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Autore: TellMeRose    07/04/2018    6 recensioni
"Erano lontani anni luce quando Hermione bussò alla porta e Draco aprì. Erano su di un pianeta extraterrestre quando il tempo, per fisica, si accorciò così tanto da rendere infinitesimale l’attimo prima che le due bocche si baciarono, finalmente. L’aria che si respirava sulle stelle entrò nei polmoni dei due innamorati, così allergici a ciò che si respirava sulla terra; si trovarono così, purificati dall’esplosione di quella supernova ch’era rimasta in stand-by per troppo tempo. Era qualcosa di totalmente nuovo ed inaspettato, ma così perfettamente familiare e desiderato; le dita di entrambe le mani della Creazione di Adamo, che dopo tanto tempo si toccavano forte; qualcosa che avrebbe fatto male, male da morire a pensarlo da soli, ma insieme era così naturale. Il movimento degli astri si congelò in cielo, il tempo, ora, era un signore distratto, un bambino che dorme, quell’istante si sarebbe auto rigenerato continuamente, sarebbe rimasto incollato negli occhi di Draco ed Hermione per sempre, senza cancellarsi mai."
Questa storia partecipa al contest “Tell me about... your OTP" indetto da Iamamorgenstern sul forum di EFP
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Draco Malfoy, Hermione Granger | Coppie: Draco/Astoria, Draco/Hermione, Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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Questa storia partecipa al contest
“Hotel Supramonte e Curi infranti”,
indetto dall’illuminante e d’ispirazione
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Un amore vero di notte, falso di giorno

 

29 Marzo 2003

Quella mattina Hermione si svegliò con il freddo e con il tarpante pensiero che certe cose non cambiano mai. Ron russava quieto nella penombra della stanza formando un bozzolo scomposto con tutte le lenzuola ruvide del piccolo letto matrimoniale. Erano le cinque e quarantasei e la sveglia doveva ancora suonare.
Si passò una mano pesante sugli occhi, non aveva dormito quella notte, era riuscita a prendere sonno solo ai primi chiarori dell’alba, per essere poi bruscamente riportata a galla dal freddo umido di quell’uggioso Marzo.
Subito fu tentata di portare a se la coperta con un violento strattone, fu solo un momento, un bagliore d’ira insensata, poi il suo sguardo cadde sui capelli rossicci, appiccicati alla fronte, folti, di Ron; cadde sulla forma così teneramente sgraziata del cingolo scapolare, le costellazioni di nei, sulle braccia così forti, così bianco latte, la bocca imbronciata a formare un cuore, l’aveva baciata tante volte.
Tirò le labbra secche ed impastate in un sorriso tiepido e si alzò, quella mattina l’avrebbero attesa ad Hogwarts per un colloquio, un colloquio che desiderava da mesi. Dopotutto, pensò, era una fortuna essersi svegliata prima ancora dell’orario impostato sulla sveglia, attentamente calcolato la sera precedente, comprensivo di ben tre ore d’anticipo per ogni evenienza, non si può mai sapere.
Il cottage Weasley-Granger, nella campagna londinese, si affacciava su una stradina sterrata e polverosa, che separava la dimora dalle interminabili seminature di grano, campi che in estate si tingevano dell’oro più denso, ma che nella primavera che sapeva ancora d’inverno, erano neri ed aridi; oltre ancora si disegnavano le dolci colline, dall’erba selvaggia e i castagni  dalle foglie larghe, che,  a Marzo, spingevano ancora per nascere; sforzando gli occhi si poteva vedere qualche bassa montagna, ma la foschia intrappolava le cime imponenti anche nelle giornate più limpide.
Hermione, sull’uscio di casa, si regalò qualche secondo per guardare verso l’orizzonte, corrugando le sopracciglia per proteggersi dal vento; si chiese come i colori del paesaggio potessero diventare così grigi, freddi e spenti, sempre, giorno dopo giorno. Una voce, che le veniva dal petto, le suggeriva che il motivo non era forse da ricercarsi nella campagna, quanto nei propri occhi, sempre più appannati, teneramente annoiati e felicemente abituati ad una vita che non ricordava nemmeno più come era iniziata.
Non diede credito a questi pensieri, affrettò il passo sul ghiaino polveroso, non curandosi del bordo inferiore della veste che s’incipriava di bianco sporco, si passò veloce una mano tra i capelli, per tentare di sistemarli. Il fermaglio a forma di rosa che si era comprata da sola, quello che non piaceva a Ron, le stava dando filo da torcere, le ciocche fuoriuscivano ribelli e crespe, un piccolo gioiello tra i rovi. Si trovò a specchiarsi di sfuggita nel vetro della finestra, sistemandosi ancora qualche capello in modo maldestro, si guardò negli occhi: oggi, ad Hogwarts, la McGranitt le avrebbe firmato una lettera di raccomandazione per una carica importante al Ministero Della Magia, fremette. Continuò poi a camminare verso la passaporta; l’euforia e l'eccitazione, che si provano prima di un colloquio, invasero il corpicino della strega, che tuttavia sentì un blocco, come se la felicità, che stava indubbiamente provando, non potesse esprimersi su tutti i 360 gradi. Che sensazione controversa, non poi così nuova, si rammaricò. Scacciò quel pensiero e si convinse di essere sciocca, e la strinse tra le palpebre quella felicità, la abbracciò con gli occhi, rinchiusa e protetta tra le ciglia, dove erano anche tutte le altre immagini di quella, ancora breve, ma bella vita, vissuta accanto a Ron; sorrise.
Le sembrò per un attimo che il cielo si tingesse appena poco più di azzurro, in quel frangente esatto in cui toccando quel vecchio carillon in mezzo all’erba, uno strappo allo stomaco la allontanava chilometri e chilometri dalla sua casa, da suo marito. 

 

***

 

Se il cielo le era sembrato più azzurro si trattava sicuramente di uno stupido abbaglio, pensava Hermione salendo un gradino, mentre la pioggia scrosciante scuoteva i grossi finestroni di Hogwarts. Rapidi fulmini schiarivano il cielo, seguiti dal rombo tetro che si disperdeva nell’ampia tromba delle scala. Le torce erano accese anche di primo mattino, rendendo l’atmosfera intrappolata in un crepuscolo in largo anticipo. Saliva le scale con grande affanno, gli abiti secchi appena asciugati da un abile incantesimo, le guance arrossate dal piacevole contrasto caldo-freddo che l’aveva accolta una volta entrata nel castello.
Due ore e quarantasette di anticipo. Ne approfittò per fare il giro largo della sua ex casa, le immense pareti, i quadri sempre diversi, i corridoi che si imbottigliavano tra loro fino a diventare un labirinto; le parve di scorgere persino un’ombra felina, che Mrs Purr fosse ancora tre le anime vive? Lo dubitava. Finì inevitabilmente per dirigersi verso la biblioteca: il lupo perde il pelo…
Forse fu la vastità di tempo da perdere che percepiva di avere, voleva ben pensare, o forse quel fermaglio a forma di rosa non voleva collaborare, non da ammettere, tendeva a non amare la vanità, in ogni caso Hermione decise di fare tappa nel bagno delle ragazze accanto alla biblioteca.
Si specchiava corrucciata, chiedendosi perché non avesse mai dato così importanza agli incantesimi per capelli. Il fermaglio le scivolò maldestramente di mano, si girò sulle punte dei piedi, ma fu prima di chinarsi a raccoglierlo che successe.
Ora, è da sapersi che il destino è un cacciatore paziente. Certe coincidenze sono scritte in anticipo, e sono come cecchini acquattati con un occhio nel mirino e un dito sul grilletto, in attesa del momento adatto in cui fare fuoco. Il cecchino in questione, quella mattina, si era appena appostato al muro umido e ammuffito del bagno, aveva le sembianze smorte e spente di un ragazzo magro, spigoloso, biondo, quasi invisibile e sparò esattamente nel momento preciso in cui gli occhi di Hermione incontrarono quelli di Draco Malfoy.

 

 

Natale, 1996

 

Draco Malfoy imprecò nuovamente, ormai aveva perso il conto, mordendosi la lingua con disappunto: quel frastuono di chiacchiericcio frivolo proveniente dalla sala grande non lo stava sicuramente aiutando a pensare. Pensa, pensa, pensa. La montagna di libri presi in prestito dal reparto proibito della biblioteca lo avevano aiutato fino ad un certo punto, gli avevano infarcito la testa di incantesimi oscuri e maledizioni ad hoc per la situazione; ma ora doveva sbrigarsela da solo. Delle urla cominciarono a rendersi chiare al di fuori, nel corridoio, grida che lo distraevano e facevano innervosire. Cominciò a ripetere a fior di labbra, ricapitolandoli, più per compiacimento che per necessità, tutti gli incantesimi finora inflitti all’armadio svanitore che si trovava davanti a lui, erano molti e tutti potenti e forse gli sarebbe venuto in mente quello giusto, quello che cercava da ore e doveva solo concentrarsi e un grido di nuovo! Inspirò profondamente stringendo i pugni fino quasi a infliggersi delle ferite con le proprie unghie. Gli schiamazzi provenivano esattamente fuori dalla Stanza Delle Necessità, necessità di togliersi i vestiti probabilmente, intuì dai versetti acuti soffocati; la sera di Natale, pensò Draco: schifosamente romantico, ma di classe. Non sarebbero entrati. E avrebbero fatto bene a farsene una ragione e sparire in fretta, o giurava sulla sua stirpe li avrebbe schiantati a suon di urla scioccate, a costo di mandare a monte tutto quel piano. Quello stupido piano, terrificante piano. Un brivido percorse la strada decisa delle sue vertebre: aveva di nuovo desiderato quella cosa. Una mano, munita di artigli, gli costrinse lo stomaco, Draco, poco convinto, sperò fosse la fame, eppure sapeva, gli succedeva ogni volta, quando, in momenti di debolezza, sfiorava l’idea di arrendersi e al diavolo tutti e tutto. Che aveva una paura fottuta, che era un codardo viscido.
Fu forse in questo momento di lucidità di spirito che gli venne l’idea, l’anatema perfetto; geniale, ripassò la formula mentalmente e senza pensarci su troppo, con la mano che ancora tremava, i due là fuori che probabilmente avevano iniziato sul muro per finire chissà dove, il brusio natalizio e brulicante proveniente sette piani più sotto, Draco scagliò l’incantesimo, provando quella sensazione di potenza ed invincibilità che solo i maghi oscuri più potenti possono sperare di provare, agitò la bacchetta.

 

***

 

Solo i maghi oscuri più potenti, si fece il verso Draco quella mattina, chiuso, con tutti gli incantesimi che conosceva, nel bagno del dormitorio di Serpeverde. Avrebbe saltato anche il pranzo, se non avesse trovato una soluzione: quell’enorme vescica da bruciatura sull’avambraccio persisteva ancora pulsante. Se l’era procurata la scorsa sera nella Stanza Delle Cose Nascoste, quando aveva avuto quella stupida idea, di evocare quello stupido incantesimo, che gli era sfuggito da quelle sue stupide mani, infliggendogli quella, tutto fuorché stupida, ferita, che non svaniva o migliorava con nessun incantesimo di guarigione. Non era di certo per principianti riuscire ad evocare incantesimi con la mano sinistra, ma quelli di Draco erano comunque troppo deboli, pozioni ed unguenti erano fuori discussione se non voleva ulteriormente dare nell’occhio.
Draco non amava certo le regole, ma non provava allo stesso tempo nessun piacere ad infrangerle, non per mano propria almeno. Fu così che, a mezzogiorno, con un'umiltà che neppure pensava di possedere, con la fronte imperlata di sudore e i bulbi oculari fuori dalle orbite, ammise a se stesso di aver bisogno d’aiuto.

 

***

 

Piton era fuori dai giochi in partenza, il professore gli stava alle calcagna da mesi, come se avesse bisogno di un asfissiante arrogante baby-sitter, la notizia di un ennesimo fallimento di Draco lo avrebbe fatto gioire soltanto e Draco era troppo orgoglioso. Madama Chips avrebbe fatto troppe domande, tutte scomode e impiccione; tutti gli altri professori, che leccavano il terreno dove passava Silente, non erano l’ideale; non sapeva in che modo, ma Draco aveva l’impressione che per lui fossero riservate soltanto occhiate studiate, come se sospettassero tutti qualcosa. Non poteva certo biasimarli, chi non avrebbe sospettato del figlio del famoso Mangiamorte Malfoy? Come se padre e figlio fossero la stessa persona, un’ombra oscurò il suo viso spigoloso, ma subito tornò fiero, ghignando: e facevano tutti bene a sospettare, poveracci sciocchi, la stava facendo sotto il naso di tutti.
Si diresse poco dopo, a passo svelto, ma felpato, verso l’ufficio del professor Lumacorno, vero, era fedele a Silente, ma era vero anche che si trattava di un mago fortemente influenzabile, ma soprattutto aggirabile. Per lui non esistevano maghi o studenti buoni o cattivi, ma meritevoli o non meritevoli, e Draco sospettava che si trattasse di meritevoli di successo, più che sul piano accademico. Non era mai stato invitato a quelle sue stupide festicciole cotonate di falsità, ma credeva nelle sue doti affabili di buon raggiratore, e anche non ci avesse creduto così tanto, aveva scelta altra?
Serviva qualcuno, pensava, mentre scendeva nei corridoi stretti e bassi che conducevano all’aula di pozioni, costruito ad hoc per infiltrarsi in quella faccenda, qualcuno con sorprendenti doti magiche, che avesse anche un’inclinazione particolare per infrangere le regole più severe, e che si facesse gli affari suoi senza cantare al lupo al lupo. Impossible, introvabile, rifletteva tra sé e sé, proprio mentre successe.
Ricordate il cecchino? Ecco, questa volta lo troviamo appeso ad una scala, nell’armadio delle scorte di pozioni, visibile solo per metà e con veramente uno scarso equilibrio. Quel giorno, il cecchino, sparò esattamente quando un vasetto, ricolmo di milze di pipistrello, scivolato accidentalmente e scoppiato a terra, colorò di uno schizzo rosso acceso la mascella di Draco Malfoy.
«Granger!».
La strega imprecò mestamente, cercando di rimettersi alla bell’e meglio il mantello che la rendeva invisibile, per poi accorgersi, forse, che nessuno doveva sospettarne l’esistenza e lo buttò velocemente dietro la schiena, ricomponendosi all’istante. Draco dal canto suo, lievemente perplesso, aveva notato soltanto un maldestro incanto di disillusione, riuscito male.
«Bene, bene, bene, una mezzosangue ladra».
«Malfoy, che ci fai qui?». ringhiò Hermione, anche se tono ed espressione supportavano gran poco l’ideale aggressivo, ma più, forse, quello colpevole.
«Non credo sia la domanda esatta nelle tue condizioni: ti ho colta con le mani nel sacco, mezzosangue». Draco era sinceramente divertito dalla situazione.
«Non hai colto proprio un bel niente, io stavo solo… beh io facevo… mi serviva… io… ».
«Piantala Granger. Piuttosto dove sono i tuoi amichetti impiccioni? Sento puzza di traditori del proprio sangue».
«Loro non sono qui, Malfoy. Ora vattene o ti farò perdere la memoria fino al giorno in cui sei nato».
«San Potter e Weasel non sono qui a reggere il lembo della tua veste. Sei sospetta mezzosangue».
Hermione sudava freddo, se l’avessero scoperta a rubare ingredienti dalla scorta di pozioni, e soprattutto se avessero scoperto che pozione aveva in mente di preparare, sarebbe stata espulsa.
«Va bene Malfoy, se proprio ci tieni, sono qui perché mi servono ingredienti per una pozione… aggiuntiva… che Lumacorno ha suggerito ai più esperti… ehm, all’ultima sua festa dove tu non c’er…».
«Chiudi la bocca Granger non farò la spia: mi annoi».
Un’improvvisa ondata di consapevolezza riportò Draco alla realtà, a quello che era, a quello che era lì per fare e dunque del trio delle meraviglie e di quello che faceva a zonzo nel castello, in quel momento, non gli importava un bel niente. Hermione sbigottita, troppo impegnata a ringraziare Merlino e la sua stirpe per insospettirsi del comportamento evasivo del ragazzo, raccolse in fretta la tracolla e il mantello e fece per dileguarsi.
Ma che persona stava diventando, una volta sarebbe andato a nozze con una situazione simile: Hermione Mezzosangue Granger, la strega che tutti credevano incredibilmente brillante, che infrangeva regole a destra e a manca senza curarsi delle conseguenze… un momento.
«Granger!».
Hermione si paralizzò nonostante tutto il suo corpo le urlasse di scomparire all’istante.
«Torna qui ho cambiato idea».
Serviva qualcuno costruito ad hoc per infiltrarsi in quella faccenda, qualcuno con sorprendenti doti magiche, che avesse anche un’inclinazione particolare per infrangere le regole più severe, e, beh, esiste forse qualcosa di meglio del ricatto per guadagnare il silenzio di qualcuno?

 

 

29 Marzo 2003

 

Draco Malfoy, rampollo discendente di nobile casata, sangue puro incrostato nelle vene, ebbe solo il tempo di un fugace lampo di comprensione: stava morendo. Non gli passò davanti agli occhi nessun fotogramma della vita passata, nessun pensiero filosofico sulla vita dopo la morte, forse solo un ricordo labile di identità, per un attimo, seppe chi era: Draco Malfoy, rampollo discendente di nobile casata, sangue puro incrostato nelle vene… morente affogato nel secchio della raccolta di sterco animale, misto ad acqua piovana muffosa.
Erano solo le prime luci dell’alba, un giovane studente, Corvonero, osservava la scena con un piede appoggiato al muricciolo vicino alla capanna di Hagrid, scuotendo il petto in una sguaiata risata, mentre un altro, senza divisa, teneva a forza, dentro il secchio, la testa di capelli serici, affondandola nello sterco e prendendo contemporaneamente a pugni il ventre del ragazzo anchilosato.
I rigurgiti di sangue che salirono dalla bocca dello stomaco, si unirono nel liquame stagnante di feci rancide; Draco Malfoy tremava. Il vomito arrivò dopo, come riflesso, e i polmoni si riempirono di melma densa: stava morendo. L’ultimo pensiero fu rivolto a quei mocciosi che non avevano neppure usato la magia per ucciderlo, neppure una bacchetta: che fine coerente.
I lestofanti usarono un incantesimo per far evanescere tutto, soltanto quando videro l’ombra del mezzogigante avvicinarsi, filando via come ratti infidi.

Quando Draco riaprì gli occhi, la prima cosa che vide fu la luce di uno strano incantesimo proveniente da quello che sembrava un ombrello, si sentì subito sparire lo sterco dal viso; mise poi a fuoco una barba cespugliosa e decisamente poco curata, mentre, contemporaneamente, un paio di mani ruvide e callose lo tiravano al muro, incuranti dello sporco che imbrattava il suo corpo. Riconosciuto Hagrid, il fulmine di adrenalina che pompò nelle vene, fece rizzare dritto seduto Draco, che si strinse ostile le mani al ventre, debole.
«Non ti faccio niente, Malfoy, la McGranitt mi ci ha spiegato, io..».
Ma non riuscì a finire la frase che il ventre di Draco si sconquassò e si contorse in una morsa di dolore così inumano da sopportare, gli occhi lacrimarono, si girò sul fianco e vomitò, vomitò sterco, vomitò sangue, vomitò l’anima.
Hagrid attese qualche minuto, il ragazzo lo scrutava soltanto, si sentiva imbarazzato, posò gli occhi sul soggetto in fronte a lui, sui lembi lerci di quella camicia, che un tempo forse era stata bianca ed inamidata, ora era ricoperta di sangue scuro e avvolgeva un corpo magro ed evidentemente cachettico; i jeans logori mostravano parecchi lividi sugli arti inferiori; il petto si alzava e si abbassava in modo innaturale, gonfiando il collo e mettendo sinistramente in mostra le vene sulla pelle diafana quasi trasparente. Se l’era vista brutta, e non era la prima volta che succedeva, che Malfoy le prendesse brutalmente, ma questa volta aveva veramente rischiato grosso, forse per quello si era deciso ad intervenire. Era arrivato in tempo: era vivo, forse non stava bene, constatò Hagrid, ma era vivo.
«Fila via Malfoy, prima che altri ti vedano».
Il mezzogigante si pentì quasi subito di non aver usato un tono almeno più morbido, ma il ragazzo Malfoy, trovando la forza chissà dove, si era già alzato sulle proprie gambe ed era incespicato via, seguendo la strada verso il Lago Nero; Hagrid si riscosse e tornò alle proprie occupazioni, solo leggermente più incupito del solito.

 

***

 

Curarsi non era facile, guarire era un processo lungo e spesso doloroso, solo il tempo portava sollievo. Draco lo sapeva bene, e sapeva con disarmante precisione quanto impiegava la sua cute a depositare strati di connettivo nel formare una nuova cicatrice, sapeva in quanto tempo il sangue coagulato e secco di un ematoma si riassorbiva. Aveva anche imparato a mettere punti di sutura, a disinfettare con la saliva e come far scendere la febbre immergendosi nel Lago Nero. Anche questa volta non sarebbe cambiato nulla, ragionò, stendendosi sulla branda polverosa nell’angolo a destra della piccola stanza. La sua mente era vuota, pensò a quello che era appena accaduto e provò pressoché nulla; riusciva solo a constatare che non era la prima e non sarebbe neanche stata l’ultima volta. Il suo lavoro al castello cominciava entro due ore, avrebbe avuto tempo per riposare, dormire e riprendersi, rimettendosi in sesto.

 

***

 

Si svegliò di scatto quando il sole era già alto, sudato, appiccicoso, leggermente più sano di prima, rovinosamente in ritardo. Il sonno era stato violento e disturbato, ciò che la sua mente si vergognava e intimoriva a formulare di giorno, lo rendeva vivido in fase rem, non lasciando scampo. Draco pensò che, forse, per una parte della mattinata, era anche svenuto.
Intontito si alzò traballando dal letto, si abbottonò quell’unica camicia logora che gli restava, scrutò oltre le finestre unte di quella palafitta nel Lago Nero: pensò a quanto fosse maledettamente fortunato ad avere un posto da chiamare casa. Poi si sciacquò il viso con l’acqua di un secchio, scrostò i residui di sangue ancora rosso brillanti, cercò di dare un tono ai capelli sporchi e impaccati, faceva ancora un freddo cane per lavarsi per bene nel lago. Uscì di casa, lo stomaco bruciava da morire, strozzava il respiro e il costato doleva in modo insistente e pulsante, tanto da appannare la vista ai primi movimenti compiuti dal corpo.
Si specchiò nell’acqua del lago, si pulì una macchia sulla mandibola, desiderando disperatamente di lavar via tutto il grigiume che avvolgeva la sua figura spossata, persino l’azzurro limpido degli occhi ora restava di un grigio sporco e malato. Avrebbe potuto urlare, avrebbe potuto piangere, avrebbe potuto aggrapparsi a qualcosa, ma non ne aveva la forza, non gli era rimasto più nulla; forse solo il rispetto per il suo nome, Draco; il cognome lo aveva odiato e costretto in un angolo recondito del subconscio, e in rispetto di quel solo nome si alzò e si diresse verso il castello, resistendo alla tentazione di accasciarsi a terra per sempre, come tutte le mattine che erano venute prima di quella.

La mattina presto si cominciava sempre dalla sala grande, che una volta svuotatasi completamente, con gli studenti nelle proprie aule di lezione o sale comuni, non rischiava d’essere soggetta alla visita di qualche curioso. Dopo una breve colazione in piedi, nelle cucine del castello, insieme agli elfi domestici, Draco poteva incominciare a lavare il pavimento tra le grandi tavolate; gli avanzi della colazione, fortunatamente, sparivano con la magia insita nel castello. Poi in base agli orari degli studenti, Draco poteva dedicarsi a ripulire corridoi, bagni e stanze in disuso. Con la clausola ferrea di non addentrarsi per nessuna ragione, nelle aule, nelle case comuni e nel bagno dei prefetti; e con l’ordine categorico di non parlare con nessuno. Dal primo, al settimo piano, comprendenti i sotterranei e la torre di astronomia. Ogni piastrella, ogni maniglia, ogni crepa nel muro tirata a lucido dal buon olio di gomito del ragazzo magro e quasi invisibile.
Arrivata l’ora di pranzo, se affamato, tornava nelle cucine, ma gli elfi, tutti intenti a preparare il pranzo agli studenti, spesso gli riservavano avanzi di colazione o semplicemente occhiatacce; si chiudeva quindi più spesso nello stanzino delle scope, e riposava crollando in un sonno agitato fino al primo pomeriggio.
La seconda parte della giornata era dedicata alle cure, decisamente più faticose ed impegnative, del terreno circondante Hogwarts. La serra, il campo da quidditch con i rispettivi spogliatoi, facendo sempre molta attenzione a non intercettare studenti; rastrellava il margine della Foresta Proibita e raccoglieva i rifiuti dalle sponde del Lago Nero. Se finiva per un’ora decente, aveva del tempo per tornare nella sua casa. Il finire ad un'ora decente o meno, più che dipendere dal suo operato, dipendeva dalla sfortuna o meno di incontrare qualcuno. Qualcuno tra gli studenti, delle casate più disparate, che si accaniva su di lui, più o meno violentemente, con la magia o meno, accecati da una vendetta molto giusta, ma poco nobile: mia madre è morta perché tuo padre ha fatto la spia! Tutta la mia famiglia è stata sterminata da Voldemort. Mio padre c’era la notte della battaglia di Hogwarts. I mangiamorte, codardi come te, non si meritano niente. E come dargli torto, non si meritava niente, forse.
Se Draco era fortunato quindi, tornava a casa per mettere qualcosa nello stomaco e dormire di nuovo, in attesa che arrivassero le undici di sera, quando lo attendeva il riordino della biblioteca. Se gli studenti fossero stati più diligenti e meno cafoni non avrebbe mai impiegato fino alle prime luci dell’alba per riordinare dalla A alla Z i libri sugli scaffali, eppure finiva sempre quando il chiaro cominciava a colorare i bordi sulle finestre di rame. Alle sette riapriva la biblioteca, sgattaiolava nelle ombre buie fino a tornare nella sua dimora, dove dormiva quelle pochissime ore restanti, che lo separavano dall’inizio di una monotona, ripetitiva, sempre uguale, giornata d’inferno.
Quella mattina era in ritardo, non c’era tempo di fare colazione, in più, con orrore, si ricordò di aver lasciato un libro aperto in biblioteca quella notte: doveva sistemarlo prima che la sala grande cominciasse a svuotarsi.

Tornando sui propri passi, dopo aver sistemato la biblioteca, Draco improvvisamente avvertì un forte conato di vomito e il dolore al torace aumentare esponenzialmente, entrò nel primo bagno disponibile e si appoggiò di peso, stremato, al muro freddo e umido, affamato di aria.
Il respiro tornò a regolarizzarsi dopo poco, aveva la fronte imperlata di goccioline di sudore e gli occhi chiusi.
Aprirli non fu una buona idea per il povero stomaco, che si attorcigliò violentemente, quando, violentemente, lo sguardo di Draco sbatté contro quello di Hermione Granger.

 

***

 

 

1 Gennaio 1997

        

Mai Hermione si sarebbe potuta anche solo sognare ciò che Malfoy le aveva proposto, ma mai, certamente, lui avrebbe dovuto anche solo immaginarsi che nell’armadio di pozioni lei stava rubando gli ingredienti per prepararne una in particolare, e soprattutto per chi. Harry era diventato insopportabile con questa storia di Malfoy mangiamorte, Malfoy sospetto e Malfoy omicida, Malfoy e la collana, Malfoy e Katie Bell; non pensava ad altro da quando cantava il gallo a quando toccava il cuscino la sera. Hermione era arrivata alla caparbia conclusione che, per interrompere quel flusso di idiozie, e per togliersi evidentemente ogni dubbio, avrebbe dovuto utilizzare metodologie drastiche ma sicure, come preparare un veritaserum e versarlo nel succo di zucca mattutino di Malfoy.
Mai Hermione si sarebbe aspettata di essere colta con le mani nel sacco ed essere ricattata niente poco di meno che dalla vittima del suo piano malefico, e sarebbe subito corsa ad avvertire Harry, Ron, la McGranitt, Silente o chiunque altro se non avesse percepito, nelle parole di Draco, una minaccia velatamente più seria di un “farò la spia”.
Così doveva curare una ferita da bruciatura, provocata da qualche incantesimo sconosciuto, evocato per qualche motivo sconosciuto, in qualche posto sconosciuto e per scopi sconosciuti e sicuramente poco legali. Venne sopraffatta nuovamente dalla tentazione di gettare la responsabilità nelle mani di chi sapeva competere con la situazione, ma in men che non si dica, il suo acume macchinoso la distolse da quell’impulso. La situazione era troppo delicata per allarmare tutti alla luce del sole, e forse per intelligenza, forse per presunzione, Hermione, dopo una settimana di teorie e congetture, decise che avrebbe affrontato la faccenda da sola, attendendo che la situazione, eventualmente, evolvesse. Dopotutto era lei quella con le mani legate. Doveva soltanto presentarsi lunedì, alle tre e trentacinque, davanti alla statua di Barnaba il Babbeo del settimo piano, se voleva avere salva la pelle e soprattutto, la carriera.

Hermione e i suoi dieci minuti di anticipo, aspettavano accanto alla statua, tamburellando le dita sul muro dietro la schiena e congetturando le mille possibilità in cui si sarebbe potuto evolvere quell’incontro. Forse stava rendendo tutto più grande di quello che in realtà non fosse, forse era solo un moccioso imbranato con le pozioni, o si trattava di qualche duello illegale nella sala comune dei Serpeverde finito male. Non doveva farsi sopraffare pensando al peggio, ma fu sopraffatta, invece, dal sibilante arrivo di Malfoy dietro le sue spalle.
Si girò di scatto, trovando davanti ai suoi occhi un viso smunto, marcato dalle occhiaie e chiaramente guardingo.
«Vieni con me, Granger».
Non ebbe nemmeno il tempo di formulare un pensiero, figuriamoci una frase o un insulto, che venne strattonata e condotta, pochi passi più avanti, davanti ad un muro grande, che entrambi conoscevano bene.
«La Stanza Delle Necessità?».
«Che ti aspettavi, mezzosangue, di startene seduta sulla tua poltrona preferita, in sala comune, vicino al fuoco?».
«Certo che no, viziato presuntuoso, mi aspettavo di sapere un po’ di più riguardo ciò che io dovrei fare, secondo le tue istruzioni».
«In questo istante devi soltanto pensare ad una stanza per guarirmi questa cosa, che più tempo stiamo qui fuori, più destiamo sospetti».
«Ma non so nemmeno cosa è quella cosa, io pretendo...».
«Arriva qualcuno, rapida, Granger!».
Il rumore di passi si faceva sempre più consistente ed Hermione dovette fare per l’ultima volta la scelta definitiva, farsi beccare e scaricare ad altri il peso della faccenda, o rimboccarsi le maniche e darsi da fare; guardò Malfoy negli occhi e vi lesse il terrore, non ebbe più dubbi.

 

***

 

Gli incontri andavano avanti da una settimana, per la gioia di entrambi, tutti giorni, dopo le lezioni; stesso luogo, stessi battibecchi, stesso risultato: il nulla.
Hermione arrivava sempre in anticipo, Draco sempre in ritardo, questo scocciava entrambi in egual misura. Draco era ogni incontro più cupo e scuro in volto, come fosse preoccupato, forse per la salute, pensò Hermione. Hermione dal canto suo era nervosa in modo esponenziale e non aspettava altro che scoccasse l’ora di cena per sgattaiolare fuori. Litigavano furentemente, talvolta invece non proferivano parola per tutta l’ora, stava diventando una tortura per entrambi. Una tortura che non portava a nulla di buono: Draco non era guarito, Hermione non aveva scoperto nulla, se non la vena estremamente lunatica di Malfoy.
Se non si fosse trovata a breve la soluzione all’enigma, entrambi avrebbero desistito, era questione di tempo. A niente era servito cercare di imporre, obbligare, pretendere e poi sollecitare, chiedere ed infine anche pregare Malfoy di saperne di più sull’enorme bolla pulsante sul braccio destro, sull’incantesimo usato, ed Hermione andava a vuoto tutte le volte. Aveva anche tentato di chiedere se per caso si trattasse della stessa ferita riportata sull’avambraccio sinistro, fasciato strettissimo, tutte le volte. Draco non aveva perso il controllo, le aveva detto di farsi gli affari suoi e di concentrarsi sul braccio destro; anche se ad Hermione parve di vederlo fremere per un istante.
Passò un’altra settimana, e l’umore di entrambi diventò nero; successe un martedì.
«Insomma, mezzosangue, sono costretto a sopportare la tua presenza tutti giorni e non hai ancora fatto niente dopo una settimana».
«Se ne sapessi di più magari…» Hermione era chiaramente disperata e sull’orlo di una crisi di nervi.
«Se stessi più zitta forse riusciresti a concentrarti meglio» anche Draco dal canto suo aveva l’umore che viaggiava da giorni sul filo di un rasoio, imprecò, quando Hermione, toccando la ferita di sfuggita, gli provocò un dolore lancinante.
«Merlino, mezzosangue, come sei imbranata!»
«Oh, vai al diavolo, Malfoy ».
«E poi saresti considerata la strega più brillante della tua età».
«Almeno io non mi riduco un braccio in poltiglia».
L’atmosfera si stava surriscaldando velocemente, Hermione era sull’orlo delle lacrime, Draco per un istante desiderò dirle tutto e farla finita con quel dolore maledetto, ma il muro creato da entrambi non cedette.
«La verità è che siamo qui da due settimane e non abbiamo risolto maledettamente niente, Granger!»
«La colpa è del fatto che tu non collabori, Malfoy!»
Hermione si allontanò dal tavolo su cui sedevano entrambi, frustò le braccia al vento, tirando le maniche della felpa, nervosa: «come posso risolvere qualcosa, senza materiale alcuno e con te che costantemente mi stressi l’anima? Sei insopportabile, Malfoy, dannazione!».
Le vennero in mente tutte le buone motivazioni che aveva per gettare la spugna, per arrendersi, per tornare a svegliarsi serena e dormire tranquilla, quella situazione di segretezza assoluta stava mettendo a dura prova il suo autocontrollo. Ed il fatto di non aver capito nulla su Malfoy la rendeva ancora più frustrata. Ricacciò indietro le lacrime e respirò profondamente.
Draco osservava con cipiglio impassibile il crollo emotivo di Hermione: non lo avrebbe mai ammesso neppure a se stesso, ma la strega aveva ragione, non poteva continuare a provare incantesimi e unguenti curativi a vuoto sulla superficie danneggiata, sperando che uno di questi potesse migliorare, da un momento all’altro, la ferita. Era stanco, spossato e moralmente distrutto, ma non lo avrebbe mai dato a vedere come Hermione. In più a peggiorare le cose c’era Piton, con i suoi insistenti consigli, l’armadio svanitore ancorato senza progressi e i compagni che facevano sempre e sempre più domande.
Quella situazione doveva risolversi: guardò Hermione negli occhi, la disperazione fatta a persona e per la prima volta entrambi provarono empatia, motivi diversi, situazioni diverse, ma stesso sconquassamento d’animo. Un filo li legò per un istante, per un attimo gli sguardi parvero imbrigliarsi tra di loro, ed Hermione sentì che Draco stava per dirle qualcosa, poi abbassò lo sguardo e il tono si fece gelido: «è vero, la colpa è mia, che ho creduto che una sporca nata babbana potesse avere qualche dote magica».
Hermione non ascoltò oltre, uscì dalla stanza, Draco non tentò di fermarla, non la seguì.

 

***

 

Il giorno seguente Hermione non si presentò all’incontro, per Draco fu frustrazione e rimase irritabile per tutta la serata.
Il giorno dopo ancora Hermione non si presentò all’incontro, Draco ghignò sarcastico e maledisse la mezzosangue e la sua cocciutaggine, con leggerezza.
Il giorno ancora dopo Hermione non si presentò all’incontro, Draco parve sollevato, aveva ricominciato a mangiare abbondante, il piano con l’armadio era visto in chiave ottimistica, Piton aveva smesso di rompergli l'anima e si divertiva a fare il bullo con i suoi amichetti Serpeverde. Vide persino Hermione nei corridoi, rise del suo gruppo di amici, fischiò divertito e prese in giro Weasley.
Il quarto giorno Draco non seppe se Hermione si presentò all’incontro, si sentiva euforico e scarico di responsabilità, come mai prima: se Hermione aveva gettato la spugna con tanta leggerezza, poteva buttarsi tutto alle spalle anche lui, chissenefrega. Si era lanciato in una folle partita di quidditch ghiacciata, aveva vinto. La serata continuò nella sala comune dei Corvonero, calici di vino elfico erano serviti accanto a bicchierini d’assenzio: quel passaggio segreto che portava ai Tre Manici Di Scopa stava dando i suoi frutti, discutevano dei ragazzi. Draco bevve, baciò, visse, leccò, rise, poi si chiuse in bagno, la bolla rosastra si era espansa fino all’incavo del gomito, Draco tremò, vomitò.
Il quinto giorno Draco non vide Hermione, non vide miglioramenti alla sua ferita, non vide via di scampo; rimase tutto il giorno nella Stanza Delle Cose Nascoste, non si mosse mai da lì, se non per andare a dormire.
Il sesto giorno Draco si sentì abbandonato. Che pensiero idiota. Eppure non era forse così? Hermione non lo aveva abbandonato, non si era scaricata le spalle di un peso che era stato di entrambi per due settimane? Pensiero maledettamente egoista, ma lui era egoista. Lo avevano abbandonato tutti, a nessuno importava veramente di Draco Malfoy. Avevano tutti paura di lui, del Signore Oscuro, maledizione, sua madre, suo padre, Piton… e la ferita si espandeva, il Marchio Nero faceva un male cane ed era maledettamente solo, senza poterlo dire o poterne parlare con qualcuno. Ed il primo singhiozzo salì dal petto, strozzato, quasi trattenuto, temuto: i Malfoy non piangono. E Draco pianse, pianse ancora, pianse finché ne aveva, pianse finché le lacrime non seppero neanche più di sale. Aveva paura, era in trappola, non gli piaceva più tutto questo gioco, troppo grande e lui era così piccolo ed inutile. Non l’aveva chiesto lui, dannazione! Non aveva detto a nessuno di voler essere l’eroe, non era l’eroe: era solo uno sporco mangiamorte. Mi ucciderà, pensò Draco: morirò.
Si illuse, ubriaco dell’essenza più tragica delle sue emozioni, magari Potter lo ammazza prima che lui ammazzi me. A volte Draco lo sognava, di passare dalla parte di Potter, di lasciar perdere tutto e correre via, e poi lo ammazziamo assieme; erano solo sogni, all’alba tornava ad essere quello che era: un Malfoy, un mangiamorte, il cattivo.
«Lo faccio per la mia famiglia».
No, lo faccio perché sono un fottuto codardo.
Il settimo giorno Draco non sapeva che giorno fosse, ma doveva tornare nella Stanza Delle Cose Nascoste per l’armadio. Era ritornato tutto come prima, si disse, l’animo tornò a farsi di pietra e non pensò più; si definì ridicolo, riflettendo sul giorno prima, ma ora tutto era ritornato come prima, anche se Hermione lo aveva abbandonato, anche se non aveva più possibilità.
E sarebbe tornato tutto come prima anche il giorno successivo, lunedì, ma Draco, andando verso il settimo piano notò Hermione Granger e i suoi dieci minuti di anticipo, e un sorriso a stento trattenuto.
«Sono stata in biblioteca, per tutta questa settimana. Mi servivano silenzio, libri e tanta concentrazione. Ho cercato ogni testo, proibito e non, ho letto manoscritti e preso tanti appunti e beh… abbiamo una soluzione Malfoy!»
Draco non disse nulla, Hermione non lo aveva abbandonato, sorrise.

Al settimo piano, alle sette e dodici, due ragazzi scoppiarono a ridere incontrollati; si disse, che se mai qualcuno fosse stato presente, avrebbe potuto sentire sciolta nell’aria un sacco, un sacco, un sacco di tensione.

 

***

 

Hermione non seppe mai perché l’aveva fatto, non che gli importasse molto di Draco Malfoy, forse ne aveva avuto appena appena paura, nulla che giustificasse la dedizione con cui l’intera biblioteca l'aveva vista lavorare in quella settimana. Aveva subito pensato di gettarsi tutto alle spalle, denunciare Malfoy e tornare a vivere felice: le mancavano i suoi amici, e lei mancava a loro, la vedevano sempre cupa.
Hermione non seppe mai perché l’aveva fatto, forse quando le tornarono in mente le accuse di Draco, ho creduto che una sporca nata babbana potesse avere qualche dote magica, la sua mente rielaborò in modo contorto l’offesa. Riuscì in qualche modo a concepire ciò che era accaduto, non come vera esperienza negativa da denunciare, ma piuttosto come una sfida, una sfida che, lanciata in modo così ruvido ed arrogante, andava vinta per forza di cose.
Hermione fu vittima del suo stesso orgoglio, non ne andava fiera, ma non ci pensò quel giorno, quando vide la risata di Draco Malfoy illuminare le prospettive, alquanto sconfortanti e deprimenti, del nuovo piano d’azione proposto.
«Tre mesi».
«Cosa!?» Come era venuta, la risata, sul volto di entrambi, scomparve.
«Se vuoi che funzioni, tutti i giorni, per i prossimi tre mesi, dobbiamo fare ciò che ho appuntato su questa list..»
«D’accordo, mezzosangue, smettila, mi accontento che lo sappia tu».
«Che non ti prodighi per la causa, succeda mai».
«Piantala, Granger, mi sento un condannato».
«Posso sempre lasciar perdere».
«Non lo faresti».
Hermione respirò profondamente, per un momento sembrò fragile pensando a ciò cui andava incontro.
«Mi devi delle scuse, Malfoy»
Draco non rispose, ma guardò Hermione a lungo.
L’assenso di entrambi si ebbe quando entrarono, uno di fianco all’altro, nella Stanza Delle Necessità, chi per orgoglio accademico, chi per egoismo arrivista, ma poco importava, non erano più in tensione, e forse, nemmeno se ne accorsero.

 

***

 

Nessuno dei due poteva sapere che in quella stanza Draco sarebbe guarito ed Hermione si sarebbe rivalutata, non potevano sapere che si sarebbero conosciuti, studiati, prima con indifferenza, poi con fervore, scoperti, ammirati, sorpresi, resi nudi, resi felici, innamorati, di un amore così grande, con una carica così forte, sconosciuta e incantevole, che quelle mura non avevano mai visto niente di simile.

 

 

29 Marzo 2003

 

«Draco!»
Hermione non credeva ai suoi occhi, il suo abile cervello difficilmente stava riuscendo ad elaborare i mille stimoli, visivi ed emotivi, che le stavano arrivando. Non sapeva bene se concentrarsi sul fatto che dopo più di cinque anni si fosse ritrovava Draco davanti agli occhi (e forse tra le mani); oppure se badare a come fosse Draco.
Ci fu solo una frazione di secondo in cui Hermione vacillò con questi dubbi, poi repentinamente, ritornò in sé: i sentimenti rimasero chiusi, proprio dove li aveva lasciati e costretti tempo fa, davanti agli occhi solo un ex compagno di scuola.
Il raziocino di Hermione non perdeva un colpo, catalogò velocissimamente che il ragazzo di fronte a lei era magro, sciupato, logoro, sporco, e, soprattutto, ferito. Si avvicinò con sincera preoccupazione.
«Che hai fatto, Draco?!»
Draco osservò Hermione e si chiese come diavolo facesse a rimanere calma, dove avesse trovato questa forza titanica, quando gli unici pensieri che la sua mente stava riuscendo ad inanellare erano, che non si era reso conto di quanto gli fosse mancata fintanto che non l’aveva vista. Sentì Hermione avvicinarsi con fare chirurgico alla sua persona, sempre più vicino: Draco sperò con tutto se stesso che non udisse il battito impazzito del suo cuore, che stava rullando come un colibrì nelle sue orecchie.
Draco rimase in silenzio.
«Malfoy, Merlino, cosa è successo?»
«Ciao Granger»
«Draco, ma stai bene?»
Sei la prima cosa che si muove dentro di me dopo anni, come posso non stare bene.
«Sto bene, ora devo andar…ow!» provare ad alzarsi non era stata un’ottima idea, doveva veramente esserci qualcosa che non andava nel suo petto.
Le braccia di Hermione lo sorressero per quel che potevano, si accasciarono entrambi sul pavimento del bagno, la fronte di Draco imperlata di goccioline. Hermione non poté fare a meno di notare, da vicino, dettagli ancora più raccapriccianti: i capelli del ragazzo puzzavano di sudore, croste di sangue sul collo, sul viso, un taglio sul sopracciglio; cercò di mantenere la calma.
«D-dove ti fa male?»
«Qui, sotto il pettorale».
Le abili mani della strega non esitarono un secondo nell’afferrare il lembo della camicia logora del ragazzo, tirandola su fino alle clavicole; Draco perse un battito. Quello che vide Hermione, la fece completamente paralizzare: un enorme livido nero-giallastro deturpava il petto sconquassato da respiri irregolari, fece lentamente scivolare la mano, dal ventre verso il livido; Draco perse due battiti, sussultò e «ahia, dannazione, mezzosangue!».
«Scusa».
Le dita di Hermione si spostarono istintivamente ad attraversare tutto il petto, le venne in mente un universo latteo, con milioni di galassie, alcune bianche, spente, altre rosse e brillanti: le sue dita sfiorarono i contorni di cicatrici e ferite ancora aperte, come su un campo di battaglia. Draco sentiva il fuoco ad ogni tocco, non poteva più sopportare tutto quel sangue pompare così vitale in circolo, dopo mesi, dopo forse anni, in cui era rimasto congelato ed era solo servito a sbrodolare fuori dalle ferite. Si tolse di scatto dal tocco di lei, come scottato, imprecando l’attimo dopo per il dolore.
«Fermo. Credo tu abbia una costa fratturata».
Draco non rispose.
«Non muoverti, ci penso io».
Pensare, Draco si chiese come riuscisse a pensare; forse si era bevuto il cervello lui, dopotutto poteva sicuramente avere la febbre e le allucinazioni. Guardò il fiotto azzurro delicato uscire dalla bacchetta della strega, vi si concentrò così tanto per non rischiare di guardarla in volto, così vicina. Attimi dopo, troppo lunghi per Draco, Hermione si allontanò impercettibilmente.
«Ecco fatto, ora dovresti sentirti meglio».
Draco non rispose, si aspettava forse un grazie, da Malfoy.
«Beh… io devo andare… ritardo, io…» balbettò Hermione.
Draco si guardava le mani dalle dita lunghe, magre, mentre tastavano la zona guarita.
«Ciao, Draco».
Hermione si alzò velocemente e si allontanò dal bagno, Draco posò finalmente gli occhi su di lei e la guardò falcare il corridoio, fino a sparire dalla sua vista. Aveva dimenticato quanto potesse essere bella la vita, e doveva tornare a dimenticarlo.

 

***

 

Il colloquio con la McGranitt fu breve, piacevole e fruttuoso: aveva ottenuto quella lettera di raccomandazioni. Quindi perché, appoggiata al muro del corridoio, vicino all’ufficio del preside, Hermione sentiva questo bisogno irrazionale ed impellente di piangere?
Hermione non era una sciocca, decise, per evitare il collasso immediato, di condurre tutta quella tensione che sentiva, su dalla bocca dello stomaco, ad arrampicarsi lungo la gola, fino ad uscire dagli occhi. Lacrime bollenti sfumarono sul viso della strega.
Hermione era intelligente, forse non lo voleva ammettere a se stessa, alla sua nuova vita, alla sua nuova persona, ma lo doveva a quella di un tempo, all’Hermione adolescente e così innamorata: doveva trovare Draco Malfoy.

 

***

 

Hermione non sapeva tante cose, ma una la sapeva bene. Non sapeva dove stava andando, non sapeva dove cercare Draco, non sapeva cosa gli avrebbe detto, se lo avesse trovato; ma sapeva bene che doveva vederlo.
Così, dopo aver pranzato al tavolo dei professori, si addentrò nei corridoi, cercando di ricostruire, pezzo per pezzo, quel muro crollato fuori dall’ufficio del preside, che aveva iniziato a creparsi in quel bagno: le sarebbe servito, quel muro.
Pensò di chiedere informazioni ad un gruppo di studentesse fuori dalle aule di lezione: «buongiorno, ragazze, sapete dove posso trovare il… Professor Malfoy?».
«Sei Hermione Granger?»
«Ci stai prendendo in giro, forse?»
«Mia mamma ti adora!»
«Piantala, Viky»
«Qui non c’è nessun Professor Malfoy».
«Non c’è nessun mangiamorte, vorrai dire, Clair».
«Grazie comunque, scusatemi» Hermione parve scossa e leggermente più in ansia di poco prima.
Stava quasi per abbandonare le speranze e tornarsene a casa da suo marito, cercando di tenere a bada strani ed insensati sensi di colpa, quando il destino, il fato, il nostro cecchino, sparò di nuovo. Hermione quel pomeriggio incontrò Draco ben cinque volte.

La prima volta, Hermione, scorse Draco sulle scale della torre di astronomia mentre aveva una discussione animata con due studentelli dai capelli ossigenati. Draco la notò e parve irrigidirsi disgustato. Era troppo lontana per udire ciò che si dicevano, ma una cosa era chiara: Draco non parlava, rimaneva impassibile. Di cosa stavano discutendo? La domanda passò immediatamente in secondo piano quando un incanto incarceramus imbrigliò Draco, facendolo cadere a sbattere la tempia sulla cornice di un finestrone. Hermione si mise a camminare più svelta, troppo allibita per farsi qualche domanda, ma venne travolta dai due studenti che correvano scattanti giù dalle scale; una volta liberatasi dal groviglio di braccia Draco era scomparso.
La seconda volta che Hermione vide Draco fu perché, per poco non si travolsero davanti al portico dell’entrata al castello. Draco sorreggeva un mocio, Hermione, in prima istanza, riuscì solo a stupirsi di come il ragazzo purosangue fosse così a stretto contatto con un oggetto babbano. Solo in un secondo momento Hermione cominciò a realizzare: sapeva come erano visti dalla società gli ex mangiamorte, come erano considerati e trattati, che lavori e professioni erano loro concessi. Realizzò forse troppo tardi, perché quando si convinse a dire qualcosa, Draco s’era già dileguato.
La terza volta Hermione seguì Draco in giardino. Aveva ragionato, ed era giunta ad una possibile, logica e plausibile conclusione: Draco era stato incaricato di occuparsi del castello, come custode, forse in veci di Gazza e ci poteva scommettere la carriera che fosse opera della McGranitt. La sua mente macchinava su ciò che era accaduto prima, i maltrattamenti, i lividi, le condizioni precarie di Draco, non era la prima volta che veniva conciato così da qualcuno. Non era possibile, certo, che fosse il benvenuto per molti studenti, ma non era corretto. Se solo si fosse lasciato avvicinare, sarebbero potuti andare insieme dalla McGranitt e forse avrebbero potuto risolvere la situazione. E per questo impeto da paladina della giustizia, che un po’ le era rimasto incollato addosso negli anni, avvicinò di soppiatto Draco e lo sorprese mentre sistemava alcuni pesanti vasi colmi di terra e vermicoli, vicino alla serra.
«Perché non ti fai aiutare?»
«Merlino, Granger, mi hai spaventato».
«Non sono umane le condizioni in cui ti trovi».
«Per molti non sono più un umano, Hermione».
«Non dire idiozie».
Hermione si morse il labbro quando, dentro di sé, avvertì che Draco aveva perfettamente ragione, molti maghi avrebbero voluto veder sterminati tutti gli ex mangiamorte, forse persino Ron.
«Dovresti andartene e trovarti un nuovo lavoro» Hermione era solita tornare alla carica, senza arrendersi.
«Tu non sai come era prima».
«Insomma, perché almeno non ti difendi?»
«Per quanto lo desidererei, credimi, non posso schiantare uno studente».
«Sciocchezze, nessuno ha parlato di schiantare, per l’amor del cielo. Dico soltanto, se vieni attaccato usa la bacchetta per aiutarti, o almeno per curarti dopo. Guardati come sei…»
Seguì un lungo silenzio carico di tensione, di cose non dette, di cose che non si vogliono sentire, Draco guardò di sfuggita Hermione nei grandi occhi scuri, e se ne andò.
«Fatti gli affari tuoi, Hermione».
Hermione sperò che la sua ipotesi non fosse vera, o sarebbe tutto stato peggio di come l’aveva creduto.
La quarta volta che Hermione vide Draco rimase in religioso silenzio. Lo vide stagliarsi in contro luce, sulla collina poco dietro una palafitta sul lago, lo vide cadere inginocchiato scoprendo ciò che non avrebbe mai voluto vedere: una lapide. L’ultima immagine che la strega scorse prima di allontanarsi, colpevole forse di invasione di privacy, fu la schiena di Draco che si muoveva al ritmo di quelli che Hermione desiderò con tutta l’anima non fossero singhiozzi.
L’ultima volta che Hermione vide Draco gli urlò addosso.

Draco camminava sulle sponde del Lago Nero, aveva un po’ di tempo da dedicare a se stesso prima di passare alla biblioteca. La superficie dell’acqua si tingeva di un cobalto soprannaturale, era la cosiddetta ora blu, la sua preferita. L’ora blu non è che un brevissimo momento della giornata che intercorre durante il crepuscolo, quando il sole non è più sopra, ma non ancora sotto l’orizzonte; i raggi si infrangono quasi paralleli all’asse terrestre, caricandosi solo delle lunghezze d’onda più ampie. Giungono quindi solo le frequenze dei colori più freddi, che tingono sorprendentemente tutto di blu; dura solo pochi istanti, ma sono meravigliosi se qualcuno non ti urla nelle orecchie.
«Ma si può sapere che cos’hai, Draco Malfoy?»
«Lasciami in pace, Granger».
«Come puoi dirmi questo?»
Draco percepiva sia la tensione che le lacrime di Hermione arrivare da un momento all’altro, per questo decise di girarsi sulle punte dei piedi e tornarsene a casa. Non avrebbe sopportato quella situazione un minuto di più.
«Ti odio, Malfoy!» L’urlo arrivò chiaro, e come una freccia andò dritto a segno.
Hermione si accasciò sulla riva del lago, i vestiti si bagnavano con l’umidità della sabbia, sbatté i pugni con rabbia, pianse di rabbia, si arrese ad essa. Aveva sbagliato tutto, la sua mente brillante era stata ingannata dalla sua stupida morale. Non aveva inseguito tutto il giorno Draco per accontentare un capriccio del passato, non aveva sentito lo stomaco stringersi ogni volta a ciò che vedeva, soltanto per compassione, non aveva sentito il cuore morirgli tra le braccia nel vederlo così fragile sulla collina, soltanto per un ricordo del passato. Il vero problema, constatò amaramente Hermione, è che di passato non c’era nulla, che non sentiva la vita così forte da anni, che non l’aveva mai voluta così tanto, sentendosela scappare via così dalle dita.
I pensieri dell’ora successiva, mentre la notte calava e il freddo le invadeva le membra, furono tutti dedicati a Ron, con una delicatezza che solo chi ama può riservare, con una dolcezza che solo chi ha ricordi felici può esprimere, ma con l’amarezza di chi si rende conto, pensiero dopo pensiero, che non sarà mai più la stessa cosa, o peggio, che forse,  non lo era mai stata. Con gli occhi che le brillavano colmi di lacrime alla luna, con i sensi di colpa a morderle la carne dell’anima, Hermione non si ricordava più cosa differenziasse Ron dagli altri ragazzi, cosa l’avesse spinta a preferire quella vita tra le molte altre che avrebbe potuto avere. E non ne avrebbe voluta nemmeno una di quelle, constatò con tutto il coraggio che non credeva di avere, con tutto il coraggio che non aveva mai avuto, nemmeno una soltanto, se non fosse stata con il ragazzo che si era chiuso la porta della palafitta sul lago, alle spalle.

 

***

 

Erano lontano anni luce quando Hermione bussò alla porta e Draco aprì, erano lontano anni luce da tutto quando Hermione seppe che non ci sarebbe stato bisogno di bussare e Draco aveva già aperto. Erano su un pianeta extraterrestre quando il tempo, per fisica, si accorciò così tanto da rendere infinitesimale l’attimo prima che le due bocche si baciarono, finalmente. L’aria che si respirava sulle stelle entrò nei polmoni dei due innamorati, così allergici a ciò che si respirava sulla terra; si trovarono così, purificati dall’esplosione di quella supernova ch’era rimasta in stand-by per troppo tempo, e che in quell’istante colorò di colori, fuori dal visibile umano, ciò che era rimasto dei loro corpi. Era qualcosa di totalmente nuovo ed inaspettato, ma così perfettamente familiare e desiderato; le dita di entrambe le mani della Creazione di Adamo, che dopo tanto tempo si toccavano forte; qualcosa che avrebbe fatto male, male da morire a pensarlo da soli, ma insieme era così naturale. Il movimento degli astri si congelò in cielo, il tempo, ora, era un signore distratto, un bambino che dorme*, quell’istante si sarebbe auto rigenerato continuamente, sarebbe rimasto incollato negli occhi di Draco ed Hermione per sempre, senza cancellarsi mai.

«È un po’ sporco qui» disse Hermione, quando ricominciarono a respirare autonomamente.
«Non credere sia così facile, Granger» soffiò Draco con dolcezza.
«Dovresti impegnarti di più».

 

«Dovresti impegnarti di più»
«Piantala, mezzosangue, come posso impegnarmi a far funzionare una garza imbevuta di Dio solo sa cosa».
«Infuso di cuore di manticora, sia oggi che domani».
Silenzio, Draco sbuffò, Hermione fulminò il ragazzo.
«Potresti impegnarti almeno a non peggiorare la ferita: duelli, quidditch, tutte cose che nuocereb…»
«Come sei insopportabile, so-tutto-io».
Quel giorno, nella Stanza Delle Necessità erano comparse per la prima volta, dopo un mese che stavano lavorando alla ferita di Draco, delle finestre. Pioveva ad Hogwarts, ma da quelle colossali vetrate entravano lunghi raggi di sole. Uno di quelli si stagliava tra i due maghi, mettendo in mostra la polvere brillante, ballerina.
«Sta sera ci gettiamo con le scope dalla torre di Astronomia».
«No!»
«Che c’è?»
«Sei per caso impazzito, io…»
«
Voglio solo divertirmi. Che problemi potrebbe dare alla mia ferita?»
«Beh, niente… ma…»
«Non sarai preoccupata per me Grang…
ahia
«Sta zitto, Malfoy».

 

«Un letto, però, ce l’ho».
«Cosa vorresti insinuare, Malfoy?».
Hermione non riuscì a finire la frase che Draco, in astinenza da troppo tempo, bramò un altro bacio, e un altro ancora, finché non finirono sul letto, e ancora baci. Le labbra carnose di Draco incatenarono Hermione, la sua pelle così deturpata la distrasse, era ancora così perfetta, diamantina da quanto era quasi trasparente, in quel momento poté vedergli l’anima. Draco si aggrappava al corpo di Hermione come ci si aggrappa alla vita quando si rischia di annegare, come se tutto ciò che si era bloccato dentro di lui, ingranaggi arrugginiti, riprendesse ad ingranare; il sangue che finalmente si era svegliato dopo un lungo sonno, e confluiva maledettamente dentro i suoi boxer, tutto lì, pronto ad esplodere, dannazione, mezzosangue!
«Che ci f..»
«Sssh».
«Draco, ma…»
«Zitta, Hermione».
«Ehi, da quanto vivi in questa casa?»
«Certo che tu vuoi proprio parlare!»
«E’ meglio parlare o morire?»

 

«E’ meglio parlare o morire?» disse Draco.
Erano passati quarantaquattro giorni, ed Hermione li aveva contati per bene quel pomeriggio, li aveva contati per venire a capo di qualcosa, come se tra lei e il Serpeverde avesse preso vita un atteggiamento nuovo e inaspettato, ma allo stesso tempo così naturale, e lei dovesse capacitarsi in quale di quei quarantaquattro giorni era avvenuto il guasto da riparare.
Dal canto proprio Draco, non si capacitò nemmeno di quel cambiamento, la sua avventura con l’armadio stava peggiorando, la sua esistenza si stava facendo precaria; ma se Draco non se ne rese conto, il suo corpo invece sì, e si attaccò a quelle nuove sensazioni come un corpo morto ricerca la linfa vitale.
«Cosa hai detto?»
«Una storia francese, l’ho letta su un libro».
«Leggi?»
«Non fare la
so-tutto-io sarcastica, Granger».
Ma Hermione non voleva per nulla essere sarcastica, improvvisamente, a quelle parole di Draco, l’ago magnetico che cercava il gap da riparare si fermò di botto. Hermione, per la prima volta, stava trovando interessante e stimolante una conversazione con Draco Malfoy. Per un attimo, la strega, desiderò che il ragazzo non smettesse mai di parlare, mai. Draco capí perfettamente ciò che intendeva Hermione, scrutandola guardingo di lato, era già successo, le scorse volte, che si trovassero, impacciati, in sintonia tra loro; idee, pensieri, desideri ed altre
stramaledette idiozie che avevano in comune e che li fecero sentire vicini. Quel giorno fu come la punta di un iceberg, come il centro dove confluivano tutte le frecce, la soluzione di un indovinello poco complicato, il venire a capo di una matassa di lana aggrovigliata che solo in quegli istanti si sbrogliava. Era nato qualcosa, ma nessuno dei due volle capire.
«Una principessa francese ed il suo cavaliere s’amavano follemente, nonostante tutto lo vietasse, persino loro stessi. Nessuno dei due conosceva i sentimenti dell’altro. Un giorno il cavaliere non né poté più, e decise che avrebbe preferito morire, piuttosto che non dichiararsi alla principessa, così le chiese… »
«E’ meglio parlare o morire… Di che libro si tratta, Malfoy?»
«Non lo so. Una favola francese, ti ho detto».
«Non ti facevo uno da libri, sinceramente, però forse ho cambiato idea» disse Hermione imbarazzata per quelle parole così sincere, per quella confessione forse arrogante.
«Tu non mi conosci, Granger, io non conosco te».
Bugia, bugia, ed era questo ciò che più infastidiva Draco: aveva fatto conoscere di sé un lato nascosto. Tutta la sua esistenza, tutto il suo essere si stava spegnendo, in quel periodo, e quella strega era riuscita a mantenere in vita soltanto la parte peggiore per Draco: quella umana.
«Alla fine il cavaliere muore, comunque…»
«Draco…»

 

«Alla fine il cavaliere muore, comunque» ricordò Hermione facendo brillare gli occhi spenti di Draco, così sporchi ed appannati, così impossibili da recuperare.
Inspiegabilmente si trovarono senz’abiti, vestiti soltanto del loro imbarazzo, non s’erano mai visti nudi. Gli occhi correvano gli uni sul copro dell’altro a cercare luoghi nascosti, mai percorsi, segreti da custodire, mappe da imparare a memoria. Si stavano amando a distanza, una distanza dolorosa, ma necessaria. Improvvisamente successe una cosa inaspettata, i due corpi si abbracciarono.
Le dita di Hermione a ripassare la pelle umida delle spalle di Draco, le mani di questo a muoversi, ad un ritmo conosciuto solo da lui, sulla schiena di lei, come se sulle vertebre stesse suonando un pianoforte.

 

Era una settimana che Hermione e Draco non si parlavano, dopo l’episodio del libro e della favola francese, nessuno dei due aveva osato anche solo sfiorare l’idea di concepire davvero cosa fosse successo.
Hermione si era chiusa in se stessa, in un bozzolo, dietro ad un muro che nemmeno Harry o Ron riuscirono a scavalcare. Più pensava che non voleva pensare, più pensava. Aveva la soluzione, sulla punta della lingua, l'enigma che celava il motivo per il quale aveva sempre più voglia che arrivasse la sera, sembrava risolto; ma Hermione non avrebbe mai, mai, mai concepito una ragione così. Ed Hermione quindi si divise in due, non potendo sopportare pensieri e situazioni troppo compromettenti, le aveva fatte provare ad una Hermione diversa; c’era quella vera, ancorata a Ron ed Harry nella lotta costante contro il male, e c’era quella viva che si stupiva ogni volta di quanto potesse essere interessante, stimolante e appagante, passare una sola ora al giorno con Draco Malfoy.
Quel martedì, nel bel mezzo del mare del loro silenzio, comparve un pianoforte.
«Sai suonare?»
La prima a parlare fu Hermione.
«No».
«La Stanza Delle Necessità non sbaglia, ed io sono certa di non saper suonare».
Draco in quei giorni, per evitare lo scomodo pensiero della mezzosangue, si era dedicato, corpo, anima e sangue al lavoro dell’armadio da portare a termine, il lavoro che avrebbe condotto i mangiamorte nel castello. L’idea che quel lavoro avrebbe potuto uccidere il piccolo, fragile, cuore della Granger, non lo doveva sfiorare. Lo stacanovismo più assoluto lo invase e ciò disturbò così violentemente la parte delicata che era rinata grazie ad Hermione, che quest’ultima si staccò, e prese vita propria. Draco si divise in due, una parte morta e l’altra, che non volendo soccombere, incominciò a vivere.
«Draco, sai suonare il pianoforte?»
Draco senza rispondere, si alzò e cominciò a suonare. Hermione ascoltando quelle note sconosciute decise che non avrebbe mai voluto che la felicità prendesse altre forme, Draco, con le dita che da troppo tempo non accarezzavano i tasti, desiderava che quel momento non finisse mai.

 

Ad Hermione parve ancora di sentirlo suonare, in quella notte, dove tutto poteva succedere e tutto era successo, e Draco si sentì, mentre era ancorato al corpo di Hermione, esattamente come si era sentito accarezzando quel pianoforte quel giorno.
Mai erano stati così vicini, Draco si infilò delicatamente tra le pieghe dell’anima e della carne di Hermione; la trovò morbida, pronta, malleabile. Hermione sussultò quando quel tocco la plasmò sulle rime di una poesia bellissima, che parlava di sesso, si sentì come invadere dal fuoco, quando lui penetrò in lei. Come può, dopo tanti anni, un amore distrutto, dimenticato, costretto al buio, calpestato e rifiutato, tornare con una potenza da sconquassare i visceri di entrambi? Entrambi che non pensavano più a nulla se non a come i loro corpi scivolavano perfettamente sul sudore uno dell’altro, a come fosse semplice abbandonarsi ai piaceri deboli della carne per percepirli così intensi solo perché resi nobili da qualcosa di più potente, oltre la loro comprensione. Hermione piantava le unghie nella schiena di Draco lasciandogli le sole ferite che mai egli avrebbe voluto si rimarginassero. Durò così poco, fu così intenso, niente di estremo, soltanto la voglia incontrollabile, il bisogno irrazionale di arrivare a toccarsi più in fondo, sempre più in fondo. Fu in questa frenesia di volerne sempre e ancora di più, che Hermione entrò nell'apnea dell'ebrezza sulle ultime spinte di Draco, non aveva mai provato un piacere così forte, non l’avrebbe mai più provato.
Draco, pochi attimi dopo, svuotò dentro il corpo di Hermione tutto ciò che aveva di più bello, conservò in quell’orgasmo tutte le cose che amava e di cui voleva liberarsi, per poterle proteggere lontano da lui: sapeva che dopo quella notte non avrebbe più vissuto.

 

«Posso baciarti, Draco?»
«Sì, ti prego».
Il loro primo ed unico bacio cominciò un pomeriggio di Marzo, poi rimase incastrato tra i ricordi delle anime in quella stanza, e non finì mai. Fu una cosa inaspettata, quanto attesa. Si baciarono in punta di piedi, silenziosamente, per non infrangere nulla con tutto ciò che c’era di sbagliato, con la potenza da cui si erano fatti sopraffare. Era un bacio che diceva molte cose, che poteva molte cose; poteva salvare la vita a Draco, poteva cambiarla ad Hermione.
«Ti amo, Hermione».
Si sfiorarono nella parte più intima e non smisero, quel bacio non finì mai. Non quando definitivamente non si videro più, non quando morì Silente, non quando i loro corpi, creati ad immagine di quell’amore, smisero di esistere, non quando tutto pareva dimenticato. Non finì neppure quando inesorabilmente fu chiaro, che altro non erano che due rette parallele che mai si sarebbero incontrate.

 

Tranne quella notte
«Ti amo, Draco».
Si addormentarono.

 

***

 

 

La mattina, come era prevedibile, Hermione non c’era.
Draco trascorse quelle ore trascendentali, steso sul letto, da solo, ad elencare minuziosamente con precisione spaventosa i motivi per i quali non avrebbe più dovuto vedere Hermione.

La mattina, come era prevedibile, Hermione era fuggita. Il ricordo di ciò che aveva fatto, il pensiero di Ron, della sua famiglia, della sua vita reale, la fecero soccombere tra i sensi di colpa e le responsabilità, e la fecero voler fuggire lontano, lontano da lì.
Fuggì invece nell’ufficio della McGranitt, come ci fosse finita, poteva solo supporlo; le parole le scivolarono dalle labbra inconsapevolmente, mente la preside, sconvolta, si chiese cosa fosse successo ad Hermione Granger.
«Mi racconti di Draco Malfoy».

 

***

 

Ora, mentre Hermione andava nell’unica direzione in cui poteva andare, con le lacrime secche a pruderle gli occhi, pensava al racconto a cui aveva appena dato ascolto.
Draco Malfoy era stato escluso presto dalla società magica, giudicato colpevole di arti oscure e di essere un mangiamorte dal Wizengamot, e privato di qualsiasi proprietà o bene mai posseduto. Gli venne sequestrata la bacchetta, imposta di nuovo la traccia, tolta ogni facoltà magica. Aveva compiuto lavori umili, lavori denigranti, trattato alla stregua dell’essere umano. Fino a qui, Hermione era arrivata con la propria mente ed il proprio intuito, dopotutto era una strega brillante, ma fu ciò a cui diede ascolto dopo a segnarla nel profondo.
Lo trovai in un angolo di Oxford Street, a Londra, in condizioni di salute, fisiche, mentali, che non augurerei a nessun uomo; una brutta ferita sul braccio sinistro, confuso, non sapeva chi io fossi, non sapeva chi fosse lui. Pensai che offrigli un lavoro come custode a Hogwarts, con tutte le dovute precauzioni, sarebbe stato un po’ come tornare a casa…
Hermione rabbrividì di nuovo.
Si stava dirigendo, con passo militare, verso la figura magra, stagliata in silhouette contro l’alba sul Lago Nero. Quando arrivò, Draco sapeva già tutto.
«Cosa vuoi, Hermione?»
«Draco…»
«Hai parlato con la McGranitt, non è così?»
Silenzio.
«Beh, mezzosangue, sappi che la pietà mi ha sempre fatto schifo» urlò con voce rotta.
«Non ho detto questo, Draco, io…»
«Cosa. Vuoi. Granger.»
«Che ti è successo, Draco?»
«Te lo ha detto la preside».
«Che ti è successo veramente, Draco?»
«Non vuoi saperlo, Hermione».
Salì un forte vento, proveniente dal centro del lago, scosse i capelli e l’animo dei due maghi. Ci fu un momento in cui Hermione pensò che doveva andarsene, tornare da Ron, abbracciarlo, tornare alla sua vita di sempre, al suo lavoro; da Harry, da Ginny che era incinta; tornare e dimenticare, dimenticarsi di tutto.
Ci fu un momento in cui Draco sperò che Hermione potesse salvarlo, potesse lavare via con le sue piccole mani innocenti tutto quello che era successo e che aveva fatto; che avrebbe potuto voltare pagina, cambiare vita; adesso che erano solo Draco ed Hermione, non più vincolati da circostanze sempre loro contro; avrebbero finalmente potuto avere ciò che forse, nel profondo, avevano desiderato fin da subito.
Ma poi Hermione, forse per la prima volta, decise di abbandonarsi all’idea che ormai niente poteva tornare più come era prima, che l’amore che provava per Draco le sarebbe rimasto tra le ciglia per sempre, non poteva più negarlo o respingerlo, non ce l’avrebbe fatta; adesso che erano soltanto Hermione e Draco, potevano veramente ricominciare.
Ma poi Draco, forse per la prima volta, decise di lasciar perdere, di non rovinare l’unica cosa bella che gli era rimasta da pensare nelle giornate che non finivano mai; era inesorabilmente malandato ed inadatto a qualsiasi tipo di futuro, volle annegare negli occhi dorati di Hermione.
«Non puoi salvarmi, Hermione» Draco le lesse nel pensiero, e rispose prima che la domanda fosse posta.
«Perché?»
«Perché non c’è niente, più, da salvare».
Si guardarono intensamente negli occhi, uno sguardo che durò a lungo, finché il sole non affiorò sull’acqua che si tinse di rosa, uno sguardo che diceva molto, forse troppo; Hermione seppe che Draco aveva ragione quando si accorse, che negli occhi in fronte a lei, l’azzurro era sparito, per lasciar posto ad un ceruleo lattiginoso, opaco e sporco, così dolce, così amaro; Draco, imprimendo il più possibile il ricordo degli occhi, così belli, di Hermione quella mattina, seppe che non l’avrebbe rivista mai più.
«Che ti è successo, Draco?»
E Draco cominciò a raccontare.

 

***

 

 

**La prima cosa fu il nome: solo Draco, niente più Malfoy.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà: il 2 Maggio 1998 tolsero alla sua famiglia la liberà. I Malfoy rimasero chiusi per mesi dentro il Manor, uscivano controllati, mangiavano controllati, dormivano controllati. Si sposò con Astoria Greengrass al cospetto di dieci auror del ministero, non un amico. Un grande occhio era sempre vigile sui loro movimenti, li conduceva alla pazzia; Draco non dormiva più, non usciva da mesi, Astoria sapeva solo piangere, non parlava, non faceva nulla, era una moglie inutile, passava ore seduta sul divano a guardare le fiamme nel camino. Stava diventando una prigionia insopportabile per tutti, tragica da sostenere. Sarebbe mai finita?

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre: il 7 Novembre 1998 Lucius Malfoy, in preda al prevedibile raptus di pazzia che stava imbrigliando tutti, decise di liberare la sua famiglia. Toccò a Narcissa che si spense sotto le luci verdi dell’Avada Kedavra, sotto le urla che squarciarono la gola a Draco, sotto le lacrime di terrore di Astoria. Lucius aveva uno sguardo indemoniato, procedette verso Draco, bisbigliando parole di supplica da labbra troppo sporche per essere perdonate dal figlio che avevano creato. Morì a pochi metri da Draco, rimasto scioccato e bloccato, dopo le parole decise di Astoria Greengrass, sua moglie, che reggeva adrenalinica la bacchetta.  

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa: due settimane dopo, il ministero sequestrò Malfoy’s Manor insieme a qualsiasi bene materiale fosse mai stato posseduto dai coniugi, entrambi morti. Draco ed Astoria si rifugiarono da parenti alla lontana da parte dei Greengrass, parenti che odiavano per principio Draco e tutti i Malfoy, maltrattandolo sia fisicamente che moralmente. Se ne andarono presto, e Draco non amò mai abbastanza Astoria per la risolutezza con cui, quel giorno, non lo abbandonò. Ritrovarsi a vivere sulla strada da un momento all’altro fu una doccia d’acqua fredda; freddo come il tempo a Dicembre. Ritrovarsi ad essere dei senzatetto, reietti della società, rognosi ex mangiamorte da cui stare alla larga, o per i più sadici, da ridurre in cenere e polvere per vendetta, fu il loro destino. Si rifugiarono nel retrobottega dell’ex gelateria Fortebraccio, che le macerie del negozio, distrutto dai mangiamorte l’anno prima, separavano dalla strada e dal freddo.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà, la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta: successe quando Draco schiantò un mago sulla vetrina di un negozio di borse di pelle di drago. Successe la sera della vigilia di Natale, quando quel maiale, dopo aver ridotto a brandelli, con un anatema, la guancia di Draco, provò a sfiorare la carne morbida sotto la veste di Astoria. Successe che sequestrarono la bacchetta ad entrambi, rimisero la traccia su entrambi, vietando ad entrambi la possibilità di smaterializzarsi, fare incantesimi e pozioni. Si dice che la bacchetta sia l’appendice vitale di un mago, senza bacchetta il mago è vulnerabile, è perso, è debole, ferito nell’orgoglio e nell’onore. Ma dell’orgoglio e dell’onore a Draco, in quei giorni, non importava niente, non quando sembrava una sfida contro il freddo cercare di rimanere vivi per vedere l’alba del giorno dopo; non quando la fame, il buio, lo sporco imbrigliava i loro corpi. Vivere senza bacchetta significò per la prima volta dolore arrecato in modo fisico e violento; pugni, labbra rotte, calci in pancia. Draco usciva ogni volta, di giorno, per arrampicarsi nella neve alla ricerca di qualcuno che si curasse che fossero umani, che si ricordasse ch’erano umani, che desse loro del cibo o vestiti puliti. Ma il più delle volte ciò che Draco riceveva erano violenze gratuite, senza morale e senza provocazione, per divertimento, associate alla violenza mentale, agli insulti che gli ricordavano chi era, chi era suo padre e cosa avevano fatto lui, Voldemort e tutti gli altri.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia: Draco si sfasciava le nocche sulle pareti ruvide dei muri, tanto il sangue non fuoriusciva, imbrigliato dal freddo mortale di Gennaio, ma il dolore lo provava. E quel dolore serviva a sbollire la rabbia, a cercare di concepire un mondo di malati buonisti, falsi e viscidi, senza impazzire; la rabbia che aveva per veder fatto sul proprio corpo e su quello di Astoria, sulla loro vita, quello per cui loro erano stati, e venivano ancora, condannati. Erano quella persone i nuovi mangiamorte, adesso; con il marchio nero tatuato nelle pupille ad accecare la vista e la ragione ogni volta che scorgevano quello di Draco. Quale mondo giusto avrebbe potuto questo? Come potevano tutti addormentarsi felici? Eppure, tutti si addormentavano felici.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame: la rabbia sbolliva debole e fiacca sotto i morsi potenti della fame, ed ora gli sputi velenosi dei passanti non erano più accolti con occhiatacce, ma con mani giunte in segno d’elemosina. Perché l’istinto di sopravvivenza ti fa dimenticare chi sei, e se non fossero diventati feccia della società, come la società stessa imponeva, se non avessero smesso di ribellarsi, sarebbero morti, e l’istinto di sopravvivenza non lo avrebbe permesso. Così Astoria tutti giorni, la mattina, partiva per chiedere pietà e del cibo, tornando, la sera, con poco da mangiare e troppi lividi. Draco non sopportava di veder violata la sua preziosa Astoria, la sua àncora, la sua fortuna casuale, ma così essenziale, trattata alla stregua dei cani randagi. Così si cercò dei lavori sporchi, dei lavori umili, dei lavori così bassi e sottopagati che i datori di lavoro potevano provarci quasi gusto a torturarlo. Draco pulì bagni luridi, raccolse sterco, scavò fosse nei cimiteri bramando ogni volta di caderci dentro, sperando di non leggere morti sulle lapidi riconducibili all’operato dei Malfoy; tutto per pochi scellini. Tutto questo per mangiare, scaldarsi, sopravvivere.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame; l’ottava la prigione: Draco uscì di prigione, dopo un mese, ai primi bagliori di Marzo. Era entrato per aver rubato del cibo dal bidone degli avanzi d’un ristorante, era uscito perché probabilmente sarebbe morto se fosse rimasto un giorno di più. Non si era ritrovato ad Azkaban, per sua fortuna, o almeno non vi era ancora stato portato. Era rimasto per un mese intero nel Centro Smistamento Prigionieri di Londra, per poi uscire per sporca pietà, riservatagli da uno che, diceva, aveva conosciuto sua madre. Draco uscì di prigione con il corpo, ma con l’anima ci rimase impigliato; rimase impigliato alle botte con il cranio sui muri di cemento armato, alla testa soffocata nella latrina gelata, tra lo sterco e l’urina; rimase impigliato alle violazioni del corpo che fu costretto a sopportare, al sapore di sperma e sangue, al dolore di un’anima spezzata; rimase impigliato agli insulti rivolti a sua madre nelle orecchie, ai disgustosi discorsi su suo padre ed altre donne, a quanto uno stramaledetto nome potesse rovinare la vita. Uscì solo quando lo trovarono rintanato in un angolo della cella dove lo avevano isolato, mentre cercava di scuoiarsi la pelle del braccio sinistro con un frammento di ceramica sporco, mentre tra le lacrime intravedeva ancora il marchio nero in tutto quel sangue rosso.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame; l’ottava la prigione; la nona la malattia: Astoria aveva la febbre alta, i brividi, le allucinazioni e tossiva sangue. Draco non poté che sentirsi immensamente in colpa ed estremamente sporco, accanto al corpicino magro logorato dalla tubercolosi. Era tornato dalla prigione e l’aveva trovata così, e così era rimasta anche nei giorni a venire; mentre poco a poco la luce della sua vita si stava riducendo ad una fiamma debole.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame; l’ottava la prigione; la nona la malattia; la decima la dignità: Draco la vendette come una prostituta, come se quello fosse bastato a procurarsi le medicine per far guarire Astoria. Il San Mungo non la poteva tenere ricoverata per più di tre giorni, poi la rimandava sulla strada, perché senza soldi per i farmaci non s’aveva diritto a nulla. Draco arrivò ad infliggere ferite non troppo gravi sul copro di Astoria, a farle perdere non troppo sangue, ma abbastanza per vederla ricoverata di nuovo, priva di sensi, ma con l’aspettativa di passare almeno tre giorni al caldo, su un letto, con le cure di medimaghi. Questa cosa non funzionò per molto, servivano i soldi per le medicine e Draco dovette procurarli. Fu così che vendette la dignità, rendendosi disponibile a qualsiasi mente malata che volesse picchiarlo, maledirlo, stremarlo, violarlo, in cambio di soldi per dei farmaci. In molti lo picchiavano selvaggiamente alla maniera babbana, in pochi volevano imbrattarsi la bacchetta con crimini ed incantesimi così disumani; alcuni lo violentarono, lasciandolo nella polvere sporca di rosso, alcuni provarono pietà ed offrirono soldi e medicine passando oltre senza degnare Draco Malfoy d’uno sguardo. Vendere la dignità fu proficuo, entro un mese aveva trovato le medicine.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame; l’ottava la prigione; la nona la malattia; la decima la dignità; l’undicesima Astoria: Astoria che si spense i primi teneri giorni d’Aprile, tra le braccia, rimaste senza lacrime, di Draco.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame; l’ottava la prigione; la nona la malattia; la decima la dignità; l’undicesima Astoria; la dodicesima la vita: Draco aveva smesso di vivere, il suo corpo possedeva una coscienza trascendentale che non concerneva più la vita terrena. Draco era scappato dal loro nascondiglio, aveva seppellito il corpo di sua moglie tra il terriccio e le macerie, le dedicò un’incisione argentata sul muro della loro “casa”, con la bacchetta rubata ad un passante, ed in cambio ebbe un naso rotto, un occhio nero e l'incendio d’ardemonio che bruciò ciò che rimaneva dell’ex gelateria, ciò che rimaneva di Astoria. Draco non si faceva più picchiare per soldi, ma nemmeno si difendeva, aveva deciso che gli restava soltanto da aspettare la morte, come un animale ferito, un corpo vuoto. Dimenticò di mangiare, dimenticò il freddo, il dolore, dimenticò il suo corpo. Si rintanava come i topi negli angoli più bui della città, non distinguendo più le giornate passare, dimenticò il suo cognome, dimenticò cos’era vivere.

La prima cosa fu il nome; la seconda la libertà; la terza la madre; la quarta la casa; la quinta la bacchetta; la sesta la rabbia; la settima la fame; l’ottava la prigione; la nona la malattia; la decima la dignità; l’undicesima Astoria; la dodicesima la vita; la tredicesima fu una vecchia strega che lo salvò.

 

***

  

      

«Mezzosangue, sei pallida».
La voce di Draco Malfoy fece sussultare Hermione, Draco era accanto a lei naturalmente, vivo, e stava bene: lei non ricordava nulla delle ventiquattro ore passate che non fosse ciò che Draco le aveva appena raccontato. Le dita del ragazzo fremevano a pochi centimetri dalle sue guance, come se avesse paura di toccarla, così fragile.
«Stavo soltanto pensando... l’ultima volta che ho visto Hogwarts era nel bel mezzo della guerra e temevo, quasi costantemente, che non l’avrei mai più rivista, che sarebbe crollata di fronte a tanta disumanità e malvagità. Ora, sapere che questa indole non è scomparsa, ma ha fatto solo una subdola metamorfosi, mi rende…».
«Ti ho solo riempito gli occhi di brutti pensieri, non dovevo…»
«Ti sono così grata di avermi raccontato questo, Draco».
Si sedettero poco più avanti, su un grande sasso sulla riva, ruvido di sabbia scura, come se fossero le ceneri del loro appena nato amore: di nuovo, la malvagità dell’uomo e la sua incapacità di amare, avevano distrutto ciò che era di loro. Draco era stato spettatore malaugurato della crudeltà di alcune realtà, che non lo avrebbero mai abbandonato, avrebbero continuato a logorarlo da dentro; Hermione si sentiva inconsapevolmente complice del mondo malato che aveva contribuito a costruire, si sentiva sporca ad essere considerata eroe di un mondo che le faceva solo venire la pelle d’oca.
Si erano allontanati di chilometri tra loro, ognuno perso ed intrappolato in pensieri malinconici che li stavano riportando, ognuno sui propri passi, alla realtà.

«Puoi cambiare idea, Draco, ma non sarò io a costringerti».
Draco la guardò negli occhi interrogativo, era davvero confuso.
«Puoi cambiare idea su di te».
«Non capisco, Hermione» ma aveva capito benissimo dove la strega voleva arrivare.
«Puoi cambiare idea su di te, su quello che puoi, vuoi o non vuoi diventare, Cambiare idea sul tuo futuro, sui giorni che verranno, sulla persona che vuoi diventare. Puoi cambiare idea ed io sarò con te, ti posso aiutare, ti voglio disperatamente stare vicino. Puoi cambiare idea su di noi» Hermione si era illuminata di una luce così intensa ed innocente, così immensamente pura in confronto a lui, che a Draco fecero quasi male gli occhi a guardarla.
«Ti prego...» sussurrò Draco stancamente.
«No, Malfoy, ascoltami» lo incoraggiò, con voce dura e ferma, come se stesse combattendo per entrambi «posso veramente aiutarti, possiamo cominciare piano, con i tuoi tempi. Posso venirti a trovare spesso, possiamo costruire qualcosa piano piano, possiamo iniziare subito, non è poi così difficile. Ma se per te fosse troppo difficile, possiamo separarci per un periodo, in attesa…»
«In attesa di cosa, Hermione?!»
«Di noi!»
«Non c’è nessun noi, mi dispiace dir…»
«Potrebbe, potrebbe esserci, se tu cambiassi idea».
«Oh, Hermione…» la voce di Draco si fece morbida e sottile, sottile «non so come fartelo capire, io non posso cambiare idea, io non posso cambiare. Non c’è nessun futuro».
Hermione capì, capì che Draco aveva ragione, che l’indomani sarebbero entrambi tornati alla propria vita, se quella di Draco si fosse potuta definire tale.
«Se solo ci fossimo chiesti di più» biascicò Hermione, mentre si stringeva le mani, attorcigliando le dita.
«Cosa avremmo dovuto chiederci?»
«Sei anni fa, avremmo potuto chiederci di stare insieme, di amarci come meritavamo; avremmo potuto scegliere di non dare importanza a quello che le circostanze ci stavano imponendo; avremmo potuto chiederci di avere più coraggio».
«Sono solo scuse, accuse e scuse».***
«Ma…»
«Non era questo il nostro destino».
«Al diavolo il destino».
«Per favore, mezzosangue, non rendere tutto più difficile, fa male» sussurrò Draco con un tono che si spezzò sul finale, con una voce che cominciava ad essere impastata di pianto.
Forse era vero, non sarebbe comunque mai cambiato niente, o forse sarebbe stato tutto diverso, se si fossero amati tempo fa, Hermione smise di chiederselo.
Su quel sasso lei già non gli apparteneva più. Tutto quello che Hermione stava facendo era rendere più dura la separazione. Con bisogno fisico imminente se la strinse al petto, mentre allungava un braccio a toccarle i capelli e la sua mano dalle dita ossute incontrò un fermaglio di metallo prezioso.
«Il mio fermaglio» singhiozzò Hermione ridendo nel pianto «è stato lui, il fautore, ciò che ha reso possibile la giornata passata».
Draco la guardò perplesso, rigirandosi il fermaglio tra le mani.
«Ieri mattina ero in bagno a tentare di sistemarmi questo» indicò l’oggetto tra le mani del ragazzo «ed ho incontrato te».
«Hermione vanitosa?»
«Mi stava malissimo».
«Ti stava d’incanto…»
«E’ una rosa. Cogli la rosa quando è il momento, ché il tempo lo sai vola, e lo stesso fiore che oggi sboccia, domani appassirà». ****
«Dobbiamo ringraziare questo maledetto fermaglio» sussurrò Draco.
«Tieni, lo regalo a te, veramente» Hermione fu scossa da un impeto nel pronunciare quelle parole. Draco forse ci pensò un po’ su, poi scosse il capo nella sua direzione, carezzando i capelli di lei.
«No tienilo tu, Rose».
«Come mi hai chiamata?»
«Rose». *****
Sorrisero uno nel petto dell’altro. Hermione lo guardò e, appena fu certa che Draco volesse davvero lasciarglielo, lo aiutò a sistemarlo sul capo di lei, Draco si curò dell’operazione, assicurandosi che non rimanesse impigliato fra i capelli, umidi di alba.
«Non separartene» la pregò.
Draco sentì le dita di Hermione sul proprio petto, incurvò la bocca appena. Un momento dopo le labbra della ragazza si posarono sulle sue.
La baciò, allora, con urgenza, coccolandosi nella morbidezza della sua bocca, nella vicinanza del suo corpo, nel fremere debole del suo respiro leggermente affannato, a ricordargli quanto intensamente fosse stata sua la notte passata. Si staccarono soltanto perché non avrebbero potuto controllarsi oltre, con le labbra leggermente arrossate.
Hermione sbatté le palpebre innumerevoli volte, la vista confusa dalle lacrime che non poteva più permettersi: stava veramente giungendo tutto al termine?
«Ho paura» disse Draco sottovoce, pentendosene l’attimo dopo.
«Di cosa hai paura, Draco?»
«Ho paura di così tante cose..»
«Me ne basta una soltanto».
«Ho paura di dimenticarti»
Hermione piangeva piano, in silenzio.
«Ho dimenticato così tante cose che io…» la voce di Draco si spezzò.
Draco rimase immobile, bloccato, Hermione ebbe l’impressione che stesse lottando contro qualcosa, qualcosa di malvagio e violento, contro cui difficilmente si aveva la meglio. Lo vide lottare contro se stesso e versò una lacrima. Versò una lacrima anche per tutta la sua intera vita, che l’attendeva aldilà di una passaporta a forma di carillon.
«Accio passaporta!»
Hermione schivò appena la piccola scatolina antica, per rimanere ancora un attimo, per dedicarsi ancora un secondo a quell’amore morente.
Guardò dentro quegli occhi grigio sporco, che aveva così tanto amato e cercò le parole per dirgli qualcosa che rendesse quel momento unico e indimenticabile. Non le trovò, ma continuò a guardarlo e parlò con tono di voce quasi impercettibile, sulla bocca di Draco.
«Non mi dimenticherai, credimi amore».
Per un momento, attraverso le lacrime, a Draco parve che la figura di Hermione fosse quella della stessa ragazzina che l’aveva salvato sei anni fa, e che continuava a salvarlo anche adesso.
Hermione fece quel che le era rimasto da fare, toccò il carillon e con uno strappo allo stomaco disse addio per sempre a qualcosa che solo gli uomini più fortunati dell’universo avrebbero mai potuto sperare di provare.

Draco rimase a guardare la sagoma di aria vuota davanti ai suoi occhi ancora per un po’, poi si alzò e si diresse a passo lento verso casa sua. Pensò: passerà questa pioggia sottile, come passa il dolore. ******
Pensò intensamente ad Hermione, mentre l’acqua del lago gli accarezzava le caviglie. Nella mattina appena passata, quando non aveva trovato la ragazza nel letto, quando si era sentito felice e sereno, dopo tantissimo tempo, era successo che, finalmente, aveva trovato il coraggio per farla finita con la vita. Per uccidersi, disintegrarsi, ripagare un debito al mondo e riottenere la libertà, pensò di essersi finalmente purificato.
Ma adesso, sulle sponde del lago, con il ricordo di Hermione che diceva, non mi dimenticherai, credimi, con addosso tutta una consapevolezza nuova, fresca, diversa, decise che no. Che avrebbe vissuto tutta la sua vita, pensando ogni giorno ad Hermione, non tanto perché gli avrebbe dato la forza di andare avanti, quanto piuttosto, perché, ne era convinto, il ricordo di una cosa così incantevole, così bella, che ti può salvare tantissimo, aveva il diritto d’essere conservato almeno per i prossimi cento anni.

 

 

 

 

 

 

NOTE D’AUTORE

 

 

TITOLO: citazione della canzone “Hotel Supramonte”, di F. De André.

* citazione della canzone “Hotel Supramonte”, di F. De André.

** stile di racconto molto famoso tratto dal libro “Oceano Mare” di A. Baricco (amore mio di libro).

*** citazione della canzone “Hotel Supramonte”, di F. De André.

**** citazione di Walt Withman

***** vorrei ricordare a tutti che la figlia di Hermione di chiamerà Rose, e niente

****** citazione della canzone “Hotel Supramonte”, di F. De André.

 

 

Non ho molto da dire su questa one-shot, se non che sono felice d’essere ritornata, dopo così tanto tempo, a scrivere.

Grazie a tutti voi che siete arrivati fin qui.

 

Baci, Rosie

  
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