Prologo : Crollo Psicologico.
Rachel
I'm
paralyzed, I'm scared to live but I'm scared to die
And
if life is pain then I buried mine a long time ago, but it's still alive
And
it's taking over me where am I?I wanna feel something, I'm numb inside
Quando aprì gli occhi non
incontrò nulla se non il buio che l’avvolgeva.
Ci mise diversi secondi a
rendersene conto, ma si stava muovendo. Non lei però, bensì la stanza nella
quale si trovava. Anzi no, non una stanza.
La Scatola.
Se mai avesse provato ad
alzarsi, certamente avrebbe battuto il capo contro la gabbia metallica che la avvolgeva, ma non ci
sarebbe comunque riuscita. Il rumore della salita era assordante, composto
dallo stridere del metallo e l’accrescere scatto degli ingranaggi. Urlò,
cercando di contrastare quell’assordante cantilena, mentre teneva le mani alle
orecchie, sperando che tutto finisse in fretta.
Di tanto in tanto, qualche luce
al neon di un verde brillante illuminava la Scatola, mostrandole scorci di ciò
che la circondava. Barili, casse di legno e sacchi di iuta ricolmi. Si strinse
contro uno di esso, con le mani ancora strettamente ancorate alle orecchie e
gli occhi pieni di lacrime stretti.
Poi tutto cessò.
Un assordante silenzio le
penetrò i timpani, mentre l’oscurità più assoluta la faceva ora da padrona. Non
poteva vedere nulla, non poteva sentire nulla. Il paralizzante terrore che le
impediva anche di urlare, di liberarsi come aveva fatto il precedenza, ebbe la
meglio su di lei.
Rimase così, statica contro
quel sacco pieno di bordi spigolosi per quelle che le parvero ore, poi un tonfo
la fece sussultare. Due porte di metallo pesante furono sollevate sopra al suo
capo, permettendo alla luce di entrare. I suoi occhi cangianti soffrirono
quell’improvviso cambio di luminosità e per un attimo non riuscì a vedere
nulla. Le mani tremolanti si spostarono sulle palpebre per proteggersi, mentre
un freddo secco e fastidioso la penetrava i polmoni ad ogni respiro.
Fu violento come uno schiaffo
in pieno viso, tanto da rinvigorirla.
“Ei, nuova ragazza, svegliati.
Sei arrivata a destinazione insieme al nostro cibo. Sbrigati a infilarti quel
cappotto o congelerai e a noi toccherà costruire un’altra pira.”
“Ronnie! Non parlarle così! Non
vedi che è terrorizzata?”
Mettere a fuoco le due figure
che avevano appena parlato fu difficile per lei. Erano proprio sopra di lei e
la stavano osservando. Prima di dedicarsi a loro però, registrate le parole
aspre della prima, aveva tolto le mani dal viso e si era guardata attorno con
aspettativa. Poco lontano da lei c’era un cappotto nero con una folta pelliccia
bianca a rivestirne il cappuccio e l’interno. In un attimo lo infilò, prima di voltarsi
verso le due giovani che la stavano accogliendo.
Le focalizzò a fatica, ma appena i suoi occhi si abituarono alla luce, quella
che le si palerò di fronte fu una
visione quasi rassicurante.
Erano sue coetanee. Forse. Non
poteva saperlo visto che non ricordava di preciso la sua età. Una era alta,
molto magra a giudicare dalla circonferenza della sua coscia, con addosso una
giacca che la vestiva male, cadendole scomposta addosso per quanto era larga.
Aveva enormi occhi da cervo, di un castano caldo e capelli neri come la pece,
arruffati. Le arrivavano fino alle spalle in un dedalo di ricci scomposti,
spettinati. Passò alla ragazza che la accompagnava una lancia, prima di fare un
piccolo salto, scendendo un gradino e aprendo le ante della Scatola per
liberarla.
Lei afferrò la mano che le
venne porta dalla mora, mentre continuava ad osservare la sua compagna. Era
l’opposto di lei, se possibile. La copia carbone. Alle lunghe gambe magre se ne
sostituivano due più corte e piene, così come il viso in parte celato dal ingombrante
cappuccio. Anche i suoi occhi erano castani, ma i capelli le cadevano lunghi
sul petto piatto, nascosto da una pelliccia grigia. Erano del colore del grano
maturo e si stupì di ricordarsi un immagine del genere, così come del concetto
di scatola e ascensore, ma di aver completamente cancellato ogni ricordo di se
stessa.
Era destabilizzante e avvilente
come sensazione. Si sentiva impotente.
Sedette sul bordo della fossa
con gli occhi sbarrati e la mora prese posto con lei. “Ora, non uscire di
testa, va bene?”, le disse con tono secco, sistemandosi i guanti sulle mani con
disinteresse. “Non sai chi sei, né dove sei. Scommetto che stai cercando
disperatamente di ricordare il tuo nome, ma posso dirti chiaro e tondo che non
tornerà facilmente. Forse ci vorranno anche due o tre giorni prima che tu possa
riaverlo. Per adesso sei solo Una Ragazza,
esattamente come tutte noi.”
“Tutte voi?”, azzardò con tono
piccolo, prima di voltarsi di tre quarti per guardare anche la bionda.
Questa abbozzò un sorriso di
incoraggiamento, “Siamo un piccolo gruppetto. Tutte arrivate qui come è
successo a te, senza ricordi e senza nulla.”
“Esatto. Non abbiamo nulla se
non quello che ci guadagniamo e quello che questi bastardi ci mandano ogni
mese”, la mora diede un calcio a uno dei barili, che emise un flebile suono.
Era pieno zeppo. “Ora, se vuoi, puoi prenderti un attimo. Urlare se ti aiuta,
piangere se ti libera. Ma non metterti a correre in preda al panico, ok? Non
abbiamo il tempo di metterci a cercarti per tutta la Zona Tiepida. I boschi
sono impervi e i lupi famelici, senza contare che moriresti di freddo questa
notte. Quindi non pensarci nemmeno a scappare. Non esiste una via di fuga da
qui per il momento.”
Non seppe come reagire a quelle
parole così dure, se non in un modo. Calde lacrime di frustrazione iniziarono a
scorrere silenziose sul suo viso. Non urlò disperata, non fece una scenata, ma
la sua voce grattò il fondo della gola quando a singhiozzi riprese a parlare.
“Chi diavolo siete voi? Cosa volete da me?”
La mora sbuffò, alzandosi in
piedi e recuperando la lancia con un gesto di stizza dalle mani della più
giovane delle tre. “Questo è il motivo per cui questo genere di cose deve farle
Ximena. Io non faccio parte del comitato
di benvenuto.”
La bionda la guardò con
espressione quasi esasperata, prima di chinarsi sulle ginocchia, appoggiando
una mano sulla spalla della nuova venuta. “Io sono Rita”, si presentò
finalmente, “Mentre questa scorbutica è Ronnie. Ora ti prego di seguirmi, non
puoi rimanere così tanto qui fuori. Non sei abituata al freddo e potresti
morire. Devo portarti alla Capanna e Ronnie deve trovare qualcuno che la aiuti
a scaricare la Scatola.”
“Tu non intendi farlo, Rita?
Lasci il lavoro duro agli altri come al solito?” La Ragazza si fece aiutare,
mettendosi in piedi e sorreggendosi alla bionda. Le ginocchia le tremavano. Al
contrario, Ronnie scese di nuovo nella Scatola e iniziò a guardarsi attorno con
aria soddisfatta. A detta sua avevano mandato più cibo della volta precedente.
Quando aprì una scatola di legno, un belare costante inondò l’aria facendo
sussultare la Ragazza. Rita ridacchiò. “Un’altra capra!”, disse Ronnie
contenta, sollevando il povero animale e tenendolo sotto al braccio. “Così
potremo uccidere quella più vecchia e farci un buon stufato.”
Le due amiche continuarono a
discutere di pasti e scorte per tutto il tragitto, mentre dietro di loro, la
Ragazza camminava lenta guardandosi attorno. C’erano effettivamente boschi da
ogni parte, neve e sentieri che la solcavano rendendo più semplice la
camminata. C’era un pendio roccioso alle loro spalle e uno meno ripido sulla
loro destra. Si strinse maggiormente nel cappotto, rabbrividendo ad ogni
respiro.
Oltre le vette degli alberi si
scagliavano delle mura grigie alte, a sfidare il cielo azzurro e privo di nubi.
Se quella era la Zona Tiepida
voleva dire che esisteva anche una zona più calda? O magari una più gelida? E
cosa erano quelle mura?
La Ragazza non lo sapeva, ma
temeva per la risposta, così scelse di non chiedere.
Nella loro marcia verso la Capanna, incontrarono
altre due ragazze. La prima camminava con passo deciso, tenendo appoggiata alla
spalla quella che sembrava un’ascia dal manico in osso. Quando vide le due
arrivare insieme alla nuova arrivata non fece una piega, limitandosi a
scrutarla con espressione disinteressata. Aveva un viso bello, ma nonostante
questo la sua espressione arcigna lo rovinava. La pelle olivastra e gli occhi
sottili di un colore imprecisato, tanto da sembrare neri, facevano capolino da
sotto un cappuccio color verde scuro. Anche lei aveva i capelli lunghi, castani
e lisci, racconti qua e la da piccole ed elaborate trecce. L’opposto di colei
che la accompagnava, che oltre a sorriderle teneramente, aveva sul capo quello
che sembrava un miscuglio scomposto di dredlocks.
“Io sono Harriet”, si presentò, porgendole la mano coperta da dei guanti di
lana che le lasciavano scoperte metà delle dita. “Questa invece è Beth.
Benvenuta nella Zona Tiepida.”
“Grazie”, sussurrò la Ragazza,
quasi intimidita dalla gentilezza. Si sentiva quasi più a suo agio con Ronnie e
Beth, perché era costantemente sulla difensiva. Non sapeva cosa le impediva di
correre a perdifiato lontano da lì, forse l’ammonimento della mora che le aveva
chiaramente illustrato le conseguenze di un simile gesto.
“Serve una mano alla Scatola,
venite voi due?”
Beth annuì con un cenno secco
del capo. “Stavamo venendo fin qui per questo”, fece presente, prima di
interrompersi. “Portala a coprirsi di più e poi andate al Cimitero. Marie ha
finito con Alex e hanno bisogno di una mano per stasera. Stanno ancora
preparando le pire e devono ancora iniziare a scavare le fosse.”
A quelle parole, Rita perse
colore sul viso. I suoi occhi si fecero vitrei, mentre Ronnie abbassava il
capo, sospirando. Diede una pacca sulla spalla dell’amica, prima di far cenno
alle altre di seguirla. Rimaste sole, la Ragazza fece un passo verso la bionda.
Non ci fu bisogno di dire altro. Le sorrise, con una lacrima che le solcava la
guancia sul lato sinistro del volto, prima di allungare un braccio.
“Siamo quasi a casa, vieni.”
Quella che Rita definiva casa
non altro se non una capanna di pelli, pietre e travi di sostegno. All’esterno
sembrava enorme e dentro anche di più. C’era una piccola zona recintata con
quattro capre e due maiali che emanava un olezzo maleodorante.
“Lo so, non è il massimo”,
disse la bionda quando notò dove lo sguardo della Ragazza si era fermato. “Ma
non possiamo rischiare che i lupi uccidano i nostri animali. Se no addio latte
a addio carne. Vieni, ti mostro i letti e ti do qualche vestito più caldo.”
La Ragazza annuì, smettendo di
guardare uno dei due maiali, che dormiva della grossa in un angolo della
recinzione. Si spostò verso la zona dei letti, che consisteva in un sistema di
giacigli costruiti a castello, di legno, con quelli che sembravano materassi di
lana di scarto e piume. Anche i cuscini avevano un’aria malconcia, ma le pelli
appoggiate su ogni letto sembravano calde. La Ragazza si sentì così stanca che
le sovvenne di chiedere se poteva dormire un po’, ma un altro dettaglio catturò
la sua attenzione.
Urlò, quando riuscì a
distinguere la sagoma nel buio.
“Non preoccuparti! È morto!”
Una bestia orribile, dalle
grandi ali spiegate, pendeva dal soffitto alto della capanna. La visione
grottesca le fece perdere l’equilibrio e finì sulle ginocchia, con le mani
sulla bocca e gli occhi sbarrati.
“Perché è appeso lì! Che cosa
è?!”
Rita si mise accanto a lei,
appoggiandosi una felpa dall’aria calda e un paio di pantaloni scuri imbottiti sulle
ginocchia. “Noi li chiamiamo Oscuranti”,
iniziò cautamente. “Sono le creature notturne che infestano il Labirinto.”
“Labirinto?”, sillabò la
Ragazza con tono spento.
Rita annuì piano. “Non dovrei
essere io a parlartene, ma oggi è una giornata orribile e sia Ximena che Marie
saranno impegnate. Avviciniamoci al Focolare e ti spiegherò tutto.”
Le porse la mano e seppure
restia, la Ragazza la afferrò, lasciandosi condurre fino al centro della tenda
dove ardeva un braciere circondato di pietre, con fiamme mediamente alte. Rita
lanciò al suo interno un paio di pezzi di legno, prima di sedersi sul bordo
dello scalino che separava il livello del pavimento dal fuoco, accanto alla
nuova arrivata.
“Tutte noi siamo intrappolate
qui, in quella che chiamiamo la Zona Tiepida. Il centro del Labirinto. Su gli
altri quattro lati siamo circondate da pareti mobili che ogni notte cambiano
posizione e rendono difficile la soluzione. Il solo modo che abbiamo per andare
via, infatti, è risolvere il Labirinto. Lavoriamo quasi ogni giorno per mappare
e tracciare nuovi percorsi, ma non è facile. Alcune di noi, le più forti,
rimangono anche la notte là dentro, quando le porte si chiudono e gli Oscuranti
escono fuori. Questo l’hanno ucciso Marie e Beth, insieme a una ragazza che si
chiamava Rosie.”
“Chiamava?”
“Sì, è morta da tanto tempo. Io
non l’ho nemmeno conosciuta.”
La Ragazza corrugò la fronte,
confusa. Poi fece un calcolo veloce delle possibilità. I letti non erano molti,
forse una dozzina. Lei era arrivata dentro la Scatola che, come aveva dedotto
dalle parole di Ronnie, risaliva ogni mese.
Qualcosa non tornava.
“Quante siete?”
“Con te? Nove.”
“E tu da quanto tempo sei qui?”
Rita parve titubare a quel
punto. A cosa serviva però mentire? “Un anno e tre mesi, oggi.”
Un’altra pausa, stavolta più
lunga, più meditativa.
“Le ragazze che Ronnie ha
citato…. Ximena e Marie…. Sono loro che governano questo posto?” Rita annuì a
quelle parole. “Loro da quanto tempo sono qui?”
La bionda abbassò il capo,
torturandosi l’unghia del pollice. La Ragazza colse il suo nervosismo. La
risposta non le sarebbe piaciuta. “Loro non ne parlano quasi mai. Marie dice
che il tempo è relativo in certe situazioni e a determinate condizioni, mentre
Mena sostiene che risolvere il Labirinto richiede sacrificio e non possiamo
fossilizzarci solo sul volere andare via, ma sul come farlo. In ogni caso,
Marie ha confidato a Sonya da quanto è qui dentro. Da allora noi altre teniamo
il conto senza farglielo sapere.”
“Quanto tempo?”
“Tre anni e cinque mesi. Ma
Ximena è arrivata prima di lei. È stata la prima ad arrivare, Marie la seconda.
Quindi possiamo ipotizzare tre anni e mezzo, circa.”
“E non lo avete ancora
risolto?”
“Non è così semplice, posso
assicurartelo.” Il crepitio del fuoco coprì un tremolio nel tono incerto della
bionda. Quando riprese a parlare, la sua voce era ridotta a poco più di un
sussurro. “La spedizione di ieri è stata un disastro. Abbiamo perso due nostre
compagne, una mentre eravamo ancora nel Labirinto e l’altra è morta oggi,
perché è stata punta.”
“Punta? Da cosa?”
Rita fece un cenno verso
l’Oscurante. La Ragazza notò solo a quel punto che la coda dell’essere
terminava in un pungiglione grande, opalescente. Deglutì. “Cosa ti succede
quando vieni punto?”
Non arrivò una risposta. Rita
si alzò in piedi dopo averle passato i vestiti. “Forza, dovremmo andare ad
aiutare le altre, non possiamo perdere tempo. Ci sono delle regole qui, ma sarà
Mena a dirtele. Intanto però puoi cambiarti e lasciare i tuoi vecchi vestiti su
questo letto.” Appoggiandosi con il braccio alla trave di sostegno del letto a
castello, le indicò uno dei posti sotto. “Qui dormiva Alejandra, proprio
accanto a me.”
Con dei vestiti più imbottiti e
degli scarponcini adatti a camminare sulla neve, la Ragazza si sentì meno
esposta una volta lasciata la Capanna al seguito di Rita. Aveva notato una
macchia di sangue sulla punta di una delle due scarpe, ma non aveva domandato a
chi fossero appartenute prima di arrivare a lei. Non voleva sovraccaricare la
bionda di domande, soprattutto perché le era parsa molto provata dall’ultimo
dialogo che avevano avuto. Ironicamente la stava tranquillizzando avere un
quadro più preciso della situazione. Un quadro orribile, pieno di dettagli
raccapriccianti e con una prospettiva di molti anni vissuti in quel luogo
claustrofobico, ma più concreto.
Il non sapere era molto peggio dell’ignoranza, per lei.
“Viviamo per lo più di caccia e
pesca”, spezzo il silenzio la bionda, camminandole accanto con le mani ben
affondate nelle tasche della pelliccia. “Tutto ciò che non possiamo procurarci
da sole arriva ogni mese dalla Scatola. Non riusciamo a coltivare praticamente
nulla, eccetto qualche erba per lo più selvatica. Mena fa degli infusi quando
ci ammaliamo o creme per le ferite.”
“Ogni mese nella scatola arriva
anche una ragazza, insieme al cibo?” Rita annuì. “Tre anni e mezzo e solo nove
ragazze? Le altre che fine hanno fatto?”
“Sono morte”, rispose Rita,
parlando piano, come se fosse una confidenza incredibilmente dolorosa da fare.
“Oppure sparite, inghiottite dal Labirinto. Alcune di loro si sono suicidate,
altre sono impazzite e abbiamo dovuto far si che il gruppo rimanesse al
sicuro.”
“Le avete uccise?”
“Le abbiamo mandate da sole nel
Labirinto la notte senza Marie. Lei è la sola che sa come comportarsi quando
cala il sole fra quei muri. Quando catturiamo gli Oscuranti rimaniamo la dentro
anche per giorni interi.”
La Ragazza si bloccò sul posto,
costringendo anche l’altra a fermarsi. “Perché li catturate?”
“Perché hanno degli strani
aggeggi dentro al corpo. Ognuno di loro indica una delle alee del Labirinto.
Dobbiamo raccoglierle tutte e otto se vogliamo risolverlo. Queste cose però
potranno spiegartele meglio le altre, perché io-”
“Quante ne avete per ora?”
Rita si morse il labbro.
“Sette. Sono quasi dieci mesi che siamo ferme a sette. Uccidere un Oscurante
richiede molto tempo e molte persone abili a combattere. Molti fallimenti, come
quello di ieri.”
Non ci furono altre domande. Il
tono con cui aveva risposto all’ultima Rita non ammetteva spazio. La Ragazza lo
accettò, meditando sul fatto che per lei doveva essere dura riportare alla
mente tutte quelle vicende dolorose.
Comprese davvero la portata
della tragedia che si consumava fra quelle pareti di ghiaccio solo quando
raggiunsero quello che poteva essere solo il Cimitero. Si apriva su di una zona
pianeggiante che arrivava a toccare le pareti del Labirinto. Lungo tutto quello
spazio si distendevano a perdita d’occhio dei pali conficcati nel terreno
coperto di neve. Attaccato ad ogni palo, la Ragazza lesse un nome. Erano così
tanti che non fu in grado di contarli. Anne, Margareth, Rose, Helen, Natasha,
Simone, Nina, Charlotte…
Le mancò il fiato al pensiero
che un giorno, se non fosse stata attenta, anche il nome che prima o poi
avrebbe ricordato sarebbe stato inchiodato ad un palo di legno nel terreno, in
mezzo a un campo fiorito con molti altri.
Le ragazze che ogni mese
arrivavano con la Scatola che non erano li con loro.
“Immagino che questa sia la
nuova arrivata.” Una ragazza alta, dalla pelle scura e i capelli lunghi tenuti
insieme da tante treccioline sottili si fece avanti, porgendole la mano. “Io
sono Ximena. Scusami per la pessima accoglienza, ma purtroppo abbiamo avuto un
contrattempo. Ieri abbiamo perso delle persone a cui volevamo bene e ci siamo
quasi dimenticate che oggi è il giorno della Scatola.”
“No io-non c’è problema. Mi
dispiace per la vostra perdita.”
“Come è calma”, constatò Mena,
rivolgendosi a Rita. “Sospetto. Di solito le ragazze che arrivano piangono,
strillano o non vogliono lasciare la Capanna.”
“Ha già pianto”, rispose la
biondina, scostando un mucchietto di neve con la punta del piede mentre
sollevava il mento, che aveva tenuto affondato nel cappuccio fino a quel
momento. “Le ho spiegato un po’ di cose, ma non tutte.”
“Ci sarà tempo per il resto, ma
ora venite tutte e due. Dobbiamo finire il lavoro prima che tramonti il sole.”
Fece strada lungo un sentierino
fino a una zona più distante, ma che faceva sempre parte dello spiazzo. Lì
c’erano tre giovani, le ultime tre che mancavano per le presentazioni.
Stavano lavorando tutte a tre a
una piattaforma di legno. La prima che vide se ne stava seduta su una roccia, a
dividere dei rametti per creare delle pile di stecchi. Stava piangendo. Copiose
lacrime scendevano dagli occhi neri dal taglio orientale, mentre i capelli
altrettanto scuri le cadevano sulle spalle ogni volta che esse sussultavano per
un singhiozzo.
Le altre due invece stavano
fissando dei tronchi con delle funi.
Quando furono abbastanza vicine
la Ragazza notò quelli che erano chiaramente due corpi, nascosti da due teli
scuri. Le si torse lo stomaco e le venne la nausea. Forse non aveva mai visto
un cadavere prima di allora, ma non poteva saperlo, non avendo conservato alcun
ricordo.
“La Ragazza deve conoscere gli
ultimi membri del gruppo”, disse Mena, che era stata informata degli incontri
che erano avvenuti in sua assenza. “Quella lì in disparte è Miyoko. La biondina
invece è Sonya. L’altra, che è così maleducata da non avere avuto nemmeno
l’accortezza di salutare o voltarsi verso di noi è Marie. Non farci caso,
ignora tutti.”
“Siamo convinte che finga di
essere qui da sola la maggior parte del tempo”, Sonya le sorrise,
avvicinandosi. La abbracciò, lasciandola senza parole. “Benvenuta fra noi.”
Quando si staccò, la guardò negli occhi, infondendole subito una nuova
sicurezza. Poi si rivolse alla ragazza di colore. “Non dovrebbe rimanere alla
Capanna? È appena arrivata, sarà disorientata.”
“A me non sembra. Anzi, meglio
che ci dia una mano. Vedere cosa succede quando non si fa attenzione la fuori
la aiuterà in futuro.”
La voce di Marie era molto
diversa da come la Ragazza l’aveva immaginata. Era sottile, estremamente
femminile, con una nota acuta quasi infantile. Il suo viso anche le ricordava
quello di una bambina, nonostante avesse l’età delle altre. Forse erano i
grandi occhi grigi come il cielo in tempesta, oppure la treccia spettinata che
cadeva sulla sua spalla destra e terminava in un fermaglio di legno inciso con
un motivo floreale sopra. Forse era anche la sua altezza, modesta rispetto
quella delle altre ragazze.
Era minuta, molto minuta per
essere la giovane che Rita aveva tanto elogiato come combattente ed esperta di
sopravvivenza.
Eppure doveva essere proprio
lei e la Ragazza lo capì solo quando si guardarono negli occhi.
In quelle iridi lesse il peso
di tutte e tre quegli anni e anche molto, molto di più.
“Ragazza, ti presento il nostro
Capo delle Spedizioni con tanto di sensi di colpa annessi. Appena qualcuna di
noi ci lascia le penne puoi star certa che Marie diventerà una vera stronza.
Sai perché? Incolpa se stessa.”
La mora assottigliò gli occhi
nella sua direzione. “La fuori ognuno è solo. Ognuno è artefice del suo
destino. Io non sono la balia delle altre.”
“Allora dillo a te stessa,
perché a me non mi freghi: ti conosco da sempre.”
Le due si scambiarono uno sguardo che inizialmente fu di sfida, ma poi andò ad
affievolirsi. Marie tornò alle funi e Mena sospirò, passando una mano sul viso
fino alle labbra grandi e screpolate dal freddo. “Siamo tutte stanche. So che
non è un gran biglietto da visita ma è meglio che tu lo sappia da principio;
questo mese abbiamo seppellito quattro nostre compagne. Due la settimana scorsa
a distanza di tre giorni e adesso Jules e Alex.” Si fece più vicina,
appoggiandole le mani sulle spalle. “Qualsiasi cosa accada, devi rispettare le
nostre cinque regole d’oro”, staccò una mano, iniziando ad enumerarle. “Prima regola, nessuna di noi è esente
dal rispettare gli ordini. Se ti dico di scappare, se Marie ti dice di tagliare
la fune, tu fallo. È giusto aiutarci a vicenda ma chi indietro rimane, indietro
viene lasciato. Avere due morti invece di uno solo non ha senso. Rispetta la
gerarchia di comando e fidati ciecamente delle indicazioni che ti verranno date
da coloro che vivono qui da più tempo e te la caverai. Regola numero due, ognuna di noi ha un compito fisso e uno
giornaliero ed entrambi devono essere portati a termine con le proprie forze,
perché non abbiamo bisogno di pesi morti. Regola
numero tre, devi imparare a resistere al gelo della Zona Tiepida se vuoi
sfidare il Labirinto, diventando una Mappatrice
come le altre. Le prime due settimane le passerai qui ad adattarti. Oggi
sei fortunata, non c’è aria di tempesta, ma non sarà sempre così caldo.” La
Ragazza sgranò gli occhi, chiedendosi che concetto avessero di caldo in quel
posto. “Quarta regola, ognuna di noi
deve allenarsi ogni giorno per essere sempre in forma e in salute. Anche in
quei giorni del mese in cui le ragazze stanno male, tu ti allenerai. Ognuna di
noi deve sapere fare quattro cose: tirare con l’arco per poter cacciare, usare
la lancia per difendersi, saper fare i nodi per l’arrampicata e imparare a
pattinare, perché il Labirinto è anche chiamato la Zona Ghiacciata. Solo con i
pattini puoi affrontarlo.”
“Hai dimenticato la cosa più
importante.” Marie la interruppe, appoggiandosi alla pila di legna solida.
“Correre. Qui corriamo davvero molto, oltre che scivolare sul ghiaccio.”
“Giusto”, la assecondo Mena,
prima di fare mente locale. “Ora la
regola più importante, ovvero la quinta: il Focolare della Capanna non deve
mai e poi mai spegnersi. Per noi, rappresenta tutto ciò che siamo, è un
simbolo. Brucia da quando la Capanna è stata eretta: le cose hanno iniziato a
funzionare un po’ meglio e le persone a sopravvivere. Quel fuoco siamo noi,
Ragazza. Io, te e le altre. Fino a che rimarremo unite e quelle braci accese,
allora arderà anche la speranza di ritrovare la strada di casa. Ovunque essa
sia. Pensi di poterle ricordare?”
La Ragazza annuì “Sì, posso
farlo.”
“Sono anche scritte nella
Capanna, comunque”, suggerì Sonya, fingendo disinteresse e ricevendo come
premio una palla di neve in pieno viso da Miyoko. Le venne restituita subito,
strappandole una mezza risatina e stoppando così le sue lacrime.
Mena le guardò con espressione
quasi materna, incrociando le braccia sul petto. “Rispettale, Ragazza”, disse
quindi, riportando su di lei l’attenzione del nuovo arrivo “Rispettale tutte e
anche tu sarai una Icer, come noi.”
“Oggi dovremmo festeggiare,
come ogni mese, il nuovo arrivo e le scorte alimentari. Però non ci è concesso.
E non ci è concesso perché abbiamo perso due amiche importanti, due sorelle e
due valide alleate. Questa sera celebriamo la vita e la morte di Julia e
Alejandra.”
La Ragazza non riusciva a
staccare gli occhi dalla pira. Su di essa, supine, erano stese due delle ragazze
che l’avevano preceduta in quel posto. Una delle due era mora, con i capelli
ricci e la pelle scura, mentre l’altra al contrario sembrava fatta della
porcellana più raffinata, tempestata di lentiggini accese e con i capelli
lunghi e rossi come il fuoco. Alejandra, la precedente posseditrice del suo
letto. Mentre di Jules era rimasto poco da cremare, la rossa sembrava
addormentata. Delle orrende linee nere le solcavano la guancia destra, come lividi
ma del colore del petrolio, ma per il resto era intatta, perfetta.
Bellissima.
“Julia è caduta dalla parete di
ghiaccio”, le sussurrò Rita mentre Harriet distribuiva i bastoni che fungevano
da torce a tutte.
“Diciamo che è stata fatta
cadere”, si intromise senza tatto Beth. “Chi si stacca dalla parete durante
l’arrampicata è un pericolo per le altre. Marie ha fatto tagliare la corda.”
“Chi l’ha tagliata?”
Beth si voltò verso la Ragazza,
impassibile. La torcia le illuminava metà del volto. “Io.”
“Vorrei poter dire che il loro
sacrificio non è stato vano”, proseguì Ximena, mentre il nodo nello stomaco
della Ragazza di stringeva ancora di più. “Vorrei poter dire che potevamo
impedirlo. Ma sarebbero tutte stronzate.
Ieri abbiamo fallito, tutte noi, ma a pagare il prezzo della nostra mancanza di
abilità sono state loro. Ogni volta che una di noi muore io domando sempre al
resto del gruppo di pensare a ciò che è successo, prima di dormire. Ma non ve
lo chiederò più. Ve lo ordino. Ora. Pensate a cosa è andato storto e
sistematelo nelle vostre menti. Incolpatevi, piangete e pensate che dovreste
esserci voi al loro posto. Poi accendete il fuoco e bruciate via questo
sentimento, lavatelo con le fiamme e
scacciatelo lontano perché sarà la paura di fallire di nuovo a
sconfiggerci. Ma noi non perderemo questa guerra. Non faremo vincere loro.”
Marie, senza battere ciglio,
avanzò. Fu la prima ad appoggiare la torcia contro gli stecchi di legno, dando
fuoco alla pira. Fu la prima a bruciare i suoi sensi di colpa e ad
allontanarli.
Le altre non si mossero.
Mena osservò la mora tornare
indietro, mentre il piccolo incendio iniziava a divampare accanto al viso
deformato dalla caduta di Jules. “Un giorno”, proseguì il leader, guardandole
tutte, una ad una, “Noi usciremo di qui. Non tutte, certo. Ci saranno altri
falò e ci saranno altri arrivi prima che succeda. Prima che l’arcano sia
svelato. Ma alcune di noi ce la faranno. Vedranno un cielo azzurro e
sconfinato, senza più mura. Vedranno il mondo, vedranno ciò che esiste fuori da
questo incubo. Allora ricorderanno ogni singolo falò, ogni singolo volto. E
saranno libere anche per coloro che non ce l’hanno fatta ad arrivare fino in
fondo. Perché sono già libere. Alex e
Jules ora sono libere, non devono più lottare. Possono riposare accanto alle
loro sorelle, mentre noi ci impegniamo a riprendere dove abbiamo lasciato. Da
domani e per ogni giorno, sino a che non saremo nella terra o oltre le mura del
Labirinto.”
Sonya e Harriet avanzarono a
loro volta, appiccando il fuoco in altri due punti.
Una ad una, tutte quante lo
fecero, in silenzio. Tutte, eccetto Ximena.
Lei rimase ferma sulla sua
posizione, guardando le fiamme libere ingrossarsi divorando i corpi delle sue
compagne cadute. Poi, senza aggiungere altro, fece un cenno a Ronnie.
La mora annuì e prese una cassa
di legno, iniziando a distribuire dei vasetti di vetro pieni di una strana
sostanza gialla.
Tutte presero a bere, eccetto
la Ragazza che annusò prima.
“La chiamiamo l’Intruglio”, le
rivelò Rita, con un piccolo sorriso incoraggiante, “Una ricetta di Beth,
segreta. Sappiamo solo che lascia marcire le mele per farla. Un sorso di questa
roba e la tua mente si sentirà meglio.”
La Ragazza annuì piano,
abbassando la fiamma per guardare meglio il contenuto del vasetto. Rita la
fermò, “Attenta, prenderai fuoco.”
“Cosa diavolo vuoi farmi
bere?”, domandò stranita, prima di guardarsi attorno. Tutte stavano bevendo
eccetto Miyoko, che se ne stava in piedi col capo appoggiato alla spalla di
Sonya.
“Tu bevi e piantala con le
domande.”
La Ragazza sospirò
pesantemente, prendendo un piccolo sorso. Definirlo sorso era quasi un insulto
però. Appena si bagnò le labbra, storcendole subito dopo a causa del sapore
forte e alcolico della bevanda. Che fosse fatta di mele era innegabile, ma
doveva ammettere che era parecchio forte per essere composta solo con esse. Rispettò
però l’ordine di non fare ulteriori domande e al terzo sorso non le parve più
così male.
Dovette sedersi poco dopo.
Si ritrovò così accanto a
Marie, su un tronco di albero caduto, con il vasetto stretto fra le mani e il
mondo attorno a lei che girava. Dovette concentrarsi per sentire cosa stava
dicendo la mora.
“…entro l’alba. Non appena la pira si spegne,
insomma.”
“Consideralo fatto”, le stava
rispondendo Harriet, “Chiederò a Sonya di aiutarmi.”
“No”, rispose la mora, tenendo
il vasetto con una sola mano e guardando il liquido al suo interno, mentre lo
faceva roteare piano. “Lei lo ha fatto la volta scorsa. Ti aiuterò io a
seppellire le ossa. Quando il sole sfiorerà le punte degli alberi voglio già
essere alle porte del Labirinto. Abbiamo lasciato dentro quattro rampini e
delle funi per portare fuori Jules e Alex. Va recuperata l’attrezzatura e
segnato il muro di ghiaccio. Quello non va bene. Non abbiamo abbastanza presa.
Dobbiamo trovarne un altro.”
“Quando ucciderete l’ultimo
Oscurante?”
La Ragazza non si era nemmeno
accorta di averlo davvero chiesto. Si stupì da sola per quella domanda sopra
alle righe, soprattutto viste le circostanze. Harriet infatti alzò le
sopracciglia, mentre uno sbuffo di condensa si formava di fronte alle sue
labbra schiuse.
Marie rispose per prima,
comunque. “Quando avrò almeno cinque persone in grado di farlo. Dobbiamo essere
almeno in sei per ucciderne uno solo. Ora come ora, non abbiamo abbastanza
persone. Ma questo non ti riguarda per adesso. Da domani sarai la guardiana del
fuoco.”
“Vero, la nuova arrivata deve
badare al fuoco e agli animali”, si inserì Mena, battendo una mano sulla spalla
della Ragazza. “Rita è promossa. Quale mansione è libera per lei?”
Marie ci pensò, assottigliando
gli occhi. Poi prese un altro sorso. “Alex era l’addetta alla raccolta
dell’acqua. Direi che essendo un bene di primaria importanza, dovrebbe fare
questo.”
“Perfetto, glielo vado a
riferire”, convenne Harriet, allontanandosi verso il piccolo gruppetto nel
quale Rita e le altre si erano accomodate, su di un enorme masso circolare.
Un rumore orribile, come un
grido bestiale, seguito da dei rumori meccanici, simile a quello degli
ingranaggi della Scatola, arrivò dalle sue spalle. Nessuna delle altre ci fece
troppo caso, ma la Ragazza si voltò di scatto guardandosi alle spalle.
“Il Labirinto che cambia.”
Marie rispose alla domanda implicita che non aveva lasciato le labbra della
nuova arrivata, poiché non aveva avuto il tempo per formularla. “So cosa stai
pensando. Tutto è spaventoso e orribile. Non sai chi sei né cosa farai e come
primo ricordo della tua vita, forse fino alla fine di essa, avrai un funerale e
un posto orrendo come questo. Però vedi il lato positivo.”
La Ragazza deglutì. “Quale
sarebbe?”
“Abbiamo questo”, rispose
Marie, alzando il vasetto. “Ne abbiamo tanto. E se ne bevi abbastanza almeno ti
addormenterai.”
Non sembrava il migliore dei
piani, ma senza un aiuto, sicuramente, la Ragazza non si sarebbe mai
addormentata quella notte. Così prese un altro sorso, mentre il livello si
abbassava inesorabilmente. Cercò di cambiare argomento. “Quali sono i compiti
delle altre?”
Marie guardò il gruppo di
amiche, facendo scivolare le dita della mano libera sotto alla manica del
cappotto. Tirò un piccolo bracciale di cuoio intrecciato, iniziando a
giocherellarci senza nemmeno rendersene conto, probabilmente. “Allora vediamo.
Ximena come avrai capito è il grande capo.” Il ragazza di colore ridacchiò a
quelle parole, alzando il vasetto come per dedicare al suo braccio destro un brindisi,
dirigendosi poi a piccoli passi verso le altre. “Si occupa di noi come una
madre, tiene insieme il gruppo e gestisce tutta la baracca. Poi ci sono Harriet
e Sonya, le nostre migliori Mappatrici. Passano ore e ore su dei vecchi fogli
ingialliti pieni di scritte, annotazioni e righe. Hanno la memoria migliore
così ogni sera, quando torniamo dal Labirinto, indipendentemente da quanto
abbiamo esplorato, aggiornano le mappe. Miyoko è l’addetta alla cura degli
animali, infatti rimarrà con te fino mentre noi siamo fuori. Non possiamo
lasciarti sola, non sappiamo se e quando
impazzirai.”
“Non impazzirò”, si difese con
tenacia la Ragazza, ricevendo come risposta una occhiata un po’ scettica. “Non
lo farò. Posso farcela. Posso sopravvivere.” Marie annuì piano, facendo per
proseguire, ma lei aveva una domanda. “Miyoko è l’ultima arrivata prima di me?”
La mora scosse il capo. “No.
Quella è morta. Si chiamava Kara mi pare. E anche quella prima è morta, ma lei
prima ancora di scoprire il suo nome. Brutta idea cercare di scappare da sole.
Poi si rimane chiuse nel labirinto e semplicemente non vieni più trovata.” Fece
una pausa, pensandoci su. “No, Miyoko è qui da oltre un anno ma non è
abbastanza forte o coraggiosa per poter gestire la pressione. Quando posso non
porto né lei né Rita. Non voglio pesi morti. Ronnie e Beth invece sono brave.
Sono rispettivamente l’addetta alle scorte alimentari e la prima cacciatrice.
Sanno come muoversi la fuori. Lo sapevano anche Alex e Jules comunque. Erano
davvero brave, abbiamo subito delle perdite considerevoli.”
“Il tuo compito invece qual è?
Eccetto valutare il valore di una persona dalla velocità con cui pattina,
ovviamente.”
Marie sbuffò una mezza risata,
girandosi di tre quarti a guardarla. “Come, scusa?”
“Fai la dura, la tenebrosa, ma
te lo si legge in faccia che ti senti uno schifo”, rincuorata dalla bevanda, la
ragazza non si trattenne. Prese un sorso lungo
prima di proseguire. “Quindi quale è tuo compito del secondo in
comando?”
“Io sono il capo delle
spedizioni nel Labirinto.”
“E cosa comporta questa
carica?”
“Tracciare nuovi percorsi
sicuri, tenere sotto controllo la strumentazione, addestrare le altre e…” Marie
abbassò gli occhi sul braccialetto,
prima di guardare la pira. “Impedire che succeda questo.”
La Ragazza ridacchiò piano,
annebbiata dai fumi dell’alcool. “Non sei molto brava nel tuo lavoro, allora.”
Non ci fu una risposta a quella
provocazione. Marie prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi e irrorando i
polmoni di ossigeno. Poi, senza battere ciglio si alzò, lasciando il suo
vasetto a terra.
Ciò che successe dopo fu
confuso agli occhi della Ragazza. Non notò nemmeno la gamba che si alzava, ma
il calcio che le arrivò in testa fu così forte da buttarla riversa nella neve,
con il volto infilato nel mantello bianco gelido che ricopriva il suolo.
Tossì, sputando sangue quando
si accorse di avere il labbro rotto. Aveva sbattuto contro una roccia. Voltò il
capo verso Marie, che la guardava dall’alto con una scintilla di sfida negli
occhi di ghiaccio e le mani infilate nelle tasche del giaccone nero.
“Che diavolo hai fatto?!”, le
urlò Ximena, mentre tutte si voltavano a guardare la scena, senza proferire
parola. La donna di colore stava per chinarsi sulla Ragazza per aiutarla, ma le
parole del suo secondo la fermarono.
“Mi ha provocata”, rispose con
tono pacato Marie, ma con una vibrazione nella voce che faceva presagire che in
realtà si stesse solo trattenendo. “Ha messo in dubbio la mia posizione e ha
lanciato lei la prima pietra. Come abbiamo sempre fatto ti chiedo di farti da
parte e lasciare che la risolviamo noi due. Lo ha praticamente chiesto lei.”
La giovane a terra si tolse la
neve dai capelli castani, prima di rimettersi in piedi traballante.
Mena la osservò, prima di farsi
da parte. “Se è andata così, allora faremo come abbiamo sempre fatto”,
acconsentì, facendosi da parte. “Solo non ucciderla.”
“Non mi leverò il gusto di
vederla morire rimanendo qui dentro.”
Quelle parole smossero qualcosa
nella Ragazza. Nonostante la neve e il colpo l’avessero fatta rinsavire
abbastanza, si sentiva ancora il capo leggero e incapace di ragionare
lucidamente. Quando arrancò una corsa goffa nella neve verso l’altra, Marie non
dovette far altro se non scansarsi e guardarla cadere di nuovo a bocconi. Non
tolse mai le mani dalle tasche.
Le sferrò un altro calcio, più
forte del precedente, nel costato. Quasi la sollevò da terra tanto fu forte.
Poi saltellò sulla gamba di appoggio per tenere l’equilibrio aspettando una
risposta.
La Ragazza boccheggiò per il
dolore e poi vomitò tutto quello che aveva bevuto, insieme al poco che aveva
mangiato per cena, prima del falò.
Fu solo dopo aver buttato fuori
tutto quello che aveva nello stomaco che riuscì a rimettersi seduta, pulendosi
di nuovo il mento con il guanto.
Allora si voltò verso Marie,
trattenendo il respiro.
I suoi occhi erano pieni di
lacrime.
“Rachel”, sussurrò a se stessa,
per poi gridarlo a pieni polmoni affinché tutte sentissero. “Il mio nome è
Rachel!”
“Le botte fanno sempre tornare
la memoria a tutti. Anche a Beth è successo, vi ricordate? Marie le ha spaccato
un bastone sulla schiena et voilà!”
Sonya sembrava euforica nel
raccontare quell’ennesima riprova dell’indole poco incline al dialogo del capo
delle spedizioni. Dal canto suo, la diretta interessata non diede peso a quelle
parole. Si sistemò sotto alle pellicce, alzando il braccio verso la parte
superiore del letto, mentre accanto a lei Sonya sorrideva giuliva, accozzandosi
al suo fianco. Marie non sapeva nemmeno dire da quando avevano iniziato a
dormire insieme, ma così facendo scongiuravano i geloni notturni ai piedi
quindi le stava bene.
Continuò a non commentare,
mentre Ximena passava accanto alla loro postazione con una tazza in mano e
andava a sedersi sul letto di Rachel, passandole il contenitore ricolmo di un
profumato infuso rosato.
“Ribes, lampone e un po’ di
limone per la nausea. Il limone è estremamente raro, ce ne mandano poco, quindi
ritieniti fortunata.”
“Lo sono ad avere un nome già
dalla prima sera”, rispose la castana, portando la tazza al labbro e storcendo
la bocca per il dolore che le dava il labbro rotto. Se lo sfiorò con la punta
delle dita, prima di abbassare di nuovo entrambe le mani, scaldandole contro la
porcellana. “Dovrei ringraziare?”
“Ti prego non farlo o penserà
di aver fatto bene a pestare una persona ubriaca.”
Gli occhi cangianti di Rachel
cercarono la figura di Marie e la trovarono in fretta, sempre stesa accanto
alla bionda che le parlava concitata dei festeggiamenti che Mena aveva indetto
per il giorno successivo.
Nessuna missione, eccetto
quella di recupero degli strumenti. Avrebbero dato il loro benvenuto a Rachel
come si doveva, cucinando della carne e bevendo fino a finirci tutte, a
carponi.
Accantonando ogni problema e
ogni lutto almeno per ventiquattro ore.
“Non sembra provare molto
rimorso nell’averlo fatto però.”
“Lei non ha mai fatto nulla di
cui si pente, a quanto ricordo.” Ximena accavallò le gambe, passando una mano
su una delle pellicce che avvolgevano Rachel. “Ha un codice tutto suo di
ragionamento.”
“Ovvero?”
“Prendere sempre la scelta
migliore per tutti, senza avere rimpianti. Voleva insegnarti qualcosa stasera.”
Rachel si chiese cosa. Che era
più forte di lei? Che quello era un luogo pericoloso e che non doveva
permettersi di discutere con coloro che lo conoscevano così bene?
Forse voleva solo impartirle
una lezione.
“Devo meritarmi di stare qui.
Devo essere abbastanza forte per sopravvivere.”
Mena ridacchiò sotto i baffi.
“Oh beh, ha funzionato davvero allora.” Non aggiunse altro, se non ordinare a
Ronnie di spegnere le torce e fare il primo turno al fuoco. “Quando sarà stanca
ti sveglierà e prenderai il suo posto. Da oggi questo è il tuo compito: tenere
acceso il Focolare. Conoscendola però ti lascerà riposare. Hai preso un paio di
calci notevoli.”
“Mena, posso farti una
domanda?”
La voce di Rachel uscì bassa,
incerta. Così tanto che la giovane di colore dovette sporgersi verso di lei per
sentirla. Una cascata di treccine fini scivolò in avanti, coprendole in parte
il volto. Le scostò di lato, rivelando una cicatrice vicina all’attaccatura
dello scapo e un pezzo di orecchio che le mancava, tranciato di netto da chissà
cosa.
Rachel la guardò negli occhi,
cercando di concentrarsi solo su quelli, quando finalmente trovò il coraggio di
chiederlo.
“Di tutte le ragazza Marie
sembra la più persa”, ammise alla fine, sperando vivamente di non venire
sentita. Stava parlando così piano però che a mala pena poteva udirsi da sola,
quindi continuò. “Mi chiedo solo…. Quando ha avuto il suo crollo psicologico? E
perché le permetti ancora di comandare?”
Mena parve stupita all’iniziò.
Non comprese.
Poi le passò una mano sul capo,
in un gesto affettuoso. Famigliare. “Posso
garantirti che di tutte noi, Marie è quella che ha più la testa sulle spalle,
qui”, le rispose, non curandosi del tono.
Rachel arrossì appena,
sentendosi una stupida.
“Come mai?”
Mena sorrise. Sembrava triste,
all’improvviso.
“Perché lei è la sola convinta
di avere qualcuno, là fuori, da cui tornare.”
Undici anni prima.
Occhi grandi, specchio di paure
che nemmeno potevano essere comprese a pieno, spiavano dalla fessura dietro la
porta. Essi videro quegli uomini sconosciuti e vestiti di nero, dai volti
celati, entrare e uscire dalla casa sua. Suo padre urlava, chiuso nella
mansarda, sbattendo furibondo le mani e producendo dei suoni così potenti da
far vibrare tutto il soffitto e cadere la polvere fin sopra il suo capo.
Sua madre sussultava ad ogni
colpo. Il suo corpo, fragile come quello di un uccellino, vibrava come un
ramoscello sospinto dal vento, mentre si stringeva con forza a lei e a suo
fratello, il quale aveva il volto teso e livido di una collera repressa.
Nessuno parlava. Nessuno disse
nulla, mentre quelle persone invadevano la loro casa dalle finestre sprangate e
ricoperte di carta da regalo a fiori o natalizia, così da renderle meno cupe.
Ormai dormivano da mesi in salotto, in modo tale da poter stare sempre insieme
e prendersi cura l’uno dell’altro. O almeno era quello che diceva sempre suo
padre, prima di iniziare ad avere mal di
testa.
Sua madre diceva che stava
chiuso in soffitta per non essere disturbato e poter guarire, ma lei non ci
credeva. Perché quando poteva ancora giocare in giardino e papà non voleva
essere disturbato, lei non poteva cantare o chiedere alla nonna di mettere la
musica. Tutti in casa dovevano fare piano per non disturbarlo mentre dormiva
sul divano, soprattutto la domenica pomeriggio, dopo essere tornato dalla
parrocchia.
Tutto era cambiato, era
diventato qualcosa di diverso da ciò che viveva quei giorni lontani. Non c’erano
più state feste di compleanno, né visite degli zii. Non aveva più avuto una
stanza e non aveva più potuto uscire in giardino a giocare. Suo fratello aveva
lasciato la scuola e i suoi genitori il lavoro.
Suo padre aveva iniziato ad
urlare notte e giorno, in continuazione, fino all’arrivo di quegli uomini.
Aveva continuato per un po’, costringendo la bambina a portarsi le mani sulle
orecchie, mezze nascoste dalle trecce corvine. Poi un boato di tuono, un tonfo
e un impenetrabile silenzio, rotto solo dai singhiozzi della fragile donna.
“Non potete prendere anche
lui?”, aveva domandato in un pigolio speranzoso, passando le dita fra le mani
di suo fratello.
Un’altra donna, arrivata mentre
veniva scortata fuori una barella coperta da un lenzuolo macchiato di sangue
nero e maleodorante, guardò il giovane uomo, poi scosse il capo. “Scusa, Lucia,
ma è troppo grande. A dodici anni non possiamo più prenderli nemmeno per
aiutarci come soggetti di controllo. Però Annalisa, d’altro canto, rientra nei
nostri parametri di riferimento per la selezione.”
“Ma lei ha solo sei anni…”
“Infatti è perfetta per il
nostro progetto. Le sue analisi lo attestano. Sarà al sicuro con w.c.k.d. e vivrà, studierà e lavorerà
per salvare tutti noi.”
Non ci furono parole di
commiato, né abbracci. La bambina di sei anni aveva la mano piccolissima dentro
quella della dottoressa.
Non le fu concesso di portare
niente con sé, avrebbe avuto tutto il necessario nella sua nuova casa.
Avrebbe dimenticato il volto
pieno di lacrime di sua madre e gli occhi irati del fratello.
Così come le ultime flebili le
ultime parole di sua madre.
“Non fatele del male, Mary.”
Continua…
Nda.
Eccoci qui con un nuovo
progetto mentre ho un corso una fan fiction lunghissima su un altro fandom.
Come si sul dire, quando l’ispirazione
chiama, non si può ignorarla.
Un paio di premesse, poi giuro
che smetto di scrivere, visto che il capitolo è già sufficientemente lungo.
Come avrete capito dal titolo,
saranno in tutto dieci capitoli, divisi in due blocchi da cinque, più prologo
ed epilogo.
Ho già plottato tutto,
pianificato tutto.
Non posso sgarrare questa volta,
finendo a scrivere una storia di sessanta capitoli, dai.
Devo credere in me e nelle mie capacità di sintesi.
Passando ai personaggi, come
sapranno i lettori più accaniti, la maggior parte di loro non mi appartiene.
Ximena, Sonya, Harriet, Rachel,
Alejandra, Beth e Miyoko infatti sono figlie di James Dashner. Con l’eccezione
di Harriet e Sonya e qual cosina su Rachel soprattutto in a Fever Code, però,
le altre sono un totale mistero quindi le prendo come figlie adottive e le caratterizzo
come penso sia più utile ai fini di trama.
Marie, Rita, Ronnie, Rose e
anche altre che verranno in futuro sono invece miei OC.
In particolare Marie, attorno a
quale gireranno la maggior parte delle vicende. Mi sono ispirata a Marie Curie
per il suo nome, il personaggio femminile probabile più emblematico che mi è
venuto in mente quando ho pensato a quale scegliere.
Una donna forte, senza paura,
che ha affrontato l’inferno per portare al mondo delle scoperte innovative sul
radio che hanno cambiato la scienza
(infatti lei ha due nobel e il marito uno. Yeah).
Anche Rita sarà molto
importante e voglio tanto bene anche a lei. (Rita Levi Montalcini, ovviamente).
La trama sarà abbastanza fedele
alla Graphic Novel uscita nel 2016 dove si parla proprio del labirinto B, però
cambierà su alcuni punti. Come per esempio la fine.
Che sarà approssimativamente nel
capitolo cinque.
Poi si passa alla narrazione
dei film. Ho scelto i film sui libri perché sono più sintetici e mi hanno dato
più spunti.
Per una fan fiction posso
farlo, via.
Spero che quanto avete letto
fino ad ora vi sia piaciuto.
Se siete arrivati fin qui
grazie davvero.
Spero di aggiornare il prima
possibile.
Un saluto.
Super Peace
C.L.