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Autore: HellWill    03/04/2018    0 recensioni
Tarish l'ha amata alla follia, ma lei era sposata con un altro uomo; così, piuttosto che farla soffrire ancora, le ha affidato loro figlia e se n'è andato, cercando di vivere una nuova vita... Inutilmente, con il cuore spezzato, Tarish finisce sul fondo del baratro.
Genere: Angst, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Dolore.
Dolore dappertutto.
Dolore infinito, ad ondate, continuamente che mi colpiva senza sosta.
Era infinitamente dolore sul mio orizzonte, senza l’oggetto del mio amore, e senza più nulla a parte me stesso. Che gran tesoro, me stesso.
E dopo il dolore, la paura. Che avrei fatto?
Ero assolutamente perduto, senza la mia Lily e la mia Sue, ma al tempo stesso capivo che ormai non erano più mie.
Le avevo barattate in cambio di una vita senza più significato, e ora che il baratto non mi sembrava più tanto ovvio, le rivolevo indietro. Entrambe.
Anche rivederle un giorno alla settimana mi sembrava equo.
Ma capivo al tempo stesso che il baratto che avevo effettuato non si poteva effettuare di nuovo, e che mi dovevo tenere quello che avevo: una vita e la mia vita. Che non erano la stessa cosa: la vita che avevo vissuto non era la mia vita di adesso.. purtroppo.
Ancora dolore.
Non so come, non so perché, ma dolorosa mi ritornò in mente la prima notte d’amore con Sue, con tutte le incertezze, tutti i sorrisi stanchi, tutte le promesse non fatte e non mantenute.
Semplicemente ricordai l’amore che spinsi dentro di lei con delicatezza, come per non farle male, e le carezze e i baci che le diedi sulla sua pelle bianca e liscia.
Semplicemente ricordai di come fosse strano che l’amore potesse svanire pian piano dalle nostre labbra per lasciar posto all’amarezza di un amore non corrisposto.
Semplicemente ricordai di come fossero calde ed intense le sue bugie mentre mi diceva «Ti amo» in quel letto che ancora è di sopra, e in cui dormivo fino a qualche giorno fa.
Semplicemente mi ricordai di come mi sorrideva, quella notte in cui il sesso fu uguale all’amore, e in cui i sorrisi e i sospiri furono uguali alle parole e alle canzoni.
Ricordai di come fosse bianca e delicata la sua pelle, come se con un’unghia dovesse rompersi sulle sue carni sode e morbide al tempo stesso, ricordai di come i suoi muscoli si tendevano sotto le mie mani mentre facevamo l’amore con un miscuglio di colpa e rimpianto…
Ricordai il calore del nostro letto, nostro solo per una notte e poi basta, mentre lei mi sussurrava parole che non capivo in una lingua che non conoscevo, come se mi stesse insultando ma non capisse né perché né come..
Semplicemente ricordai il suo odore sulle mie lenzuola, e ricordai il suo odore sulla mia pelle, e il mio sulla sua, e i suoi occhi viola mentre mi guardava con misto di desiderio e rimpianto, come se avesse fatto una cosa sbagliata che però desiderava da tempo..
Ricordai di come mi parlava, e di come mi teneva le mani, delicatamente come se avesse paura di rompermi, e di come mi guardava la prima notte in cui il nostro amore è iniziato e finito.
E ricordai di come aveva guardato la nostra bambina, la prima volta, con colpa e amore negli occhi, come se non l’amasse del tutto; ma amava più lei che me, e questo era tutto ciò che c’era da ricordare.
 
Sapevo che da quando mi aveva tolto tutto il sangue di Erito ero diventato parzialmente umano.
"Parzialmente" perché con gli umani condividevo solo la mortalità e la fragilità
E non me ne dispiacevo.
Avrei voluto uccidermi. Persino una morte dolorosa era meglio di quel tormento che stavo passando.
Agli sprazzi di lucidità si alternavano sprazzi di follia, e amaramente capii perché per un Erito fosse difficile innamorarsi e poi essere salvato dalla creatura amata.
Mi chiesi se anche per gli umani è così doloroso quando si lascia o si è lasciati dalla propria creatura, e giunsi alla conclusione che probabilmente l’amore è uguale per tutti, cambia solo la sua interpretazione. E giunsi alla conclusione che quindi sì, tutti provano un minimo di dolore o dispiacere quando si lascia la creatura amata.
Mi chiedo come si faccia ad illudere una persona quando questa ti ama alla follia. Forse è proprio perché ti ama alla follia, che è così facile da illudere?
Il mio amore era caratterizzato da una folle lucidità: sapevo precisamente cosa provava Sue nei miei confronti, ma me la'ero goduta finché avevo potuto. Altrimenti sapevo che me ne sarei pentito per tutta la vita.

Dolore, ancora.
Toccandomi la fronte mi accorsi di avere la febbre, e stupito e amareggiato mi chiesi se l’amore potesse fare un simile effetto, se un sentimento, un’emozione potessero far ammalare anche il corpo di quel male strano ch’è l’amore puro.
Scossi la testa e mi rifugiai nella camera di Hilary; il letto che avevo condiviso con Sue non era proprio quel che si dice indolore da sopportare.
Tra i brividi di freddo e i brividi di dolore, mi addormentai, ma il mio non fu propriamente sonno; fu più un dormiveglia, più veglia che dormi.
Dietro palpebre chiuse vedevo tutti i momenti passati insieme a Sue, ad Hilary, e poi insieme a tutte e due; vedevo tutti i ricordi di loro, della loro pelle, del loro sguardo e dei loro occhi, e il loro odore, di entrambe, mi perseguitava continuamente nel sonno.
Volevo piangere, ma non ne avevo la forza, non ne avevo la voglia.
Non sapevo nemmeno come si faceva, dopotutto.
Quando aprii gli occhi – sì, perché non è corretto dire che mi svegliai: ero stato sveglio ad occhi chiusi tutta la notte, senza la forza di aprirli per interrompere il supplizio – stava nascendo il sole, ma non mi alzai. Non ne avevo le forze, ma improvvisamente mi chiesi perché.
Perché?
Perché non ne avevo più le forze?
Chiusi gli occhi e desiderai trovarmi in un altro luogo, per non perdere l’incoscienza; sapevo che se l’avessi persa, sarebbe stato per sempre, e a quel punto avrei solo potuto uccidermi, o brancolare nella mia vita fino a quando la morte non mi avrebbe sorpreso solo ed ubriaco su una strada, precisamente sulla traiettoria di un tir.
Sempre con gli occhi chiusi, incespicai fino alla porta, e caddi per le scale fino a giù, dove mi rialzai e corsi via, e sempre ad occhi chiusi presi le chiavi della macchina e sempre ad occhi chiusi guidai la macchina fuori dalla città che avevo scelto precedentemente per la mia vita, e fuori dalla mia precedente vita, per non farvi mai più ritorno. 

Ed è come se non fosse mai successo nulla.
Cos’ho fatto in questi sette anni?
Non ho una casa, non ho una famiglia, e non ho una vita.
Qui, con questo masso al collo, mi chiedo se sia possibile che possa trascinarmi sul fondo più di come non sia ora.
Mi chiedo come questa pietra possa portarmi più giù di così, mi domando se sia possibile scendere ancora, e se dopo non ci sarà nulla.
La gioia di una nuova vita?
Questa parola mi fa ridere. Gioia! Ah!
Si avvicina un passante. Forse è meglio che vada, prima che mi convinca a fermarmi. Alzo le braccia, con la pietra in mano.
È vicino, il passante, e spero che mi prenda. Così, irrazionalmente.
Poi mi accorgo che l’impatto con l’acqua non arriva. E che la pietra mi pesa sul collo. E che qualcosa mi tiene per mano.
È una mano delicata, piccola, e il viso che mi guarda triste è ancora più piccolo.
O forse è la mia immaginazione, forse sono già morto e sto sognando che qualcuno mi salvi dall’acqua, forse sto morendo e non lo so.
Mi tira su, con fatica. La aiuto, anche se non so perché. Mi isso su, e lei si accascia su di me, guardandomi con le lacrime agli occhi.
«Hai debiti?» chiese, piangendo su di me. E non so chi mi ricordò.
«No, ma sono povero lo stesso» risposi, togliendomi la corda da collo.
Sognavo ancora l’impatto con l’acqua. Che strano, sprecavo il mio ultimo ossigeno per pensare, anzi, immaginare che la mia vita continuasse.
Era molto diverso da come l’avevo immaginata. Intendo la morte.
Lei, senza alcun ritegno o vergogna, si rannicchiò su di me, e rise, rise istericamente. E provai una tristezza immensa per quella creatura così piccola e triste.
«E cos’hai perso?
«Tutto. Attualmente ho tantissime cose ma nulla. Ho perso mia figlia, mia moglie, la mia casa, e la mia vita. Tutto ciò che mi tiene in vita sono un cuore che batte e dei polmoni che respirano. Tutto qui.
«Beato te. A me nemmeno quello» rise. Sorrisi, triste. Non capivo come mai mi avesse salvato. Per condividere le sue sofferenze? O forse lei sarebbe stata la mia nuova ragione di vita, finché non mi avesse abbandonato o fosse morta anche lei?
Le domande mi incuriosivano, ma il mio cuore era troppo malato d’amore per ascoltarle. E intanto io annegavo, nella realtà annegavo.
«E tu invece cos’hai perso?
«Tre figli, un marito, un amante, la mia casa e la mia città. Ho perso tutto, e la mia vita anche mi sta lasciando. Ho un cancro, e morirò stanotte» rise. E non seppi perché ridesse.
«E perché hai perso tutto?
«Perché ho amato la donna sbagliata. E perché ho voluto continuare ad amarla, e la amo ancora.
Rise, e risi con lei.
«Invece la mia notte è ubriaca. La mia ultima notte. Straniero, vuoi fare sesso con me?
«No.
«Peccato. Sono brava» ammiccò, e sorrisi triste, ancora. Sì, il destino si faceva beffe di me; mi faceva salvare da una donna che stava per morire. Sentivo l’acqua che mi entrava dentro, ma non scendevo giù. Ero fermo, avevo davvero raggiunto il fondo. Sprecavo il mio ultimo ossigeno ancora ad immaginare, ancora a pensare, ancora a ricordare e a sognare. Che strana che è la vita, si dice da vivi; bè, che strana che è la morte, dico io che sto morendo... 
«E tu, invece, perché hai perso tutto?
«Perché mio marito non mi amava, e mi ha lasciata con tre figli al carico; sono morti l’uno dopo l’altro, di fame. La mia casa è stata bruciata da un incendio, e la mia città ora mi rifiuta. Ho perso tutto. Come ti chiami?
«Kristian.
«Tiana.
Restammo un po’ in silenzio, e sprazzi lei rideva e piangeva, e quando piangeva mi chiamava, e conobbi la morte in faccia, quando con dolore si aggrappò a me e mi disse:
«Kristian, non morire. Non sai quanto desidererei poter vivere ancora, adesso che sto morendo. Mi do della stupida per aver invocato la morte, poco tempo fa, Kristian. Vivi. Per favore. E sappi che ti proteggerò da lassù.
Capii che credeva nel Paradiso, ed era sicura di andarci. Anch’io ero sicuro che ci sarebbe andata, nonostante non credessi nella vita dopo la morte, almeno non come i cristiani e tutti gli altri. Semplicemente credevo che dopo la morte ci fosse semplicemente il nulla, e basta. E per quello cercavo l’oblio.
E mentre moriva, le accarezzai i capelli, e la calmai, finché chiuse gli occhi e smise di respirare.
La pietra giaceva sotto di me, ancora legata e con un cappio mi teneva giù.
E mi ricordò il mio amore. Così pesante, per lei. Lei, che si era tolta il cappio dal collo e lasciando l’amore sott’acqua se n’era andata. Forse per sempre.
Anzi, a dire il vero ero stato io. Il cappio si era spezzato. Non sciolto, spezzato. Si era spezzato, lasciandola libera. Finalmente, libera.
E anche se era doloroso per il masso, per me, abbandonato sul fondale freddo di un fiume inquinato, sapevo che era stata la cosa giusta.
Eppure non riuscivo a vivere.
Lei mi aveva pregato di vivere, e di non invocare la morte.
Eppure non potevo vivere.
Non così.
Non in quel modo.
Quella notte invocai la morte per l’ultima volta, e lei rispose dolcemente come un balsamo per la mia anima spezzata.
   
 
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