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Autore: Chemical Lady    02/04/2018    1 recensioni
Dal capitolo sette:
“Ieri notte Frypan ha chiamato il vostro labirinto la Radura”, soppesò la mora, mentre passava la bottiglia a Newt. Lui annuì, incoraggiandola a proseguire. “Doveva essere piacevole. Una radura, uhm? Non so nemmeno come è fatta. Però mi immagino un posto caldo, con dell’erba verde e degli alberi alti.”
“Odiavo quel posto”, la interruppe lui. “L’ho detestato ogni singolo giorno. Capisco cosa intendeva Frypan, ma preferirei essere morto al posto di Winston libero, piuttosto che farmi un altro singolo giorno in quel maledetto posto.”
“Il nostro Labirinto era diverso, sai? Molto diverso.” Lo guardò di soppiatto, come se non volesse farsi notare, prima di schiarirsi la voce. “Noi la chiamavano la Zona Tiepida. Praticamente vivevamo su un pendio di montagna, pietra e neve. Non avevo mai visto un luogo senza ghiaccio prima di uscire di lì. Né avevo mai indossato qualcosa di così leggero”, si concesse, sollevando il bordo della canottiera per avvertire il tessuto morbido al tatto sotto ai polpastrelli. “Nell’ultimo periodo iniziavamo tutte a crollare. Il freddo ci sembrava più intenso."
"Hai detto neve?"
Group B center - Presenza di OC
Genere: Angst, Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, FemSlash | Personaggi: Altri, Aris, Newt, Rachel, Un po' tutti
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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Prologo : Crollo Psicologico.

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Rachel

 

 

 

I'm paralyzed, I'm scared to live but I'm scared to die

And if life is pain then I buried mine a long time ago, but it's still alive

And it's taking over me where am I?I wanna feel something, I'm numb inside

(Paralyzed - NF )

 

 

 

 

Quando aprì gli occhi non incontrò nulla se non il buio che l’avvolgeva.

Ci mise diversi secondi a rendersene conto, ma si stava muovendo. Non lei però, bensì la stanza nella quale si trovava. Anzi no, non una stanza.

La Scatola.

Se mai avesse provato ad alzarsi, certamente avrebbe battuto il capo contro la  gabbia metallica che la avvolgeva, ma non ci sarebbe comunque riuscita. Il rumore della salita era assordante, composto dallo stridere del metallo e l’accrescere scatto degli ingranaggi. Urlò, cercando di contrastare quell’assordante cantilena, mentre teneva le mani alle orecchie, sperando che tutto finisse in fretta.

Di tanto in tanto, qualche luce al neon di un verde brillante illuminava la Scatola, mostrandole scorci di ciò che la circondava. Barili, casse di legno e sacchi di iuta ricolmi. Si strinse contro uno di esso, con le mani ancora strettamente ancorate alle orecchie e gli occhi pieni di lacrime stretti.

Poi tutto cessò.

Un assordante silenzio le penetrò i timpani, mentre l’oscurità più assoluta la faceva ora da padrona. Non poteva vedere nulla, non poteva sentire nulla. Il paralizzante terrore che le impediva anche di urlare, di liberarsi come aveva fatto il precedenza, ebbe la meglio su di lei.

Rimase così, statica contro quel sacco pieno di bordi spigolosi per quelle che le parvero ore, poi un tonfo la fece sussultare. Due porte di metallo pesante furono sollevate sopra al suo capo, permettendo alla luce di entrare. I suoi occhi cangianti soffrirono quell’improvviso cambio di luminosità e per un attimo non riuscì a vedere nulla. Le mani tremolanti si spostarono sulle palpebre per proteggersi, mentre un freddo secco e fastidioso la penetrava i polmoni ad ogni respiro.

Fu violento come uno schiaffo in pieno viso, tanto da rinvigorirla.

“Ei, nuova ragazza, svegliati. Sei arrivata a destinazione insieme al nostro cibo. Sbrigati a infilarti quel cappotto o congelerai e a noi toccherà costruire un’altra pira.”

“Ronnie! Non parlarle così! Non vedi che è terrorizzata?”

Mettere a fuoco le due figure che avevano appena parlato fu difficile per lei. Erano proprio sopra di lei e la stavano osservando. Prima di dedicarsi a loro però, registrate le parole aspre della prima, aveva tolto le mani dal viso e si era guardata attorno con aspettativa. Poco lontano da lei c’era un cappotto nero con una folta pelliccia bianca a rivestirne il cappuccio e l’interno. In un attimo lo infilò, prima di voltarsi verso le due giovani che la stavano accogliendo. Le focalizzò a fatica, ma appena i suoi occhi si abituarono alla luce, quella che le si palerò di fronte  fu una visione quasi rassicurante.

Erano sue coetanee. Forse. Non poteva saperlo visto che non ricordava di preciso la sua età. Una era alta, molto magra a giudicare dalla circonferenza della sua coscia, con addosso una giacca che la vestiva male, cadendole scomposta addosso per quanto era larga. Aveva enormi occhi da cervo, di un castano caldo e capelli neri come la pece, arruffati. Le arrivavano fino alle spalle in un dedalo di ricci scomposti, spettinati. Passò alla ragazza che la accompagnava una lancia, prima di fare un piccolo salto, scendendo un gradino e aprendo le ante della Scatola per liberarla.

Lei afferrò la mano che le venne porta dalla mora, mentre continuava ad osservare la sua compagna. Era l’opposto di lei, se possibile. La copia carbone. Alle lunghe gambe magre se ne sostituivano due più corte e piene, così come il viso in parte celato dal ingombrante cappuccio. Anche i suoi occhi erano castani, ma i capelli le cadevano lunghi sul petto piatto, nascosto da una pelliccia grigia. Erano del colore del grano maturo e si stupì di ricordarsi un immagine del genere, così come del concetto di scatola e ascensore, ma di aver completamente cancellato ogni ricordo di se stessa.

Era destabilizzante e avvilente come sensazione. Si sentiva impotente.

Sedette sul bordo della fossa con gli occhi sbarrati e la mora prese posto con lei. “Ora, non uscire di testa, va bene?”, le disse con tono secco, sistemandosi i guanti sulle mani con disinteresse. “Non sai chi sei, né dove sei. Scommetto che stai cercando disperatamente di ricordare il tuo nome, ma posso dirti chiaro e tondo che non tornerà facilmente. Forse ci vorranno anche due o tre giorni prima che tu possa riaverlo. Per adesso sei solo Una Ragazza, esattamente come tutte noi.”

“Tutte voi?”, azzardò con tono piccolo, prima di voltarsi di tre quarti per guardare anche la bionda.

Questa abbozzò un sorriso di incoraggiamento, “Siamo un piccolo gruppetto. Tutte arrivate qui come è successo a te, senza ricordi e senza nulla.”

“Esatto. Non abbiamo nulla se non quello che ci guadagniamo e quello che questi bastardi ci mandano ogni mese”, la mora diede un calcio a uno dei barili, che emise un flebile suono. Era pieno zeppo. “Ora, se vuoi, puoi prenderti un attimo. Urlare se ti aiuta, piangere se ti libera. Ma non metterti a correre in preda al panico, ok? Non abbiamo il tempo di metterci a cercarti per tutta la Zona Tiepida. I boschi sono impervi e i lupi famelici, senza contare che moriresti di freddo questa notte. Quindi non pensarci nemmeno a scappare. Non esiste una via di fuga da qui per il momento.”

Non seppe come reagire a quelle parole così dure, se non in un modo. Calde lacrime di frustrazione iniziarono a scorrere silenziose sul suo viso. Non urlò disperata, non fece una scenata, ma la sua voce grattò il fondo della gola quando a singhiozzi riprese a parlare. “Chi diavolo siete voi? Cosa volete da me?”

La mora sbuffò, alzandosi in piedi e recuperando la lancia con un gesto di stizza dalle mani della più giovane delle tre. “Questo è il motivo per cui questo genere di cose deve farle Ximena. Io non faccio parte del comitato di benvenuto.”

La bionda la guardò con espressione quasi esasperata, prima di chinarsi sulle ginocchia, appoggiando una mano sulla spalla della nuova venuta. “Io sono Rita”, si presentò finalmente, “Mentre questa scorbutica è Ronnie. Ora ti prego di seguirmi, non puoi rimanere così tanto qui fuori. Non sei abituata al freddo e potresti morire. Devo portarti alla Capanna e Ronnie deve trovare qualcuno che la aiuti a scaricare la Scatola.”

“Tu non intendi farlo, Rita? Lasci il lavoro duro agli altri come al solito?” La Ragazza si fece aiutare, mettendosi in piedi e sorreggendosi alla bionda. Le ginocchia le tremavano. Al contrario, Ronnie scese di nuovo nella Scatola e iniziò a guardarsi attorno con aria soddisfatta. A detta sua avevano mandato più cibo della volta precedente. Quando aprì una scatola di legno, un belare costante inondò l’aria facendo sussultare la Ragazza. Rita ridacchiò. “Un’altra capra!”, disse Ronnie contenta, sollevando il povero animale e tenendolo sotto al braccio. “Così potremo uccidere quella più vecchia e farci un buon stufato.”

Le due amiche continuarono a discutere di pasti e scorte per tutto il tragitto, mentre dietro di loro, la Ragazza camminava lenta guardandosi attorno. C’erano effettivamente boschi da ogni parte, neve e sentieri che la solcavano rendendo più semplice la camminata. C’era un pendio roccioso alle loro spalle e uno meno ripido sulla loro destra. Si strinse maggiormente nel cappotto, rabbrividendo ad ogni respiro.

Oltre le vette degli alberi si scagliavano delle mura grigie alte, a sfidare il cielo azzurro e privo di nubi.

Se quella era la Zona Tiepida voleva dire che esisteva anche una zona più calda? O magari una più gelida? E cosa erano quelle mura?

La Ragazza non lo sapeva, ma temeva per la risposta, così scelse di non chiedere.

 

 

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Nella  loro marcia verso la Capanna, incontrarono altre due ragazze. La prima camminava con passo deciso, tenendo appoggiata alla spalla quella che sembrava un’ascia dal manico in osso. Quando vide le due arrivare insieme alla nuova arrivata non fece una piega, limitandosi a scrutarla con espressione disinteressata. Aveva un viso bello, ma nonostante questo la sua espressione arcigna lo rovinava. La pelle olivastra e gli occhi sottili di un colore imprecisato, tanto da sembrare neri, facevano capolino da sotto un cappuccio color verde scuro. Anche lei aveva i capelli lunghi, castani e lisci, racconti qua e la da piccole ed elaborate trecce. L’opposto di colei che la accompagnava, che oltre a sorriderle teneramente, aveva sul capo quello che sembrava un miscuglio scomposto di dredlocks. “Io sono Harriet”, si presentò, porgendole la mano coperta da dei guanti di lana che le lasciavano scoperte metà delle dita. “Questa invece è Beth. Benvenuta nella Zona Tiepida.”

“Grazie”, sussurrò la Ragazza, quasi intimidita dalla gentilezza. Si sentiva quasi più a suo agio con Ronnie e Beth, perché era costantemente sulla difensiva. Non sapeva cosa le impediva di correre a perdifiato lontano da lì, forse l’ammonimento della mora che le aveva chiaramente illustrato le conseguenze di un simile gesto.

“Serve una mano alla Scatola, venite voi due?”

Beth annuì con un cenno secco del capo. “Stavamo venendo fin qui per questo”, fece presente, prima di interrompersi. “Portala a coprirsi di più e poi andate al Cimitero. Marie ha finito con Alex e hanno bisogno di una mano per stasera. Stanno ancora preparando le pire e devono ancora iniziare a scavare le fosse.”

A quelle parole, Rita perse colore sul viso. I suoi occhi si fecero vitrei, mentre Ronnie abbassava il capo, sospirando. Diede una pacca sulla spalla dell’amica, prima di far cenno alle altre di seguirla. Rimaste sole, la Ragazza fece un passo verso la bionda. Non ci fu bisogno di dire altro. Le sorrise, con una lacrima che le solcava la guancia sul lato sinistro del volto, prima di allungare un braccio.

“Siamo quasi a casa, vieni.”

 

Quella che Rita definiva casa non altro se non una capanna di pelli, pietre e travi di sostegno. All’esterno sembrava enorme e dentro anche di più. C’era una piccola zona recintata con quattro capre e due maiali che emanava un olezzo maleodorante.

“Lo so, non è il massimo”, disse la bionda quando notò dove lo sguardo della Ragazza si era fermato. “Ma non possiamo rischiare che i lupi uccidano i nostri animali. Se no addio latte a addio carne. Vieni, ti mostro i letti e ti do qualche vestito più caldo.”

La Ragazza annuì, smettendo di guardare uno dei due maiali, che dormiva della grossa in un angolo della recinzione. Si spostò verso la zona dei letti, che consisteva in un sistema di giacigli costruiti a castello, di legno, con quelli che sembravano materassi di lana di scarto e piume. Anche i cuscini avevano un’aria malconcia, ma le pelli appoggiate su ogni letto sembravano calde. La Ragazza si sentì così stanca che le sovvenne di chiedere se poteva dormire un po’, ma un altro dettaglio catturò la sua attenzione.

Urlò, quando riuscì a distinguere la sagoma nel buio.

“Non preoccuparti! È morto!”

Una bestia orribile, dalle grandi ali spiegate, pendeva dal soffitto alto della capanna. La visione grottesca le fece perdere l’equilibrio e finì sulle ginocchia, con le mani sulla bocca e gli occhi sbarrati.

“Perché è appeso lì! Che cosa è?!”

Rita si mise accanto a lei, appoggiandosi una felpa dall’aria calda e un paio di pantaloni scuri imbottiti sulle ginocchia. “Noi li chiamiamo Oscuranti”, iniziò cautamente. “Sono le creature notturne che infestano il Labirinto.”

“Labirinto?”, sillabò la Ragazza con tono spento.

Rita annuì piano. “Non dovrei essere io a parlartene, ma oggi è una giornata orribile e sia Ximena che Marie saranno impegnate. Avviciniamoci al Focolare e ti spiegherò tutto.”

Le porse la mano e seppure restia, la Ragazza la afferrò, lasciandosi condurre fino al centro della tenda dove ardeva un braciere circondato di pietre, con fiamme mediamente alte. Rita lanciò al suo interno un paio di pezzi di legno, prima di sedersi sul bordo dello scalino che separava il livello del pavimento dal fuoco, accanto alla nuova arrivata.

“Tutte noi siamo intrappolate qui, in quella che chiamiamo la Zona Tiepida. Il centro del Labirinto. Su gli altri quattro lati siamo circondate da pareti mobili che ogni notte cambiano posizione e rendono difficile la soluzione. Il solo modo che abbiamo per andare via, infatti, è risolvere il Labirinto. Lavoriamo quasi ogni giorno per mappare e tracciare nuovi percorsi, ma non è facile. Alcune di noi, le più forti, rimangono anche la notte là dentro, quando le porte si chiudono e gli Oscuranti escono fuori. Questo l’hanno ucciso Marie e Beth, insieme a una ragazza che si chiamava Rosie.”

“Chiamava?”

“Sì, è morta da tanto tempo. Io non l’ho nemmeno conosciuta.”

La Ragazza corrugò la fronte, confusa. Poi fece un calcolo veloce delle possibilità. I letti non erano molti, forse una dozzina. Lei era arrivata dentro la Scatola che, come aveva dedotto dalle parole di Ronnie, risaliva ogni mese.

Qualcosa non tornava.

“Quante siete?”

“Con te? Nove.”

“E tu da quanto tempo sei qui?”

Rita parve titubare a quel punto. A cosa serviva però mentire? “Un anno e tre mesi, oggi.”

Un’altra pausa, stavolta più lunga, più meditativa.

“Le ragazze che Ronnie ha citato…. Ximena e Marie…. Sono loro che governano questo posto?” Rita annuì a quelle parole. “Loro da quanto tempo sono qui?”

La bionda abbassò il capo, torturandosi l’unghia del pollice. La Ragazza colse il suo nervosismo. La risposta non le sarebbe piaciuta. “Loro non ne parlano quasi mai. Marie dice che il tempo è relativo in certe situazioni e a determinate condizioni, mentre Mena sostiene che risolvere il Labirinto richiede sacrificio e non possiamo fossilizzarci solo sul volere andare via, ma sul come farlo. In ogni caso, Marie ha confidato a Sonya da quanto è qui dentro. Da allora noi altre teniamo il conto senza farglielo sapere.”

“Quanto tempo?”

“Tre anni e cinque mesi. Ma Ximena è arrivata prima di lei. È stata la prima ad arrivare, Marie la seconda. Quindi possiamo ipotizzare tre anni e mezzo, circa.”

“E non lo avete ancora risolto?”

“Non è così semplice, posso assicurartelo.” Il crepitio del fuoco coprì un tremolio nel tono incerto della bionda. Quando riprese a parlare, la sua voce era ridotta a poco più di un sussurro. “La spedizione di ieri è stata un disastro. Abbiamo perso due nostre compagne, una mentre eravamo ancora nel Labirinto e l’altra è morta oggi, perché è stata punta.”

“Punta? Da cosa?”

Rita fece un cenno verso l’Oscurante. La Ragazza notò solo a quel punto che la coda dell’essere terminava in un pungiglione grande, opalescente. Deglutì. “Cosa ti succede quando vieni punto?”

Non arrivò una risposta. Rita si alzò in piedi dopo averle passato i vestiti. “Forza, dovremmo andare ad aiutare le altre, non possiamo perdere tempo. Ci sono delle regole qui, ma sarà Mena a dirtele. Intanto però puoi cambiarti e lasciare i tuoi vecchi vestiti su questo letto.” Appoggiandosi con il braccio alla trave di sostegno del letto a castello, le indicò uno dei posti sotto. “Qui dormiva Alejandra, proprio accanto a me.”

 

 

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Con dei vestiti più imbottiti e degli scarponcini adatti a camminare sulla neve, la Ragazza si sentì meno esposta una volta lasciata la Capanna al seguito di Rita. Aveva notato una macchia di sangue sulla punta di una delle due scarpe, ma non aveva domandato a chi fossero appartenute prima di arrivare a lei. Non voleva sovraccaricare la bionda di domande, soprattutto perché le era parsa molto provata dall’ultimo dialogo che avevano avuto. Ironicamente la stava tranquillizzando avere un quadro più preciso della situazione. Un quadro orribile, pieno di dettagli raccapriccianti e con una prospettiva di molti anni vissuti in quel luogo claustrofobico, ma più concreto.

Il non sapere era molto peggio dell’ignoranza, per lei.

“Viviamo per lo più di caccia e pesca”, spezzo il silenzio la bionda, camminandole accanto con le mani ben affondate nelle tasche della pelliccia. “Tutto ciò che non possiamo procurarci da sole arriva ogni mese dalla Scatola. Non riusciamo a coltivare praticamente nulla, eccetto qualche erba per lo più selvatica. Mena fa degli infusi quando ci ammaliamo o creme per le ferite.”

“Ogni mese nella scatola arriva anche una ragazza, insieme al cibo?” Rita annuì. “Tre anni e mezzo e solo nove ragazze? Le altre che fine hanno fatto?”

“Sono morte”, rispose Rita, parlando piano, come se fosse una confidenza incredibilmente dolorosa da fare. “Oppure sparite, inghiottite dal Labirinto. Alcune di loro si sono suicidate, altre sono impazzite e abbiamo dovuto far si che il gruppo rimanesse al sicuro.”

“Le avete uccise?”

“Le abbiamo mandate da sole nel Labirinto la notte senza Marie. Lei è la sola che sa come comportarsi quando cala il sole fra quei muri. Quando catturiamo gli Oscuranti rimaniamo la dentro anche per giorni interi.”

La Ragazza si bloccò sul posto, costringendo anche l’altra a fermarsi. “Perché li catturate?”

“Perché hanno degli strani aggeggi dentro al corpo. Ognuno di loro indica una delle alee del Labirinto. Dobbiamo raccoglierle tutte e otto se vogliamo risolverlo. Queste cose però potranno spiegartele meglio le altre, perché io-”

“Quante ne avete per ora?”

Rita si morse il labbro. “Sette. Sono quasi dieci mesi che siamo ferme a sette. Uccidere un Oscurante richiede molto tempo e molte persone abili a combattere. Molti fallimenti, come quello di ieri.”

Non ci furono altre domande. Il tono con cui aveva risposto all’ultima Rita non ammetteva spazio. La Ragazza lo accettò, meditando sul fatto che per lei doveva essere dura riportare alla mente tutte quelle vicende dolorose.

Comprese davvero la portata della tragedia che si consumava fra quelle pareti di ghiaccio solo quando raggiunsero quello che poteva essere solo il Cimitero. Si apriva su di una zona pianeggiante che arrivava a toccare le pareti del Labirinto. Lungo tutto quello spazio si distendevano a perdita d’occhio dei pali conficcati nel terreno coperto di neve. Attaccato ad ogni palo, la Ragazza lesse un nome. Erano così tanti che non fu in grado di contarli. Anne, Margareth, Rose, Helen, Natasha, Simone, Nina, Charlotte…

Le mancò il fiato al pensiero che un giorno, se non fosse stata attenta, anche il nome che prima o poi avrebbe ricordato sarebbe stato inchiodato ad un palo di legno nel terreno, in mezzo a un campo fiorito con molti altri.

Le ragazze che ogni mese arrivavano con la Scatola che non erano li con loro.

“Immagino che questa sia la nuova arrivata.” Una ragazza alta, dalla pelle scura e i capelli lunghi tenuti insieme da tante treccioline sottili si fece avanti, porgendole la mano. “Io sono Ximena. Scusami per la pessima accoglienza, ma purtroppo abbiamo avuto un contrattempo. Ieri abbiamo perso delle persone a cui volevamo bene e ci siamo quasi dimenticate che oggi è il giorno della Scatola.”

“No io-non c’è problema. Mi dispiace per la vostra perdita.”

“Come è calma”, constatò Mena, rivolgendosi a Rita. “Sospetto. Di solito le ragazze che arrivano piangono, strillano o non vogliono lasciare la Capanna.”

“Ha già pianto”, rispose la biondina, scostando un mucchietto di neve con la punta del piede mentre sollevava il mento, che aveva tenuto affondato nel cappuccio fino a quel momento. “Le ho spiegato un po’ di cose, ma non tutte.”

“Ci sarà tempo per il resto, ma ora venite tutte e due. Dobbiamo finire il lavoro prima che tramonti il sole.”

Fece strada lungo un sentierino fino a una zona più distante, ma che faceva sempre parte dello spiazzo. Lì c’erano tre giovani, le ultime tre che mancavano per le presentazioni.

Stavano lavorando tutte a tre a una piattaforma di legno. La prima che vide se ne stava seduta su una roccia, a dividere dei rametti per creare delle pile di stecchi. Stava piangendo. Copiose lacrime scendevano dagli occhi neri dal taglio orientale, mentre i capelli altrettanto scuri le cadevano sulle spalle ogni volta che esse sussultavano per un singhiozzo.

Le altre due invece stavano fissando dei tronchi con delle funi.

Quando furono abbastanza vicine la Ragazza notò quelli che erano chiaramente due corpi, nascosti da due teli scuri. Le si torse lo stomaco e le venne la nausea. Forse non aveva mai visto un cadavere prima di allora, ma non poteva saperlo, non avendo conservato alcun ricordo.

“La Ragazza deve conoscere gli ultimi membri del gruppo”, disse Mena, che era stata informata degli incontri che erano avvenuti in sua assenza. “Quella lì in disparte è Miyoko. La biondina invece è Sonya. L’altra, che è così maleducata da non avere avuto nemmeno l’accortezza di salutare o voltarsi verso di noi è Marie. Non farci caso, ignora tutti.”

“Siamo convinte che finga di essere qui da sola la maggior parte del tempo”, Sonya le sorrise, avvicinandosi. La abbracciò, lasciandola senza parole. “Benvenuta fra noi.” Quando si staccò, la guardò negli occhi, infondendole subito una nuova sicurezza. Poi si rivolse alla ragazza di colore. “Non dovrebbe rimanere alla Capanna? È appena arrivata, sarà disorientata.”

“A me non sembra. Anzi, meglio che ci dia una mano. Vedere cosa succede quando non si fa attenzione la fuori la aiuterà in futuro.”

La voce di Marie era molto diversa da come la Ragazza l’aveva immaginata. Era sottile, estremamente femminile, con una nota acuta quasi infantile. Il suo viso anche le ricordava quello di una bambina, nonostante avesse l’età delle altre. Forse erano i grandi occhi grigi come il cielo in tempesta, oppure la treccia spettinata che cadeva sulla sua spalla destra e terminava in un fermaglio di legno inciso con un motivo floreale sopra. Forse era anche la sua altezza, modesta rispetto quella delle altre ragazze.

Era minuta, molto minuta per essere la giovane che Rita aveva tanto elogiato come combattente ed esperta di sopravvivenza.

Eppure doveva essere proprio lei e la Ragazza lo capì solo quando si guardarono negli occhi.

In quelle iridi lesse il peso di tutte e tre quegli anni e anche molto, molto di più.

“Ragazza, ti presento il nostro Capo delle Spedizioni con tanto di sensi di colpa annessi. Appena qualcuna di noi ci lascia le penne puoi star certa che Marie diventerà una vera stronza. Sai perché? Incolpa se stessa.”

La mora assottigliò gli occhi nella sua direzione. “La fuori ognuno è solo. Ognuno è artefice del suo destino. Io non sono la balia delle altre.”

“Allora dillo a te stessa, perché a me non mi freghi: ti conosco da sempre.” Le due si scambiarono uno sguardo che inizialmente fu di sfida, ma poi andò ad affievolirsi. Marie tornò alle funi e Mena sospirò, passando una mano sul viso fino alle labbra grandi e screpolate dal freddo. “Siamo tutte stanche. So che non è un gran biglietto da visita ma è meglio che tu lo sappia da principio; questo mese abbiamo seppellito quattro nostre compagne. Due la settimana scorsa a distanza di tre giorni e adesso Jules e Alex.” Si fece più vicina, appoggiandole le mani sulle spalle. “Qualsiasi cosa accada, devi rispettare le nostre cinque regole d’oro”, staccò una mano, iniziando ad enumerarle. “Prima regola, nessuna di noi è esente dal rispettare gli ordini. Se ti dico di scappare, se Marie ti dice di tagliare la fune, tu fallo. È giusto aiutarci a vicenda ma chi indietro rimane, indietro viene lasciato. Avere due morti invece di uno solo non ha senso. Rispetta la gerarchia di comando e fidati ciecamente delle indicazioni che ti verranno date da coloro che vivono qui da più tempo e te la caverai. Regola numero due, ognuna di noi ha un compito fisso e uno giornaliero ed entrambi devono essere portati a termine con le proprie forze, perché non abbiamo bisogno di pesi morti. Regola numero tre, devi imparare a resistere al gelo della Zona Tiepida se vuoi sfidare il Labirinto, diventando una Mappatrice come le altre. Le prime due settimane le passerai qui ad adattarti. Oggi sei fortunata, non c’è aria di tempesta, ma non sarà sempre così caldo.” La Ragazza sgranò gli occhi, chiedendosi che concetto avessero di caldo in quel posto. “Quarta regola, ognuna di noi deve allenarsi ogni giorno per essere sempre in forma e in salute. Anche in quei giorni del mese in cui le ragazze stanno male, tu ti allenerai. Ognuna di noi deve sapere fare quattro cose: tirare con l’arco per poter cacciare, usare la lancia per difendersi, saper fare i nodi per l’arrampicata e imparare a pattinare, perché il Labirinto è anche chiamato la Zona Ghiacciata. Solo con i pattini puoi affrontarlo.”

“Hai dimenticato la cosa più importante.” Marie la interruppe, appoggiandosi alla pila di legna solida. “Correre. Qui corriamo davvero molto, oltre che scivolare sul ghiaccio.”

“Giusto”, la assecondo Mena, prima di fare mente locale. “Ora la regola più importante, ovvero la quinta: il Focolare della Capanna non deve mai e poi mai spegnersi. Per noi, rappresenta tutto ciò che siamo, è un simbolo. Brucia da quando la Capanna è stata eretta: le cose hanno iniziato a funzionare un po’ meglio e le persone a sopravvivere. Quel fuoco siamo noi, Ragazza. Io, te e le altre. Fino a che rimarremo unite e quelle braci accese, allora arderà anche la speranza di ritrovare la strada di casa. Ovunque essa sia. Pensi di poterle ricordare?”

La Ragazza annuì “Sì, posso farlo.”

“Sono anche scritte nella Capanna, comunque”, suggerì Sonya, fingendo disinteresse e ricevendo come premio una palla di neve in pieno viso da Miyoko. Le venne restituita subito, strappandole una mezza risatina e stoppando così le sue lacrime.

Mena le guardò con espressione quasi materna, incrociando le braccia sul petto. “Rispettale, Ragazza”, disse quindi, riportando su di lei l’attenzione del nuovo arrivo “Rispettale tutte e anche tu sarai una Icer, come noi.”

 

 

 

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“Oggi dovremmo festeggiare, come ogni mese, il nuovo arrivo e le scorte alimentari. Però non ci è concesso. E non ci è concesso perché abbiamo perso due amiche importanti, due sorelle e due valide alleate. Questa sera celebriamo la vita e la morte di Julia e Alejandra.”

La Ragazza non riusciva a staccare gli occhi dalla pira. Su di essa, supine, erano stese due delle ragazze che l’avevano preceduta in quel posto. Una delle due era mora, con i capelli ricci e la pelle scura, mentre l’altra al contrario sembrava fatta della porcellana più raffinata, tempestata di lentiggini accese e con i capelli lunghi e rossi come il fuoco. Alejandra, la precedente posseditrice del suo letto. Mentre di Jules era rimasto poco da cremare, la rossa sembrava addormentata. Delle orrende linee nere le solcavano la guancia destra, come lividi ma del colore del petrolio, ma per il resto era intatta, perfetta.

Bellissima.

“Julia è caduta dalla parete di ghiaccio”, le sussurrò Rita mentre Harriet distribuiva i bastoni che fungevano da torce a tutte.

“Diciamo che è stata fatta cadere”, si intromise senza tatto Beth. “Chi si stacca dalla parete durante l’arrampicata è un pericolo per le altre. Marie ha fatto tagliare la corda.”

“Chi l’ha tagliata?”

Beth si voltò verso la Ragazza, impassibile. La torcia le illuminava metà del volto. “Io.”

“Vorrei poter dire che il loro sacrificio non è stato vano”, proseguì Ximena, mentre il nodo nello stomaco della Ragazza di stringeva ancora di più. “Vorrei poter dire che potevamo impedirlo. Ma sarebbero tutte stronzate. Ieri abbiamo fallito, tutte noi, ma a pagare il prezzo della nostra mancanza di abilità sono state loro. Ogni volta che una di noi muore io domando sempre al resto del gruppo di pensare a ciò che è successo, prima di dormire. Ma non ve lo chiederò più. Ve lo ordino. Ora. Pensate a cosa è andato storto e sistematelo nelle vostre menti. Incolpatevi, piangete e pensate che dovreste esserci voi al loro posto. Poi accendete il fuoco e bruciate via questo sentimento, lavatelo con le fiamme e  scacciatelo lontano perché sarà la paura di fallire di nuovo a sconfiggerci. Ma noi non perderemo questa guerra. Non faremo vincere loro.”

Marie, senza battere ciglio, avanzò. Fu la prima ad appoggiare la torcia contro gli stecchi di legno, dando fuoco alla pira. Fu la prima a bruciare i suoi sensi di colpa e ad allontanarli.

Le altre non si mossero.

Mena osservò la mora tornare indietro, mentre il piccolo incendio iniziava a divampare accanto al viso deformato dalla caduta di Jules. “Un giorno”, proseguì il leader, guardandole tutte, una ad una, “Noi usciremo di qui. Non tutte, certo. Ci saranno altri falò e ci saranno altri arrivi prima che succeda. Prima che l’arcano sia svelato. Ma alcune di noi ce la faranno. Vedranno un cielo azzurro e sconfinato, senza più mura. Vedranno il mondo, vedranno ciò che esiste fuori da questo incubo. Allora ricorderanno ogni singolo falò, ogni singolo volto. E saranno libere anche per coloro che non ce l’hanno fatta ad arrivare fino in fondo. Perché sono già libere. Alex e Jules ora sono libere, non devono più lottare. Possono riposare accanto alle loro sorelle, mentre noi ci impegniamo a riprendere dove abbiamo lasciato. Da domani e per ogni giorno, sino a che non saremo nella terra o oltre le mura del Labirinto.”

Sonya e Harriet avanzarono a loro volta, appiccando il fuoco in altri due punti.

Una ad una, tutte quante lo fecero, in silenzio. Tutte, eccetto Ximena.

Lei rimase ferma sulla sua posizione, guardando le fiamme libere ingrossarsi divorando i corpi delle sue compagne cadute. Poi, senza aggiungere altro, fece un cenno a Ronnie.

La mora annuì e prese una cassa di legno, iniziando a distribuire dei vasetti di vetro pieni di una strana sostanza gialla.

Tutte presero a bere, eccetto la Ragazza che annusò prima.

“La chiamiamo l’Intruglio”, le rivelò Rita, con un piccolo sorriso incoraggiante, “Una ricetta di Beth, segreta. Sappiamo solo che lascia marcire le mele per farla. Un sorso di questa roba e la tua mente si sentirà meglio.”

La Ragazza annuì piano, abbassando la fiamma per guardare meglio il contenuto del vasetto. Rita la fermò, “Attenta, prenderai fuoco.”

“Cosa diavolo vuoi farmi bere?”, domandò stranita, prima di guardarsi attorno. Tutte stavano bevendo eccetto Miyoko, che se ne stava in piedi col capo appoggiato alla spalla di Sonya.

“Tu bevi e piantala con le domande.”

La Ragazza sospirò pesantemente, prendendo un piccolo sorso. Definirlo sorso era quasi un insulto però. Appena si bagnò le labbra, storcendole subito dopo a causa del sapore forte e alcolico della bevanda. Che fosse fatta di mele era innegabile, ma doveva ammettere che era parecchio forte per essere composta solo con esse. Rispettò però l’ordine di non fare ulteriori domande e al terzo sorso non le parve più così male.

Dovette sedersi poco dopo.  

Si ritrovò così accanto a Marie, su un tronco di albero caduto, con il vasetto stretto fra le mani e il mondo attorno a lei che girava. Dovette concentrarsi per sentire cosa stava dicendo la mora.

“…entro  l’alba. Non appena la pira si spegne, insomma.”

“Consideralo fatto”, le stava rispondendo Harriet, “Chiederò a Sonya di aiutarmi.”

“No”, rispose la mora, tenendo il vasetto con una sola mano e guardando il liquido al suo interno, mentre lo faceva roteare piano. “Lei lo ha fatto la volta scorsa. Ti aiuterò io a seppellire le ossa. Quando il sole sfiorerà le punte degli alberi voglio già essere alle porte del Labirinto. Abbiamo lasciato dentro quattro rampini e delle funi per portare fuori Jules e Alex. Va recuperata l’attrezzatura e segnato il muro di ghiaccio. Quello non va bene. Non abbiamo abbastanza presa. Dobbiamo trovarne un altro.”

“Quando ucciderete l’ultimo Oscurante?”

La Ragazza non si era nemmeno accorta di averlo davvero chiesto. Si stupì da sola per quella domanda sopra alle righe, soprattutto viste le circostanze. Harriet infatti alzò le sopracciglia, mentre uno sbuffo di condensa si formava di fronte alle sue labbra schiuse.

Marie rispose per prima, comunque. “Quando avrò almeno cinque persone in grado di farlo. Dobbiamo essere almeno in sei per ucciderne uno solo. Ora come ora, non abbiamo abbastanza persone. Ma questo non ti riguarda per adesso. Da domani sarai la guardiana del fuoco.”

“Vero, la nuova arrivata deve badare al fuoco e agli animali”, si inserì Mena, battendo una mano sulla spalla della Ragazza. “Rita è promossa. Quale mansione è libera per lei?”

Marie ci pensò, assottigliando gli occhi. Poi prese un altro sorso. “Alex era l’addetta alla raccolta dell’acqua. Direi che essendo un bene di primaria importanza, dovrebbe fare questo.”

“Perfetto, glielo vado a riferire”, convenne Harriet, allontanandosi verso il piccolo gruppetto nel quale Rita e le altre si erano accomodate, su di un enorme masso circolare.

Un rumore orribile, come un grido bestiale, seguito da dei rumori meccanici, simile a quello degli ingranaggi della Scatola, arrivò dalle sue spalle. Nessuna delle altre ci fece troppo caso, ma la Ragazza si voltò di scatto guardandosi alle spalle.

“Il Labirinto che cambia.” Marie rispose alla domanda implicita che non aveva lasciato le labbra della nuova arrivata, poiché non aveva avuto il tempo per formularla. “So cosa stai pensando. Tutto è spaventoso e orribile. Non sai chi sei né cosa farai e come primo ricordo della tua vita, forse fino alla fine di essa, avrai un funerale e un posto orrendo come questo. Però vedi il lato positivo.”

La Ragazza deglutì. “Quale sarebbe?”

“Abbiamo questo”, rispose Marie, alzando il vasetto. “Ne abbiamo tanto. E se ne bevi abbastanza almeno ti addormenterai.”

Non sembrava il migliore dei piani, ma senza un aiuto, sicuramente, la Ragazza non si sarebbe mai addormentata quella notte. Così prese un altro sorso, mentre il livello si abbassava inesorabilmente. Cercò di cambiare argomento. “Quali sono i compiti delle altre?”

Marie guardò il gruppo di amiche, facendo scivolare le dita della mano libera sotto alla manica del cappotto. Tirò un piccolo bracciale di cuoio intrecciato, iniziando a giocherellarci senza nemmeno rendersene conto, probabilmente. “Allora vediamo. Ximena come avrai capito è il grande capo.” Il ragazza di colore ridacchiò a quelle parole, alzando il vasetto come per dedicare al suo braccio destro un brindisi, dirigendosi poi a piccoli passi verso le altre. “Si occupa di noi come una madre, tiene insieme il gruppo e gestisce tutta la baracca. Poi ci sono Harriet e Sonya, le nostre migliori Mappatrici. Passano ore e ore su dei vecchi fogli ingialliti pieni di scritte, annotazioni e righe. Hanno la memoria migliore così ogni sera, quando torniamo dal Labirinto, indipendentemente da quanto abbiamo esplorato, aggiornano le mappe. Miyoko è l’addetta alla cura degli animali, infatti rimarrà con te fino mentre noi siamo fuori. Non possiamo lasciarti sola, non sappiamo se e quando impazzirai.”

“Non impazzirò”, si difese con tenacia la Ragazza, ricevendo come risposta una occhiata un po’ scettica. “Non lo farò. Posso farcela. Posso sopravvivere.” Marie annuì piano, facendo per proseguire, ma lei aveva una domanda. “Miyoko è l’ultima arrivata prima di me?”

La mora scosse il capo. “No. Quella è morta. Si chiamava Kara mi pare. E anche quella prima è morta, ma lei prima ancora di scoprire il suo nome. Brutta idea cercare di scappare da sole. Poi si rimane chiuse nel labirinto e semplicemente non vieni più trovata.” Fece una pausa, pensandoci su. “No, Miyoko è qui da oltre un anno ma non è abbastanza forte o coraggiosa per poter gestire la pressione. Quando posso non porto né lei né Rita. Non voglio pesi morti. Ronnie e Beth invece sono brave. Sono rispettivamente l’addetta alle scorte alimentari e la prima cacciatrice. Sanno come muoversi la fuori. Lo sapevano anche Alex e Jules comunque. Erano davvero brave, abbiamo subito delle perdite considerevoli.”

“Il tuo compito invece qual è? Eccetto valutare il valore di una persona dalla velocità con cui pattina, ovviamente.”

Marie sbuffò una mezza risata, girandosi di tre quarti a guardarla. “Come, scusa?”

“Fai la dura, la tenebrosa, ma te lo si legge in faccia che ti senti uno schifo”, rincuorata dalla bevanda, la ragazza non si trattenne. Prese un sorso lungo  prima di proseguire. “Quindi quale è tuo compito del secondo in comando?”

“Io sono il capo delle spedizioni nel Labirinto.”

“E cosa comporta questa carica?”

“Tracciare nuovi percorsi sicuri, tenere sotto controllo la strumentazione, addestrare le altre e…” Marie abbassò gli occhi sul  braccialetto, prima di guardare la pira. “Impedire che succeda questo.”

La Ragazza ridacchiò piano, annebbiata dai fumi dell’alcool. “Non sei molto brava nel tuo lavoro, allora.”

Non ci fu una risposta a quella provocazione. Marie prese un lungo respiro, chiudendo gli occhi e irrorando i polmoni di ossigeno. Poi, senza battere ciglio si alzò, lasciando il suo vasetto a terra.

Ciò che successe dopo fu confuso agli occhi della Ragazza. Non notò nemmeno la gamba che si alzava, ma il calcio che le arrivò in testa fu così forte da buttarla riversa nella neve, con il volto infilato nel mantello bianco gelido che ricopriva il suolo.

Tossì, sputando sangue quando si accorse di avere il labbro rotto. Aveva sbattuto contro una roccia. Voltò il capo verso Marie, che la guardava dall’alto con una scintilla di sfida negli occhi di ghiaccio e le mani infilate nelle tasche del giaccone nero.

“Che diavolo hai fatto?!”, le urlò Ximena, mentre tutte si voltavano a guardare la scena, senza proferire parola. La donna di colore stava per chinarsi sulla Ragazza per aiutarla, ma le parole del suo secondo la fermarono.

“Mi ha provocata”, rispose con tono pacato Marie, ma con una vibrazione nella voce che faceva presagire che in realtà si stesse solo trattenendo. “Ha messo in dubbio la mia posizione e ha lanciato lei la prima pietra. Come abbiamo sempre fatto ti chiedo di farti da parte e lasciare che la risolviamo noi due. Lo ha praticamente chiesto lei.”

La giovane a terra si tolse la neve dai capelli castani, prima di rimettersi in piedi traballante.

Mena la osservò, prima di farsi da parte. “Se è andata così, allora faremo come abbiamo sempre fatto”, acconsentì, facendosi da parte. “Solo non ucciderla.”

“Non mi leverò il gusto di vederla morire rimanendo qui dentro.”

Quelle parole smossero qualcosa nella Ragazza. Nonostante la neve e il colpo l’avessero fatta rinsavire abbastanza, si sentiva ancora il capo leggero e incapace di ragionare lucidamente. Quando arrancò una corsa goffa nella neve verso l’altra, Marie non dovette far altro se non scansarsi e guardarla cadere di nuovo a bocconi. Non tolse mai le mani dalle tasche.

Le sferrò un altro calcio, più forte del precedente, nel costato. Quasi la sollevò da terra tanto fu forte. Poi saltellò sulla gamba di appoggio per tenere l’equilibrio aspettando una risposta.

La Ragazza boccheggiò per il dolore e poi vomitò tutto quello che aveva bevuto, insieme al poco che aveva mangiato per cena, prima del falò.

Fu solo dopo aver buttato fuori tutto quello che aveva nello stomaco che riuscì a rimettersi seduta, pulendosi di nuovo il mento con il guanto.

Allora si voltò verso Marie, trattenendo il respiro.

I suoi occhi erano pieni di lacrime.

“Rachel”, sussurrò a se stessa, per poi gridarlo a pieni polmoni affinché tutte sentissero. “Il mio nome è Rachel!”

 

 

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“Le botte fanno sempre tornare la memoria a tutti. Anche a Beth è successo, vi ricordate? Marie le ha spaccato un bastone sulla schiena et voilà!”

Sonya sembrava euforica nel raccontare quell’ennesima riprova dell’indole poco incline al dialogo del capo delle spedizioni. Dal canto suo, la diretta interessata non diede peso a quelle parole. Si sistemò sotto alle pellicce, alzando il braccio verso la parte superiore del letto, mentre accanto a lei Sonya sorrideva giuliva, accozzandosi al suo fianco. Marie non sapeva nemmeno dire da quando avevano iniziato a dormire insieme, ma così facendo scongiuravano i geloni notturni ai piedi quindi le stava bene.

Continuò a non commentare, mentre Ximena passava accanto alla loro postazione con una tazza in mano e andava a sedersi sul letto di Rachel, passandole il contenitore ricolmo di un profumato infuso rosato.

“Ribes, lampone e un po’ di limone per la nausea. Il limone è estremamente raro, ce ne mandano poco, quindi ritieniti fortunata.”

“Lo sono ad avere un nome già dalla prima sera”, rispose la castana, portando la tazza al labbro e storcendo la bocca per il dolore che le dava il labbro rotto. Se lo sfiorò con la punta delle dita, prima di abbassare di nuovo entrambe le mani, scaldandole contro la porcellana. “Dovrei ringraziare?”

“Ti prego non farlo o penserà di aver fatto bene a pestare una persona ubriaca.”

Gli occhi cangianti di Rachel cercarono la figura di Marie e la trovarono in fretta, sempre stesa accanto alla bionda che le parlava concitata dei festeggiamenti che Mena aveva indetto per il giorno successivo.

Nessuna missione, eccetto quella di recupero degli strumenti. Avrebbero dato il loro benvenuto a Rachel come si doveva, cucinando della carne e bevendo fino a finirci tutte, a carponi.

Accantonando ogni problema e ogni lutto almeno per ventiquattro ore.

“Non sembra provare molto rimorso nell’averlo fatto però.”

“Lei non ha mai fatto nulla di cui si pente, a quanto ricordo.” Ximena accavallò le gambe, passando una mano su una delle pellicce che avvolgevano Rachel. “Ha un codice tutto suo di ragionamento.”

“Ovvero?”

“Prendere sempre la scelta migliore per tutti, senza avere rimpianti. Voleva insegnarti qualcosa stasera.”

Rachel si chiese cosa. Che era più forte di lei? Che quello era un luogo pericoloso e che non doveva permettersi di discutere con coloro che lo conoscevano così bene?

Forse voleva solo impartirle una lezione.

“Devo meritarmi di stare qui. Devo essere abbastanza forte per sopravvivere.”

Mena ridacchiò sotto i baffi. “Oh beh, ha funzionato davvero allora.” Non aggiunse altro, se non ordinare a Ronnie di spegnere le torce e fare il primo turno al fuoco. “Quando sarà stanca ti sveglierà e prenderai il suo posto. Da oggi questo è il tuo compito: tenere acceso il Focolare. Conoscendola però ti lascerà riposare. Hai preso un paio di calci notevoli.”

“Mena, posso farti una domanda?”

La voce di Rachel uscì bassa, incerta. Così tanto che la giovane di colore dovette sporgersi verso di lei per sentirla. Una cascata di treccine fini scivolò in avanti, coprendole in parte il volto. Le scostò di lato, rivelando una cicatrice vicina all’attaccatura dello scapo e un pezzo di orecchio che le mancava, tranciato di netto da chissà cosa.

Rachel la guardò negli occhi, cercando di concentrarsi solo su quelli, quando finalmente trovò il coraggio di chiederlo.

“Di tutte le ragazza Marie sembra la più persa”, ammise alla fine, sperando vivamente di non venire sentita. Stava parlando così piano però che a mala pena poteva udirsi da sola, quindi continuò. “Mi chiedo solo…. Quando ha avuto il suo crollo psicologico? E perché le permetti ancora di comandare?”

Mena parve stupita all’iniziò. Non comprese.

Poi le passò una mano sul capo, in un gesto affettuoso. Famigliare.  “Posso garantirti che di tutte noi, Marie è quella che ha più la testa sulle spalle, qui”, le rispose, non curandosi del tono.

Rachel arrossì appena, sentendosi una stupida.

“Come mai?”

Mena sorrise. Sembrava triste, all’improvviso.

“Perché lei è la sola convinta di avere qualcuno, là fuori, da cui tornare.”

 

 

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Undici anni prima.

Occhi grandi, specchio di paure che nemmeno potevano essere comprese a pieno, spiavano dalla fessura dietro la porta. Essi videro quegli uomini sconosciuti e vestiti di nero, dai volti celati, entrare e uscire dalla casa sua. Suo padre urlava, chiuso nella mansarda, sbattendo furibondo le mani e producendo dei suoni così potenti da far vibrare tutto il soffitto e cadere la polvere fin sopra il suo capo.

Sua madre sussultava ad ogni colpo. Il suo corpo, fragile come quello di un uccellino, vibrava come un ramoscello sospinto dal vento, mentre si stringeva con forza a lei e a suo fratello, il quale aveva il volto teso e livido di una collera repressa.

Nessuno parlava. Nessuno disse nulla, mentre quelle persone invadevano la loro casa dalle finestre sprangate e ricoperte di carta da regalo a fiori o natalizia, così da renderle meno cupe. Ormai dormivano da mesi in salotto, in modo tale da poter stare sempre insieme e prendersi cura l’uno dell’altro. O almeno era quello che diceva sempre suo padre, prima di iniziare ad avere mal di testa.

Sua madre diceva che stava chiuso in soffitta per non essere disturbato e poter guarire, ma lei non ci credeva. Perché quando poteva ancora giocare in giardino e papà non voleva essere disturbato, lei non poteva cantare o chiedere alla nonna di mettere la musica. Tutti in casa dovevano fare piano per non disturbarlo mentre dormiva sul divano, soprattutto la domenica pomeriggio, dopo essere tornato dalla parrocchia.

Tutto era cambiato, era diventato qualcosa di diverso da ciò che viveva quei giorni lontani. Non c’erano più state feste di compleanno, né visite degli zii. Non aveva più avuto una stanza e non aveva più potuto uscire in giardino a giocare. Suo fratello aveva lasciato la scuola e i suoi genitori il lavoro.

Suo padre aveva iniziato ad urlare notte e giorno, in continuazione, fino all’arrivo di quegli uomini. Aveva continuato per un po’, costringendo la bambina a portarsi le mani sulle orecchie, mezze nascoste dalle trecce corvine. Poi un boato di tuono, un tonfo e un impenetrabile silenzio, rotto solo dai singhiozzi della fragile donna.

“Non potete prendere anche lui?”, aveva domandato in un pigolio speranzoso, passando le dita fra le mani di suo fratello.

Un’altra donna, arrivata mentre veniva scortata fuori una barella coperta da un lenzuolo macchiato di sangue nero e maleodorante, guardò il giovane uomo, poi scosse il capo. “Scusa, Lucia, ma è troppo grande. A dodici anni non possiamo più prenderli nemmeno per aiutarci come soggetti di controllo. Però Annalisa, d’altro canto, rientra nei nostri parametri di riferimento per la selezione.”

“Ma lei ha solo sei anni…”

“Infatti è perfetta per il nostro progetto. Le sue analisi lo attestano. Sarà al sicuro con w.c.k.d. e vivrà, studierà e lavorerà per salvare tutti noi.”

Non ci furono parole di commiato, né abbracci. La bambina di sei anni aveva la mano piccolissima dentro quella della dottoressa.

Non le fu concesso di portare niente con sé, avrebbe avuto tutto il necessario nella sua nuova casa.

Avrebbe dimenticato il volto pieno di lacrime di sua madre e gli occhi irati del fratello.

Così come le ultime flebili le ultime parole di sua madre.

“Non fatele del male, Mary.”

 

Continua…

 

 

 

Nda.

Eccoci qui con un nuovo progetto mentre ho un corso una fan fiction lunghissima su un altro fandom.

Come si sul dire, quando l’ispirazione chiama, non si può ignorarla.

 

Un paio di premesse, poi giuro che smetto di scrivere, visto che il capitolo è già sufficientemente lungo.

Come avrete capito dal titolo, saranno in tutto dieci capitoli, divisi in due blocchi da cinque, più prologo ed epilogo.

Ho già plottato tutto, pianificato tutto.

Non posso sgarrare questa volta, finendo a scrivere una storia di sessanta capitoli, dai.

Devo credere in me e  nelle mie capacità di sintesi.

 

Passando ai personaggi, come sapranno i lettori più accaniti, la maggior parte di loro non mi appartiene.

Ximena, Sonya, Harriet, Rachel, Alejandra, Beth e Miyoko infatti sono figlie di James Dashner. Con l’eccezione di Harriet e Sonya e qual cosina su Rachel soprattutto in a Fever Code, però, le altre sono un totale mistero quindi le prendo come figlie adottive e le caratterizzo come penso sia più utile ai fini di trama.

Marie, Rita, Ronnie, Rose e anche altre che verranno in futuro sono invece miei OC.

In particolare Marie, attorno a quale gireranno la maggior parte delle vicende. Mi sono ispirata a Marie Curie per il suo nome, il personaggio femminile probabile più emblematico che mi è venuto in mente quando ho pensato a quale scegliere.

Una donna forte, senza paura, che ha affrontato l’inferno per portare al mondo delle scoperte innovative sul radio che hanno cambiato la scienza  (infatti lei ha due nobel e il marito uno. Yeah).

Anche Rita sarà molto importante e voglio tanto bene anche a lei. (Rita Levi Montalcini, ovviamente).

 

La trama sarà abbastanza fedele alla Graphic Novel uscita nel 2016 dove si parla proprio del labirinto B, però cambierà su alcuni punti. Come per esempio la fine.

Che sarà approssimativamente nel capitolo cinque.

Poi si passa alla narrazione dei film. Ho scelto i film sui libri perché sono più sintetici e mi hanno dato più spunti.

Per una fan fiction posso farlo, via.

 

Spero che quanto avete letto fino ad ora vi sia piaciuto.

Se siete arrivati fin qui grazie davvero.

 

Spero di aggiornare il prima possibile.

Un saluto.

Super Peace

 

C.L.

 

 

 

 

 

  
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