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Autore: hikaru83    02/04/2018    8 recensioni
Sherlock e John, compagni di stanza in una prestigiosa scuola. Il primo inteligentissimo di famiglia altolocata, studia danza e non ha rapporti di amicizia con gli altri studenti, il secondo riuscito ad entrare nella scuola grazie a una borsa di studio è popolare, amato da tutti e da tutte ed è la punta di diamante della squadra di rugby. Sembrerebbe non abbiano nulla in comune eppure la loro amicizia è solida.
E se ciò che prova Sherlock non fosse solo una bella amicizia?
Fanfiction scritta per la Secret Easter Bunny Challenge 2018 del gruppo Aspettando Sherlock 5 link: https://www.facebook.com/groups/366635016782488/
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Fanfiction scritta per la Secret Easter Bunny Challenge 2018 del gruppo Aspettando Sherlock 5 link: https://www.facebook.com/groups/366635016782488/

Per Federica Talamasca, spero che la mia sorpresa possa essere quello che desideravi!

La ff è nata grazie alle immagini presenti qui sotto.

Buona lettura!
 
 

 
 
 

 


 

La legge dell’attrazione

 


Il parquet, il pianoforte nero, la sbarra, gli specchi, la grande finestra che dava sul giardino e da cui si riusciva a vedere bene il campo da rugby. Sherlock conosceva quella stanza persino più di quella che condivideva con John al dormitorio. Nella sala da ballo aveva sputato sangue, allenandosi costantemente e senza mai arrendersi, anche quando i piedi sanguinavano e i muscoli bruciavano. Avrebbe continuato ad allenarsi senza mai fermarsi fino alle lezioni della mattina successiva se non fosse per il fatto che se John non lo vedeva rientrare per cena andava a prenderlo e lo trascinava a mangiare, che lui volesse o meno.

Sorrise al suo riflesso allo specchio mentre provava per l’ennesima volta i vari arabesque. John era stato una sorpresa dal primo istante. Non si aspettava che potesse esistere un essere umano disposto a sopportarlo quando persino nella sua famiglia si sentiva sempre fuori posto. Eppure quel ragazzetto biondo e sorridente conosciuto due anni prima, non solo lo sopportava, ma amava stare in sua compagnia, lo riteneva geniale e persino spassoso, cosa questa che, se non fosse stato John a dirlo, non avrebbe mai considerato un lato positivo. A John Sherlock piaceva, con tutte le sue stramberie.

John era abbastanza bravo a scuola. Non al suo livello ma si impegnava, riuscendo a meritarsi la borsa di studio che gli permetteva di frequentare quell’esclusiva scuola superiore e senza la quale non avrebbe neanche potuto avvicinarsi al cancello di suddetto edificio. Ma soprattutto era un asso nel rugby, il miglior mediano di mischia che la loro squadra avesse avuto da anni a detta dell’allenatore Grady. Oltre questo John era conosciuto da tutti gli studenti e soprattutto dalle studentesse con il soprannome di Tre Continenti Watson. Cambiava ragazza in media ogni quindici giorni e, cosa sorprendente per tutti, non esisteva una sola ragazza che gli portasse il ben che minimo rancore. Anzi, anche tra loro erano piuttosto solidali e a Sherlock pareva quasi che stessero in fila ad aspettare pazientemente il loro turno. Una volta aveva chiesto a John se avesse dato loro i numerini come si fa alla posta. L’amico aveva riso dandogli una poderosa pacca sulla schiena senza però rispondergli, limitandosi ad aspettare che finisse la sua cena scelta per lui – un’enorme bistecca – come ormai era abituato a fare.

In pratica, John Watson era uno degli studenti più popolari e amati nella scuola e Sherlock, essendo stato eletto da John stesso davanti all’intera classe il suo migliore amico, era fondamentalmente intoccabile per tutti. Nessuno aveva mai provato a giocargli brutti scherzi. Del resto fare male a Sherlock equivaleva a fare incazzare John, che non solo giocava a rugby e aveva un’intera squadra di amici molto solidali e molto grossi per perpetrare una vendetta coi fiocchi, ma era anche molto bravo a fare a pugni senza aiuti esterni. Il padre, Capitano del Quinto Fucilieri, doveva aver insegnato a John parecchi trucchi.

John Watson, il suo enigma personale.

Nei momenti in cui la signora Hudson smetteva di suonare poteva sentire le urla di incitamento provenire dal campo che si trovava proprio sotto le finestre della sala di danza. Non ci voleva niente ad immaginare il suo amico sorridente dopo un’azione ben riuscita, sudato fradicio, pieno di fango ma sereno e soddisfatto del suo lavoro.

«Bene per oggi ci fermiamo qui.» La voce della sua insegnante lo strappò dai suoi pensieri.

Sherlock guardò il grande orologio da parete. «Ma sono solo le 18!» disse scioccato.   
 
«Domani iniziano gli esami di metà trimestre. Lo so che il tuo sogno è il Royal Ballet ma sappiamo entrambi che se la tua media scenderà solo di mezzo punto i tuoi genitori ti impediranno di continuare con la danza.» gli ricordò la donna con espressione severa. «E sappiamo entrambi benissimo che i tuoi genitori sono molto influenti. Per farlo potrebbero anche decidere di toglierti da scuola e spostarti Dio solo sa dove.»

                I genitori di Sherlock non erano mai stati felici della passione del figlio per la danza. Sherlock era certo che se fosse nato femmina non avrebbero mai avuto nessun problema ad accettarlo e, anzi, sarebbero stati anche orgogliosi della sua bravura e lo avrebbero incoraggiato a impegnarsi per raggiungere grandi risultati, ma quella non era certo una cosa che poteva cambiare. Si accontentava di veder rispettare l’accordo che avevano raggiunto: se Sherlock avesse mantenuto la media scolastica come quella del fratello maggiore Mycroft – quel maledetto secchione aveva il massimo dei voti pressoché ovunque a parte lo sport – allora gli avrebbero lasciato continuare con la danza.

Oramai, però, non era solo la danza a spingerlo a mantenere la sua media alta. Sherlock avrebbe potuto danzare anche senza il loro benestare, anche se lo avessero spedito in qualche scuola militare. Per danzare, del resto, gli serviva solo il suo corpo. La musica era nel suo cervello. Non era ormai più quello a far si che sì preoccupasse dei voti – che personalmente riteneva inutili e assolutamente inadatti per giudicare l’andamento di crescita di chiunque – ma era la paura di lasciare la scuola e venire mandato chissà dove, perché di sicuro non avrebbe mai più trovato un altro John Watson.

Per questo Sherlock annuì, prese l’asciugamano appoggiato sulla sbarra, si tamponò un po’ il sudore dal viso e bevve una sorsata d’acqua fresca dalla bottiglietta che John come sempre si era ricordato di infilare nel suo borsone. Senza di lui, aveva detto più volte, Sherlock sarebbe morto di fame e di sete al primo mese.

Salutò con un cenno la signora Hudson, e andò verso gli spogliatoi stranamente silenziosi a quell’ora.  Evidentemente tutti gli studenti erano preoccupati per l’inizio degli esami, perché non si sentiva volare una mosca. Del resto, in quella scuola non erano tollerati gli studenti con una media che non raggiungeva la sufficienza in ogni materia. Se accadeva, avevi una sola possibilità per riportare il tuo voto nei limiti imposti altrimenti, non importava il nome della famiglia né quanto sborsassero i tuoi genitori in donazioni alla scuola, eri sbattuto fuori. Quindi era ovvio che tutti fossero tesi per l’inizio dei temuti esami e se non fosse che per Sherlock intuire le domande presenti nei test era più semplice che ricordarsi di mangiare, sarebbe stato un po’ in ansia anche lui.

Il giovane Holmes aveva questa capacità del vedere e saper dedurre cose che per la maggior parte della gente erano del tutto invisibili. Un esempio? Il professore di Arte aveva un amore assoluto per il romanico mentre, cosa strana per un suddito della regina, detestava il gotico inglese. Sherlock l’aveva capito dal modo in cui non faceva altro che arricciare soddisfatto i grossi baffi ogni volta che spiegava un edificio costruito nel primo stile, mentre increspava la fronte ogni volta che passavano a fianco della chiesa costruita all’interno del perimetro della scuola realizzata intorno al 1100 nel pieno del periodo gotico. Ergo: l’esame sarebbe stato con più probabilità più sul romanico che sul gotico. Poteva fare così con tutti i professori e si stupiva sempre per il fatto che per gli altri studenti non fosse tanto ovvio. L’avevano davanti agli occhi anche loro... come facevano a non vederlo?

Liberò i piedi dalle fasciature. Alcune vesciche si erano rotte macchiando le bende con il siero giallognolo e un po’ di sangue; altre si erano formate. Sapendo che una sciacquata per pulirle avrebbe fatto miracoli, si diresse alle docce. L’acqua calda bruciava un po’ sulle ferite ma massaggiava i muscoli tesi. Nessuno pensava a quanto un ballerino soffrisse, quanto dovesse sviluppare i muscoli e sopportare il dolore ai piedi dovuti alle lunghe ore sulle punte e a tutte le escoriazioni che derivavano da quello sforzo. Li vedevano eterei e femminili, convinti che la danza fosse tutta una questione di tutù, sorrisi e saltelli per il palco. Sherlock avrebbe pagato oro per far si che tutti quei forzuti ragazzi si allenassero anche solo per un’ora con lui. Molto probabilmente non sarebbero arrivati neanche a superare i primi dieci minuti senza invocare pietà.

Una volta finita la doccia indossò dei pantaloni della tuta, una maglietta e la felpa dell’istituto, si allacciò le comode e vecchie scarpe da ginnastica e si avviò verso l’uscita. Se i suoi genitori e suo fratello lo avessero visto farsi vedere in pubblico in quel modo, trasandato e leggermente sciatto, probabilmente sarebbe preso loro un colpo.

Prima di tornare nei dormitori, però, passò velocemente a salutare la sua insegnante. «Buona serata signora Hudson.»

«Passa una buona serata anche tu e non fate tardi tu con Watson.»
 
***
 
Il rumore dei passi sul vialetto, l’aria frizzante, la luce giallognola dei lampioni. Questo accompagnava Sherlock mentre si avviava verso il dormitorio. Non permetteva ad altri rumori di disturbare i suoi pensieri. Con la testa era ancora in sala prove e stava scansionando ogni istante del suo allenamento giornaliero per capire come migliorare, dove avesse sbagliato, in cosa esercitarsi di più.

«Ehi Sherlock!» La voce di John penetrò i suoi pensieri. Non molte cose riuscivano a distrarlo dal palazzo mentale che, mattone dopo mattone, aveva costruito negli anni all’interno del suo intricato cervello, ma John ci riusciva sempre. Inscatolare, catalogare, dividere, separare, analizzare, comprendere e registrare per sempre nella sua memoria. Era una delle poche cose utili e intelligenti che suo fratello gli avesse insegnato.

Provava per quest’ultimo sentimenti contrastanti. Per la maggior parte del tempo non riusciva a sopportarne la presenza ingombrate. Il suo intelligentissimo, pomposo, arrogante fratello maggiore sapeva sempre come muovere le persone per ottenere quello che voleva. Però a volte, Sherlock si era sorpreso a notare uno sguardo diverso, come se anche per suo fratello non fosse tutto così semplice, come se indossasse una maschera costantemente e quella maschera fosse dannatamente pesante. A volte si era anche ritrovato a considerare che Mycroft lo coinvolgesse in una perenne competizione tra di loro e che questo fosse per lui uno stimolo a fare sempre meglio e a essere sempre più in gamba. Che fosse quello, alla fine, lo scopo di suo fratello?

Il fatto che suo fratello tendesse a fare giochetti con lui, stimolandolo senza che Sherlock se ne accorgesse fino a molto dopo che il gioco era ormai iniziato, lo dimostrava l’abilità di Mycroft di sapere meglio di Sherlock stesso cosa gli si agitasse nella testa. Aveva capito benissimo, senza nessun suggerimento, ciò che provava per il giovane Watson. Tuttavia, non aveva mai spifferato nulla ai genitori e non aveva neanche infierito su di lui, anzi; Sherlock aveva quasi notato un miglioramento – seppur minimo – nel loro rapporto.

Certo, Mycroft rimaneva un pomposo arrogante che si divertiva a far notare al fratello quanti traguardi alla sua età avesse già raggiunto al contrario suo, ma il suo modo di includere John nella maggior parte degli eventi che richiedevano la presenza dell’intera famiglia Holmes e che sarebbero state per Sherlock delle vere e proprie torture, il fatto che avesse presentato a John il suo migliore amico, Gregory Lestrade, l’unico essere umano che sembrava a suo agio con Mycroft – colui che, tra l’altro, aveva convinto John a entrare in squadra – insomma quel modo un po’ imbranato di includere entrambi nella sua vita era di quanto più umano e sentimentale Sherlock avesse visto fare al fratello. Questo gli faceva ben sperare sull’accettazione e l’appoggio incondizionato di Mycroft almeno in questo aspetto della sua vita.

Una mano all’improvviso gli sventolò davanti. «Ehi? Sherlock sei tra noi?»

Sherlock scosse la testa e mise a fuoco la persona che si era materializzata davanti a se. «John.»

«Bene, mi riconosci, il che è positivo. Sempre tra le nuvole eh?» lo punzecchiò, con una luce divertita in quegli spettacolari occhi blu.

«Io non sono tra le nuvole, sto semplicemente...»

Sherlock non riuscì a finire la frase perché il suo esuberante amico lo interruppe col solito entusiasmo, investendolo di un fiume di parole: «Sì, sì, lo so. Il palazzo mentale. Prima o poi dovrai insegnarmi come funziona. La mia borsa di studio sarebbe senz’altro più al sicuro. A proposito di media scolastica... Se mi aspetti un momento prendo le mie cose e ti raggiungo subito. Ho assolutamente bisogno di ripassare e l’unico di cui mi posso fidare sei tu.»

Un brivido di piacere e di orgoglio corse lungo la schiena di Sherlock. Era stupido sentirsi così felice per una cosa come quella ma, anche se solo per studiare, John si affidava solo a lui e la cosa lo rendeva orgoglioso.

Sherlock non ebbe bisogno di dire nulla a John, neanche di annuire. Lui sapeva che il solo fatto di avergli chiesto di aspettarlo gli assicurava che l’avrebbe fatto.

Sherlock osservò il compagno di stanza avvicinarsi al coach e a Greg – che era stato mediano d’apertura della squadra, che ora aiutava ad allenare – poi al suo borsone abbandonato disordinatamente a bordo campo vicino alle gradinate. Le sue spalle larghe, il corpo muscoloso senza esagerare...  John non era alto, ma era molto proporzionato.

Per Sherlock era un porto sicuro. Era la sua stabilità, il punto fisso, la sua stella polare. La cosa all’inizio l’aveva stordito e spaventato, sentimenti che non aveva mai provato. In realtà già il fatto che provasse qualcosa era un evento.

Poi però aveva notato come non erano gli unici sentimenti che il suo amico gli scatenava. Aveva iniziato a provare gioia, attesa, a regalare sorrisi spontanei, a voler essere migliore non per primeggiare come con Mycroft, ma per essere guardato da John in quel modo che riservava solo a lui, per meritare quello sguardo giorno dopo giorno.

Lo vide salutare tutti i compagni, le pacche sulla schiena, i sorrisi, le occhiate adoranti delle ragazze.

Sherlock cercò di riconoscere la nuova fiamma, ma nessuna venne salutata con un bacio, nessuna aveva avuto un saluto particolare, neanche una semplice occhiata.

La cosa stupì Sherlock, John era libero da cinque giorni e non era ancora entrato in modalità caccia. Era molto insolito per lui. Che non avesse ancora scelto la sua preda? Eppure in fila ce n’erano ancora parecchie, tutte smaniose di essere la prossima.

Quando gli fu a pochi passi, John sorrise. «Sono pronto, andiamo?»

Sherlock annuì e si incamminarono verso il dormitorio senza scambiarsi nemmeno i più banali convenevoli. Il silenzio tra loro non era una novità. Era una delle cose che apprezzava di più in John. Il ragazzo più ciarliero e confusionario che aveva incontrato in vita sua sapeva riconoscere la bellezza del silenzio, il fatto che non fosse necessario riempirlo sempre. Con lui il silenzio non era mai pesante.

Erano quasi arrivati all’entrata del dormitorio quando John prese parola «Oggi Sherlock oggi mi sembri più pensieroso del solito, anche se non credevo fosse possibile.»

«Stavo solo costatando che non ti sei fatto neanche la doccia.»

«Il tuo delicato nasino non sopporta l’odore di un vero uomo?» lo stuzzicò.

«Non avrei problemi con l’odore di un vero uomo, ma puzzi come un caprone, John.»

«Come scusa?» domandò l’amico indignato.

«Hai sentito bene John, puzzi come un caprone.»

«Sherlock ti do tre secondi di vantaggio. Fossi in te comincerei a correre...»

Sherlock sapeva che non stava scherzando. John amava giocare con i suoi amici, ed essendo suo amico amava giocare con lui. Sapeva che appena l’avesse preso avrebbero ingaggiato una lotta all’ultimo solletico senza esclusione di colpi. Non importava se fossero nella loro stanza, in mezzo al corridoio o in giardino, per John era del tutto indifferente se qualcuno li guardava e malignava o non c’era nessuno a guardarli. Per l’amico il fatto che Sherlock fosse gay non cambiava nulla nel suo modo di rapportarsi con lui.

A scuola era l’unico a saperlo, anche se un po’ tutti immaginava lo credessero. Era un ballerino del resto. Secondo la logica di quelle pecore dei suoi compagni essendo ballerino era gay a prescindere; ma John era l’unico a cui ne aveva parlato la prima sera.

 Erano in camera loro a mangiucchiare, troppo stanchi dopo aver messo a posto la loro stanza con tutti i bagagli portati da casa per pensare di andare a mensa. Per farlo avrebbero quanto meno dovuto farsi una doccia e indossare dei vestiti puliti, perciò avevano escluso quella possibilità a priori. Si ritrovarono quindi a mangiare qualche pacchetto avanzato delle schifezze che John aveva portato per il lungo viaggio affrontato in treno per arrivare fino a scuola. Ricordava ancora quello scambio di battute come fosse accaduto poco prima.

«Allora Sherlock hai una ragazza ad aspettarti a casa?»

Era stata una domanda del tutto innocente, due chiacchiere senza peso fatte per conoscere il proprio compagno di stanza. Sherlock sapeva che sarebbe arrivata, prima o poi, così aveva una risposta già pronta che non l’avrebbe messo in difficoltà. Invece, con suo sommo stupore – e orrore – la verità era uscita dalle sue labbra: «Non è esattamente il mio campo d’azione.» Una volta lanciata la patata bollente, però, era rimasto in silenzio, in una sorta di apnea. Non riusciva a capacitarsi di averlo detto, di aver avuto il coraggio e al contempo l’avventatezza di confidarlo a qualcuno. Come avrebbe reagito, quello strano tipo tutto chiacchiere e sorrisi? Era uno sportivo, per l’amor del cielo, e tutti sapevano quanto potessero essere stronzi gli sportivi. Oltretutto che non lo conosceva.

Ma, come sarebbe accaduto spesso da quel momento in poi, John lo aveva sorpreso. «Ah davvero? Allora un ragazzo?»

Ah davvero? Allora un ragazzo? Sherlock si era ripetuto quelle domande nel suo cervello diverse volte, per essere certo che non contenessero disprezzo o altro, perché era certo che nella migliore delle ipotesi almeno un po’ di imbarazzo ci sarebbe stato.

«No.» Era pronto a doversi difendere e invece era stato così semplice che ancora non ci credeva.

«Okay, va bene, sei come me, allora.»

Sherlock si ricordò di quanto avesse sgranato gli occhi, di come il fatto di essere così normale per John lo destabilizzasse più di quello che credeva. «In che senso?» Per quale motivo non riusciva a seguire i pensieri di quel ragazzo?

«Sei single proprio come me.» Il sorriso caldo di John era riuscito a far sorridere anche lui. Quel suo modo di accettare la cosa come fosse la più naturale del mondo era uno dei motivi per cui John gli piaceva.

Sentì appena la voce di John pronunciare il due quando si mise a correre, superarono l’entrata del dormitorio.

Salirono le scale del primo piano, quelle del secondo e quelle del terzo. Riusciva a distinguere chiaramente le risatine dei ragazzi che incrociavano ma a Sherlock non importava se fossero risate di divertimento o di scherno. Se non se ne preoccupava John non vedeva perché avrebbero dovuto interessare a lui.

Riuscì persino a raggiungere la porta della loro stanza prima di rendersi conto che avrebbe dovuto aprirla con le chiavi. Non sarebbe mai riuscito ad aprirla
e a entrare prima che John lo raggiungesse.

Il rumore del borsone abbandonato per terra, il respiro caldo di John sul collo, le sue mani sui fianchi, la sua voce nell’orecchio, il battito accelerato del suo cuore a quella percezione sensoriale, gli confermarono i suoi sospetti.

«Te l’ho fatta Holmes. E ora preparati alla mia ira.»  John aveva la voce roca, il fiato corto, il tono basso.

Dei brividi percorsero il corpo di Sherlock. Se solo John avesse intuito quello che stava infuriando nella sua anima...
 
Una voce cattiva li raggiunse prima che il solletico iniziasse. «Credevo avessi gusti migliori Watson.»

«Moran...» John si era spostato dal corpo di Sherlock ma rimaneva tra lui, Moran e i suoi amici quasi per proteggerlo. «La tua stanza non è su questo piano, che ci fai qui?»

«Ero passato a trovare un amico,» rispose laconico, lanciando un’altra occhiata sprezzante a Sherlock. «Non ti conviene farti vedere in certi atteggiamenti con Holmes, John. Sai com’è, la gente chiacchiera.»

«Oh non devi preoccuparti della mia virtù Sebastian. Ho avuto la conferma di non dover ascoltare la gente dal giorno in cui ti ho conosciuto.»
Moran sembrò quasi sobbalzare, a quelle parole, tanta era l’indignazione del sottointeso di John. «In che senso, scusa?»

«Prima di conoscerti mi avevano detto che tutti quelli che frequentavano questo istituto erano tra i giovani più intelligenti del Paese, poi ho capito che il sentito dire non vale. Nella migliore delle ipotesi c’è sempre almeno un’eccezione.»

Sherlock non riuscì a nascondere una risata, John lo sorprendeva sempre.

«Mi stai offendendo Watson?» ringhiò Sebastian.

«Hai la coda di paglia?» lo provocò ancora John.

«Ragazzi, ci sono problemi?» La voce del professor Carson bloccò ogni possibile risposta.

«No, no, si figuri professore, io e Holmes stiamo andando a fare un mega ripasso per domani, e io devo anche farmi una doccia.» Solo allora John si spostò da Sherlock, prese il suo borsone lasciato sul pavimento e quello di Sherlock prima che quest’ultimo potesse muoversi. Aprì la porta e lo spinse all’interno.

«Mi sembra una buona idea,» concordò l’insegnante. « E tu e i tuoi amici Moran? Credete davvero di potervi permettere di non ripassare per domani?»

Riuscirono giusto a sentire l’ultima frase di Moran prima di chiudere la porta: «Stavamo giusto andando professore.»

Sherlock e John si appoggiarono entrambi alla porta chiusa con la schiena e si lasciarono scivolare sedendosi contemporaneamente sul pavimento. Gli occhi chiusi, il fiatone, tutti e due in silenzio fino a quando assieme iniziarono a ridere.

«C’è sempre un eccezione eh, John?»

«Beh dai, ammettiamolo! Non alza certo la media d’intelligenza di questo istituto!»

«Cercherà una rissa appena potrà, lo sai, vero?» Sherlock avrebbe voluto suonare casuale, ma non era sicuro che il fondo di preoccupazione della sua voce fosse sfuggito all’amico.

Tuttavia, John fece finta di niente e scrollò le spalle con aria indifferente. «Non sarebbe una novità.»

«Devi stare attento John, sul serio. Le voci corrono e...»

«A te dà fastidio?» domandò Watson, di punto in bianco, girandosi a guardarlo.

Gli puntò addosso i suoi occhi gentili che sembravano riuscire a leggergli l’anima, e Sherlock si sentì leggermente confuso. «Cosa?» balbettò.

«Che mi comporti così con te,» spiegò l’altro. «L’ho sempre fatto senza chiederti se la cosa potesse darti fastidio.»

«NO! Come ti viene in mente che possa darmi fastidio?» John era forse impazzito? Se avesse smesso di comportarsi così con lui, l’intero mondo di Sherlock sarebbe imploso e lui non sarebbe più riuscito a strisciare da sotto le macerie. Possibile che il suo compagno di stanza non riuscisse a vedere quanto tutto questo era importante per lui?

«Bene, allora...» John lasciò cadere la frase.

«Allora?» lo incalzò Sherlock.

«Eravamo rimasti al fatto che dovessi subire la mia ira, se non sbaglio.» Gli occhi divertiti di John furono l’ultima cosa che Sherlock riuscì a notare prima di sentire il proprio corpo schiacciato da quello dell’amico.

Le risate riempiono la stanza mentre le dita di John pizzicano senza sosta i fianchi di Sherlock. Sherlock non sapeva se avesse mai riso così prima di conoscere John. Non era neanche certo che avesse mai riso prima di John.

Passarono minuti interi prima che il biondo si fermasse. Era rimasto a cavalcioni su Sherlock che riprendeva fiato, e ridevano entrambi.

«Dovresti ridere più spesso, Sherlock. Avresti la coda di ammiratori.»

Erano commenti come questo, quando Sherlock vedeva la sincerità negli occhi dell’amico e la percepiva nella sua voce, che si sentiva spiazzato come mai prima. Per togliersi d’impaccio, imbarazzato da quel complimento, si schernì: «Certo come no. La scuola pullula di ragazzi gay che non vedono l’ora di esporsi con uno come me! Non so se ti sei accorto che sei l’unico per cui passare del tempo in mia compagnia non sia paragonabile alla tortura di un esame.»

«Non è che devono essere per forza gay, all’inizio. Magari neanche lo sanno di poter essere attratti da un ragazzo. Magari sono etero, ma tu potresti essere la loro eccezione.»

«Io? L’eccezione di qualcuno? No, non credo davvero che qualcuno perderebbe del tempo con me.» Sherlock si accorse del sospiro di John, ma non riuscì a capire a cosa fosse dovuto. Con John c’erano sempre di mezzo i sentimenti, e con i sentimenti Sherlock non si sentiva mai molto sicuro.

«Meglio che vada a farmi la doccia, Sherl. Ci metto pochi minuti. Intanto puoi preparare gli appunti di chimica? Non capisco nulla di quella cavolo di materia.»

«Certo, John.»

Il biondo si sollevò dal corpo di Sherlock e allungò la mano per aiutarlo ad alzarsi. Le loro mani si strinsero e Sherlock notò con quanta facilità John lo sollevasse. La sua mente non poté non pensare a ben diverse situazioni in cui John avrebbe potuto sollevarlo e ringraziò il fatto di essere arrossato dalle risate di poco prima e che quindi il suo compagno di stanza non avrebbe potuto notare quanto i suoi pensieri fossero poco casti e molto imbarazzanti.

Innamorarsi del suo migliore amico etero, Sherlock pensava di essere l’unico che poteva mettersi in una situazione del genere.

John si tolse la maglia e rimase a torso nudo mentre cercava qualcosa di pulito da indossare. A quella vista, Sherlock deglutì cercando di non farlo troppo rumorosamente. Se da un lato il fatto che John lo trattasse esattamente come gli altri lo faceva stare bene, dall’altro portava situazioni in cui John si spogliava davanti ai suoi occhi mandando in tilt il povero Sherlock che per non seguire i propri ormoni doveva usare tutto il proprio autocontrollo, che purtroppo sapeva non sarebbe durato in eterno.

Sapeva che se fosse stata solo un’attrazione fisica sarebbe stato tutto più semplice, ma quella per John non lo era. Ogni giorno che passava in sua compagnia si accorgeva che il sentimento che provava per l’altro si avvicinava sempre di più a quella cosa che nei libri e nelle canzoni si raccontava da secoli: l’amore.

Sherlock era innamorato – con suo sommo rammarico e frustrazione –  e con l’amore di mezzo, l’autocontrollo andava a farsi benedire.

La porta del piccolo bagno si chiuse e Sherlock riprese a respirare.
 
***
 
Quando, dopo meno di dieci minuti, John uscì dal bagno, aveva indossato una felpa grigia e i pantaloni neri e sformati della tuta ed era a piedi scalzi. I capelli biondi, che aveva solo tamponato con l’asciugamano blu ancora sulle sue spalle, avevano assunto una tonalità più scura.

Sherlock nel frattempo aveva sistemato le cose di danza, aperto i libri e sparpagliato i suoi appunti di chimica sul suo letto. Sapeva benissimo che, se non era costretto perché doveva scrivere temi o comunque elaborati molto lunghi, John non usava mai la piccola scrivania che si trovava di fronte al suo letto.

Si era appena seduto appoggiando la schiena alla testiera del letto e piegando le lunghe gambe al petto. Appena John lo vide gli sorrise e si sistemò di fronte a lui a gambe incrociate, con la schiena appoggiata alla pediera del letto di Sherlock.

«Chimica non ti temo! Coraggio Sherlock dimmi tutto!» esclamò col solito entusiasmo John, facendo ridere l’amico.

Passarono un’ora abbondante a studiare, dopodiché fecero una pausa solo per permettere a John di andare a procacciare del cibo prima che la mensa chiudesse.

In teoria non si poteva portare il cibo della mensa nelle stanze del dormitorio, ma vuoi che era la sera prima degli esami e che la maggior parte degli studenti la passava rinchiuso a ripassare, vuoi che nessuno resisteva a John quando faceva l’espressione da cucciolo affamato, era tornato in camera con ogni ben di Dio, comprese due fette di dolce al cioccolato. A quella vista, gli occhi di Holmes brillarono.

Tuttavia John lo conosceva troppo bene, perché si preoccupò subito di precisare: «Eh, no, Sherlock! Prima mangi il resto e poi il dolce. Se non mangi tutto, la tua fetta la pappo io.»

L’indignazione di Sherlock non tardò a farsi sentire. «Sei senza cuore!» protestò. Aveva tentato di spiegare più volte a John che la dieta di un ballerino doveva essere rigorosa, ma a John la cosa entrava da un orecchio e usciva dall’altro. Sherlock sapeva che il fatto di preoccuparsi di farlo mangiare era uno dei modi che John usava per fargli capire che teneva a lui. Era un ti voglio bene non detto, ma chiaro come il sole. E come poteva Sherlock non accettare una dichiarazione del genere da John?

Per sua fortuna il giovane Holmes era di costituzione molto magra – difficilmente metteva su peso – al contrario del fratello che lottava da una vita con la bilancia. Più volte aveva sospettato che l’antipatia del fratello nei suoi confronti fosse nata per quel motivo.

Mentre mangiavano, John continuava a riempirlo di domande su quella materia che gli era tanto ostica fino a quando non si bloccò a metà di una frase e di un boccone. A bocca ancora leggermente aperta per lo choc, indicò verso di lui e domandò: «E quello cos’è?»

Sherlock non capì subito a cosa si riferisse John fino a quando, seguendo il suo sguardo immobile e la direzione indicata dall’indice, vide la sua calza bianca macchiata di sangue.

«Oh, quello? Nulla. Dev’essersi spostata la benda.»

John entrò subito in modalità mamma-chioccia.«Nulla? NULLA? Togliti quella calza e fammi vedere.»

«Ma...» provò a ribattere Sherlock.

«Ma niente! Fai come ti dico!» Gli occhi blu di John, i più espressivi che Sherlock avesse mai visto ed era certo avrebbe mai visto in vita sua, non avrebbero mai accettato un “no” come risposta.

Sherlock lo accontentò solo perché pensava che il motivo per cui l’amico fosse tanto preoccupato era dato dalla paura di una ferita dovuta a qualche scemo come Moran. Era infatti certo che, una volta che John si fosse reso conto che erano solo piccole ferite dovute alla danza, si sarebbe calmato. John si preoccupava sempre che qualcuno potesse fargli del male, e questo Sherlock lo apprezzava, ma non pensava che John avrebbe potuto prendere a calci le sue mezzepunte solo perché gli avevano provocato delle lacerazioni alle dita. Per quanto John si preoccupasse sempre della sua incolumità fisica, c’erano cose che non si potevano cambiare, anche se questi sembrava non volerlo accettare.

John, come già detto, era il suo enigma personale, e anche questa volta Sherlock si sorprese del suo modo di reagire. Ma che riuscisse sempre a prenderlo in contropiede, spiazzandolo, beh, quella non era una sorpresa.

Una volta rimosso il calzino, vide che la benda era sporca di sangue e le mani di John si allungarono immediatamente verso di lui, intente a togliergliela delicatamente, per evitare di fargli male.

«Cristo, Sherlock, ma da quando hai queste vesciche?» Gli toccò il piede da un lato all’altro, esaminandolo con sguardo clinico e nervoso. «Guarda qui, queste sono vecchie; e questi segni? Ma si può sapere chi te le ha disinfettate? Devono farti un male cane.»

Da quanto tempo aveva quelle vesciche? Beh, questa risposta era facile: «Da quando ho iniziato a ballare,» disse. Poi si indicò il piede. «Quelle sono sbucate due settimane fa, credo. Le disinfetto io come riesco e sì, fanno male, ma nulla che non si possa sopportare.»

John rimase in silenzio per quarantotto secondi. Sherlock lo sapeva perché li aveva contati. Si accorse di stare trattenendo il fiato solo quando il biondo fece un sospiro e riprese a parlare: «Togli anche l’altra calza e aspettami qui.» Il materasso dondolò quando John si alzò e andò nel piccolo bagno. Uscì con una bacinella d’acqua calda, del disinfettante, bende pulite e un asciugamano. Si risedette sul letto e si sistemò l’asciugamano sulle gambe, quindi ci pose i piedi di Sherlock sopra.

«John, ma che...?» Il giovane Holmes era completamente spiazzato.

«Sherlock, per favore, fammi fare.» Il tono di John era così serio che Sherlock si convinse che fosse il caso di fare quello che gli diceva l’amico.

Non disse più nulla. Osservò solo Watson prendersi cura di lui. Non ricordava l’ultima volta che qualcuno, non legato a obblighi lavorativi, l’aveva fatto.
John sciolse anche l’altra benda e le fece cadere entrambe sul pavimento. Poi, con una morbida spugna, lavò i suoi piedi e successivamente li asciugò tamponandoli gentilmente facendo attenzione a essere il più delicato possibile. L’asciugamano si macchiò un poco ma John non ne sembrò minimamente disturbato – così come non sembrava disgustato dal sangue e dal siero che usciva dalle sue ferite aperte. Era solo preoccupato di non fargli male.
Conclusa quell’operazione, prese il disinfettante. «Brucia un poco, ma dovrebbe passare presto,» lo avvertì.

Sherlock annuì e sentì il freddo del disinfettante sulle ferite, poi un bruciare sostituito presto da un pizzicore.

«Domani diamo una sistemata anche a questa unghia, ma per ora preferisco non toccarla.» John ovviamente non si aspettava una risposta da parte sua. Prese delle bende nuove e gli fasciò i piedi. «Così dovrebbe andare bene fino a domani.»

«Grazie.»

«Figurati Sherlock. Da oggi ci penso io alle tue ferite, capito?»

«Davvero John, grazie. Nessuno si è mai preso cura di me come fai tu.» A Sherlock batteva un po’ più veloce il cuore, ma cercò di rimanere con
un’espressione impassibile.

«Non dirlo neanche per scherzo, Sherlock. Se io stessi male tu non ti preoccuperesti? Sono certo di sì»

Sherlock al solo pensiero di John ferito sentì il cuore fermarsi. Non sapeva cosa avrebbe fatto se il biondino fosse stato male.

«Il prossimo imbecille che dice che danzare è roba da femminucce giuro che lo spedisco a calci in culo dalla signora Hudson.» Il moro rise.

«Sì ti prego, fallo. Vorrei davvero vederli ad allenarsi un po’ con me,» convenne lui.

«Ci rimarrebbero secchi dopo pochi minuti, quelle mammolette, te lo dico io. Sei molto più forte di quanto loro possano sospettare.»

Sherlock decise di cambiare argomento, il cuore batteva troppo forte per i suoi gusti. «Torniamo alla chimica?»

«Sì, meglio di sì.» Watson andò a svuotare la bacinella d’acqua, sciacquò la spugna, posò il disinfettante e mise nel cesto della roba da lavare le vecchie
bende, le calze e l’asciugamano. Quindi si sedette ancora sul letto del compagno di stanza, prese gli appunti e li rilesse prima di prendere parola. «In definitiva il motivo per cui tutti questi elementi si combinano è l’attrazione,» considerò con aria pensierosa. Poi aggiunse divertito: «È assurdo, se ci pensi.»

Sherlock alzò un sopracciglio. «Assurdo?» domandò. Cosa intendeva John? Era proprio curioso di scoprirlo.

«Beh, sì. L’attrazione è ciò che spinge atomi diversi a unirsi o respingersi, come fa con i corpi celesti, ed è persino ciò che muove l’essere umano.
L’ossigeno e l’idrogeno, la Terra e la Luna, io e te, siamo la stessa cosa. Seguiamo le stesse leggi.»

Gli occhi di John rimanevano fissi nei suoi, anche se il colore delle sue guance e delle sue orecchie stava raggiungendo sfumature di rosso mai viste sulla pelle di un uomo.

Sherlock avrebbe voluto parlare. Dire qualcosa di intelligente. Dire qualcosa e basta sarebbe stato in effetti un buon inizio. Oddio, forse prima doveva ricordarsi come si respirava. Com’è che era? Si espirava prima o dopo aver inspirato?

«Okay, Sherlock, tranquillo. Va tutto bene. Lo so che sono una capra in chimica, ma non credevo lo fossi al punto da farti andare in tilt.» La voce di John era scherzosa, cercava di sdrammatizzare il momento.

Sherlock però era arrivato a un punto in cui doveva sapere. Troppe frasi dette e lasciate cadere, troppe cose che non gli tornavano. E a Sherlock le cose irrisolte non piacevano. Lui doveva sapere. Quindi racimolò tutto il coraggio di cui disponeva e chiese: «John, posso farti una domanda?»

«Spara!» Watson sembrava molto più sollevato. Probabilmente perché convinto che qualsiasi pensiero si stesse agitando nella testa di Sherlock li avrebbe allontanati da quella strana discussione che aveva appesantito l’aria nella stanza. Verosimilmente tutto si aspettava tranne che quella domanda.

«Perché non hai ancora scelto la prossima ragazza? Oggi quando te ne sei andato ho visto la delusione in molti sguardi.» Se Sherlock non avesse avuto la testa piena di pensieri probabilmente avrebbe notato lo stupore e un po’ di delusione negli occhi del biondino.

«Dio, Sherlock, è davvero questa l’unica cosa che vuoi sapere ora?» Le mani di John salirono a sfregargli il viso mentre assumeva un’espressione
incredula.

Sherlock seguì il movimento di quelle mani forti su quel viso che tanto gli piaceva, come ipnotizzato.

«Devo capire una cosa. Devo capire questa cosa perché altrimenti potrei continuare a vedere cose che non esistono.» Le frasi dette dall’amico comparvero di fronte a lui. Era come se le vedesse scritte intorno a John.
 
«Dovresti ridere più spesso, Sherlock. Avresti la coda di ammiratori. »
«Non è che devono essere per forza gay, all’inizio. Magari neanche lo sanno di poter essere attratti da un ragazzo. Magari sono etero, ma tu potresti essere la loro eccezione. »
«Da oggi ci penso io alle tue ferite,»
«Sei molto più forte di quanto loro possano sospettare. »
«L’attrazione è ciò che spinge atomi diversi a unirsi o respingersi, come fa con i corpi celesti, ed è persino ciò che muove l’essere umano. L’ossigeno e l’idrogeno, la Terra e la Luna, io e te, siamo la stessa cosa. Seguiamo le stesse leggi. »
 

Sì, decisamente doveva capire.

John parve comprendere che ne aveva davvero bisogno, che non era mera curiosità. Forse, pensò il ballerino, anche l’amico aveva necessità di parlarne.
Ecco perché si spiegò senza dover insistere granché: «Non ho una nuova ragazza perché non posso più fingere. Sono sempre stato onesto con loro, ho
sempre messo in chiaro che non avrebbero avuto da me nulla di paragonabile all’amore. Divertimento, quello sì, ma niente di più. La nostra storia avrebbe avuto un tempo molto limitato e loro erano d’accordo. Diciamo che era uno scambio di favori. Io facevo divertire loro, loro facevano divertire me.»

«Non potevi più fingere?» Sherlock era incuriosito. Voleva capire davvero John. Voleva sapere tutto una volta per tutte.

«No, Sherlock. Non potevo più fingere. Non quando erano altri occhi che cercavo, altre mani, non quando erano altre labbra che sognavo.» Il tono di John era grave, come se soffrisse ad ammetterlo, ma al contempo si sentisse sollevato nel poterlo fare.

Il cuore di Sherlock perse un battito. «Ti interessa qualcuno?» Domandò con voce roca.

«Mi interessa qualcuno? È una bella domanda. Perché “interessare” non rende l’idea, purtroppo.»

Quella conversazione era di quanto più difficile avevano dovuto affrontare, altro che gli esami che sarebbero iniziati da lì a poche ore. «Perché non fai come al solito? Vai, la prendi e sono certo non ti dirà di no.» Era una cosa assurda per Sherlock trovarsi in quella situazione. Proprio lui stava cercando di buttarlo nelle braccia di qualcuno. Quanto poteva essere paradossale.

«Perché questa volta non posso sbagliare, Sherlock. Questa volta non è per divertimento. Questa volta ho paura. Se davvero facessi come dici tu potrei perdere tutto quello che ho costruito con questa persona finora. E io non potrei vivere senza.» La verità nella voce di John era impossibile da non percepire.
Per la prima volta era semplice leggere John. Sherlock si sentiva sempre confuso circa l’amico, ma in quel momento gli sembrava che tutte le difese fossero abbassate e che finalmente potesse vedere il vero John, senza filtri, senza l’immagine del giocatore playboy o dell’amico scanzonato. Per la prima volta davanti a lui c’era semplicemente John, con tutto quello che questo comportava.

«Hai paura?» Holmes sentiva la gola bruciare tanta era la fatica di parlare.

«Sono terrorizzato. Ma non solo per me. Non voglio che questa persona pensi la stia prendendo in giro. Sai, dopo i miei trascorsi non penso di essere proprio la prima persona che viene in mente se si pensa a qualcuno con cui avere una vera relazione.» Watson fece un mezzo sorriso, quasi di scherno rivolto a sé stesso.

«Beh, da quello che posso dedurre – e lo sai che con le deduzioni vado piuttosto forte – non esiste una ragazza in questa scuola, e scommetto non solo qui, che non vorrebbe stare con Tre continenti Watson.» Il moro sperò che il suo tono sembrasse allegro, anche se alle sue orecchie non risuonò in quel modo.
Watson però non colse l’intento, o almeno non pareva essersene accorto. «Questo è il punto, io non voglio che desideri stare con Tre continenti Watson,
Sherlock.» Lo sguardo di John si fece improvvisamente malinconico, «Io vorrei che desiderasse stare con John, capisci? Semplicemente con John.»

Il silenzio dopo quella confessione fu lungo.

Sherlock non aveva mai visto John sotto quella luce. Aveva sempre pensato che l’amico fosse in cerca dell’amore, per questo cambiava ragazza tanto spesso. Invece fino a quel momento Watson aveva semplicemente cercato di riempire il vuoto che sentiva nell’unico modo che conosceva. Rumore, risate, divertimento – soprattutto divertimento – di ogni genere. Le ragazze servivano a quello, a niente di più. Non dubitava il fatto che la cosa non doveva essere stata spiacevole, ma aveva nascosto qualcosa di molto più grosso, un enorme elefante rosa di cui avrebbe dovuto accorgersi ma che non aveva mai visto.

Come aveva fatto a non vedere quello che succedeva nell’anima di John?

Da come parlava di questa persona era qualcuno che frequentava da parecchio tempo, qualcuno con cui aveva costruito una relazione d’amicizia stabile.

Qualcuno di cui John si era innamorato.

E lui non aveva mai visto nulla.

Sherlock vedeva solo la marea di ragazze che circondavano l’amico. Come aveva fatto a non vedere La Ragazza che aveva preso il suo cuore?

Cazzo! Già la odiava quella ragazza, e non sapeva neanche il suo nome o come fosse il suo viso.

Si poteva odiare qualcuno senza averlo mai incontrato? Senza che quella persona in realtà avesse fatto nulla? Solo perché esisteva? Non sapeva se la cosa normalmente fosse possibile, ma visto che solo con la sua esistenza lo avrebbe allontanato da John – la cosa era inevitabile, purtroppo – sì, ne era certo, la odiava.

«La conosco?» riuscì a chiedere con un filo di voce.

John si passò le mani sulla faccia ancora una volta e con un mezzo sorriso disse: «Non credo tu voglia saperlo davvero, Sherlock.»

Perché il suo enigma personale doveva essere davvero un rompicapo? Non poteva essere più chiaro? Cosa voleva dire con quella frase? Se avesse potuto avrebbe sbattuto la testa contro il muro. Nessuno era in grado di farlo ammattire come faceva John.

«Certo che mi interessa. Sei... sei mio amico, no?» Amico. Quella parola era così difficile da dire ora.

«Amico...» sospirò Watson. «Già, amico.»

«Allora? La conosco?» insisté. Sherlock stava iniziando a perdere la pazienza. Non solo John non gli voleva dire chi era questa persona, ma neanche se la conoscesse o meno. Forse non si fidava di lui?

«Sherlock...» Il biondo si fermò, come se non sapesse come andare avanti. Possibile che non trovasse la forza di dirgli tutto? Pensava non fosse il momento giusto? «Cristo, Sherlock, non posso dirti chi è. Non posso dirlo proprio a te.»

Holmes sentì una fitta al petto a quelle parole frustrate. Una pugnalata doveva sicuramente fare meno male. «Perché, John? Perché? So di non essere il migliore degli amici possibili, però pensavo che...»

«Fanculo Sherlock, non farti seghe mentali!» John sembrava sapere sempre cosa gli girava per la testa, anche se Sherlock faceva di tutto per tenerlo lontano da alcune parti del suo cervello. Era l’unico che riusciva a leggerlo. Non serviva che desse voce alle sue turbe per far sì che l’amico lo riprendesse per problemi che erano solo nella sua testa. «Non posso dirlo a te perché SEI TU!»

John sembrò rendersi conto della bomba appena sganciata nell’esatto istante in cui gli uscì di bocca. Deviò lo sguardo da quello di Sherlock e lo fissò di fronte a sé. Evitava i suoi occhi e sembrava sudare leggermente, come quando cominciava a correre sul campo e il cuore accelerava i suoi battiti, andando sempre più veloce fino a scoppiare. Era chiaro che non avrebbe mai voluto dirlo. Pensava forse di rovinare tutto? Che dopo questa confessione Sherlock non lo avrebbe più considerato un amico? Forse si era sentito in obbligo di dire tutto perché Sherlock aveva insistito e John pensava che non avrebbe più avuto la sua amicizia se non avesse detto la verità?

Sherlock intanto era nel panico più totale. Credeva di aver sognato. Di essere finito nel suo palazzo mentale per sfuggire dalla realtà, perché John non poteva davvero provare qualcosa per lui. Perché non poteva essere lui La Persona di John. Come poteva essere così? Come poteva sperare di valere abbastanza per l’amico? Già il fatto che lo considerasse suo amico era più di quanto potesse sperare. Di quanto chiunque gli avesse dato fino a quel momento. Ma qualcosa in più? John meritava il meglio, e lui non si sentiva certo il meglio. Era arrogante, incapace di comunicare, incostante, e stava anche per giorni in silenzio. E questi erano solo i difetti più visibili, ma non certo gli unici. John meritava qualcuno che lo avrebbe fatto stare bene, qualcuno allegro, qualcuno con cui ridere e uscire con gli amici. Qualcuno con cui camminare mano nella mano, che non si scordava ricorrenze e anniversari.

Ma John non era una persona che sapeva mentire. Nemmeno una bugia piccola. Non era capace e basta.

«Ehi, Sherlock...» Una mano si appoggiò sulla sua spalla facendolo sobbalzare lievemente. «Scusa, non volevo spaventarti...Io...Senti, fai finta che non abbia detto nulla. Lo capisco che la cosa non ti interessi, cioè...Io...Se non mi vuoi più...Se ti dà fastidio...Posso chiedere a qualche compagno di squadra se mi può ospitare per questa notte. Domani potremmo vedere se è possibile cambiare...»

Di fronte a quel fiume sconclusionato di parole Sherlock si riscosse dal suo torpore. John aveva frainteso tutto, ma c’era da capirlo. Neanche lui era davvero sicuro di ciò che era successo in quei minuti. Come diamine erano passati dalla chimica a...quello?

Non era importante ora, però. La cosa importante era fermare John. Cacciare dalla sua mente tutte quelle idee assurde.

La cosa lo interessava eccome, e questo l’amico doveva capirlo chiaro e tondo. John non doveva andare a dormire da chicchessia. Il suo posto era lì con lui.

Quindi fece l’unica cosa che era in grado di fare. Visto che le parole non si degnavano di uscirgli di bocca, afferrò la mano di John posata accanto a lui e lo abbracciò tirandoselo contro. John si irrigidì per qualche istante, preso in contropiede, poi, però, si rilassò tra le sue braccia. Appoggiò la fronte sul suo torace e strinse le mani sulla sua schiena.

«Non so cosa ci trovi in me, John... Tu che più di chiunque altro conosci il mio vero carattere.» Il ballerino sospirò chiudendo per un momento gli occhi. «Tu meriti meglio di me.»

A quelle parole, John sembrò rilassarsi ancora di più, come se cominciasse a capire quello che Sherlock trovava così difficile da tradurre a parole. «Avevo paura che non mi credessi, Sherl... Non mi era mai successo prima. Questa cosa... Questo sentimento... Non ho mai provato una cosa così. Non credevo neanche esistesse, un sentimento così.»

Questa era una cosa che Holmes poteva capire. Forse era davvero la prima cosa detta da John di cui poteva dire di sapere esattamente di cosa stesse parlando.

«Credo di poter affermare che siamo messi nella stessa situazione.» Sherlock era convinto che John non potesse non accorgersi di quanto il cuore gli stesse battendo forte. Aveva ancora una certa paura che stesse succedendo tutto nella sua testa, ma la sensazione del corpo di John tra le sue braccia era reale, giusto? E se l’indomani si fosse svegliato e si fosse accorto che non era successo davvero?

Il compagno si allontanò un poco dal suo torace e lo fissò dritto negli occhi. Sembrava insieme sia sorpreso che emozionato. «Sherlock... Davvero anche tu... Cioè... Provi qualcosa per me?»  

A Sherlock sembrava tutto assurdo. Come poteva non capire quello che stava infuriando dentro di lui? E se davvero stava succedendo solo nella sua testa?
Esisteva un modo per essere sicuro non fosse così. Il palazzo mentale era costituito da un posto che Sherlock conosceva bene: le stanze, gli oggetti, tutto era conosciuto, sapeva dove andare, sapeva perfettamente come muoversi. Le persone che vi trovava all’interno erano le persone che conosceva nella realtà e che in qualche modo erano diventate il simbolo di un qualcosa di importante nel bene e nel male. Nel suo palazzo mentale aveva trovato Mycroft, Greg, la signora Hudson e ovviamente John.

John vi era entrato immediatamente, senza chiedere il permesso. Aveva spalancato la porta, mettendosi a sedere comodo sulla poltrona di fronte alla sua. Quello che non poteva fare nel suo palazzo mentale era vedere qualcosa che non aveva mai visto, incontrare qualcuno mai incontrato, saggiare sensazioni mai provate.

«John, non potrei provare per nessun altro quello che provo per te.»

«Non sei come nessun altro Sherl, ci sei solo tu qui,» disse, indicandosi il petto. «Dio, quanta voglia ho di baciarti...»
Sherlock sentì il viso diventare sospettosamente caldo.

«Non mi rendi le cose più semplici così, però. Resistere non è per niente facile, sai?» sorrise appena l’altro, fissandolo negli occhi.

«E tu non resistere!» Balbettò Sherlock.

John sorrise. Un sorriso che gli arrivò a illuminargli lo sguardo. I suoi occhi blu, che erano in grado di raggiungere sfumature scure degne dell’oceano più profondo ora assomigliavano a un cielo estivo.

Sherlock non credeva di stare per vivere davvero quel momento. Era seriamente convinto che  nell’attimo in cui le labbra di John avrebbero toccato le sue, tutto sarebbe sparito. Probabilmente fu per questo che non chiuse subito gli occhi. Per questo che, quando le mani di John presero il suo viso e il suo profumo gli invase le narici, non era pronto. E quando le labbra lo sfiorarono per la prima volta non rispose subito. Troppo scioccato per fare qualcosa.

Era vero, dunque.

Stava succedendo davvero? Non era nel suo palazzo mentale.

Un altro tocco gentile sulle labbra e Sherlock smise di pensare, smise di cercare di capire, si lasciò andare al suo primo bacio.

Il bacio di John era iniziato lieve, delicato, quasi timoroso di approfondire, ma poco alla volta le labbra imploravano di più, la lingua curiosa chiedeva il permesso di danzare con quella di Sherlock, che ovviamente la accontentò.
Sherlock non era un esperto di baci, ma era certo che nessuno baciasse come John. Sembrava lo volesse divorare, come se non ne avesse abbastanza, come se non si volesse mai fermare.

Quando separarono le labbra rimasero fronte a fronte, quasi a non volersi dividere. Gli occhi chiusi, cercando di recuperare il fiato e tranquillizzare i cuori
impazziti. Le labbra erano gonfie di baci, ma senz’altro pronte a riceverne ancora e ancora.

«Sai, Sherlock,» disse John giocando con i suoi capelli. «La chimica non è per niente male.»
Holmes iniziò a ridere, le mani ancora aggrappate alla felpa del compagno, sicuro ora più che mai di non volerlo lasciare più andare.
 
***
 
Le gradinate erano affollatissime. Dopo gli esami – che erano andati molto bene sia a Holmes che a Watson – si teneva la partita tra la loro scuola e quella che si trovava al di là del fiume. La rivalità tra le due era altissima. Competevano su tutto, e la partita di rugby post-esami era una tradizione.

Sherlock ovviamente non si sarebbe mai perso quella partita. Il suo ragazzo – quanto era difficile crederci anche dopo la settimana appena trascorsa! – era la punta di diamante della squadra.

Prima del fischio d’inizio lo aveva visto sollevare lo sguardo per cercarlo e rivolgergli un sorriso luminoso a cui non aveva potuto far altro che rispondere con un altro sorriso, più piccolo, ma che per John, Sherlock ne era certo, era più luminoso del sole di quella mattina. Gli aveva detto giorni addietro quanto fosse speciale il suo sorriso e quanto gli illuminasse la giornata. Quanti ne avrebbe voluti vedere più spesso.

«Vedo che sei di ottimo umore, fratello.»  La voce di Mycroft lo riscosse dai suoi pensieri sdolcinati.
Il maggiore degli Holmes non si perdeva mai la sfida di rugby, Sherlock immaginava che non fosse proprio per il rugby che il fratello era sempre presente, ma non aveva mai voluto indagare fino a quel momento.

«Non sapevo che ti interessasse il rugby, Mycroft.» gli disse, lasciando che il suo sguardo vagasse per il campo. Vide John avvicinarsi a Greg – che per quella partita era in campo – durante un time out. Li vide parlare, spintonarsi e ridere prima di riprendere i loro posti.

Un colpo di tosse imbarazzato accanto a lui lo costrinse a staccare gli occhi dalla scena.  «Dicono che quest’anno sia il nostro anno.» riuscì a dirgli alla fine il fratello.

«Già, lo dicono.» Sherlock sorrise, per una volta era riuscito a mettere in difficoltà Mycroft. Finalmente il fratello dimostrava davvero l’età che aveva.

«La danza va bene?» gli chiese Mycroft, cercando di cambiare discorso.

«Sì, devo migliorare ancora molto, ma va bene. Grazie dell’interessamento.» La signora Hudson era fiera di lui. Durante le lezioni dopo gli esami gli aveva detto che finalmente non era buona solo la tecnica, ma anche l’espressività. Era convinta che gli fosse capitato qualcosa e continuava a guardare lui e John con un sorriso divertito, ma non aveva mai aggiunto altro.

Passarono alcuni minuti in silenzio fino a quando Mycroft riprese la parola: «Sai, Sherlock, John sembra davvero un bravo ragazzo.»

Sherlock si voltò verso il fratello e vide un sorriso sincero sulle sue labbra.

«Anche Greg sembra un bravo ragazzo,» replicò lui, porgendo quel piccolo ramo d’ulivo. Che fosse l’inizio o meno di un avvicinamento tra loro, Sherlock non lo sapeva, ma apprezzava il tentativo del fratello e voleva dimostrargli che anche lui era disposto a fare dei passi verso di lui, se Mycroft avesse voluto tentare.

I due fratelli si scambiarono un sorriso d’intesa mentre in campo, l’ultima azione di John e Greg, portò il punto della vittoria.
 


Fine


Note: spero che questa ff vi sia piaciuta, in primis a Federica, per cui è stata scritta, ma che anche a tutte voi. E un grazie a Chia che mi ha supportata in questa avventura, oltre che a Slanif, che come al solito rende italiana la lingua che uso, che in genere ci si avvicina soltanto XD
  
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