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Autore: Diana LaFenice    09/04/2018    0 recensioni
Al tempo in cui il Medioevo si scambia di posto col Rinascimento, Agostino è soltanto un bambino quando la sua vita cambia per sempre e, con la sua famiglia, si trasferisce a Sirmione per sfuggire alle malelingue sul suo aspetto: a causa di un forte shock parte dei suoi capelli sono diventati bianchi.
Il suo peregrinare finirà quando lo zio lo accoglierà presso di sè a Castel Toblino, ove troverà impiego come giardiniere. Il suo intento, infatti, è quello di ricreare il Giardino dell'Eden proprio lì, nel parco del castello. Ma non sarà facile.
L'amore per i fiori e la natura, che condividerà con molte persone, intrighi, superstizioni, maledizioni, una creatura misteriosa la cui voce angelica che risuona nelle notti della bella stagione, e pericoli di varia natura, fanno da cornice alla vita del giovane giardiniere, all'incredibile storia che vivrà e a una leggenda quasi dimenticata il cui unico ricordo è ormai la spilla su cui aleggia: quella di un giovane amore sbocciato sulle sponde di un lago minacciato dai pericoli del suo tempo e l'espiazione di un cavaliere.
Questa è la Leggenda delle Stelle d'Acqua.
Genere: Romantico, Sovrannaturale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
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Capitolo 13: A caccia di cigni selvatici


C
on la con la bella stagione tornarono a galla vecchie abitudini e nuovi problemi. Con l’equinozio l’angelo del lago ricominciò a farsi sentire la notte. E, Agostino si sentì invaso da una nuova speranza. Ma il giardino, per esempio, pareva aver riacquistato nuova forza e ora opponeva resistenza con ancor più tenacia di prima. Ma poco dopo l’equinozio di primavera, era ormai pronto. O meglio, lo sarebbe stato, se non fosse stata proprio per quella parte che nessuno riusciva a curare. Erano passate tre settimane ancora e i risultati non erano cambiati. E indovinate un po’qual era quella parte che proprio non voleva farsi cambiare? Esatto: quella dove si era suicidata la castellana. E nessuno voleva occuparsene a causa dell’ignoranza e della superstizione. Tutti asserivano che il fantasma della giovane si aggirasse ancora per quelle sponde e, stando ai testimoni oculari, finisse sempre per buttarsi in acqua, in lacrime.
Come ad avvalorare questa tesi, il terreno stesso non voleva farsi lavorare. Strano a dirsi, ma era proprio così. Agostino non ci voleva credere e aveva già licenziato tre braccianti, l’ultimo dei quali urlava a squarciagola di chiamare il parroco per effettuare un esorcismo. E, poi aveva urlato anche qualcosa a proposito di voci femminili che cantavano e che sua moglie aveva veduto una specie di serpente tuffarsi nelle acque del lago. «E’ il mostro! Vi dico che è il mostro!» La povera donna era mancata poco prima che cadesse in pasto al mostro. Il giovane giardiniere aveva dovuto chiamare le guardie affinché li scortassero via. E con queste parole, Agostino si era giocato tutti gli aiuti possibili. Persino Lucenzio smise di aiutarlo. Ma non perché credesse anche lui a quelle fole. Bensì perché gli aveva mentito. E adesso giocava a ignorarlo. Da allora aveva cercato di occuparsene lui stesso di persona. Ma era una porzione così ampia che persino lui si ritrovò in difficoltà. Anche cercare di dividere il terreno in appezzamenti più piccoli e occuparsene in altri momenti ancora era una follia.
Si stava arrendendo quando gli venne in mente di pregare. Ma chi? Andava a messa tutte le domeniche, si confessava e pregava regolarmente. Ma non succedeva niente. Però c’era ancora una cosa, un’entità che non aveva ancora pregato: il lago. Quel giorno prese coraggio e si mise a passeggiare da solo per le sue sponde. Quando fu sufficientemente lontano da orecchie indiscrete si fermò. Si guardò attorno mordendosi le labbra, poi, non vedendo nessuno, guardò le acque che lambivano le rive ai suoi piedi e cominciò, le mani dietro la schiena : «Forse sto impazzendo, se mi riferisco proprio a te. Se prego te. Io non so più cosa pensare, non so cosa fare, né a chi rivolgermi. Sono proprio arrivato alla frutta, non è così? Sì. Dev’essere così. Il fatto è questo: io sto cercando di riportare un giardino al suo antico splendore, anzi, di trasformarlo nel giardino più bello di tutti. Il più bello che sia mai stato realizzato. E non ci riesco. Per colpa tua. Per questo giardino così ingovernabile, per questa storia, perché mi impedisci di sentirmi vicino ai miei genitori? Perché è di questo che si tratta! I miei genitori amavano le piante al punto che se ne sono occupati per tutta la vita e hanno trasmesso anche a me la loro passione. Hanno insegnato anche a me a prendermene cura.» più parlava più si sentiva il viso caldo e gli occhi annebbiati di lacrime. Si sentiva a un soffio dal completare il suo sogno, e non ci riusciva. Dopo tutti gli sforzi fatti, i sacrifici, non ci riusciva. Era frustrante. Era come vedersi assegnare un premio e poi scoprire che in realtà apparteneva a qualcun altro. «Ad amarle. Potrei fare un mucchio di altre cose ma non lo faccio, perché quando mi occupo del giardino, metto in pratica la loro arte, li sento di nuovo con me. Il giardinaggio è tutto ciò che mi resta di loro e tu me li stai portando via. Me li stai portando via!» Urlò e cadde in ginocchio. Pianse apertamente, prendendosi la testa tra le mani: «Che razza di mostro fa una cosa del genere? Ascoltami…» Cercò di ritrovare un po’di calma. Respirò finché non si calmò un po’ e tirò su col naso, prima di guardare quelle acque calme con occhi seri: «Ascoltami, lo so. So cosa ti è successo e mi dispiace. Mi dispiace tantissimo, ma non posso farci niente; d’accordo? Senti, è successo trentacinque anni fa! Io non c’entro niente con la tua storia. Voglio solo occuparmi del giardino. Hai il cuore spezzato e sei umiliata ma non per questo devi trascinare tutti noi nel tuo dolore. Ognuno ha il proprio fardello da portare e credimi, il mio è già abbastanza pesante di suo. Non so se sono capace di sopportare anche il tuo. Conosco la tua storia ma non so cosa hai provato e passato e non lo posso immaginare perché non ho gli strumenti per farlo. Io non ti conosco. Io non so niente di te e mi ritrovo a confidarti il mio più grande, segreto dolore. Ma tu sicuramente non mi starai neanche ascoltando, dall’alto della tua superiorità e della tua vendetta. Perché è di questo che si tratta; vendetta, vero? Altrimenti perché lo faresti? Perché ti accanisci così tanto su di me e su questo giardino dopo tutto questo tempo? Non puoi affogarci tutti a questo modo. Guardaci. Guarda il mondo che ci circonda! C’è così tanta bellezza nella Creazione che non puoi sopraffarla con la Distruzione! Ma a te cosa te ne importa? Ormai sicuramente con gli angeli vendicatori!» Urlò e la valle gli restituì la sua eco. Sospirò e volse le spalle al lago. Poi, sconsolato, tornò sui suoi passi. «Ma tu guarda quanto sono stupido, parlo coi laghi. E poi cosa faremo, Agostino? Parleremo alle anatre? Ai quadri?» Borbottò mentre tornava a casa. Eppure, lentamente, si fece strada dentro di sé la sensazione di essere stato ascoltato. Ma ascoltare non significa fare. Perché nonostante il suo sfogo la situazione non migliorò. Non migliorò affatto.
E, proprio dopo la fine di aprile, mentre il giovane stava lottando contro i rami del roseto che aveva piantato, armato di un robusto paio di cesoie, giunse al castello la risposta alle sue preghiere.

Quell’anno i Da Campo giunsero con qualche settimana d’anticipo: «Per recuperare i mesi che si erano perduti l’anno prima.» Fu la giustificazione. Ma in realtà qualcuno era riuscito comunque ad avvisarli che Amalia stava sperperando le loro ricchezze. Quando la donna seppe del loro arrivo si preparò al meglio e si presentò al loro cospetto rivestita di un’umiltà che non le si addiceva. I Da Campo la rimproverarono aspramente. Molti servi gongolarono a quella scena.

Erano passate tre settimane e tra tre giorni sarebbe giunto il Solstizio d’Estate e i Fuochi di San Giovanni. Le persone stavano già cominciando ad ammassare le varie cataste per il solito rito. Rito che Stella, Agostino e tutti i giovani non vedevano l’ora di ripetere. Stavolta però si sarebbe aggiunto anche mastro Lucenzio. L’aveva annunciato ai due mentre stavano discutendo sulla disposizione dei gigli bianchi nel giardino. I due l’avevano guardato con tanto d’occhi: non lo facevano così audace. E quella sparata fu sicuramente un bell’intermezzo in un’altra dura giornata lavorativa.
Ovviamente la marchesina aveva provato, anche se con meno lena dell’anno prima, a disturbarli con le sue lezioni di canto. Ed era pure migliorata, ma i lavoratori avevano trovato un modo per disturbare lei: cantavano a loro volta. A guidare il coro era mastro Lucenzio, che, tra tutti, pareva conoscere parecchie canzoni e che a volte ne componeva alcune sul momento grazie a un gioco che facevano. Il gioco era nato per caso: una persona diceva una parola tipo annaffiatoio, elefante o pallone e queste parole andavano inserite nella canzone. Mastro Lucenzio poi non era un cantante, ma era intonato perciò non era poi così sgradevole sentirlo cantare o unirsi a lui. Il risultato, per esempio poteva essere:
«La bella lavanderina
Che lava i fazzoletti
Ha esagerato coi funghetti
E ha visto un elefante inciampare nel mio annaffiatoio
Mentre giocava a pallone con un formicaio...»
Saltavano fuori certi obbrobri goliardici che riempivano e allietavano le loro giornate e facevano dimenticare la fastidiosa marchesina e la sua dama da compagnia. Secondo Agostino il Decameron di Boccaccio - che ovviamente Lucenzio gli stava facendo leggere - era nato così perché altrimenti non se lo spiegava.
C’erano stati dei giorni in cui la rampolla dei Da Campo era più battagliera del solito, ma anche i lavoranti. Ormai Agostino si era bell’e dimenticato di lei, al punto che adesso trovava la sua presenza quasi fastidiosa. Anzi, forse non l’aveva mai neppure amata perché, a ben pensarci, non aveva sofferto per la sua partenza. Oppure per la notizia che si sarebbe sposata di lì a poco, visto che la sua educazione era quasi giunta al termine. E se mai aveva provato anche una punta di dolore per quel suo infelice amore, non se la ricordava minimamente. Di solito si soffermava a pensarci quando la marchesina cantava, ma, di solito, veniva sottratto a quei pensieri dalla voce di Stella, che si metteva a cantare a sua volta. Aveva già assaporato la sua bella voce e la sua bravura, ma sentirla mentre interrompeva la marchesina non aveva prezzo. Il bello era che non cantava canzoni scollacciate o di giovani che vendevano la propria verginità per due ghinee e l’illusione di un amore. No, lei cantava le sue composizioni. E anche se non erano all’altezza dell’angelo del lago erano comunque molto belle e orecchiabili.
Stavi ancora pensandoci quando passò davanti a una stanza e, con la coda dell'occhio vide ciò che non avrebbe mai voluto vedere. Si fermò e guardò meglio. E, scoprì di non essersi sbagliato: suo zio stava pomiciando con Amalia. L'uomo si accorse del nipote sulla soglia e si staccò dalle labbra della donna: << Agostino! >> Lei guardò il giardiniere e si schiacciò ancor più contro tuo zio anche se questo cercò di togliersela di torno. Il ragazzo dagli occhi verdi contrasse il volto in una smorfia di disgusto e se ne andò ignorando i richiami dello zio: «Ehi, dove vai?» «A prendere una boccata d’aria fresca. L’aria è davvero pesante in quest’ala del castello.» Spiegò lui senza voltarsi, facendogli il verso. Non poteva crederci. Non tanto per quello, quanto per il fatto che quella creatura disgustosa adesso stesse traviando suo zio. Visto che non era riuscita a traviare lui per spiare Lucenzio e Stella, adesso si vendicava così. Ma doveva essere per forza così, perché sembrava fatto apposta.
Afferrò il proprio mantello e uscì dal castello e si avviò al suo posto preferito. Quello dei massi dove d’estate a volte giocava con le barchette. Aveva compiuto quindici anni da poco, è vero, ma ancora non si sentiva di voler smettere. Si sedette sulla sponda e sbuffò. Proprio allora, mentre osservava il riflesso della luna sull’acqua, che in quella stagione era visibile anche di giorno, sentì cantare una canzone. Ormai aveva imparato a riconoscere la voce dell’angelo del lago. Ma era la prima volta che era così vicino da poterla udire chiaramente. No, a ben udire, non era proprio la stessa, anche se era molto armoniosa. Ed era vicina a lui. Incuriosito si alzò e ne cercò la fonte. E vide Stella, sul masso più alto, che cantava una canzone che aveva sentito in paese per la fiera della primavera. I capelli biondi smossi dalla brezza, la feroniere con le perline d’ambra e il vestito verde scuro. Poi lei chiuse la bocca e lui, capendo che la canzone era finita, domandò: «Si batte la fiacca?» Lei strillò per la paura e si volse di scattò verso di lui, gli occhi che ormai aveva imparato a conoscere, sgranati. «Agostino! Perché ci provi così tanto gusto nel farmi prendere un colpo?» Esclamò irata.
«Mi dispiace, madamigella,» scherzò lui, ridendo, mentre le faceva un inchino: «non era mia intenzione».
Lei roteò gli occhi, piccata: «Non sono una damigella, mastro, non è il caso di essere tanto formali». Solo allora rammentò che la ragazza si teneva il più possibile distante dall’acqua. Che cosa ci faceva lì?
«Perché cantavi?» Domandò invece. Lei fece spallucce: «E’la mia passione. Amo cantare». Non l’aveva mai sentita prima di ora: «Pensavo che sapessi soltanto comporre» durante quelle sere di trascrizione l’aveva anche vista comporre poesie. Poesie che però lei non le aveva fatto leggere. «Mi dispiace deluderti, so anche cantare.» Sorrise lei. «E tu come mai sei qui?» Gli domandò, un po’diffidente. Che fosse mestruata? S’interrogò sospettoso il giovane. Anche se non sembrava i giardinieri erano molto superstiziosi. Lui personalmente non lo era, ma se gli altri lavoravano evitandola, doveva essere successo qualcosa. Ma poi gli tornò alla mente che lei era fatta così. Poi gli balenò in mente un’idea: «Ascolta, ti va di continuare ad aiutarmi col giardino?»
«Mi sembrava che lo stessi già facendo da un po’.» Sorrise la ragazzina, mentre con agilità lo raggiungeva sulla terraferma, sollevando appena il vestito per non essere impacciata nei movimenti. Solo che nel farlo scoprì le gambe fino ai polpacci. Lo sguardo di lui si fissò su di esse: era la prima volta che le vedeva. E, le trovò molto belle. Poi, si rinvenne, scosse il capo e riprese il filo del discorso: «Ascolta, pensi che se glielo chiedessi tu Santiago accetterebbe di occuparsi del giardino assieme a noi?» Dopotutto, per realizzare il suo giardino aveva ancora bisogno di tutto l’aiuto possibile, adesso che Lucenzio era impegnato con la strega tutti i pomeriggi.
«Certo che sì.» Garantì la servetta. Poi, senza quasi che se ne accorgessero, cominciarono ad avviarsi verso il castello. E mentre camminavano il suo amico le rivelò i suoi dubbi e le sue perplessità: «Scusa se te lo chiedo così, adesso, ma dove sono i tuoi genitori?» Lei si rabbuiò un po’, però glielo disse: «Non lo so. Tutto ciò che ricordo non va prima dei nove anni di età e già allora loro non figuravano nei miei ricordi. Come se non ci fossero mai stati. Quando giunsi qui ed Etienne mi prese a lavorare come sguattera, comandò a Santiago e Charo di aiutarlo a prendersi cura di me. Per quel che ne so sono loro due la mia mamma e il mio papà. Ma a volte mi domando anch’io chi sono davvero e spesso non riesco a trovarne la risposta. Un giorno spero di andarmene da qui e riprendere il mio viaggio. Vorrei trovarli, sapere di loro, e probabilmente dovrò frugare tutta l’Europa per riuscirci. Ma ce la farò».
«Santiago e Charo lo sanno?»
«Sì. Loro preferirebbero vedermi sistemata con qualcuno, mettere su famiglia e farmi una vita. Non che col tempo qualche pretendente non abbiano cominciato a scegliermelo. Pensa che Charo mi sta cucendo il corredo: sperano ancora che un giorno mi sposi. Ma Toblino e dintorni non hanno niente da offrirmi e io finirei solo per sentirmi in trappola. Ma anche se finissi per essere promessa a un porcaro o a un fabbro o che so, a un tintore di guado, non sono così disperata comunque da svendermi al primo che passa».
«Perché no?» Chiese il ragazzo, incuriosito e desideroso di poterla aiutare in qualche modo. Avvertiva l’ingiustizia che gravava su di lei, ma non riusciva a comprendere perché non scappasse via, se la sua vita le stava stretta.
«Una vita normale non è quello che mi è stato concesso. La mia vita è strana.» Fece quasi parlando a sé stessa, guardando di fronte a sè. «Strana?» Domandò il giovane senza capire.
«Guardami. Lavoro da quando ero piccolissima, amo la natura, ti sto aiutando con il giardino, voglio viaggiare, ho amicizie importanti, sto raggiungendo livelli che non mi sarei mai sognata, e il tutto continuando a tenermi stretta la mia verginità. Ma qualunque cosa io faccia resto sempre una serva. Anche se mi spostassi da qui, per ora, e forse anche altrove, finirei solo per diventare serva in casa d’altri. Un po’come Amalia, del resto. Neanche lei può aspirare ad essere di più, anche se continua a sbatterci la testa».
«Non sei strana, io trovo solo che tu sia una grande lavoratrice. Vedrai che andrà bene, qualsiasi cosa tu decida di fare».
Lei gli indirizzò un sorriso pieno di speranza: «Lo spero davvero. Ci sono delle volte in cui il mondo mi fa paura. Molta paura. A volte ho incubi tremendi di guerre e sangue e fuoco. E spero tanto che non siano sogni premonitori, perché nessuno mi difende in questi sogni.» Gli confidò. Il giovane si accigliò, confuso. Ma che stava dicendo? «Ma tu sei già al sicuro, ci sono già tante persone che ti difendono.» La ragazza rispose con un sorrisino mesto, però annuì.
«Per modo di dire. Non credere che non mi sia accorta di come mi guardano le persone quando cammino per strada. Vedrai, presto arriveranno al castello i miei pretendenti. Sai che bellezza.» Sbuffò. Non aveva proprio voglia di pensare già adesso al matrimonio e affini. «A volte mi piacerebbe vivere la mia gioventù, la mia ingenuità, la mia fantasia, vedere il mondo come lo vedi tu, pieno di damigelle in pericolo, principesse canterine e cavalieri senza macchia e senza paura in armature scintillanti. Ma non posso. Io sono diversa.» Mormorò ma in queste parole c’era un peso. Un peso segreto che lui non riuscì a carpire. Perciò si aggrappò al discorso di prima e la canzonò dicendole: «Vorresti farti monaca?»
«Neanche per sogno! Lui non mi ha chiamata al suo servizio e, anche se lo facesse non risponderei mai. Tra tutte le miriadi di persone che ci sono non può e non deve scegliere una come me. Se è Onnipotente come dicono allora Sa anche che mi sentirei in trappola, se dovessi rinchiudermi in un convento e Servirlo a questo modo fino alla fine dei miei giorni. Scusami, ho parlato troppo.» Disse poi, timorosa della sua reazione, come se avesse temuto di urtare la sua sensibilità. E probabilmente doveva esserle già successo prima per avere un simile regresso.
«Non preoccuparti, non sono un uomo di Chiesa.» E per la prima volta da che si conoscevano Agostino la guardò davvero. E si accorse che gli occhi non erano viola, bensì azzurri con venature verdi che, per uno scherzo della luce, assumevano una colorazione violacea. Aveva già visto occhi simili da qualche parte, solo che non sapeva dove. Però li trovò molto belli e affascinanti. Per la prima volta si accorse che era cresciuta. Il viso stava diventando un ovale perfetto, e le sue ciglia si erano infoltite e allungate. Le sue labbra si erano fatte più piene e le sue fattezze stavano diventando sempre più femminili. Cosa strana per una serva, ma le sue sopracciglia erano sempre perfette e ordinate e i capelli sempre puliti, così come il resto della sua persona, cosa abbastanza strana per una ragazza del suo rango. Nemmeno lui era così pulito, anche se qualche volta si lavava. Inoltre aveva la pelle perfetta e curata a differenza della propria, punteggiata qui e là di qualche brufolo. Madre Natura l’aveva favorita così. Però tutto ciò, invece che abbellirla, la rendeva intrigante. Inoltre adesso gli arrivava all’altezza della spalla. Mentre prima le arrivava giusto a metà braccio. Non ci aveva fatto molto caso prima d’ora perché era abituato ad averla sempre sotto gli occhi. Fu la domanda che gli rivolse a risvegliarlo dal suo incanto: «Tu invece? Cosa vuoi fare, poi?»
«Eh? Oh...A dir la verità non ci ho ancora pensato. Per ora spero solo che le cose si sistemino.» Disse. Non gli andava di rivelarle ciò che aveva appena scoperto. Ma lei parve arrivarci perché domandò, cambiando totalmente espressione: «Amalia?»
«Già».
La ragazza sbuffò, annoiata: «Che ha combinato stavolta?»
«Niente d’importante.» Mentì il ragazzo. Non voleva che sapesse che suo zio era appena passato al nemico. Però si limitò a raccomandarle di fare ancora più attenzione quando scriveva le sue lettere. E di non farle vedere a nessuno. Nemmeno ad Etienne. Non poteva credere che suo zio, che stimava così tanto, fosse divenuto l’amante di quella strega.

La cortigiana di palazzo aveva indetto una festa per la Notte di Mezza Estate. Un tempo il castello era stato famoso per le grandi feste che vi si tenevano. E lei volle riportare in auge questa tradizione. Forse anche per tentare di tornare nelle grazie dei padroni. I quali mostrarono di apprezzare quest’iniziativa.
Quel giorno i due amici lavorarono alacremente nelle cucine per preparare quei manicaretti che alla signora dalla pelle d’avorio piacevano così tanto. «Solo cucina veneziana.» Aveva espressamente detto. Inoltre prepararono persino i cibi preferiti dei padroni e ai servi fu ordinato di servirli per primi. E non mancava giorno che Agostino e Stella non le facessero il verso. Poi uno dei due fingeva di esaminare con occhio critico e una lente d’ingrandimento immaginaria, la mercanzia che la donna si faceva recapitare al castello.
Poi, nel bel mezzo della festa, Agostino si accorse che i figli dei signorotti locali e il giovane Fabriano, stavano svignandosela. Li aveva visti confabulare tra loro per un po’ e per un po’avevano partecipato alle danze. Addirittura Fabriano aveva scambiato qualche parola con l’amica di penna e l’aveva fatta ridere mentre li serviva. Lì per lì il nostro amico aveva assottigliato gli occhi: anche se il marchesino era cresciuto e aveva accorciato i capelli di modo che ora gli coprissero solo le orecchie, continuava a non stargli affatto simpatico. Forse per il modo in cui gli parve che i suoi occhi indugiarono sulle nuove curve della ragazza. Per un momento gli sovvenne pure che il giovane sangue blu avrebbe anche potuto stringerla a sé brevemente, se fossero stati in un’osteria. E di questo il giovane patrizio era ancora consapevole. Perciò si limitò a salutarla e farla tornare al proprio lavoro. E lui riprese a gozzovigliare. Poi il giovane Fabriano, che quell’anno si era portato degli amici, parlò con loro e, di comune accordo, sgattaiolarono verso la porta della sala. Incuriosito e preoccupato per gli allegri ubriaconi, li seguì senza farsi vedere e udì i loro discorsi e le loro risate: «Visto? Che vi avevo detto? È stato un gioco da ragazzi!»
Strano. Per essere ubriachi parlavano ancora piuttosto fluidamente e senza singhiozzi o biascichii tipici della sbronza. Qualche volta si era ubriacato anche lui, perciò lo sapeva, ma non gli era piaciuto un granché, soprattutto il dopo sbornia.
Invece questi, a sorpresa, erano ancora tutti e tre molto più sobri di quanto si aspettasse.
«Non pensavo che lo fosse davvero!» Commentò ridacchiando uno dei ragazzi, quello che si chiamava Baldassarre e aveva i capelli neri e gli occhi verdi e il viso da faina su un corpo alto e secco. Se il Diavolo avesse avuto un volto - aveva sempre pensato Agostino - avrebbe avuto il suo. Oppure quello di Amalia, anche se lei era guarita dall’erpes già da qualche mese.
«Zitto o ci farete scoprire!» Lo ammonì ridanciano Tebaldo, un altro amico del giovane, rosso e riccio con gli occhi verdi chiari. Più basso e robusto. Fabriano li riprese allegramente tutti e due: «Ma andate a quel paese, se vi sembra difficile questo figuriamoci a Venezia!»
«Ehi! Mastro Fabriano, voi esagerate sempre. È come se vi piacesse farci cagare in mano per provare la vostra superiorità.» Esclamò Tebaldo come a dire esagerato. E Fabriano si fermò per dirgli qualcosa ma prima che i due cominciassero a litigare Baldassarre si mise in mezzo e disse: «Non cominciate! Piuttosto, siete sicuro che l’armeria sia libera a quest’ora?» L’armeria? Pensò Agostino accigliandosi. Che ci andavano a fare a quell’ora nell’armeria?
«Certo che lo è! Seguitemi, conosco la strada.» Garantì il padroncino di casa.
«Avete detto la stessa cosa tre minuti fa a me sembra di girare intorno.» Fece in tono vagamente intimorito.
«Avete forse paura, mastro Baldassarre?» Lo sfidò il marchesino.
«Io? Macché. È che questo castello mi sembra strano. Non so, mi sento come se qualcuno mi stesse guardando».
«Sono i quadri. Effettivamente sono molti e molto diversi da quelli che rammentavo, non ricordavo che mio padre avesse permesso che la tenuta venisse ridecorata e ammodernata. A lui è sempre piaciuto lo stile tarmato del secolo scorso. Oh, quello stile, oh quei vecchi tristi drappi, parevano quelli di una parata funebre; so io cosa ci avrei fatto con quei drappi! Una bella vomitata e via, tutto risolto!» Gli altri due ridacchiarono e Agostino dovette mordersi la lingua per evitare di essere scoperto. Poi tornarono seri e Baldassarre disse; «Non è per questo. E’che mi sento…Sento come una strana energia».
«Un fantasma, intendete?»
«No, più come se questo loco fosse pieno di energia. E’inquietante. Mi sembra che da un momento all’altro stia per succedere qualcosa, come nelle leggende che aleggiano su questo luogo, le conoscete?»
Uno dei ragazzi sospirò e poi un altro disse: «Dovreste farvi vedere da un medico, e da uno bravo, invece di ammorbarci con le vostre insensate paure. L’anno prima ve ne eravate uscito che i corridoi e le stanze sono troppo ampi. Tutto perché abitate nel bel mezzo della vostra città». E quest’informazione gettò Agostino nella confusione: di quale città parlavano? Trento non era poi così grande. E non ricordava di averli mai visti in quella città quando ci si recava per il mercato o le fiere. Forse non erano davvero signorotti locali come aveva pensato.
«Anche voi abitate in città.» Li rimbeccò Baldassarre «E mi fa meno paura venire a casa vostra in visita che avere a che fare col castello del lago maledetto».
«Sì, sì, sì, come vi pare; le conosco anch’io queste storielle» rispose con il tono nauseato di chi ne ha le tasche piene di sentirsi ripetere le stesse litanie «ma non ci do peso. Sono solo dicerie di contadini superstiziosi e ignoranti».
«Vi dico che sto benissimo. Aspettate!» Esclamò poi e si fermarono. Agostino li imitò immobilizzandosi ad occhi sgranati. «Cosa c’è?»
«Ho sentito dei passi!» Poi si voltò e Agostino, che già era all’erta e coi nervi a fior di pelle, si tuffò in un cono d’ombra e cercò di farsi il più piccolo possibile per scomparirvi dentro. Strizzò gli occhi più che poté pregando di non essere visto e cercando di chetare il proprio povero cuore spaventato. Pulsava così forte che gli pareva quasi di avere una gran cassa battente in petto. «Siete sempre il solito fifone, mastro Baldassarre, non vedete che non c’è nessuno?» Lo canzonò l’amico di Stella mentre il terzo rideva sotto ai baffi. Agostino si tranquillizzò un poco e ringraziò il Cielo: «Eppure avrei giurato…»
«Smettetela, messere, siete solo influenzato dalle dicerie di questo posto.» Fece Tebaldo, di gran lunga più gentile di Fabriano, che lo prese in giro senza pietà: «Se non vi avessi visto all’opera con le baldracche giurerei che siete una femminuccia fifona».
«Femminuccia a chi?»
«Non a me stesso di sicuro, io non strillo nel cuore della notte per uno spiffero sul collo o perché un’ombra mi è passata accanto o le nubi hanno oscurato la luna.» Ribatté il giovane capogruppo, spavaldo.
«Come vi permettete, marrano! Io vi prendo a pugni e vi farò bere brodini a vita!»
«Adesso?» Sorrise l’altro come a dire fatti sotto e si mise in posizione a sua volta.
«Ehm, ragazzi?» S’intromise Tebaldo. I due lo guardarono e dissero in coro, ancora sul piede di guerra: «Che c’è?»
«I cigni selvatici...» Balbettò il poveretto, capendo di trovarsi in mezzo a due fuochi. Senza sapere di non essere l’unico ad esserci finito in mezzo. Solo che messer Tebaldo rischiava assai di meno di quello che rischiava lui, povero nipote di maggiordomo.
«Giusto. È vero.» Disse Baldassarre raddrizzandosi.
«Giusto, dobbiamo sbrigarci. I cigni selvatici non si cacciano da soli e non vorrei che qualche paesanotto fosse arrivato prima di noi. Qui vanno pazzi per la carne di cigno.» In realtà, come tutte le persone di classe inferiore, andavano matti per la carne in generale e l’episodio a cui si stava riferendo risaliva a otto anni prima. Il ragazzo coi capelli bianchi lo sapeva perché glielo narrarono quell’inverno. In sostanza quell’anno la carestia a causa della guerra fu così tremenda che le persone fecero fuori quasi tutti i cigni del lago.
Ripresero il cammino per l’armeria.
Agostino aspettò che avessero svoltato l’angolo prima di uscire dal suo nascondiglio, tanto sapeva dov’erano grazie alle ombre proiettate sui muri dalle candele e le lucerne. Perciò non gli fu difficile seguirli. Non era mai stato in quella parte del castello. Eppure l’aveva girato tutto, così concluse che doveva essergli sfuggito.
Quando giunsero di fronte alla porticina si nascose dietro mobile, cercando di farsi piccolo piccolo. Fu agevolato dalle tenebre perché il gruppetto non si accorse di lui e, ridendo e cercando di zittirsi a vicenda, Fabriano tirò fuori il mazzo di chiavi e cominciò ad armeggiare con la serratura. «Dove le avete prese?»
«Le ho rubate al maggiordomo quest’oggi. Quel vecchio caprone non ha ancora imparato che non si devono nascondere le chiavi nei cassetti.» Provò un’altra chiave e questa girò. «Ecco ci siamo!» E la porta si aprì.
No, pensò Agostino, vagamente offeso: quel vecchio caprone ve le mette a vostra disposizione tutte le volte che venite in vacanza, altrimenti le più importanti le affida alla zia o al suo primogenito. Altrimenti se Amalia le avesse avute a propria disposizione, avrebbero già ricevuto tutti una pistolettata. Poi gli tornò in mente il tradimento dello zio ed ebbe un moto di disgusto tale che gli fece increspare il viso in una smorfia.
Uscì armato di archibugi e spingarde. Il giardiniere si sporse e si domandò che diavolo volessero fare quegli sciocchi. E li seguì, tenendosi sempre a debita distanza. Volevano davvero dare la caccia ai cigni selvatici a quell’ora della notte? Ma erano impazziti o era diventato sport nazionale cacciare a quell’ora? Oppure era per via dei fuochi d’artificio che avrebbero coperto il rumore degli archibugi? Probabilmente era proprio quest’ultima. Fatto sta che tutto ciò gli sembrò terribilmente famigliare, esattamente come il suo sogno. Poi si ricordò anche dell’angelo del lago e sperò che non decidesse di farsi vedere in quel momento, altrimenti sarebbe morto. E lui non voleva.
I ragazzi scomparvero e fu allora che dalle acque emerse qualcosa. Agostino restò col fiato sospeso finché i giovani non cominciarono a sparare, coperti dai botti dei fuochi d’artificio. Ma rompendo irrimediabilmente la magia di quel luogo. Non aveva mai pensato che esistesse un modo così barbaro di uccidere quelle magnifiche creature. Ma aspettò ancora, finché non fu sicuro che avessero finito. Poi il gruppetto ridanciano se ne tornò al castello portandosi dietro le prede. Fu allora che il ragazzo si accorse che un’altra creatura era uscita dall’acqua. Che uno dei cigni fosse riuscito a salvarsi? In ogni caso doveva essere ferito lo stesso. Impietosito estrasse il coltello dal fodero. Si sporse oltre i canneti per vedere meglio ma invece di un cigno vide qualcos’altro. Somigliava a un grosso serpente nero per come guizzava a pelo dell’acqua. Ma c’era qualcos’altro. Che avesse delle pinne? Poteva anche darsi che fosse solo un grosso pesce.
Poi la creatura uscì dall’acqua e Agostino si sentì arrossire quando qualcosa nei suoi pantaloni si mosse. Era una ragazza. Ma era strana e alla luce della Luna non riuscì a distinguerla molto bene. E poi quando la giovane si arrampicò strisciando sulla roccia, Agostino si sentì gelare il sangue nelle vene. Al posto delle gambe aveva una lunga coda di pesce nera e frastagliata. La osservò spiazzato e il coltello cadde a terra, sull’erba. Tra tutte le cose che si era aspettato di vedere, mai si sarebbe aspettato una sirena. Era quello l’angelo del lago? No. Non poteva essere! Gli angeli hanno le piume, non le squame! Non era così che se l’era immaginato. Non così straordinariamente simile alla strega che liberò da piccolo. Anche stavolta fu invaso dal terrore. Fece per fuggire quando la sentì cantare.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che non le trovo, che sono in ritardo.

Il giovane si bloccò immediatamente, riconoscendo all’istante quella voce: era quella dell’angelo del lago. Quella che aveva udito per tutto il tempo e anche prima di allora. E non appena cantò, tutto parve animarsi con un fruscio, come se rispondesse al suo canto.
Guarda dove l’ultima volta, la cara Maab non può avertele sottratte.
Arrivano i gitani, li senti? Accordan gli strumenti.
è tempo di far festa.
Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti
Sulle note dei violini e al ritmo dei tamburi.

Il vento carezzò l’erba, i fiori e le fronde degli alberi, come pure i canneti e le piante lacustri. E dall’erba smossa si levarono i brillii delle lucciole, che salirono dolcemente in volo; illuminando la notte come tante stelline fosforescenti. Improvvisamente Agostino non ebbe più paura; ma anzi, restò affascinato da quel prodigio. Ancora di più quando si accorse che i colori attorno a lui si fecero più vividi e scintillanti nonostante l’oscurità.
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che non le trovo, che sono in ritardo.
Arrivano i gitani, li senti?
Accordan i violini e suonano i tamburi.
Lo senti questo profumo? Eccoli, sono qui gli gnomi,
e le loro pietanze appetitose.

Dobbiamo sbrigarci, la Regina delle Fate ci chiama.
Hanno cominciato a suonare.
Non dar retta a quel caprone di tuo padre, stanotte vieni con noi.
Vieni a divertiti.
Vieni che arrivano i gitani.
Vieni che presto arriveranno gli elfi e le fate.
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che sono in ritardo.
La festa sta per cominciare e non posso venire a piedi nudi.
Ecco, sento la musica, sbrigati, non importa.
Presto; presto, saliamo la collina e uniamoci alla festa.
Presto, ancora più presto.
Dai danziamo e cantiamo tutti insieme.
Non ti preoccupare per le scarpe, domani ne avrai di nuove.
Ecco guarda, nessuno ci fa caso.
Non ti preoccupare per la sporcizia andrà via da sè.
Vedi che persino i fiori lascian la tua pelle intatta?
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.
Dove ho lasciato le scarpette per il ballo?
Dimmelo che non le trovo, che sono in ritardo.
Arrivano i gitani, li senti? Accordan i violini e suonano i tamburi.
Ecco che danzano gli gnomi e si uniscono a loro i leggiadri signori.
Come foglie e sassi danzano nel vento sul tappeto di fiori
Sollevate nell’impeto.
Su! Corriamo
Su! Corriamo alla
festa,
non ti preoccupare, chiunque è il benvenuto.

La voce di lei che riempiva la notte e gli scaldava il cuore. Come se lei fosse vicina a lui e non a decine di metri di distanza.
Arrivano i gitani, li senti?
Accordano i violini e suonano tamburi.
Ecco che alle danze si uniscono le fate, le vesti bagnate di rugiada
Mentre le rose cantano per il loro diletto sotto la luna e la stellata.
Accordan gli strumenti
è tempo di far festa.

Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti
Sulle note dei violini e al ritmo dei tamburi.
E davvero non importa del ritardo o se son scalza.
Di questi tempi, per star con questa gente
non c’è bisogno di scarpe

Come aveva potuto avere paura di una creatura simile, se cantava come un angelo? Anzi no, se lei era il suo angelo? Nella sua mente risuonarono gli antichi ammonimenti del parroco della sua infanzia sulle trame e le maschere del Demonio. Eppure più vedeva quella creatura, più ne ascoltava il canto, più si convinceva che quella non era una serva del Male. Se il Male era Distruzione, perché a lui quella canzone suscitava quelle emozioni così intense e coinvolgenti? Perché gli batteva forte il cuore e si sentiva il viso in fiamme?
Arrivano i gitani, li senti? Accordan gli strumenti.
Arrivano i gitani, è tempo di far festa.
Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti
Sulle note dei violini e al ritmo dei tamburi.
Accordan gli strumenti. è tempo di far festa.
Danzeremo alla luce dei falò con aitanti giovanotti

Sulle note dei violini E al ritmo dei tamburi.
E davvero non importa del ritardo o se son scalza.
Di questi tempi, per star con questa gente
non c’è bisogno di scarpe

Era così incantato a guardarla che quando la sentì zittirsi e la vide scivolare di nuovo in acqua e sparirci, si sentì improvvisamente solo e abbandonato. Come quando ci si risveglia da un sogno bellissimo e si scopre che è solo un sogno.
Il giorno seguente non toccò né cibo né acqua né a colazione né a pranzo. E anche quando aiutò a riordinare e smantellare la festa lavorò senza quasi proferire parola con nessuno. Il suo angelo del lago era una sirena.

La sera seguente tornò al lago e, puntuale come un orologio, la sirena emerse da quelle acque. La sentì sospirare di piacere e felicità mentre si riavviava con le dita i lunghi capelli. Poi la sentì canticchiare allegra tra sè e sè. Grazie alla luce della luna riuscì a vederla un po’meglio e contemplarla. Aveva la pelle candida e setosa e perfetta risplendente di goccioline d’acqua. Indossava un velo legato al collo che le cingeva diagonalmente il busto coprendole le spalle ma lasciandola scoperta sui fianchi. Invece il bacino era avvolto in un pareo da gitana allacciato lateralmente sul fianco destro. Quest’ultimo, da quel poco che riuscì a vedere, aveva l’orlo argentato decorato con dei pendenti a forma di stella a otto punte. Un laccio di cuoio decorato con dei dischi tondi faceva il giro attorno alle anche. I bei polsi erano cinti da tre sottili bracciali, e portava degli orecchini con gli stessi pendenti del pareo. O almeno pensò che fossero orecchie. In effetti gli parve strano che potesse adornarsi le corna con degli orecchini. Portava sui capelli una feroniere sottile ed elegante con lunghi filamenti laterali che le scendevano sulle spalle, finendo per confondersi coi capelli fino a scomparirci. Al collo la collana più complicata che avesse mai visto. Si pettinava con gesti lenti e delicati e Agostino, mezzo incantato, si domandò come avrebbe potuto rivolgerle la parola senza farla scappare via. O senza essere ucciso.
Aveva provato a cercare qualcosa in biblioteca ma non aveva trovato niente. Inoltre non aveva neanche avuto il coraggio di parlarne con qualcuno per farsi dare consigli. Ma consigli di che? Era una sirena, non una ragazza. Al limite gli avrebbero consigliato di farsi vedere da qualcuno. E poi, anche se l’avessero ascoltato, probabilmente avrebbe scatenato il panico più totale e causato una nuova caccia alle streghe. E sinceramente non era quello che voleva. Anche perché poi avrebbe dovuto partecipare ai riti di purificazioni per rimuovere il “malocchio” della creatura. Perciò decise di non parlarne con nessuno.
Sospirò e la sirena si immobilizzò per un secondo. Il giovane strabuzzò gli occhi. Mannaggia: non pensava di essere stato così rumoroso. Si immobilizzò. Lei si volse verso di lui e Agostino si accucciò ancor di più tra i canneti. Ma ugualmente troppo tardi perché lei lo vide: «C’è qualcuno?» Domandò, improvvisamente guardinga e spaventata, con voce vibrante. Agostino trattenne il fiato, il cuore che batteva all’impazzata. Poi cercò di arretrare lentamente ma le erbe lo tradirono con il loro fruscio: «Allora c’è qualcuno!» Esclamò lei, adesso soltanto spaventata e con un guizzo si allontanò da lì. Agostino allora si raddrizzò e tese di scatto una mano dicendo: «No, aspetta, fermati!» Ma lei non l’ascoltò che si tuffò immediatamente in acqua e scomparve nelle profondità dello specchio d’acqua.
Il ragazzo si lasciò sfuggire un verso di frustrazione e affondò un pugno nell’acqua, sollevando uno schizzo che lo centrò in viso. Accidenti, l’aveva fatta scappare. Sconsolato e con le gambe ormai mangiate e desensibilizzate dal freddo, uscì dall’acqua e se ne tornò al castello. Però non si arrese.
   
 
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