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Autore: merty_chan11    10/04/2018    0 recensioni
[One-shot] [Post-Kerberos&Pre-Voltron]
Dal testo:
[...]
Shiro guardò verso il basso, con gli occhi spalancati per la realizzazione, il volto di Keith catturato dall’obbiettivo proprio mentre la sua espressione si tramutava in una risata.
Erano insieme, nella foto. Il sé stesso di un anno prima aveva il braccio attorno alla vita dell’altro, lo sguardo puntato verso di lui e l’immancabile sorriso sulle sue labbra. Entrambi avevano gli occhi che brillavano per la contentezza, ancora pieni di speranza e ignari di quello che sarebbe accaduto dopo.
[...]
Buona lettura!
Genere: Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Kogane Keith, Takashi Shirogane
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Real


Quando Shiro aprì gli occhi, non capì esattamente dove fosse. Per un breve e gelido istante, tutto il suo corpo sembrò contrarsi a seguito della consapevolezza della sua posizione. Credette di trovarsi per l’ennesima volta nel laboratorio di Haggar, immobile e inerte tra le grinfie della strega dei Galra. Sentì i muscoli irrigidirsi a causa del terrore, e i respiri diventare sempre più brevi e veloci. Sentì freddo, nonostante le coperte.
Bastarono quelle a farlo tornare con i piedi per terra, riportandolo bruscamente alla realtà. 
Quello non era il laboratorio di Haggar. Il sedile era troppo comodo per essere definito tale. Non c’erano coperte lì, tra le fredde mura delle prigioni dei Galra. E gli odori del deserto non si insinuavano tra i macchinari e gli strumenti di tortura. 
Shiro si portò faticosamente a sedere, la testa che pulsava. I ricordi avevano iniziato a riaffiorare nella sua mente pezzo dopo pezzo, quasi trascinandosi, come se stessero componendo un unico e grande disegno che aveva timore a osservare. 
Era riuscito a scappare. 
Era tornato sulla Terra. 
Ricordava la fuga precipitosa negli infiniti corridoi, l’aiuto inaspettato e la corsa frenetica verso la salvezza. Ricordava di essere partito con una navicella, l’intenzione di scappare più forte della paura che aveva rischiato di far esplodere il suo cuore, e di essere atterrato in un pianeta che all’inizio non aveva riconosciuto, forse troppo incredulo perfino per ammettere di essere tornato a casa. E tutto poi si era spezzato.
Ricordava i medici della Garrison, quel senso di gioia nel rivederli subito rimpiazzato dall’inquietudine a seguito del modo in cui l’avevano trattato non appena l’avevano recuperato. Ricordava Iverson che non si degnava di ascoltarlo, come se Shiro fosse ormai diventato un estraneo, niente più a che vedere con il ragazzo d’oro dell’Accademia tanto adulato da quest’ultimo. Qualcuno poi si era avvicinato con una siringa in mano, e tutto aveva iniziato a girare pericolosamente. Le voci erano diventate confuse, un eco ormai distante. I colori che entravano nel suo campo visivo si mischiavano formando un’unica, grande e confusa macchia indefinibile. L’ultimo suono che aveva udito era stato quello di un’esplosione. Poi, il nulla.
Non ricordava come fosse finito in quella stanza, ma quella aveva un qualcosa di stranamente familiare che lo portò a rilassarsi ulteriormente. Forse era per via del letto, o delle coperte. Forse era il panorama che faceva capolino dai vetri della finestra, disegnando una distesa di rocce e sabbia che si scontrava e fondeva con il cielo notturno del deserto lì, all’orizzonte, dove i colori sembravano essere stati miscelati da una mano febbricitante. 
E poi, c’era il profumo. Era soffuso, quasi impercettibile, ma Shiro avrebbe riconosciuto ovunque la fragranza di quella pianta.
Lavanda.
La sua preferita.
Si voltò per esaminare la camera in cui era stato portato, notando solo in un secondo momento il vaso che pendeva dal soffitto tramite una vecchia corda. I fiori erano completamente secchi, e soltanto un piccolo ramoscello di lavanda svettava sopra il cumulo dal colore della sabbia più scura. 
Shiro osservò il vaso con espressione interrogativa. Quel nuovo ramo sembrava essere stato poggiato lì da poco, forse con il solo intento di donare un nuovo profumo a una stanza quasi inutilizzata. Era stato posato con fretta, d’altronde, perché una parte del ramo puntava verso il basso. Era come se il proprietario non avesse mai avuto il tempo, o la voglia necessaria per curare quel suo minuscolo giardino personale. Forse c’erano stati altri problemi e le piante erano cadute nel dimenticatoio, abbandonate in quell’angolo della stanza come un’anima lasciata sola a se stessa ma che, nonostante tutto, cerca ancora di mantenersi in piedi.
Perlustrò ancora per un po’ la camera da letto, non curandosi minimamente del piccolo armadio, vecchio e pieno di graffi, posto nella parete di destra. Il suo occhio andò oltre la polvere depositata negli angoli, la sabbia sotto la finestra. Era tutto così tremendamente familiare, così benevolo, che perfino quel poco di sporcizia sembrava far parte della stanza spoglia.
Soltanto un oggetto fu però capace di attirare la sua attenzione. C’era un comodino, accanto al letto, e un foglio di carta faceva capolino tra i due cassetti. Era rimasto incastrato chissà per quale ragione. 
Shiro sfilò il foglio dal cassetto con cura maniacale e rimase piuttosto sorpreso dal constatare che fosse una vecchia foto, consumata dal tempo. All’inizio non riconobbe perfettamente le persone raffigurate in quel piccolo pezzo di carta. Per qualche ragione che lui continuava a ignorare, impiegò un’eternità a mettere a fuoco l’immagine. Ma il ricordo si fece strada nella sua mente come un fulmine, e la fotografia si riversò tempestosamente sul pavimento. Gli parve quasi di aver udito il rumore della macchina che scattava, di sentire e assaporare l’atmosfera di quel giorno lontano, mentre il foglio di carta andava a mostrare i due soggetti raffigurati. Shiro guardò verso il basso, con gli occhi spalancati per la realizzazione, il volto di Keith catturato dall’obbiettivo proprio mentre la sua espressione si tramutava in una risata.
Erano insieme, nella foto. Il sé stesso di un anno prima aveva il braccio attorno alla vita dell’altro, lo sguardo puntato verso di lui e l’immancabile sorriso sulle sue labbra. Entrambi avevano gli occhi che brillavano per la contentezza, ancora pieni di speranza e ignari di quello che sarebbe accaduto dopo.
Per un istante Shiro non ci vide più. I ricordi riaffiorarono nella sua mente come un violento uragano. Si prese la testa tra le mani, ma tutto cominciò a vorticare. Non c’era più un sopra, o un sotto in quella stanza. Non c’era più niente, perché tutto era ora indefinito e girava a una velocità tale da essere impossibile da seguire.
E faceva male. 
Terribilmente.
Shiro venne investito da una serie di ricordi che avrebbero dovuto essere piacevoli, ma che in quel momento assomigliavano più a delle pugnalate. C’era Keith, che gli porgeva la mano durante il loro primo incontro; Keith, che usciva dal simulatore dopo aver distrutto il suo precedente record al primo tentativo; Keith, che guidava la moto e lo portava a vedere le meraviglie del deserto che parevano ancora più belle in sua presenza. C’erano entrambi ora, sul tetto di quel piccolo cottage del deserto, avvolti dalle spesse coperte di lana e intenti a osservare le stelle. E adesso c’era di nuovo solo Keith, che gli sorrideva e stringeva la mano nella sua.
Keith, Keith, Keith. 
L’aveva lasciato solo per un anno intero.
La sua risata sincera esplose nella sua mente, e fu in quel momento che Shiro si accasciò sul pavimento, acquattandosi contro le ante dell’armadio. Stava tremando nuovamente, il corpo scosso da spasmi. 
“Qualcuno faccia smettere tutto questo!”
Non ce la faceva più. La risata si era trasformata poi in un pianto, quello stesso che Shiro aveva sentito una volta sola in tutta la sua vita. Il dolore sembrava essersi triplicato. 
Tutto bruciava.
Non era nemmeno stato in grado di accorgersi della presenza di qualcuno di fronte a lui, presenza che stava tentando di calmarlo con dolci sussurri. Era familiare, il modo in cui suonavano quelle parole. Era familiare e piacevole e malinconico allo stesso tempo. Con un’immensa manifestazione di volontà, Shiro smise di tenere la testa fra le mani e guardò davanti a sé. Tutto tacque. I suoi ricordi, le sue ferite. Perfino il suo cuore sembrò immobilizzarsi. Perfino il tempo stesso sembrò essersi fermato.
-Keith…-
Il nome uscì dalle sue labbra prima che i pensieri potessero cominciare a scorrere nuovamente in un traffico frenetico. Forse aveva solo bisogno di sentire ancora una volta la sensazione di pronunciare quel nome sulle labbra. Forse voleva solo che fosse reale e non uno dei suoi sogni che, nonostante l’apparente promessa di salvezza, avevano rischiato di farlo cadere nel baratro della pazzia durante le torture dei Galra.
Erano entrambi in terra, adesso, e nessuno dei due sembrava avesse intenzione di staccare gli occhi dall’altro. Era passato tanto, troppo tempo dall’ultima volta in cui Shiro aveva visto il suo sguardo, troppo tempo dal brivido che aveva provato osservandolo e pensando che sì, le chiacchiere scambiate con Matt nella loro calda stanza alla Garrison avessero sempre avuto un fondo di verità: Keith aveva tutto l’universo racchiuso al suo interno e lui vi si era ormai già perso. Come un marinaio in preda alle onde dell’oceano, anche lui era stato sommerso dalle stelle degli occhi del più giovane.
Shiro si sporse leggermente più avanti, abbandonando il tocco del legno su cui poggiava poco prima. Alla luce della luna che filtrava dalle vecchie imposte, Keith sembrava ancora più bello di come lo ricordasse. La pelle chiarissima, quasi bianca, sembrava catturare e racchiudere al suo interno i raggi del satellite. I capelli neri erano cresciuti, diramandosi in maniera disordinata attorno al suo viso, e sugli occhi. Occhi che però non riuscivano del tutto a nascondere. La sfumatura violacea, quello che tutti scambiavano inavvertitamente per un grigio bizzarro a causa della disattenzione, riusciva a illuminare tutto il viso. 
Keith aveva assunto un’aria contenuta, quasi impassibile. Tutta la dolcezza di poco prima pareva essere totalmente svanita. Sembrava che nessuna emozione l’avesse scalfito e che stesse osservando l’altro semplicemente per accertarsi che non fosse chissà quale scherzo giocato da una mente stanca che sopravviveva a stento. Ma Shiro sapeva quanto ciò non fosse vero. Sapeva che gli occhi di Keith, all’apparenza così immobili eppure sempre così magnetici, erano in realtà in procinto di spezzarsi come vetro.
-Keith- ripeté Shiro un po’ più forte, ignaro che nella stanza accanto vi fossero altre tre persone profondamente addormentate. Di nuovo, voleva sentirlo. Il suo nome sulle labbra, il suo nome che entrava nelle sue orecchie portando la consapevolezza che tutto fosse reale.
Keith non rispose e rimase nella sua posizione ancora per qualche minuto. Il tempo pareva essere dalla loro parte: era come se si fosse improvvisamente interrotto, che stesse tentando di farsi perdonare per aver lasciato scorrere un anno mentre entrambi rimanevano bloccati nelle loro vite, l’uno lontano dall’altro. Sembrava che li avesse catturati e immobilizzati nella sua morsa, avvolgendo entrambi in una sottile coperta d’ambra quasi fossero insetti. Shiro sperò fosse davvero così. Anche se non aveva la minima idea di quanto sarebbe stato necessario per recuperare un anno intero.
Poi, Keith fece qualcosa che non si sarebbe mai aspettato, e Shiro sussultò. L’altro aveva stretto la sua protesi, il ricordo incancellabile di quanto avesse dovuto subire, tra la sua mano. Non si ritrasse quando sentì il contatto freddo del metallo. Non abbassò lo sguardo quando invece Shiro non poté fare altro, incapace di guardarlo negli occhi, le immagini delle sue torture che riaffioravano nella sua mente.
Keith portò la sua mano lungo la sua guancia e Shiro sobbalzò, di nuovo. Era strano provare quelle sensazioni. Era strano perché per tanto tempo aveva creduto di non riuscire più a percepire niente tramite il tocco della protesi, eppure Keith era riuscito a risvegliare ogni cosa. La sentiva, lì sotto, la sua pelle morbida e ancora più gelida del metallo grigio che accarezzava. Sentiva il fuoco che percorreva i suoi cavi, i suoi circuiti, trasmettendolo alla parte viva di sé stesso, quella rimasta inalterata. E sentì anche quelle, quando arrivano. Dapprima pensò fosse solo un’impressione, ma così non si era affatto rivelato. C’erano lacrime ora sulle sue dita, e queste furono sufficienti per indurlo ad alzare lo sguardo.
Quello che lo attese fu peggio di uno schiaffo in pieno volto.
Keith stava piangendo. 
Senza freni, senza alcuna riserva. Faceva scorrere le lacrime sulle sue guance, e tutto il suo corpo tremava. Le spalle sembravano piegarsi sotto il peso di singhiozzi che a stento cercava di trattenere. Shiro aveva visto Keith piangere solo una volta precedente a quella. Era accaduto tutto a causa di un piccolo incidente, e nonostante fosse passato parecchio tempo da allora, il suo cervello ricordava ogni particolare. Ricordava le grida che quello aveva lanciato all’inizio, ricordava le lacrime e la debole resistenza mentre Shiro lo aveva stretto in un abbraccio per consolarlo. I singhiozzi erano arrivati subito dopo, e nessun suono era mai riuscito a scuoterlo così da cima a fondo. Ma gli occhi, gli occhi non era mai riuscito a vederli. 
Keith aveva nascosto la faccia nel suo petto, quella volta, e gli aveva risparmiato la visione del suo universo spezzato. Faceva male ritrovarseli davanti in quel momento. Faceva male perché era come se avesse sentito il vetro infrangersi, e le schegge conficcarsi in ogni centimetro della sua pelle. Gli occhi di Keith, come il suono del suo pianto tempo prima, sembravano contenere tutta la tristezza del mondo. Tutta la solitudine accumulata in un anno e forse perfino quella di una vita intera. Tutta la speranza calpestata tante, troppe volte, ma che nonostante le avversità era riuscita a non soccombere.
“Da quanto tempo non piange?” pensò. 
Non poté fare a meno di chiedersi, egoisticamente, se Keith avesse pianto non appena la notizia dell’apparente morte dell’equipaggio era giunta alla Garrison. Stupidamente però, perché la risposta già la sapeva.
No, Keith non l’aveva fatto. 
Almeno, non subito. Ci avrebbe messo troppo tempo a realizzare pienamente, a capire che era ormai giunto il momento di lasciar perdere, di abbandonare. 
Si chiese se fosse stata quella la casa dove l’aveva atteso disperatamente.
Una ciocca corvina precipitò sui suoi occhi, e Shiro la spostò con delicatezza. Aveva usato la protesi senza nemmeno accorgersene, e Keith non aveva dato alcun segno di fastidio. Sembrava più leggera, ora. Meno incombente. Shiro credette per una frazione di secondo di avere nuovamente il suo vecchio braccio e fu una sensazione meravigliosa.
Le labbra di Keith si incurvarono in un piccolo sorriso, ma le lacrime non terminarono. Shiro spostò la mano sulla sua guancia, accarezzandola di nuovo con delicatezza. Voleva riprovare il fuoco che lo aveva bruciato poco prima. Voleva essere egoista, per una volta. Keith era stato l’unico pensiero ad averlo tenuto in vita ed era l’unico che ancora poteva illuminare tutta la sua esistenza.
Quando la mano scese lungo il collo, intrecciandosi con i morbidi capelli neri, Keith chiuse gli occhi e poggiò la sua su quella di metallo. Era piccola, notò Shiro, piccola come la ricordava. Piccola e forte. L’unico appiglio saldo a cui si fosse mai aggrappato.
Sembrava concentrato ora, in attesa che le parole venissero fuori dalle sue labbra. Shiro voleva sapere disperatamente cosa gli passasse per la testa. Voleva conoscere tutto, ogni minima parte del suo dolore, dell’inferno che aveva dovuto passare durante quell’anno.
-È bello averti qui- fu tutto quello che invece disse, scandendo ogni lettera in un sussurro. Riaprì gli occhi, lentamente, e il sorriso si allargò.
Shiro si era aspettato tutt’altro. Delle grida, sopratutto. Aveva creduto che, se quel momento fosse mai arrivato, Keith avrebbe inveito contro di lui e avrebbe gettato fuori tutta la disperazione che aveva provato. Non si era reso conto di quanto però questa visione non corrispondesse al vero. Keith non avrebbe mai reagito in quel modo. La sua mente aveva distorto ogni cosa, trascinandolo nella paura del rifiuto dell’altro.
Fu per questo che non poté fare a meno di sorridere a sua volta di fronte a quell’affermazione così spontanea, così voluta, così carica di tutte le emozioni che Keith aveva e che credeva di non riuscire a esternare.
Era forse la frase più bella che avesse mai udito in vita sua. Non i complimenti per la sua carriera, non gli incoraggiamenti. Non le parole di cortesia che le persone gli indirizzavano soltanto per il suo appellativo. Ma quella, quell’unica dichiarazione era bastata a fargli scorgere nuovamente uno spiraglio di luce.
“È bello averti qui” racchiudeva la speranza e la disperazione, la volontà e l’arrendevolezza. Ma sopratutto, racchiudeva quella promessa che, nella loro completa ignoranza, si erano scambiati tanto tempo prima di fronte a un tramonto.
“Ti aspetterò sempre.”
Shiro tirò Keith verso di sé, racchiudendolo tra le sue braccia. L’esplosione di una stella sarebbe stata meno intensa, probabilmente. Quello che sentiva tuonare nel suo petto non era paragonabile a nessuna reazione mai conosciuta prima, nessuna mai nominata. Keith aveva acceso ogni cosa, adesso. Gli sembrava di assaporare finalmente l’aria, di sentire per la prima volta i rumori del deserto e il ronzio degli apparecchi elettronici all’interno della casa. E la stanza delle torture di Haggar era più lontana che mai.
Il cuore batteva all’impazzata, pompando il sangue in ogni cellula del suo corpo, in ogni minimo punto. Era tutto così reale, così vero. Lui era reale, i suoni erano reali.
Il corpo di Keith stretto contro il suo era reale.
-È bello essere qui- rispose di rimando, baciandolo dolcemente sulla fronte. 
Shiro sperò che Keith avesse compreso il significato celato dietro il “qui.” Non rappresentava soltanto un luogo qualunque. Voleva davvero indicare il pavimento della casa, l’esatto punto in cui si trovavano ora, l’uno tra le braccia dell’altro. Non la Terra, non l’Arizona.
Ma Keith.
Addormentarsi divenne ad un tratto molto più semplice. Shiro quasi non si rese conto che le palpebre, pesanti come macigni, avevano iniziato a calare. Non si accorse che Keith aveva smesso di singhiozzare e che il suo respiro era diventato regolare tra le braccia del sonno. Non si rese neppure conto del momento in cui lui stesso cadde sotto quella necessità.
Rimase solo il tepore dei loro corpi, il lieve suono dei loro respiri. 
E Keith, che sembrava tenere a bada l’oscurità dei suoi incubi.






N.d.A.
Era da settimane che volevo pubblicare questa fanfiction ma il momento della correzione diventava sempre un qualcosa di tremendamente critico. Ho sempre voluto scrivere una fic inerente a questa scena, ci sono tante cose non dette anche nell'arco di poche ore al punto che diventa impossibile ignorarle ;^;
Spero vi piaccia come sia venuta fuori, e grazie per aver letto fino a qui <3
​Merty
  
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