto di possessività mescolata a una rabbia gelosa, era uscito con una brutta stronza e adesso lo guardava così? Beh, non ne aveva il diritto. Avrebbe invece dovuto spiegarsi e dirgli il perché aveva deciso di rovinargli la vita. Avrebbe dovuto chiarire il motivo per cui ora gli si stava avvicinando con quel fare lento e a passo studiato. Perché, inaspettatamente, si era spinto a pochi fiati da lui e tanto che avrebbero potuto anche baciarsi se solo uno dei due avesse preso la giusta iniziativa? Sherlock non fece nulla, né s’azzardò a parlare. Anzi restò semplicemente immobile, forse smise persino di respirare. Certamente un’emozione prepotente lo colse nel momento in cui John gli cinse la vita con una mano, intrecciando quindi le dita dell’altra alle sue. Una risposta alla ragione di tutto quello, aveva davvero paura di darsela.

«Nessuno dovrebbe ballare solo.»
«Chi mai vorrebbe farlo con me?» aveva risposto Sherlock, chinando lo sguardo. Vergognandosi. Forse arrossendo. Sussurrando a fatica quelle parole, uscite in un mormorio di poco percettibile. John voleva ballare con lui, come qualche settimana prima. Anzi diversamente perché sentiva che il suo approccio era del tutto differente da quello che aveva avuto alla festa di Mike. Allora c’era timore e imbarazzo, ora era drasticamente determinato nella maniera in cui aveva intrecciato le dita alle sue e per come gli aveva posato la mano sulla vita. John che aveva acceso lo stereo, gettando via il piccolo telecomando e arcuando un sopracciglio per lo stupore, dopo aver capito che Sherlock aveva rubato uno dei suoi dischi.
«Magari c’è qualcuno che vuole ballare con te. Un qualcuno che non è proprio capace di ballare» rispose «e che forse neanche sarà mai alla tua altezza. Magari un qualcuno che invece lo desidera davvero, davvero tanto. Un uomo che vorrebbe ballare con te più di quanto abbia mai voluto ballare con chiunque.» La sua voce era un flebile mormorio, parlato sulle labbra. C’erano accenni di sorriso su di lui mentre i Platters cantavano, invadendo il soggiorno. Sherlock aveva tante domande, troppe. Ma invece che replicare e allontanarlo, volle lasciarsi andare. Scelse di chiudere gli occhi e farsi condurre in una danza lenta e con Smoke Gets In Your Eyes a suonare fra loro. Scelse di fidarsi e basta. Fu bello, anzi meraviglioso. Molto simile al valzer che già avevano ballato a villa Stamford, eppure diverso in tutto. Più intimo. Dannatamente più intimo. Non era Sherlock a condurre, non era lui a dettare le regole come sempre faceva con chiunque. Al contrario aveva coscientemente deciso di farsi trasportare e poco importava quanto John fosse pessimo, quanto non avesse senso del ritmo e come non ricordasse che non doveva pestargli i piedi. Ma non importava. Quelle erano sciocchezze. Di certo contava di più il proprio esser arrossito sulle guance scavate, e quei ricci che gli ricadevano sulla fronte e che John si preoccupava di spostare con le punte delle dita. Probabilmente Sherlock avrebbe rimuginato per giorni sulla pressione che la mano di John faceva sul suo fianco, oltre che alla maniera in cui adesso lo guardava. Avrebbe pensato alle almeno tre sfumature diverse nel colore dei suoi occhi, che aveva notato. Alle cinque differenti maniere di toccarlo. Ai dieci sorrisi che elargiva, uno per stato d’animo o pensiero. Avrebbe pensato a lui e a quanto stupefacente fosse. La meraviglia di un uomo apparentemente banale. La persona teoricamente più noiosa che si fosse mai imbattuta sul suo cammino, ma che invece bruciava di quell’improbabile ma vera sorpresa. Non aveva reazioni scontate, non era prevedibile. Mai Sherlock sarebbe riuscito a dedurre quale effetto gli avrebbero fatto le sue parole. Di certo non si sarebbe aspettato di sentirlo parlare, non in quel momento.

«Come è andato il tuo appuntamento?» chiese, a un certo punto. Minuti più tardi. La canzone era finita e loro avevano smesso di muoversi insieme, non ballavano più e a stento si guardavano negli occhi. Pareva che tutta la vicinanza di poco prima fosse svanita in niente. Sembrava che tutto quello che avevano costruito fosse andato perduto.
«E il tuo?» ribatté Sherlock con stizza, era deciso a farsi valere e a non cedere un’altra volta a quel suo sguardo ammaliante. Voleva sapere se c’era una ragione. Se esisteva un motivo dietro allo strano comportamento di John.
«Io non ho avuto un appuntamento romantico.»
«Ma per favore…» sputò fuori, con quella che adesso era dell’evidente rabbia gelosa. «Quello che hai sopra la spalla è un lungo capello rossiccio, porti addosso un profumo femminile che prima non avevi e hai del rossetto ancora stampato sulla guancia. Quindi sì, sei uscito con una donna.»
«Sono uscito con Clara» annuì John e sì, c’era della confusione evidente nel tono della voce.
«Pensavo insegnassi biologia... Dovresti sapere che Clara è un nome da donna.»
«Clara» annuì, di nuovo «la moglie di Harriet. Mia sorella.» E sì, mentre lo ribadiva parlando in maniera assurdamente lenta, Sherlock iniziava davvero a capire cosa significasse essere un cretino. «Era qui con la scusa d’essere di passaggio per lavoro, ma la verità è che voleva convincermi ad andare a cena da loro per Natale. Vuole che io e Harry ci riconciliamo o altre sciocchezze del genere. Onestamente non ho deciso che farò e non voglio pensarci adesso. Ma una cosa è certa, avrei preferito restare a casa e cenare con te. Allora, Sherlock? È andata bene la tua cena? Non… non mi hai ancora detto chi è il fortunato (o la fortunata). Spero non sia andata male come credo, è andato via presto?»
John si era lasciato cadere sulla poltrona, lo aveva fatto con uno sbuffo stanco e poi aveva preso a massaggiarsi la radice del naso. Nel frattempo lo occhieggiava, pur senza darlo troppo a vedere. Dopo settimane di convivenza aveva compreso quali erano i gesti che era solito fare mentre era frustrato o nervoso per qualcosa. La ragione era Harriet Watson in questo caso, e una cena alla quale non sarebbe mai voluto andare, ma cui aveva partecipato per doveri familiari. Clara Watson, dunque. Avrebbe dovuto intuirlo da come aveva annodato la cravatta, in maniera frettolosa e poco precisa. Adesso che ci pensava per bene e con più lucidità, si rendeva conto del fatto che tanta eleganza era dovuta al voler dare di sé un’immagine da uomo rispettabile. Un qualcuno che stava bene e che si era ripreso dopo la guerra. Voleva far capire a Clara (e di conseguenza anche a Harriet) che viveva perfettamente anche da solo e senza stupidi legami familiari. Questo significava che la gelosia che aveva visto era reale e vera, che c’era. Esisteva così come in questo momento respiravano e vivevano uno accanto all’altro. Sherlock lo capì allora. Dopo essersi reso conto che la paura gli aveva fatto quasi perdere ciò che per lui era tanto importante. La vita era troppo breve per sprecarla a dar retta ai timori o, peggio, all’orgoglio. Lo decise in un attimo durante il quale azzerò la distanza che li divideva. Lo decise mentre si chinava ai suoi piedi, inginocchiandosi tra le sue gambe aperte. Lo decise mentre gli stringeva la mano con lo stupore vivo di John addosso e che trasudava dallo sguardo acceso. E quando poco dopo si decise anche a parlare, fu assolutamente certo del fatto che non aveva pensato a niente di tutto questo.
«La cena romantica era per te, una sorpresa per te» disse e mentre gli parlava lo vide aprir bocca, come per dire un qualcosa o ribattere. Salvo poi richiuderla subito. Lo vide arrossire. Di certo tremare appena, nell’attimo in cui le labbra di Sherlock furono sulle sue. Sì, aveva deciso e basta. Un respiro, un istante e si stavano baciando. Lentamente. Poi con sempre maggior voracità. Si baciavano e lo facevano davvero, scoprendosi istante dopo istante e con passione che cresceva. Si baciavano sorridendo e lasciandosi finalmente andare a quel sentimento trattenuto per troppo tempo. No, Sherlock Holmes non aveva mai baciato nessuno. Il suo primo bacio, la prima volta che era riuscito ad aprirsi tanto con qualcuno era accaduto lì nel soggiorno di casa. Con la musica dei The Platters come nel peggior film romantico. E fu meraviglioso.
 
 


Continua
   
 
 
*Omicidio in chiave minore è il titolo dell’episodio n.58 de “La signora in giallo”. In questa puntata Jessica racconta agli spettatori la trama del suo ultimo romanzo.
**Banbury è una cittadina dell’Oxfordshire, poco lontana da Oxford.

Note: The Platters, Smoke Gets In Your Eyes.
Grazie a tutti quelli che stanno seguendo la storia. Questi giorni sono un po’ complessi per me, per questo non sono pienamente soddisfatta del capitolo, ma non voglio farvi aspettare troppo tempo quindi ho voluto pubblicare lo stesso. Preannuncio comunque che non manca tanto alla fine, credo quattro o cinque capitoli al massimo. Grazie per le recensioni.
Koa
   
 
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