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Autore: Il_Signore_Oscuro    22/03/2018    0 recensioni
Un piccolo esperimento: un racconto di cui io non vi do che lo scheletro, il resto del corpo starà a voi immaginarlo.
15/03/2018: A Carciavia, piccolo comune pugliese, l'archeologo Mario Salieri sfoga nel suo diario le paure e le inquietudini che da qualche tempo a questa parte non lo lasciano dormire. Incubi e sogni confusi che hanno iniziato a perseguitarlo dal momento in cui ha rinvenuto un curioso manufatto, durante gli scavi da lui sovrintesi nel Palazzo Managramo.
18/03/2018: Tre guardie giurate vengono assunte dal Museo Clio per sorvegliare il posto
21/03/2018: Una giovane medico legale scrive un post su un forum dedicato ad appassionati dei creepy pasta e del macabro
Genere: Horror, Sovrannaturale, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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15 marzo 2018 – Diario di Mario Salieri
Archeologo per conto del Clio - Museo di Storia di Carciavia


Mi sono svegliato nel cuore della notte, strappato ai miei incubi confusi e al sonno leggero da quest’inquietudine che mi porto addosso da tre giorni a questa parte. Dacché sono bambino ho sempre avuto l’abitudine di riportare i miei pensieri, le mie ansie, le mie paure sulla carta. Trovo sia l’unico metodo efficace per esorcizzarle e avere finalmente requie dalla loro morsa.
Non so perché abbia aspettato tanto, non so perché ho affrontato le mie inquietudini notturne nel mio letto, sforzandomi di dormire. Non so perché ho lasciato che mi rigirassero con un dito, invece di mettere fin da subito mano alla penna. Ma infine ho ceduto, eccomi qui.
Elisa è di là che dorme un sonno profondo e tranquillo, beata lei. Ho rimboccato le coperte alle bambine, prima di scivolare nel mio studio, e accendere la lampada che osserva ricurva il piano della scrivania.
Sono pronto, eccomi qui, cara mia inquietudine…

“Horror Vacui”

Questo il nome del tomo rinvenuto in uno scantinato nascosto, dietro a una botola nella sala da pranzo del Palazzo Managramo, alla periferia di Carciavia. Il libro era contenuto in una cassa di quercia scura, sprovvista dei consueti rinforzi in metallo e con il lucchetto ridotto ormai a una poltiglia rugginosa.
Anche il legno della cassa non era in condizioni migliori, consumato e sfibrato com’era dalla muffa e dai vermi che sgusciavano bianchicci da ogni asse. Del guardiano di quel forziere, o meglio, dell’uomo che un tempo era stato, adesso non restavano che le orbite vuote di un teschio e le dita scheletriche senza più un filo di carne addosso.
Ammetto di essere rimasto a un tempo affascinato e turbato da quella visione, offerta nella più totale oscurità dal fascio di luce della torcia al propano. Cavolo, mi sentivo come Indiana Jones in uno dei suoi film! Il sogno di ogni archeologo… della mia età, perlomeno.
Come è immaginabile non ho avuto alcuna esitazione nell’aprire la cassa, impaziente com’ero di scoprire cosa fosse celato al suo interno, e quando l’ho fatto, beh, ciò che mi è saltato all’occhio sono stati i riflessi di luce argentina, rifratti sulle squame nero pece del tomo.
La cosa mi ha destato confusione, in un primo momento: non mi era mai capitato, nella mia pur lunga carriera, di trovarmi di fronte a un libro rilegato in pelle di rettile. Ma le stranezze, mio caro diario, erano soltanto all’inizio.
Dando una rapida occhiata, ho notato sin da subito l’ottimo stato di conservazione della rilegatura e delle pagine, persino l’inchiostro, che tende normalmente a scolorirsi con il passare degli anni, era invece di un nero vivido e lucido. Quasi fosse stato appena vergato.
Aprendo la prima pagina ho avuto modo di leggere il titolo del tomo “Horror Vacui” e la frase che subito sotto lo accompagnava

“Perché nella filigrana di cui è intessuto il mondo, alcuni anfratti sono rimasti vuoti e inesplorati. Questa è la chiave per dischiuderne i molteplici sensi e discoprire fino all’ultimo dei cangianti colori dell’ignoto”

Una frase che mi ha catturato e che mi ha creato una grande aspettativa, invogliandomi a proseguire nella lettura di quel tomo, resistendo agli strani segnali che il mio corpo andava lanciando e di cui parlerò più in là. Con mia somma delusione gli unici elementi scritti in una lingua a me comprensibile erano il titolo e il sottotitolo. Il resto del tomo era, ahimè, vergato con caratteri assimilabili a delle rune…
Adesso, immaginando di star rivolgendomi a un qualche ipotetico interlocutore, costui potrebbe facilmente obbiettare che data la fama del Conte Managramo, signore del palazzo Managramo e noto per essersi millantato potente stregone e sapiente di antichi misteri, non dovrebbe sorprendermi la presenza di un trattato di magia all’interno della sua abitazione. Un trattato magari stilato in un codice criptato, affinché solo pochi eletti potessero comprenderne il contenuto. Tale interlocutore reputerebbe dunque sciocca e insensata la mia paura… ma tralasciando l’inspiegabile stato di conservazione del manufatto (mentre ogni cosa intorno ad esso marciva e andava in pezzi) e chiarendo che non sono mai stato persona facilmente impressionabile. Posso dire che con tutta sicurezza che la mia paura, la mia inquietudine, s’è destata nel momento stesso in cui ho preso quel libro fra le mani. Non è facile spiegare con precisione ciò che ho provato, quali demoni mi si siano arrampicati dentro: per i primi istanti credo di aver provato un brivido di freddo, sì, un brivido che mi si arrampicava lungo la spina dorsale sino a pizzicare la noce del collo; passato qualche secondo potevo avvertire ogni singolo pelo sulla mia pelle irrigidirsi, mentre la sensazione di essere osservato da cento e più occhi, in quella fonda oscurità, prendeva lentamente piede. Mi sono messo sull’attenti, voltandomi a destra e a manca per verificare se il tutto fosse frutto di una mia suggestione, o se qualcuno mi avesse davvero seguito in quello scantinato.
Ma tutto ciò che il fascio di luce della torcia è stato in grado di rivelarmi, erano le silenti pareti di roccia nuda e le orbite vuote del teschio, rotolato più in là dopo che avevo scoperchiato la cassa su cui vegliava.

Era passato qualche minuto, ed io, forse provato dai brividi e dallo sgradevole sentore d’essere osservato, ho cominciato a sentire vertigini: prima uno sbandamento, crescente in una straordinaria difficoltà nel muovere un passo dinanzi l’altro, e la paura irrazionale che il pavimento sotto i miei piedi potesse cedere da un momento all’altro lasciandomi cadere in un vuoto senza fondo. Il respiro aveva preso ad affannarsi. L’aria, normalmente inconsistente e leggera com’è nella sua natura, aveva assunto la densità dell’acqua e i suoi artigli, gelidi come ghiaccio, mi graffiavano le narici e la gola, ogni qual volta ispiravo o espiravo.
E infine qualcosa nel mio profondo cominciò a cadere, scivolando debolmente attraverso una perenne discesa, diretta in un precipizio che si esauriva nel nulla: un nulla affamato, crudele e terribile.
Solo in quel momento mi sono finalmente deciso a richiudere il libro e riporlo nella sacca.
Affinché i malesseri che avevano stretto la loro morsa attorno al mio corpo si quietassero, ho dovuto attendere cinque minuti buoni. Cinque minuti che invero trascorrevano lenti e pesanti, come se ogni secondo recasse sulla schiena un macigno che ne accorciava il passo.
È da allora che non ho più voluto sfiorare con un dito quel maledetto tomo, e ho altresì vietato ad ogni singolo membro della mia equipe di maneggiarlo, fosse anche solo per studiarlo. Quanto prima ho provveduto a stilare le specifiche del manufatto nel mio rapporto al Clio, dopodiché l’ho consegnato nelle mani del direttore Monsone, perché si occupasse della sua esposizione al pubblico.

Gli effetti del tomo sul mio corpo sono svaniti quasi immediatamente, come già scritto, ma esso ha lasciato tracce nella mia psiche, più restie ad abbandonarmi. Solo questa confessione, fatta a un foglio di carta, è riuscita a mitigare un poco quell’inquietudine e ora le palpebre mi pesano sugli occhi, insperatamente grevi.
Almeno per questa notte credo che dormirò…
forse fra qualche tempo darò un’altra occhiata all’Horror Vacui, durante una delle nostre gite mensili al museo, con Elisa e le bambine. Sì, lo guarderò, a debita distanza e con una teca di vetro a frapporsi tra noi.
   
 
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