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Autore: alessandroago_94    26/03/2018    27 recensioni
Isabella è una ragazza come tante altre, senza alcuna pretesa di troppo dalla vita.
Tuttavia, da quando la relazione con il suo ragazzo è entrata in crisi, la felicità ha lasciato spazio alla più profonda tristezza.
Quello che non sa è che, a volte, la vita sa donarci piacevoli sorprese. E l’amore può annidarsi dove neppure lei avrebbe mai creduto di poterlo trovare.
Genere: Fluff, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Contesto generale/vago
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Capitolo uno

CAPITOLO UNO

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Serata di mezza estate.

Il caldo asfissiante stava facendo uscire dal mio corpo tutta quella poca acqua che ero riuscita a bere durante quell’ennesima giornata di frettoloso lavoro. Era un calvario.

Ricordo che ho sempre odiato l’estate; la stagione in cui ci si veste poco, e le strade si fanno infuocate, così come l’aria rovente trasportata dalle alte pressioni africane.

Ma l’estate, purtroppo, era anche la stagione in cui litigavo di più con il mio ragazzo.

Rientrai a casa come ogni sera alle ventuno, stanca morta, e, nonostante l’utilizzo abbondante di deodoranti e profumi vari, anche sudicia e bisognosa di una doccia.

Non appena varcai la soglia dell’appartamento che condividevo con il mio fidanzato, con il quale ormai convivevo da due anni abbondanti, mi affrettai a richiudere a chiave la porta d’ingresso e ad abbandonare la mia borsa su una delle sedie che parevano accogliermi ogni volta che varcavo la spoglia soglia.

Il nostro era un appartamentino in zona periferica dotato di tre stanze, pure piccole. Solo l’essenziale, per noi; quello che ci potevamo permettere in modo indipendente.

Mi diressi prontamente verso il piccolo bagno, sospirando e credendo di essere sola.

Eppure, mentre mi accingevo a svestirmi in un attimo, la sua sagoma, distesa comodamente sul nostro letto, attirò con prontezza la mia attenzione, e mi fece sussultare.

“Marco!”, mi venne spontaneo chiamarlo, quasi sbottando il suo nome. Il corpo sdraiato ebbe una reazione istantanea e si alzò a sedere sul letto.

Il mio moroso si stava riprendendo solo in quel momento da quello che probabilmente era stato un lungo pomeriggio come tantissimi altri, fatto di ozio e di noia, mentre le sue candide mani accorrevano a stropicciarsi gli occhi, con scarsa flemma.

“Amore! Sei già tornata a casa?”, mi chiese infatti, dopo un istante di silenzio, compensato solo dai suoi movimenti.

Sospirai di nuovo ed abbandonai la mia prima intenzione, ovvero quella di fare una doccia il prima possibile, per affacciarmi dovutamente sulla porta della camera da letto.

“Potrei fare la stessa domanda a te”, gli feci notare, senza troppi tentennamenti.

Marco, ultimamente, si stava concedendo troppo a un peccato che, per noi due e la nostra vita di coppia, poteva essere considerato capitale. La pigrizia.

Da quando avevamo cominciato a convivere, aveva promesso di far di tutto pur di rimboccarsi le maniche e darsi da fare per donare un futuro migliore al nostro amore fresco e appena sbocciato, eppure si era rivelato sempre piuttosto fallimentare, sotto questo punto di vista.

Era infatti riuscito a trovare solo impieghi part-time che aveva ricoperto per qualche breve periodo, per essere poi prontamente licenziato senza pietà. Per questo doveva essere quotidianamente in prima linea nella ricerca disperata di un lavoro, siccome non importava tanto quale esso fosse, ma solo la retribuzione. Per pagare l’affitto, per mangiare… e l’ultimo posto di lavoro, come magazziniere, l’aveva perso due mesi prima. Troppi, per una giovane coppia con problemi economici come lo eravamo noi.

In effetti, non appena la mia affermazione giunse a segno, il mio ragazzo si impresse sul volto un’aria sdegnata e tornò a sdraiarsi sul nostro letto a due piazze, rigorosamente sfatto dopo una giornata che, probabilmente, era stata d’ozio.

“Sai che a me non va bene nulla, ultimamente”, si limitò a dirmi, con scioltezza e semplicità, richiudendosi a riccio come faceva ogni volta che gli era illustrato il nostro problema più opprimente, e cioè il bisogno di lavoro e di denaro, per favorire una nostra sopravvivenza dignitosa.

“Non lamentarti come al solito della sfortuna, e datti da fare. Com’è andata oggi, con i curriculum? Qualcuno si è dimostrato interessato?”, gli chiesi, conoscendo già in cuor mio la rispettiva risposta, purtroppo. Fremevo, avevo paura di udire quello che mi avrebbe risposto, poiché ero certa che avrebbe potuto ferirmi per l’ennesima volta.

Marco, infatti, sul letto si strinse nelle spalle come meglio poteva, dalla sua posizione supina, e senza rivolgermi uno sguardo e dedicando i suoi bellissimi occhi celesti al soffitto, increspò le labbra con stizza ed irritazione soppressa.

“Mi è stato solo detto che non ho alcun requisito appropriato. Chiedono esperienze precedenti, capacità che io non ho… i datori di lavoro sono esigenti, Isa. Lo sai. Spero che domani vada meglio”, mi rispose, assonnato.

No, per me era decisamente troppo. Non credevo che si fosse realmente dato così tanto da fare, anche perché se così fosse stato, non lo avrei ritrovato in casa vestito in quel modo. Poiché solo in quel momento stavo prestando attenzione al fatto che il mio ragazzo indossava un pigiama, e dietro al letto le sue comode babbucce sembravano fresche come petali di rosa.

Gli altri suoi abiti erano ancora sistemati negli appositi attaccapanni a fianco della porta, intatti e perfettamente stirati, così come glieli avevo sistemati io il giorno prima.

Mi inferocii in un istante, fu più forte di me. Per quello mi sforzai di respirare piano, e cercai di mantenere ancora per qualche secondo la calma, prima di essere avventata.

“Se va come è andata oggi, dubito che domani andrà meglio”, provai ad intervenire con finta calma, cercando di mimetizzare il mio nervosismo per quello che avevo notato, centrando però il segno, seppur indirettamente.

Infatti, mentre mi levavo di dosso la maglietta sudaticcia che avevo indossato fin dalle nove di mattina, Marco balzò su dal letto e mi rivolse un’occhiataccia di rimprovero che mi fece raggelare, nonostante non stessi né cercando e neppure sostenendo il suo sguardo.

“Con questo cosa credi di dirmi?”, mi rimbottò, e non senza un pizzico di malizia e di cattiveria.

Ciò mi fece ancora un po’ uscire dai gangheri; purtroppo, i motivi di forte tensione tra me e il mio ragazzo fino a quel momento erano stati tutti quanti riservati al lavoro e al nostro bisogno più materiale di denaro per tirare avanti.

Marco si era sempre rivelato molto indolente, anzi, decisamente troppo pigro a riguardo. Il mio stipendio non ci bastava per arrivare a fine mese ed eravamo già da tempo indietro con tutti i vari pagamenti, e dovevo solo ringraziare la bontà del proprietario dell’appartamento, un vecchio conoscente di mia madre, che non ci faceva troppe pressioni a riguardo, conoscendo la delicata situazione. Ma non potevo sostenere oltre il fatto che il mio fidanzato bighellonasse in quel modo.

La mia era una questione di principio, siccome non volevo restare in bolletta per tutta la vita, e la sua inerzia e la sua poca voglia di darsi da fare mi stavano ferendo sempre più.

“Caro mio”, gli dissi, cercando di mascherare per l’ennesima volta il tumulto che avevo dentro di me, ma riservandogli uno sguardo con gli occhi leggermente sgranati dal disappunto, “non mi devi mentire per forza. Sai che apprezzo la sincerità. Dimmi pure che non sei andato da nessuna parte oggi, e che hai solo riposato…”.

“Come ti permetti?”, m’interruppe, alzando un po’ la voce. Avevo proprio fatto centro.

“Ma come ti permetti tu! Mi credi cretina? Guarda! Ieri mattina, prima di andare al lavoro, ti ho stirato tutti i vestiti, dal primo all’ultimo paio di pantaloni e di magliette. E sono ancora intatte e sei ancora in pigiama. Dammi una spiegazione logica a tutto questo, allora, dato che insisti a voler mostrare la tua buona fede innocente”, dissi alzando lievemente la voce, facendogli notare i particolari più evidenti a cui forse non aveva pensato, siccome i suoi occhi si illuminarono man mano che seguivano materialmente l’ordine di particolari che gli avevo sottolineato.

“Li ho risistemati io…”, tentò una blanda difesa, a quel punto, con la voce ridotta a un sussurro e con l’ultima menzogna che gli moriva in gola. Marco non è mai stato troppo bravo a mentire, seppure ci provasse spesso e volentieri a farlo.

“Non sei capace di stirare e di tenere in ordine i tuoi vestiti”, conclusi, sempre con nervosismo, mentre mi decidevo a lasciar perdere. Avevo lavorato tutta la giornata ed avevo la schiena in fiamme, al diavolo quindi quella discussione che rischiava solo di peggiorare la situazione.

Volevo solo lavarmi e andare a dormire; punto.

“E va bene. Questa mattina mi sono svegliato con un forte mal di testa. Contenta? Non sono riuscito ad uscire di casa per tutta la giornata, e l’emicrania si sta dileguando solo ora. Domattina uscirò e vedrai che andrà meglio”, ribatté, a quel punto ormai totalmente indifeso e senza più menzogne a difenderlo dalla verità dei fatti, che era venuta a galla nonostante il suo blando tentativo d’insabbiamento.

Mi tolsi la maglietta sudata e rimasi in reggiseno.

“Certo. Ne sono sicura”, mi limitai a dirgli, in un sussurro che sapeva di rinuncia e rassegnazione. Era da più di una settimana che il mio ragazzo utilizzava più o meno la medesima scusa, pur di fare il pantofolaio per tutta quanta la giornata.

“Ma perché fai così? Non ti fidi di me? Ti giuro…”.

Lo bloccai prima che potesse dire altro. Sapevo che Marco, dentro di sé, soffriva per la sua inerzia. E quel suo scatto repentino, che l’aveva portato anche ad alzarsi dal letto, era un altro sinonimo del fatto che avevo centrato di nuovo il suo punto debole, ma ero ben lungi dal voler infierire.

Quello era il tasto dolente della nostra relazione, e sapevo perfettamente che, facendo leva su di esso, poi si sarebbe aperto un altro periodo di crisi tra di noi, e quella era l’ultima cosa che volevo.

Le prime erano, per l’appunto, farmi in fretta una doccia e filare a nanna, dopo aver letto qualche pagina di uno dei tanti libri fantasy che infestavano il piccolo comodino dal mio lato del giaciglio condiviso, giusto per rilassarmi un po’ ed addentrami serenamente nel giusto riposo. Mi stavo imponendo che litigare era vietato, in quel momento.

“Non devi giurarmi nulla, quello che vuoi fare lo devi solo dimostrare a te stesso, prima che a tutti gli altri. Ora vado a fare una doccia”, lo liquidai, infatti.

Mi slacciai i tanto odiati jeans a gamba lunga che mi facevano morire in quei giorni così caldi, ma che alla mia datrice di lavoro piacevano tanto, siccome la sobrietà femminile estrema era un requisito basilare all’interno della sua attività.

“Perché per te è così importante questo lavoro? Insomma, ogni sera torni a casa inacidita e te la prendi con me. Io ce la sto mettendo tutta!”, continuò imperterrito il mio fidanzato e convivente.

Certo, dopo aver affondato il coltello nella piaga, seppur delicatamente, le ripercussioni venivano a galla e perduravano per un po’, ed era come se lui dovesse davvero scusarsi di qualcosa.

Io non le volevo le sue scuse; come gli avevo detto poc’anzi, se voleva dimostrare qualcosa, doveva almeno provarci. Doveva farlo per lui e per noi, e per la nostra vita di coppia, che poteva solo migliorare.

“Lo sai anche tu, tesoro. In questo mondo non si vive d’aria; quindi, o ti dai da fare, o non mangi. Funziona così, al di fuori delle favole”, gli dissi, continuando a svestirmi lentamente.

Il mio corpo sudato e stanco m’imprimeva un ritmo flebile, continuamente interrotto dal bisogno di Marco di sfogarsi. Stare tutto il giorno da solo, su un letto sfatto e in pigiama, non lo aiutava di certo. Era come se avesse un problema, qualcosa che lo logorava da dentro, e che io non riuscivo a cogliere; ma quando questo pensiero sfiorava la mia mente, cercavo di evitarlo, pur di non rifletterci sopra o di approfondirlo.

“Tu pensi troppo ai soldi. Non si può andare avanti in questo modo… se oggi non ho un lavoro, lo troverò domani! E se domani non lo trovo, lo troverò dopodomani. E se…”.

“E se fra tre o quattro settimane non l’hai trovato, che fai? Smettila di fare lo sciocco, dai. Vado a farmi una doccia”, tornai a liquidarlo, ormai del tutto svestita e pronta per lavarmi. Marco, la sua infantilità e la sua pigrizia potevano aspettare.

 

Ben presto, a consolarmi dalla superficialità del mio ragazzo, ci fu solo lo scroscio d’acqua che mi lasciai scivolare sul corpo nudo e tonico. Lasciai che essa massaggiasse il mio corpo stanco, nella sua naturale caduta, senza fare altro.

M’insaponai e poi lasciai di nuovo all’acqua il compito di risciacquarmi e di concludere l’opera.

Quando uscii dall’antiquato box doccia del nostro angusto bagno, asciugai il mio corpo e, puntualmente, in un modo che sembrava casuale ma che si verificava ogni sera, incontrai il mio riflesso sullo specchio. I miei occhi incrociarono la loro stessa immagine riflessa, con quelle iridi così chiare che sapevano incutere anche timore, quando mi arrabbiavo.

Guardavo il mio sguardo di ghiaccio riflesso nello specchio, con quei capelli castani a caschetto che, fradici, si appiccicavano prontamente alla fronte e avevano perso la loro voluttuosità.

In un attimo, come ogni sera, mi chiedevo se era quello che volevo realmente dalla vita; sgobbare come una matta tutto il giorno, per cercare di tirare avanti con un ragazzo svogliato sulle spalle. Non dovevo però fraintendermi, poiché in fondo io amavo Marco.

Amavo la sua delicatezza a letto, le sue parole di comprensione che ogni tanto mi rivolgeva, i suoi candidi baci sulle labbra che mi avevano fatto perdere la testa per lui. Amavo i suoi capelli neri e ribelli, il suo corpo palestrato, la sua altezza, la sua prestanza maschile. Amavo parlare con lui di cose futili o di libri, magari anche confessarmi, qualche volta, aprendogli una finestra sulle mie più ancestrali paure.

Ma quello che non volevo ammettere neppure a me stessa era che lui era una mia reale paura. La più vera, la più radicata di tutte, in quel periodo.

Mi spaventava quel suo aspetto più inerte che mostrava ogni tanto, e sempre con maggiore frequenza. Mi atterriva quel suo lato che sembrava volersi radicare ancor di più, con quel suo retrogusto d’infantilità che non faceva bene né a lui, né ad entrambi.

Era come se Marco fosse un uomo maturo, e lo era fisicamente, con i suoi trentadue anni compiuti di recente, ma avesse ancora qualche aspetto infantile che lo paralizzava e gli impediva, magari, di essere sé stesso. Perché sapevo che il mio amato, in fondo, voleva davvero impegnarsi per trovare un lavoro, e desiderava lottare per la nostra indipendenza effettiva e per i nostri sogni, che includevano, in un futuro a breve termine, anche un concetto di famiglia unita da un sacro vincolo.

Io di anni ne avevo ventisei, eppure già riuscivo, impegnandomi a dovere, a gestire molti aspetti della mia vita, ma lui ancora no.

Non volli continuare a pensare a quei particolari che mi donavano solo turbamento gratuito, e mi affrettai ad asciugarmi, avvolgendo poi la mia grande tovaglia attorno al busto, a coprire le mie intimità, e assicurandomi una tovaglietta sui capelli, dopo averli raccolti e asciugati un pochino.

Uscii dal bagno con un piglio per nulla aggressivo, anzi, molto rassegnato, per non provocare una nuova discussione, cosa che più avrei odiato.

Eppure, Marco mi aspettava proprio di fronte alla porta, le braccia incrociate e la schiena appoggiata contro il muro, con ancora addosso quel suo sottilissimo pigiama estivo che lasciava in mostra le sue forme maschili molto prestanti ed accentuate, con quella muscolatura così levigata, dovuta ad ore ed ore di palestra. Quello era uno dei suoi pochi appuntamenti fissi fuori casa, tre volte a settimana.

Lo guardai in modo strano, come per dirgli pietà; d’altronde, immaginavo che avesse da dirmi qualcosa d’importante, visto il suo comportamento, e sapevo che riguardava ancora il discorso di poco prima, lasciato quasi in sospeso dalla mia arrendevolezza e dal mio bisogno di tranquillità.

Marco aveva avuto tutta la giornata per starsene in panciolle, e forse il mio bisogno primario di quegli istanti probabilmente non lo capiva proprio. Avevo toccato di nuovo il suo tasto dolente, e per questo aveva utilizzato tutte le sue rotelline per uscirne fuori, seppur in un modo non propriamente decente.

“Domani mattina vado da mio padre. Lui mi aiuterà”, mi dichiarò, infatti.

Ebbi un tuffo al cuore, e per un attimo restai impietrita sulla porta del bagno, senza varcarne la soglia, fissandolo in un modo che non lasciava dubbi. Aveva appena detto l’ultima cosa che avrei mai voluto udire dalle sue labbra.

Il padre di Marco era un ricco industriale della zona, e di lavoro e di denaro ne aveva a bizzeffe, nonostante la crisi. E poi, per suo figlio Marco, il ragazzo che aveva cresciuto viziatissimo e per il quale stravedeva, assieme alla moglie, avrebbe fatto di tutto.

Sapevo che il mio convivente sperava solo nello spillare soldi al genitore, e questo signore in questione glieli avrebbe senz’altro dati, anche in cospicua cifra, ma quello non era il mio concetto di famiglia e di unità di coppia.

Il signor Benedetti era gentile, certo, ma non mi sopportava più di tanto, siccome aveva sempre pensato che il suo figliolo avrebbe potuto meritare molto di meglio di me. Per lui, restavo lo svago del giovane, e non pensava che noi due avremmo tanto desiderato di sposarci, ma date le circostanze, non potevamo.

“Non è una buona idea”, sancii, infine, lasciandomi sfuggire una di quelle mie solite occhiatacce di ghiaccio in grado di sciogliere chiunque.

“Senti, io non ce la faccio da solo a trovare un lavoro e a guadagnare qualche soldo. Devo per forza rivolgermi a mio padre…”.

“Allora tanto vale che ci prendiamo una pausa di riflessione. Sai che quando abbiamo deciso di convivere, il punto più importante per la sopravvivenza della nostra relazione era proprio il fatto di essere totalmente autonomi, e non dipendenti dai nostri genitori? Questo per me è tutto”, gli dissi, e premetti le mani contro le sue spalle, per invitarlo a lasciarmi passare.

Ero ancor più mortificata dalla soluzione che era riuscito ad escogitare; la più semplice, per l’ennesima volta, e quella che non gli imponeva di fare qualcosa per migliorare la nostra situazione, rimboccandosi le maniche e mostrando impegno per entrambi.

Non potevo sopportare tutto ciò, siccome mi confermava che, forse, il mio Marco non era ancora pronto per diventare un uomo indipendente, un uomo adulto, e questo pensiero mi feriva a morte e dilaniava la mia mente stanca.

“Ma tu sei proprio fissata!”.

Ecco, l’esplosione di Marco.

Forse avevo esagerato, oppure no e mi ero comportata in modo giusto, non saprei valutarmi da sola, eppure ciò che volevo evitare stava accadendo.

Il mio ragazzo aveva spalancato le braccia e aperto gli occhi in quel modo che non sopportavo, poiché era l’unica sua espressione facciale che, quando compariva sul suo volto, mi faceva ricordare che era un uomo volubile, e anche capace di litigare e di arrabbiarsi fino all’eccesso, fino all’odio per il suo interlocutore.

“Con questo lavoro… devi smetterla di farmi pressione! Io capisco che tu sei una ragazza più giovane di me di qualche anno eppure già totalmente indipendente, e in grado di tirare avanti da sola. Io ancora non ci riesco. Non sopporto che vuoi sempre rinfacciarmi quanto ti rimbocchi le maniche e io no. Sai che ti amo, questo non basta? E chi se ne frega, dai, degli affitti! Il proprietario di casa lo conosci, sai che se glielo chiedi con gentilezza può aspettare ancora un po’ a riscuotere l’affitto. E poi, non ti pare generosa la mia scelta, andando a chiedere denaro ai miei? Spartirei con te ciò che è già mio”.

Marco si arrampicava sugli specchi, come sempre durante le nostre discussioni. Era evidentemente disperato, lo vedevo chiaramente che gli dispiaceva, eppure era come se volesse cercare di sfogare la sua inettitudine prendendosela con me, solo per il fatto che gliela avevo fatta notare di nuovo.

“Ma non senti quello che stai dicendo?! Io non la voglio la carità di tuo padre. Io voglio vivere la mia vita, e la nostra di coppia, senza avere debiti con nessuno. Conosco i tuoi, so che mi rinfacceranno tutto quello che condividerai con me. E non posso giocare ancora con la bontà altrui, poiché è vero che il proprietario di casa non si farà problemi ad attendere ancora, ma sono già due mesi che non paghiamo l’affitto! Ti chiedo scusa, amore, ma io un po’ mi sono stancata di questa situazione d’emergenza. Se arrabattare di qua e di là, lasciare debiti in giro e vivere la giornata tra la noia e la rabbia per te è un rimedio ai nostri problemi, beh, per me è il contrario!”, quasi gli urlai in faccia, liberandomi del peso che avevo dentro.

Non gli avevo lasciato neppure un attimo per parlare e dire la sua; mi ero innervosita ed inalberata.

Ero una persona chiara, e ci tenevo alla limpidezza, in ogni ambito della mia vita. Avevo alzato un po’ troppo il gomito, ma a Marco, quelle cose, gliele dovevo spiegare così.

Il mio fidanzato perse spavalderia e mi rivolse un’occhiata nervosa, a palpebre socchiuse.

“Quand’è così, devo scusarmi, perché non avevo capito quel che significasse convivere con te. Forse hai ragione tu, è meglio che ci prendiamo una pausa”, aggiunse, più mogio.

Ecco, ora era lui che affondava il coltello nella piaga. Io non volevo perderlo, perché lo amavo. Anche una pausa per me poteva essere catastrofica, conoscendo il mio animo debole.

“Chiudere baracca e burattini e lasciare tutto da pagare? Restiamo assieme e combattiamo assieme, proteggendoci le spalle a vicenda, come abbiamo sempre sognato. Ho solo bisogno di notare un po’ del tuo impegno”, gli dissi, più ammorbidita.

Sapevo di essere una ragazza molto precisa e metodica, anche una vera rottura quando mi fissavo con qualcosa, e spaventata per la piega che stava prendendo la nostra discussione, a sera sempre più tarda, non volevo rovinare tutto con il mio atteggiamento puntiglioso.

Dopo aver detto questo, mi avvicinai a lui e lo abbracciai piano, per poi allungargli un bacetto sulle labbra ancora dischiuse, come a voler replicare qualcos’altro. Tuttavia, Marco si lasciò baciare.

“Ti amo. Non voglio perderti, ma non m’interessa della tua opinione; sappi che domani andrò da mio padre a chiedergli un prestito, perché così non ce la faccio, e non ce la possiamo fare. Non m’importa di tutto il resto”, ammise, a voce bassissima, stringendomi a sé. Ed insistendo con egoismo.

Marco aveva preso la sua decisione, ed era l’unica scelta che avesse potuto infastidirmi per davvero. Non potevo accettare un tale compromesso, che mi suonava quasi da sfida rivolta a me. Per sua pigrizia, ci avrei fatto una pessima figura io, come approfittatrice e spillatrice di soldi dai suoceri, e avremmo vissuto sulle dignitose e permalose spalle del signor Benedetti, che non sopportavo per come aveva allevato suo figlio e per i valori di base errati che era riuscito a trasmettergli.

Con un sospiro, aspirai un’ultima volta il profumo della sua pelle e del suo pigiama, poi sciolsi l’abbraccio e mi tolsi le tovaglie di dosso, pronta a rivestirmi.

“Anche io ti amo, alla follia. Ma non hai le palle, Marco. Quando ti deciderai a tirarle fuori e a volermi mostrare davvero che uomo sei, torneremo assieme e ci sposeremo”, gli dissi, concludendo la discussione e pentendomene subito. Il mio orgoglio da donna aveva parlato al posto della mia razionalità.

In modo impulsivo, cominciai a rimettermi addosso qualche vestito leggero e a gettare i miei panni, in modo disordinato, sul letto. Il mio ragazzo mi donò un’altra occhiata, quella volta disperata, ma non si mosse e non mi venne incontro. Era come se l’avessi pugnalato con le mie parole sincere, solo perché anch’egli sapeva che in fondo erano veritiere, ma gli costava troppo ammetterlo e darsi da fare.

A quanto pareva, continuava a preferire i soldi di suo papà e la gonna di sua madre a me, e ancora la sua infantilità veniva tutta a galla.

In confusione, accatastai le mie poche cose, passandomi continuamente le mani già sudaticce tra i miei capelli umidi.

“Quand’è così…”, mi disse solo, dopo qualche minuto di silenzio.

Me ne fregai della sua rassegnazione. Non ne potevo più, e per quella sera avevo già dato tutto.

Erano quasi le ventitré quando finii di fare i miei bagagli, e il mio ragazzo, disteso ed inerte di nuovo sul letto, notando che stavo facendo sul serio, allungò una mano verso di me.

“Ripensaci”, mi disse.

“No”.

Presi la mia grande valigia e la spinsi verso la porta della cucina, delicatamente.

Avevo preso una posizione e contavo di mantenerla ben salda; dovevo spingere il mio ragazzo a migliorare, altrimenti avremmo rotto comunque, prima o poi, ed in modo irreversibile. Meglio prevenire che curare, quindi, la vedevo così.

Prima di andarmene, tornai per un attimo indietro, e non resistetti al balzargli addosso, con affetto e con le lacrime che mi scorrevano copiose lungo le guance, per dargli un ultimo bacio.

“Le palle le hai, in fondo. Devi solo imparare a tirarle fuori, e torneremo assieme molto prima di quel che credi”, gli dissi, in conclusione, per poi affrettarmi a rialzarmi e a muoversi verso l’ingresso e la mia valigia. Dovevo andarmene il prima possibile, prima che ci ripensassi e restassi in quel limbo dal sapore di purgatorio, che non meritavo affatto.

Afferrai la mia valigia e me la portai sul pianerottolo.

Chiusi la porta dietro di me, a malincuore e ancora in lacrime, e diedi le spalle a tutto.

Una volta scesa in strada, vidi con la coda dell’occhio che Marco continuava a guardarmi dal terzo piano, da una delle nostre finestre.

Non alzai lo sguardo e infilai la valigia in macchina. Per fortuna mi ero portata dietro poche cose, quando avevo lasciato la casa di mia madre.

Alla fine, misi in moto la mia auto e me ne andai, col cuore ferito e le guance bagnate di lacrime, singhiozzando e sentendomi impotente, poiché non avevo idea di quali conseguenze potesse avere la mia troppo azzardata e frettolosa scelta. Sul momento, a spingermi lontano da lì erano solo i miei sentimenti e il mio nervosismo represso.

Forse aveva da sempre avuto ragione il mio ragazzo, quando mi accusava velatamente di egocentrismo, e di fregarmene troppo e solo dei problemi più materiali, al posto che curare ulteriormente il nostro delicato rapporto di coppia. Ma le cose erano andate così, e non potevo più cambiarle.

Sfrecciai verso casa di mia madre, nonostante l’ora ormai tarda, e le strade sgombre mi aiutarono a calmarmi leggermente, giusto per non presentarmi disperata e in lacrime alla sua porta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTA DELL’AUTORE

 

 

Salve a tutti! E grazie per aver letto questo primo capitolo.

Questa è una storia che va al di là dei soliti generi di cui mi occupo di solito. Ho cominciato a scriverla per svago durante i primi giorni di giugno dello scorso anno, e da allora mi ha tenuto compagnia.

Spero possa risultare interessante anche per voi… anche se temo possa non essere all’altezza dei racconti che ho scritto finora. In ogni caso, la sto curando con piacere e impegno.

Grazie per l’attenzione, e a lunedì prossimo ^^

   
 
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