Anime & Manga > L'Attacco dei Giganti
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Autore: Moonlight_Tsukiko    10/04/2018    1 recensioni
[Ereri-AU]
]Non sa come sia finito in quella stanza, non sa come sia arrivato fino a quel punto.
La sola cosa che fa è pensare, pensare al futuro che avrebbero potuto avere e alla situazione disperata che si erano trovati a vivere.
Sotto le armi, in un periodo tempestato di guerre, si uccide, si viene uccisi, gli occhi registrano spettacoli pietosi, ma il cuore riesce ancora ad amare.
Genere: Guerra, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Eren Jaeger, Levi Ackerman
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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PSYCHO LOVE
 
Indossava quella camicia bianca da un po’ di tempo, aveva perso il conto a cinque giorni, ma forse erano di più. “Che poi, si può definire davvero una camicia?” si domandava. Non aveva il colletto, il carrè, né tantomeno il taschino o i polsini. Neanche le maniche potevano definirsi tali poiché si incrociavano sul petto, non permettendo il movimento naturale dei muscoli, e dietro la schiena erano allacciate a delle cinghie robuste di metallo.

Chissà come ci era finito lì, in quel luogo, conciato così. Non lo ricorda nemmeno. “Guerra” e "Shock emotivo" sentiva ogni tanto da qualche medico.
 
***
 
I capelli corvini più lunghi accompagnarono il movimento del viso naturalmente pallido verso l’unica finestra di quella stanza, lasciando i tiepidi raggi solari di inizio primavera solleticargli le guance per scaldarlo, ma quel calore durò poco. Chiuse gli occhi.

 
“Imboscata! Imboscata! Tornate tutti al Quartier Generale!”
Gridai, sperando che il mio squadrone mi abbia sentito
 e stia obbedendo agli ordini.
Spari, esplosioni, grida, schizzi di sangue sul volto
e a terra, mischiandosi col fango.
Cadaveri amici e nemici.
Maledetta guerra.
 
Fuori era proprio una bella giornata, vorrebbe tanto uscire in quel piccolo giardino, sedersi sulla panchina di fronte alla fontana e osservare l’acqua che, limpida, zampilla sul fondo, creando un suono rilassante per la sua stanca e “disturbata” mente.

Era rimasto solo da quando la guerra era finita, quella stessa guerra considerata persa per quel pezzo di Terra chiamata America. Aveva perso la maggior parte delle persone a cui era affezionato, addirittura, amato. Magari avevano trovato la Pace Eterna da qualche parte, ma qui erano vittime delle malelingue, accusati di non aver adempiuto al loro compito di soldati e aver contribuito alla disfatta del Paese. Idioti.

Di soldati valorosi c’erano stati eccome, ma neanche i migliori avrebbero potuto aspettarsi un tunnel dal quale sbucavano persone minute ma spietate, pronte a tagliarti la gola nel sonno. O ancora, una ricognizione per studiare il terreno e all’improvviso trovarsi distesi ad osservare il cielo con qualche pallottola in corpo: loro ti aspettavano sui rami degli alberi. “Questa è la nostra terra, la conosciamo e la difendiamo” dicevano, prima di darti il colpo di grazia.

Ed è osservando dalla finestra con tre sbarre, l’erba rigogliosa e verde smeraldo, che i suoi occhi grigi ricordarono la luce verde della Speranza. I fiorellini dorati e bianchi che spuntavano dai fili erano proprio uguali ai suoi occhi, così giovani ed energici, curiosi e Liberi.

 
Siamo riusciti a metterci in salvo.
“Come siamo messi, Erd?” Chiesi al mio fidato sottoposto.
“Abbiamo subìto qualche perdita, Capitano. E un disperso.”
Quando mi comunicò di chi si trattava, mi si gelò il sangue.
Senza pensarci, mi voltai e corsi.
Dovevo sbrigarmi, trovarlo e salvarlo.
 
“Eren! Eren, dove sei?! Ti prego, rispondi!” Urlai a squarciagola
su quello che prima era il campo di battaglia, incurante della possibilità
di eventuali nemici nei paraggi. Lui è più importante.
Sento un mugolio appena percettibile somigliante al mio nome.
Cerco di avvicinarmi a quel suono e ciò che trovo è il mio peggior incubo.

 
 
Odiava ricordarlo quasi esclusivamente in quei momenti, eppure non aveva scelta, a meno che volesse dimenticarlo. E lui non voleva, perché lo amava. Si erano confessati il loro profondo amore poco tempo prima, sotto le lenzuola, assieme alle promesse di un futuro lungo e felice l’uno con l’altro.
 
Ma non ne avevano avuto il tempo, non avevano avuto occasione di costruire ricordi differenti se non quelli sotto le armi, dove si erano conosciuti, condividendo un destino terribile e amaro. Nonostante Eren fosse molto, troppo, giovane, aveva capito cosa fosse l’amore non appena aveva avuto modo di conoscere colui che era il suo Capitano di Squadrone militare, incrociare il suo sguardo apparentemente spento ma dalle mille sfumature, udire la sua voce dura e suadente, i suoi modi eleganti nonostante si trovasse un mitra tra le mani, e tutti altri particolari che non sarebbe stato in grado di dire ma sapeva di amare. Un sinonimo di “amore” per il giovane soldato, era “Levi”.
 
“Levi...” sussurrò, sorridendo appena mi vide.
“Oddio santo, Eren…Sta’ tranquillo, andrà tutto bene.”
Cercai di rassicurarlo, ma sapevo che la sua situazione era grave.
Dopo aver dato l’ordine di ritirata,
 avevo sentito il lancio di una bomba, ma credevo l’esplosione fosse
troppo distante per aver colpito qualcuno.
Invece aveva colpito Eren, aveva colpito il mio amato moccioso:
l’impatto gli ha staccato una gamba da cui fuoriesce molto, troppo sangue
e in alcuni punti riconosco segni di taglio e buchi d’arma da fuoco.
“No, Levi, non andrà tutto bene.”
 
Quante vite aveva spezzato quel ragazzino, appena maggiorenne, con un’arma tra le mani, un elmetto sporco in testa e una divisa mimetica a nascondere le forme e i muscoli sensuali e forti, eppure incredibilmente fragili. Sulle spalle, la responsabilità di una lettera del Governo che chiedeva la sua partecipazione alla guerra per la quale lui non aveva alcuna colpa. Non era una richiesta, perché se avesse rifiutato avrebbero potuto mandarlo in carcere. Era un obbligo.

Quel giovane, quel moccioso era inesperto su tutto: non sapeva pagare le bollette, non sapeva come far partire una lavatrice o cucinare qualcosa di più di un toast. Invece, sapeva ricaricare i proiettili della sua arma, estrarre un coltello dalla gamba per tagliare gole e lanciare granate per uccidere persone senza un motivo preciso, solo perché diversi. Quante persone aveva visto morire, a quanta distruzione avevano assistito quelle iridi.

Quanta sofferenza e sensi di colpa avevano tormentato le sue notti, e quanti abbracci dati dalla persona amata erano la cura a tutti quei brutti sentimenti. Avevano scoperto di amarsi e entrambi avevano progettato un futuro insieme che, purtroppo, non si realizzerà mai.

 
Nonostante la situazione fosse critica, Eren aveva comunque la forza di sorridere.
Questa è la sua fine e lo accetta, ma io non riuscivo a farlo.
 Ha combattuto, ucciso, pianto. Amato.
Voleva che l’ultima cosa che le sue iridi vedano sia il mio volto,
il volto di colui che ieri sera aveva chiamato “Amore.”
Il suo Capitano, la sua vita e il suo sorriso.
Eren sorrideva, perché quell’espressione serena
rimanga impressa per sempre.

 
 
Quel moccioso non avrebbe cominciato l’università, non avrebbe trovato un lavoro che gli concedesse la libertà che desiderava, l’indipendenza che bramava e l’amore che sognava. Però per un po’ di tempo, era riuscito a provare quest’ultimo.

Quanto sarebbe piaciuto, a Levi, vivere quel sentimento assieme a lui, sentire le farfalle nello stomaco e il battito fermarsi a ogni suo sorriso, risata, litigata che si sarebbe conclusa nella camera da letto a sussurrarsi scuse e urlandosi il sentimento più puro e pericoloso.

Guardava ancora fuori, osservava le persone passeggiare ignare dei suoi tormenti: passavano donne col pancione, altre col figlio sul passeggino o in braccio e gli adolescenti mettevano il muso per essere stati costretti a uscire col genitore. Gli venne da ridere pensando che probabilmente anche lui avesse fatto così più di una volta. Ma dalle sue labbra sottili e severe non uscì un suono. Senza Eren non aveva senso ridere.

Gli mancava. Gli mancava come si sente il bisogno del caldo in inverno e del fresco in estate, come a un bambino l’abbraccio della madre, come la parte incompleta della propria anima che aspetta solo di essere riempita. Ma è impossibile riempire una parte già stata colmata, ma per uno stupido scherzo del destino si è nuovamente svuotata.

 
“Non dire così, ce la farai, ce la faremo!” gridai,
mentre sostenevo con le braccia la sua schiena e la testa.
La sua mano calda mi carezzava lo zigomo
e appoggiai la guancia nella sua mano.
Sarebbe stato il nostro ultimo contatto.
Cominciò a respirare affannosamente e,
per la prima volta dopo non ricordavo quanto, piansi.
Piansi perché non era giusto, piansi perché era ancora troppo giovane
per andarsene, piansi per i sogni, i desideri, le speranze che
avevamo progettato insieme, che avremmo realizzato
una volta tornati a casa, quella che, poco dopo, avevamo già deciso
sarebbe diventata casa nostra.
“Va bene così, Levi. Non voglio vederti piangere” disse a fiato corto,
nonostante sapessi che la mia reazione lo aveva stupito.
“Eren…” sussurrai, la voce spezzata dai singhiozzi.
Avvicinai il viso su quello del mio moccioso,
sfioriandoci naso e fronte in una dolce coccola.
Unii le nostre labbra in un bacio troppo triste per essere descritto,
ma così passionale da dover essere ricordato.
Con le ultime forze rimastogli, recitò: “Io, Eren Jeager, prendo te,
Levi Ackerman, come mio legittimo sposo. Prometto di amarti e
onorarti, sempre, in salute e in malattia, in ricchezza e in povertà
e farò della tua felicità scopo primario della mia vita.
Ti amo, Levi”. Sorrideva.
Un sorriso amaro, ma al contempo bellissimo.
Prima di cadere nelle braccia della morte, pronunciai la stessa
dichiarazione e, Dio, quanto vorrei avere il tempo
di dirlo durante una cerimonia, con amici e parenti come testimoni del nostro amore.
“Ti amo, Eren” sono le ultime parole che udì, prima di chiudere gli occhi.
Per sempre.


***

 
Sono passati tre anni da quando ho finalmente lasciato quel posto orribile chiamato “manicomio militare”, assieme ad un pezzo di carta che convalida la mia sanità mentale.

Quando eravamo al fronte, io ed Eren ci siamo promessi a vicenda che, se uno dei due non sarebbe tornato, l’altro avrebbe continuato a vivere. Non pensavo, però, che sarebbe successo davvero. Non pensavo sarebbe morto lui.

È stato dannatamente difficile, ma ho mantenuto fede alla promessa fatta: ora ho un lavoro molto simile a quello che facevo prima, possiedo un appartamento e ogni tanto mi vedo con qualche commilitone, tra cui Erwin, Hanji e Mike.

Mi tocco l’anello d’oro che porto all’anulare comprato appena mi sono sistemato. Ci ho fatto incidere il nome di Eren all’interno, usando la mia scrittura. Lui la adorava, diceva che era elegante e, puntualmente, in risposta, io gli davo del moccioso. Non so cosa darei per poterlo chiamare così ancora una volta, vederlo sorridere o gonfiare le guance in quella maniera adorabile, fingendosi offeso per ottenere qualche dolce coccola. Sulla parte visibile dell’anello, vi è in rilievo il disegno di un paio d’ali intrecciate. Rappresentano lui, noi, la nostra libertà. Diversa, ma pur sempre libertà.

Stupido moccioso altruista, anche da morto invadi la mia ragione. Ma come pensi che possa trovare di nuovo l’amore che ho provato, e provo ancora, per te? Semplicemente, non posso.

Mi siedo sulla panchina del parco, tiro la testa all’indietro e chiudo gli occhi, incrociando le braccia al petto. Il Sole mi scalda e il rumore della fontana mi rilassa. Pace.

“Il mio cuore, la mia mente e la mia anima ti appartengono, amore mio. Un giorno ci incontreremo di nuovo. Ti amerò per sempre, Eren.” Sussurro, chiudendo gli occhi.


Una lieve folata di vento mi avvolge completamente, rinfrescandomi dalla calura di giugno e per un attimo sorrido, poiché mi pare di sentire la sua voce risuonare assieme al vento. “Il mio cuore, la mia mente e la mia anima ti appartengono, amore mio. Un giorno saremo insieme, ma ora, vivi anche per me. Vedi il mondo per me. Ti amerò per sempre, Levi.”
   
 
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