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Autore: Cathy Earnshaw    23/03/2018    1 recensioni
Non so come quella consapevolezza si fosse fatta strada in me, né quando. So solo che sapevo. La nostra società, il nostro mondo, tutta una farsa, una ignobile menzogna alla quale tutti eravamo soggiogati. Ma possibile che io fossi l’unica a sapere? Quanti altri, come me, si fingevano ignari per paura di essere messi a tacere? Poteva esistere un modo di cambiare il corso della nostra storia?
Genere: Azione, Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non so come quella consapevolezza si fosse fatta strada in me, né quando. So solo che sapevo. La nostra società, il nostro mondo, tutta una farsa, una ignobile menzogna alla quale tutti eravamo soggiogati. Ma possibile che io fossi l’unica a sapere? Quanti altri, come me, si fingevano ignari per paura di essere messi a tacere? Poteva esistere un modo di cambiare il corso della nostra storia? 





M.J. - Sed.1 - CONSAPEVOLEZZA



Immoto e immutabile, il copione della nostra pacifica vita si stendeva davanti ai miei occhi, come il vago ricordo di un sogno lontano. Un sogno in cui mi sentivo felice e appagata. Il Regime non era oppressivo, anzi, mi aveva aiutata giorno dopo giorno ad individuare le mie attitudini e i miei punti di forza, perché potessero essere messi al servizio di Città Stato. Mi era stato permesso di studiare, di scegliere un’area di specializzazione, e l’unica cosa che mi veniva chiesta in cambio era la lealtà, il rispetto del Garante e delle leggi che questi promulgava. Tutto sommato non era un prezzo alto. 
Nel pieno rispetto della normativa vigente, anch’io avevo condotto i miei studi presso Vera Conoscenza, il polo scolastico principale del pianeta Dea. Là avevo studiato, scoperto, imparato. La città di Capitale era splendida ai miei occhi, un tripudio di elegante marmo bianco a incorniciare i palazzi del governo di Città Stato, il vertice di un impero che si estendeva fino a coprire Dea nella sua interezza, e che il Garante aveva l’onore e l’onere di proteggere. A contrastare meravigliosamente con la pietra stavano le immense chiome degli alberi che ci sovrastavano, oscurando quasi completamente la vista del cielo al di sopra. 
La mia famiglia aveva sempre vissuto a Capitale, e non avevo la minima idea di cosa ci fosse veramente fuori. Le mie fantasiose conoscenze si basavano sulle informazioni e sulle immagini che i documenti raccolti a Vera Conoscenza veicolavano. In realtà non provavo il desiderio di viaggiare, cosa che comunque non sarebbe stata così semplice: per spostarsi da una città all’altra era necessaria una particolare autorizzazione del Garante, e bisognava seguire le rotte prestabilite. Non c’era da scherzare, era una questione di sicurezza. Il mondo al di fuori delle città era pericoloso, popolato da creature ingovernabili. Si tramandava più di qualche storia su quei mostri pallidi e longilinei capaci di sottomettere la volontà delle loro vittime abbastanza a lungo da gustarsi i loro cervelli con tutta calma. Vivevano nutrendosi di pensiero cosciente, e ciò che restava di chi aveva la disgrazia di incrociare il loro cammino non era altro che un guscio vuoto da riempire di nuovo da capo. Ma c’erano anche persone che avevano più coraggio e incoscienza della media e che, facendo del viaggio una ragione di vita, si appiccicavano l’apposita targa sul petto e partivano. 
A proposito di targhe, il sistema identificativo era molto rigido, perché i Tutori, ovvero quelle persone che su mandato del Garante si preoccupavano di mantenere l’ordine di Città Stato, avevano bisogno di capire al primo colpo d’occhio – e di scanner – se si trovassero di fronte ad una persona a posto oppure no. Per questo era necessario segnalare che tipo di affari si conducevano, applicando la giusta targa sul petto: si poteva essere cittadini, turisti, viandanti, ospiti… un elenco standard di giustificazioni alla propria presenza in un certo luogo.
Tutto logico, regolare, consequenziale. Il trionfo del nesso causa-effetto. Una vita semplice e appagante. O almeno era quello che pensavo quando ancora vivevo appieno l’illusione. Che cosa c’era di diverso dagli altri, in me? Tutto iniziò con quel sogno, che non era un sogno come tanti, e al mio risveglio mi aveva lasciato addosso la sensazione di aver vissuto qualcosa di reale. O che per lo meno era stato tale. Da quel momento in poi non mi era stato più possibile liberarmi di quella sensazione di disagio, una consapevolezza che non potevo sopire, o più semplicemente ignorare. Qualunque cosa facessi, qualunque persona frequentassi, in qualunque posto mi trovassi, percepivo la menzogna. E anche se razionalmente sapevo che non avrei dovuto prestare fede a qualcosa visto in sogno, la mia essenza più profonda aveva preso quel qualcosa e l’aveva immediatamente accettato e metabolizzato, come se si fosse trattato non già di un sogno, ma di una promanazione dello stesso Dea, o della condensazione di un ricordo collettivo troppo a lungo rimosso. O imbrigliato.

Camminavo in una città che non era Capitale, che non era nemmeno uno dei centri di Città Stato, ma che sentivo di conoscere bene. Ero su Dea, di questo ero certa. Tutto era diverso da ciò a cui ero abituata, ma non per questo me ne sentivo spaventata o intimorita. Anzi, mi sentivo libera come non lo ero mai stata. Eppure non avevo mai avvertito senso di oppressione nella mia realtà. Ci avevo messo un po’ prima di capire quale fosse il punto: gli alberi. Le loro chiome non racchiudevano la città come uno scrigno, ma sopra di me si apriva un cielo azzurro e limpido, a perdita d’occhio. Mi sentii espandere i polmoni come se avessi ricominciato a respirare dopo tanto tempo. La luce calda mi colpiva il viso e mi faceva bruciare gli occhi, ma tutto era gioia. Un improvviso risveglio. Le case e i palazzi non erano per niente di marmo, ma di mattoni e cemento intonacati di bianco e dipinti di giallo, o di rosa, un’esplosione di colore. Incrociavo, su quelle strade ricoperte di uno spesso strato di catrame e attraversate da rumorosi veicoli a quattro ruote, persone vestite di capi dall’aspetto scomodo, pieni di cerniere e bottoni. Nessuno mi notava, come fossi stata più inconsistente di un fantasma. E, cosa ancora più incredibile, c’erano fontane! Fontane da cui l’acqua zampillava allegra. Non avevo mai visto nulla di simile, eppure era lì, ben oltre le mie capacità di immaginazione, chiaro e reale tra le mie mani. Avevo vagato un po’ per quel mondo stupefacente, scoprendo, appena oltre la periferia della città, fiumi e campi coltivati, l’orizzonte profilato di montagne. Con il cuore colmo di infantile felicità, avevo camminato senza meta, incapace di trattenere la meraviglia, e desiderando di non abbandonare mai quel folle senso di libertà, di autodeterminazione. Ma, così come all’improvviso era cominciato, all’improvviso era tutto finito.

Al mio risveglio gli occhi  si erano inevitabilmente sbarrati sul soffitto bianco della stanza che condividevo con mio fratello. Era stato un sogno, nulla di più. Ma quel senso di nostalgia che cos’era? Dentro di me era nato il seme di una consapevolezza che ero certa non mi avrebbe più abbandonata. 

   
 
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