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Autore: shilyss    11/04/2018    33 recensioni
La prigione dove Odino ha rinchiuso Loki è una cella asfissiante priva di finestre. Costretto in una forzata inattività ma niente affatto piegato, il dio degli inganni affida i suoi pensieri più oscuri a delle lettere. Il destinatario? Thor, l’avversario di una vita, il compagno d’avventura prediletto, il fratello con cui ha condiviso ogni cosa. Carteggio estorto dal tonante cui Loki accetta di piegarsi solo per raggranellare qualche beneficio in più. Perché gli obiettivi del dio degli inganni potrebbero incrociarsi ancora con il destino di Asgard, e nessuna cosa è per sempre, neanche nelle prigioni sotterranee degli Aesir.
Dal cap. 1: Dimmi, Thor, dov’erano mentre il ferro nemico ti lacerava la cotta di maglia, penetrava nella tua carne, tagliava i tuoi muscoli? Dov’erano i tuoi fratelli di sangue, così nobili e valorosi, che siedono ai banchetti accanto a Odino, che chiamano le loro armi mai macchiate di sangue nemico con nomi inutili e altisonanti? Quante volte saresti morto, figlio di Odino, se non ci fossi stato io a gridare, parare, pensare?
Genere: Avventura, Introspettivo, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor, Un po' tutti
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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PROLOGO
 
Il fortuito ritrovamento del carteggio di Loki Laufeyson è certamente da intendersi come una scoperta davvero eccezionale, di cui tutta Asgard beneficerà negli anni futuri. Come ragiona una mente acuta e lucida anche nella prigionia come quella del dio degli inganni? Quali processi mentali è in grado di sviluppare, come si creano le connessioni brillanti che tanti danni e altrettanti trionfi hanno portato alla nostra Asgard?

Purtroppo, come molto spesso avviene per le opere del passato, il carteggio ci è giunto incompleto. Il principe Loki, probabilmente, distrusse personalmente tutte le lettere che ricevette e non aveva intenzione di far arrivare fino a noi le sue memorie, sebbene alle volte nel testo sembra emergere una volontà differente. Quest’opera raccoglie solamente le rare risposte che il dio degli inganni concesse a Re Thor e a una ristrettissima cerchia di persone. Nonostante l’incompletezza della raccolta, emerge comunque in maniera vivida la complessità di una mente senz’altro geniale, ma pericolosa.

Prima di lasciare il Lettore alla documentazione rinvenuta, è doveroso avvertirlo e ricordare che Loki Laufeyson è sempre stato abile nel manipolare a suo piacimento la realtà. Nel suo carteggio spesso mente, a volte è sincero, altre ancora si contraddice. Prendete dunque con le dovute precauzioni ognuna delle parole che ci ha consegnato.

 
Lettera 1
 
Tutti sostenete che io non faccia altro che mentire. Mi chiamate il dio degli inganni, il fabbricante di bugie, lingua d’argento. Mi accusate di distorcere gli eventi, piegare al mio volere i discorsi, ordire continuamente trappole per farvi cadere, povere vittime innocenti, nelle mie trame perverse. Vi sbagliate. Anzi mentite, voi stessi per primi. E ve lo posso dimostrare. Molti mi chiedono, mascherando la curiosità dietro la comprensione, com’è che sia diventato così come sono. Perché scelgo sempre il lato oscuro, mi crogiolo nella beffa, rido delle altrui disgrazie. Credono che ci sia qualcosa, nel mio passato, di oscuro e irrisolto. Qualche torto fatto nell’infanzia, un trauma sepolto nella memoria. Sono convinti, poveri sciocchi, che se io mi concentrassi sui miei ricordi, se mi sforzassi di raccontarli in modo onesto, distaccandomi dagli eventi vissuti, come se fosse possibile davvero fare ciò, se io, dicevo, mi impegnassi nel rievocare quelli che sono stati i tratti salienti della mia vita, potrei rappacificarmi anche con il presente.

Ad essere sincero – perché è proprio questo che volete da me, dico bene? – credo che tutto ciò sia una patetica idiozia. Ma voglio dimostrarvelo, voglio che siate certi innanzi tutto voi, che me lo state proponendo, di quanto sia fallace questo vostro piano idiota. Il fatto è, amici cari, e spero che coglierete l’ironia delle mie parole, che io non sempre mento, ma le verità che vi propongo non vi piacciono: quando le udite, torcete il collo via da me, perché graffiano le vostre anime come artigli di bestie feroci, mostrandovi tutte le meschinità di cui siete capaci, le contraddizioni in cui vi impelagate, i desideri beceri che vi fanno agire. E quando ciò accade, vi allontanate in fretta e mi chiamate bugiardo. A me, beninteso, sta bene. Mi diverte, e sono sincero mentre lo dico, vedere i vostri volti deformarsi dalla rabbia, la scintilla della consapevolezza accendersi per un momento nei vostri occhi – perché voi sapete quando dico la verità, in cuor vostro voi lo sapete, sempre.

Il fatto è, lettori affezionati, che non volete vedere veramente né voi stessi, né il mondo che vi circonda. La verità è spesso scomoda e brutta, se non c’è niente che l’addolcisca, che ce la renda più piacevole, più accettabile. Mentiamo affinché le nostre speranze non vengano tradite, i nostri cuori non debbano soffrire: è una necessità, sostengo io, che lo faccio sempre con lucidità e cognizione di causa. Allora, vi chiederete voi, come mai hai deciso di accettare questa farsa, di metterti a raccontare la tua vita? Beh, mi pare evidente: a me piacciono queste messe in scena, e sapete bene quanto mi diverta anche parlare e vantarmi di me stesso; non a caso mi chiamano lingua d’argento. Ebbene sì, la superbia è un mio difetto. Vedete? Sono stato sincero. C’è chiaramente anche un’altra ragione. L’ho detto anche poco fa. Voglio dimostrare a Thor, il dio del tuono che si ostina a chiamarmi “fratello” quando conosce benissimo le mie origini, che il suo tentativo di recupero nei miei confronti è uno sciocco e stupido desiderio da bambini.

Si è convinto, lui per primo e per ragioni a me ignote, dicevo, che io non sia stato sempre così. Ecco, questo è un esempio lampante di come stia raccontandosi una valanga di menzogne per proteggersi da verità scomode, mettendo su questo teatrino patetico e divertente al tempo stesso. Perché vedete, sarebbe consolante sapere che se io sono il dio del caos e degli inganni è per qualche torto fattomi in passato, che ha annerito la mia natura altrimenti gentile; che in fondo la mia anima è solo sporca d’inchiostro, e basterebbe pulirla perché ritorni allo splendore e possa avvicinarmi alla grandezza degli altri Asi, come Balder, come Thor stesso. Ma la verità, vi dicevo, non è questa: è cruda, senza orpelli, senza tenerezze, piena di meschinità: ed è che io sono esattamente come dovrei essere; che la mia natura è precisamente questa, il mio fine, chiaro e lampante, è di scatenare il Ragnarok e uscir fuori da questa prigione comunque, nonostante tutto. A proposito, ormai l’avrete capito. Se sono costretto ad assecondare i desideri infantili del dio del tuono, è per i ceppi pesanti che ho stretti intorno alle caviglie, per le mura possenti della mia prigione. Non vi avevo mentito sulla mia condizione, l’avevo solo omesso.
Per concludere, vi dimostrerò che Thor sbaglia. Vi racconterò tutto, così come lo ricordo, con la massima sincerità. E se mentirò, sappiate che lo farò non più di voi, che vi ammantate di ipocrisia e vi battete il petto.
 
Lettera 2
 
Gli altri prigionieri non guardano mai verso la mia cella. Solo appena giungono qui sotto, nei sotterranei, cercano con ansia morbosa il mio sguardo; poi, una volta che l’hanno incrociato, volgono rapidi il capo dall’altra parte, né mai più osano rialzarlo. Io lo so, perché. Temono i miei occhi. Dicono che trapassino le anime, carpiscano i segreti degli uomini, confondano le menti. Credo che il primo che abbia avuto paura delle mie occhiate sia stato il grosso Val. Di lui ricordo la forza bruta con cui abbatteva la sua mazza sul mio stomaco, gli occhi porcini e il sapore di terra in bocca. E quello, fratello mio, so che lo ricordi anche tu, sebbene l’abbia assaggiato assai meno spesso di me. Il sangue, mescolato al fango, è qualcosa che ti resta attaccato al palato, nelle narici, sotto la pelle. Ogni volta che penso a quei tempi, vedo me stesso esattamente com’ero per la maggior parte del tempo. Dolorante, con le ossa mezzo fracassate, steso in una pozza di fango, sconfitto da un gigante idiota il cui unico pregio era il braccio poderoso con cui mi atterrava. Intorno a me, a fare da contraltare alle mie sconfitte, le tue fragorose risate di scherno. Non mi sto lamentando né dico che le tue parole mi facevano soffrire. Infuriare semmai, questo sì, come era inconcepibile per me che a gettarmi nel fango fosse quel bestione di Val. Io, un principe di Asgard, il cui destino avrebbe dovuto brillare come la più bella stella del firmamento, atterrato da una creatura con l’intelligenza di un pecorone. Inammissibile.

Val, dunque, temeva i miei occhi e, per evitare che lo guardassi troppo a lungo, si sbrigava a colpirmi in fretta. E io tentavo di sfuggirgli, armeggiando con la spada che era stata tua. Mi avrebbe preso, alla fine, e atterrato nella polvere, come faceva ogni volta, e io avrei sentito la puzza del suo fiato corto e affannato sopra di me e sarei stato troppo esausto per levare la mia spada contro di lui. Fu Vili a porre fine a quel ciclo orribile di sconfitte. Ero ancora steso nell’arena, quando si avvicinò. Tirò giù due o tre maledizioni, mi ordinò di tirarmi in piedi. Poi mi squadrò con occhio disgustato. “Perché ti ostini a voler usare una spada troppo pesante? Con le armi giuste, oggi avresti potuto vincere.”

Gli dissi che quella era la stessa spada che usavi tu. E Vili scosse la testa, e rispose quello che per lui – e per tutti – era un’evidenza, che solo io continuavo ad ignorare. “Tu non sei come Thor. Lui ha una forza eccezionale, ed una corporatura possente. Diventerà un grande guerriero, come lo fu vostro padre.”
“Anche io sono figlio di mio padre,” risposi, “e se mio fratello usa questa spada anche io devo usarla.” Vili parve soppesarmi, poi ricordo che mi parlò con lentezza. “Odino è molte cose, Loki. Non solo un guerriero. Usa la magia, è astuto e intelligente e, soprattutto, sa riconoscere i propri punti di forza e sfruttarli. Questo devi fare. Tu sei rapido, Loki, e resistente. La velocità e la resistenza saranno tue alleate.” Fu così che mi spiegò che si può ferire e far male anche se si stringe tra le mani un singolo pugnale; che se conficcato nel punto giusto, un tagliacarte può fare più danno di una mazza chiodata. Fu per rendermi degno agli occhi del Padre di Tutto, che iniziai ad essere ciò che oggi sono.

I nostri percorsi sarebbero stati diversi, noi eravamo diversi. Guardandomi allo specchio non c’era traccia di te, in me, né viceversa. E non era solamente perché tu ti ubriacavi trionfante a qualche banchetto mentre io contavo le mie ferite; i nostri caratteri erano opposti, le nostre preferenze pure. Mentre osservavo il mio occhio nero, il labbro spaccato, il braccio appeso al collo, registravo con occhio critico la mia magrezza, presi consapevolezza che l’unico modo per essere il principe degli Aesir che bramavo essere, era staccarmi dalla tua pesante eredità. Gli occhi di tutti si posavano estasiati sul primo figlio di Odino, dotato di una forza smisurata, seconda solo alla sua resistenza alle bevute, e nessuno badava, se non con una smorfia un filo disgustata, il secondo figlio. Troppo esile – ero forse malato? – troppo debole, troppo affascinato dalla magia – dovevo fare il guerriero, non la maga -, decisamente inquietante a causa della mia abilità innata di mutare la forma, di raggirare il mio prossimo con i miei discorsi.

Affrontai di nuovo Val. Ricordo che entrai nell’arena con arrogante sicurezza e un sorriso sornione sulle labbra. Ma dentro di me, non ti nascondo che tremavo. Il Padre di Tutto era venuto ad osservare i progressi dei suoi figli e fissava, con le mani incrociate dietro la schiena e l’occhio annoiato, i nostri allenamenti. Strinsi tra le dita l’elsa leggera della mia nuova spada, sottile e affilata, e mi posizionai al centro dell’arena. Fu il mio trionfo. Val mi si gettò contro con l’identica foga, e io evitai ogni colpo. L’importante, come al solito, era che non mi prendesse; se mi avesse colpito, mi avrebbe malmenato come suo solito sino a farmi svenire. Dagli spalti, tu e gli altri allievi mi incitavate, invece, a confrontarmi direttamente col bestione. Così fanno gli Aesir. Si scontrano col nemico con incosciente intraprendenza, senza riflettere sulle reali capacità di sopravvivenza. Fa parte del retaggio del tuo popolo, figlio di Odino, gettarsi nella mischia di una battaglia senza piani né strategia, confidando nella forza bruta soltanto. E io, che pure ero stato allevato, come te, a quei principii sconsiderati, quel giorno davanti a Val li ricusai. Dovevo vincere, e basta. Dimostrare a Odino, che a stento tratteneva un sorriso soddisfatto quando ti guardava combattere, che anche io ero il figlio degno. E non m’importò nemmeno allora di quali mezzi avrei dovuto avvalermi, per portare a casa la vittoria. Qualunque fosse stato il prezzo per sconfiggere Val, l’avrei pagato.

Per Val ero troppo veloce. Presto il bestione si stancò, si adirò. I suoi colpi erano sempre più imprecisi, la guardia che teneva con salda destrezza si abbassò più volte. Tentava di acciuffarmi, gridava maledizioni e insulti alla mia persona. Non m’importò, finché non capii che il momento aspettato con tanta ansia era arrivato. Lasciò il fianco scoperto, e io, con rapidità felina, mi gettai su di lui, ferendolo. Urla di sorpresa si levarono dagli spettatori, assieme a battute poco lusinghiere nei confronti di Val, e oscene rivolte a me. Alzai il capo trionfante, cercando l’approvazione nell’occhio intransigente di Odino, nel suo volto. Ma tuo padre non mi guardò, e quando lo fece, non vidi sul suo viso la soddisfazione che nutriva per te. Mi fissò, invece, con l’occhio assorto, come se stesse decidendo che valutazione dare al mio comportamento. Non era soddisfatto nemmeno quella volta. Avevo sconfitto Val, ma non era abbastanza. E come poteva esserlo, mi dissi, se tu lo avevi già abbattuto infinite volte?

Ora mi rendo conto che ottenere l’approvazione di Odino, così come la desideravo allora, era impossibile. Tentare di inseguire te, anche. Reputarti la ragione per cui il Padre di Tutto non mi notava abbastanza, sciocco e vero solo a metà. Ma è così che la pensavo, allora. Oggi guardo a quei tentativi disperati di attenzione con pietà e disgusto, forse i medesimi che albergavano anche nel cuore di Odino, quando mi vedeva. Decisi che avrei trasformato quelle occhiate meditabonde e assorte in sorrisi carichi di soddisfazione. Non ci sono mai riuscito.

Non è semplice essere un principe degli Aesir. A terra, nell’arena, finii ancora molte volte. Ma mi vendicai di ogni colpo che mi era stato inferto. Dicevate che usavo la magia, per evitare i gli attacchi. Bugie. Ero più veloce di voi, più intelligente, e se non avevo la vostra forza bruta, vi avrei vinto con la velocità e la destrezza, con l’astuzia e la perspicacia. E così, fu assaggiando il sapore del sangue e del fango mescolati assieme, che imparai cosa volesse dire davvero, essere un’Ase. Fu lo stordimento che seguiva il colpo tremendo che mi aveva atterrato, e il dolore, a insegnarmi che prezzo avesse la nostra supremazia. Furono le labbra spaccate, le ossa contuse, i lividi evidenti e neri che spiccavano sulla mia pelle, a insegnarmi la fierezza e l’arroganza proprie della gente che mi ha cresciuto. E quando mi rialzavo, ogni volta, ero più fiero di appartenere alla stirpe degli intrepidi e spietati Aesir. Del resto, Asgard stessa è stata fondata su una terra selvaggia e terribile, stupenda e fredda, inospitale e rude, eppure tanto bella da mozzare il fiato.

Io l’ho amata, Asgard fatta di alte torri. Ogni volta che tornavamo da un’impresa, osservavo dai vetri della nostra nave i profili affilati delle montagne che svettavano ricoperte di nevi perenni e nascono dal mare, creando fiordi di impareggiabile bellezza. E così ammiravo il verde, intenso, vivace, che ricopre le dolci colline, contrastando col blu profondo dell’acqua sempre ghiacciata. Sarei stato un re degno, per Asgard. Un sovrano intelligente e oculato, attento e determinato a far prosperare il mio popolo. Sarei stato saggio, e giusto. Ma la possibilità di divenirne il sovrano, insinuata così tante volte nelle nostre teste di bambini fino a diventare quasi un’ossessione per entrambi, per me, in realtà, non c’è mai stata. La gara era truccata, fratello. L’erede designato sei sempre stato tu.

E mentre tu ti perdevi tra risse e gozzoviglie, io passavo notti insonni a progettare astronavi più veloci; tu e i tuoi patetici amici andavate a caccia di cervi e cinghiali, mentre io controllavo il progetto di qualche diga. Voi facevate a gara di sputi o di tiro con l’arco, che so, mentre io mi annoiavo a morte ascoltando le sedute del Consiglio di qualche popolo codardo e infido, tentando di convincere creature che dovevano solamente baciare il terreno dove passavamo per la considerazione offerta, che le nostre proposte commerciali o di difesa, erano ottime, vantaggiose. E ci riuscivo, sempre. Allora mi avete chiamato Lingua d’Argento, ma c’era un misto di ironia e paura nei vostri occhi, come se la mia abilità retorica fosse frutto del seidr che non potevate né capire né controllare. Quando tornavo, Odino pareva soddisfatto. Non era entusiasta come quando tu entravi nella sala del trono con un cervo od un cinghiale in spalla, chiaramente. Scrutava critico i progetti di cui mi occupavo, scorreva con le sopracciglia accigliate i trattati stipulati, battendo ritmicamente le dita sul suo scranno.

Gli accordi erano sempre vantaggiosissimi, più per noi che per loro. Avrebbero portato ricchezza e prosperità alle nostre terre, senza danneggiare gli altri. Eppure, il Padre di Tutto trovava sempre qualcosa da ridire. “Fin troppo buono per noi,” diceva alle volte, spiazzandomi. Perché dunque mi aveva mandato a trattare, se non era l’eccellenza quello che voleva? E se non desiderava benefici così grandi, allora perché trattare? E allora mi allontanavo adirato verso sentieri noti a me soltanto, confondendomi tra la gente, sparendo e vagando per i Nove Mondi, lontano dagli occhi severi e spietati del Guardiano del Bifrost, in cerca di un modo, uno soltanto, per suscitare la soddisfazione di Odino.

 
Lettera 3
 
Nessuno regge il mio sguardo. Tranne lei. Ha gli occhi del colore delle nuvole d’inverno, i capelli d’oro, e quando passa tra le celle dispensa sorrisi gentili ad assassini e mostri come non ce ne sono in tutti i Nove Regni. Sorride persino a me. Mi fa la riverenza, mi chiede come sto. Io la guardo, ma non le rispondo. Lei aspetta qualche istante davanti al vetro della mia cella, come in attesa, poi si gira e se ne va.

Ogni tanto, mentre porta conforto a creature che tutto meritano meno che la sua pietà, la osservo. Si muove con grazia estrema, e talvolta, credendo che nessuno vi faccia caso, getta qualche occhiata nella mia direzione. L’ha fatto anche oggi, e sarebbe stato esattamente uguale agli altri giorni che passo rinchiuso qui, se non avessi colto nel suo sguardo un’apprensione nuova.

Si ferma davanti alla mia cella, come tutte le volte, per l’ultima tappa del suo giro pietoso. Fa il consueto, elegante inchino, mi rivolge quel sorriso carico di cordiale dolcezza. “Come state, altezza?” domanda, come sempre.

E io, come sempre, la guardo e non rispondo. Lei batte le ciglia scure, attende. Ma stavolta qualcosa la agita. Si sfiora un ciuffo che le cade sulla fronte, liscia le inesistenti pieghe della gonna. Si sta trattenendo più del solito. Infine espira e parla ancora.

“Vi guardavo da lontano. Vi ho guardato per così tanto tempo, principe.” Io non la ricordo. E se anche il suo volto mi fosse familiare, avrebbe senso, dirlo adesso? Abbassa lo sguardo, finalmente, lunghe ciglia nere che coprono i suoi occhi chiari, e la sua voce freme. “Avrei voluto avere il coraggio di dirvelo prima.”

Sorrido, ghigno, chissà. E le racconto come sarebbe stato, se mi avesse parlato. Come l’avrei guardata, fuori di qua. E lei resta ad ascoltarmi, con occhi gonfi di lacrime, tormentandosi la collana che porta al collo, mentre le si bagnano le guance e immagina che possa stringerla al mio petto, sfiorare le sue labbra. E non importa che le dica che sarebbe durato solo una notte; che non avrebbe scalfito alcuna corazza, redento nessuna anima. Alla fine, le dico, saremmo finiti ugualmente a questo punto. Solo che io ti avrei spezzato il cuore, aggiungo.

Allora scappa Sigyn, scappa lontano, e posso sentire, dalla mia cella, il suo pianto.
Non so se tornerà.

 
Lettera 4
 
Oggi, nelle prigioni, c’è stato un grande tumulto. Le guardie del Padre di Tutto, sempre così impassibili e severe, erano agitate, maggiori nel numero. Ogni tanto, qualcuna si affacciava di fronte alla mia cella, lanciandomi occhiate di sottecchi, come se volesse davvero accertarsi che il terribile dio degli inganni fosse ancora imprigionato. Allora mi sono alzato dalla poltrona, che dovrebbe rendere più comoda la mia condanna, e ho chiesto quanto gravi fossero le ferite che ti erano state inferte.

Il secondino è impallidito, ma che dico: è quasi svenuto dal terrore, ed è scappato, gridando ai suoi compagni che il principe perduto degli Aesir, nonostante sia rinchiuso e guardato a vista nei sotterranei di Asgard, è riuscito persino a tramare contro il suo nobile fratello. Ora so che succederà. Verranno a prendermi, mi metteranno i ceppi, mi condurranno da Odino: lui mi interrogherà, per capire come sapessi cosa ti fosse successo; io nicchierò, risponderò con vaghezza, scherno. Lui si adirerà, mi maledirà, ancora e di nuovo. Ma senza prove non potrà condannarmi, e i suoi corvi fedeli gli sussurreranno all’orecchio che io nulla c’entro con la tua disavventura. Allora, ancora più infuriato per la mia ennesima beffa, mi farà condurre di nuovo nelle fredde e tristi prigioni.
Forse, mentre scenderò assieme alle guardie le centinaia di scalini che portano nei sotterranei, uno dei soldati abbasserà la guardia, rilassato dal falso allarme.

Forse penserà alla fidanzata lontana, o alla voglia che avrebbe di una bella pinta di birra; forse me ne accorgerò, e ne approfitterò per fuggire, e stasera, quando ti consegneranno questo scritto, sarò già lontano, perso nell’Universo. Non esiterò un istante, di fronte a una via di fuga. Non mi fermeranno le guardie di Odino, le lacrime di nostra madre, la spada di Sif. E nemmeno tu. Perché il fine giustifica sempre i mezzi, fratello, e tu lo dovresti ricordare. Ma prima di perderci di nuovo nei nostri ricordi felici, soddisferò la curiosità che certamente ora si annida nei tuoi occhi.

Come avrò mai fatto a indovinare cosa ti è successo senza esserne coinvolto? Facile, facilissimo anzi. Se fosse capitato qualcosa a Odino o a Frigga, saresti sceso personalmente nei sotterranei. Non avresti lasciato che una guardia mi avvisasse. O forse sì, chissà. Ma Padre Tutto non ha la tua medesima pietà, né sente di dovermi dare informazione alcuna su voi tutti. Ecco, dunque, come so che lui e la regina stanno bene. Che sia tu, tra i nostri fratelli, colui che ha avuto la sventura di incontrare il ferro nemico, anch’essa è una deduzione scontata: che bisogno hanno, Balder o Hoder, di combattere, se c’è già il prode e coraggioso dio del tuono a difendere i preziosi confini di Asgard? Perché lasciare la casa sicura, quando ci sei tu che rischi la pellaccia in giro per i Mondi? È così che cadi persino tu, nonostante il prodigioso martello, la forza notevole, se non c’è qualcuno di previdente a guardarti le spalle.

Dimmi, fratello, mentre ancora le tue ferite non sono rimarginate, dov’era la coraggiosa Sif, quando il ferro nemico si levava contro di te? Perché non ha incrociato la sua spada, sempre così letale, per difenderti? Dov’era, invece, il corpulento Volstagg, che ai banchetti si vanta, ubriaco, di essere il tuo più fedele braccio destro, mentre si versa la birra sulla barba fulva e aggrovigliata? Dov’era Fandral, con le sue battute insipide come la sua spada fiacca, come confermano con disgusto tutte le prostitute di Asgard? Dove, i tuoi nuovi amici, buffoni mascherati buoni soltanto a pensare grettamente a se stessi? Dimmi, Thor, dov’erano mentre il ferro nemico ti lacerava la cotta di maglia, penetrava nella tua carne, tagliava i tuoi muscoli? Dov’erano i tuoi fratelli di sangue, così nobili e valorosi, che siedono ai banchetti accanto a Odino, che chiamano le loro armi mai macchiate di sangue nemico con nomi inutili e altisonanti? Quante volte saresti morto, figlio di Odino, se non ci fossi stato io a gridare, parare, pensare?

Avrei potuto lasciare che accadesse. Sarebbe bastato che esitassi, di poco, nell’avvertirti. Che recitassi i miei incantesimi con meno rapidità, e saresti caduto a terra, morto. Un freddo corpo irrigidito che avrei visto allontanarsi disteso su una pira. Allora, forse, il trono sarebbe stato mio. Quante volte ci ho pensato. Adesso sgranerai gli occhi, forse avrai già smesso di leggere queste righe. O forse no, ma ti starai domandando, con orrore, com’è possibile che il fratello con cui sei cresciuto e hai condiviso ogni cosa, sia capace lucidamente di pensare una cosa così orribile. Che creatura malvagia devo essere, per crogiolarmi all’idea della tua morte?

Ed ecco, a questo punto, che faccio quello che mi accusate sempre di non fare. Ti dirò la verità, Thor. E non ti piacerà. Credi forse che i nostri giovani fratelli non abbiano mai riflettuto, con un misto di sgomento e di eccitazione insieme, che se tu fossi morto in battaglia, con me rinnegato e rinchiuso, il trono di Odino sarebbe finito senza sforzo in mano loro? Non dico che nei loro animi si annidi il seme di chissà che malignità; è un pensiero normale, che si affaccia alla mente, egoista e pungente. È una voce che si insinua nella tua testa: un ragionamento secco. E tu lo soffochi, con la ragione e l’affetto, perché mai vorresti che la tua gloria si edificasse sulle ossa sbiancate di tuo fratello, ma sei pure un principe degli Aesir e sai che, se accadesse, dovresti essere pronto a subirne l’onere e l’onore. Non è una calunnia, questa.

È accettare la nostra natura che, per quanto ammantata di dorata superiorità, non fa di noi che grette, meschine e vili creature, non dissimili, in fondo, dai midgardiani che tanto ami. Nemmeno tu sei esente da questa logica crudele, fratello mio. E, se avrai pazienza di leggere ancora queste mie righe, te lo spiegherò. Tu ora fremi di rabbia, per le mie parole. Ma guarda nel tuo cuore, guardaci attentamente: la mia presenza, in questa cella, non ti disturba? Non sarebbe stato meglio, per l’equilibrio tuo, della tua famiglia e dei Nove Regni tutti, se la mia caduta dal Bifrost fosse stata letale?

Avevo espiato le mie colpe. Il guiderdone era stato giusto, avevo offerto la mia vita, e ora voi potevate essere liberi di piangermi e perdonarmi. Ma sono tornato, e il mio capo non era cosparso di cenere, la mia indole nient’affatto mutata. Cosa fare, dunque? Assolvermi e cancellare il male antico e quello nuovo? O condannarmi per il bene dei regni, e dimenticare l’amore e l’amicizia nutriti verso di me? Il Padre di Tutto è un grande sovrano, e ha scelto con piglio severo e grande razionalità. Ma l’erede designato, il figlio prediletto, cosa avrebbe fatto, se fosse stato seduto su quel trono? Sarebbe stato altrettanto lungimirante e riflessivo, o avrebbe lasciato che il cuore prevaricasse? Mi avrebbe liberato, infine, oppure avrebbe dimostrato di tenere saldo il suo potere? Guardati allo specchio, figlio di Odino, e rispondi sinceramente a questa domanda.

Di fronte alla mia, di natura, io mi trovo fin troppo spesso. La prima volta che mi sono scontrato con le ombre cupe che tanto evocate quando parlate di me, fu a causa tua, e tua soltanto. Ti guardai le spalle, come ero solito fare, e vidi un pericolo mortale per te. E ti salvai, come mille altre volte.
 

 
Lettera 5
 
Perché lasci che sia lei, a portarmi le tue missive piene di farneticazioni? Perché insisti nel volerle dare un compito che turba il suo cuore, fa tremare la sua mano? Mi consegna i tuoi fogli pieni di domande sciocche e accuse vecchie e nuove, e aleggiano, tra di noi, le sue parole. Non fugge il mio sguardo, lo sostiene, ma leggo nei suoi grandi occhi chiari che avrebbe preferito non dichiararsi mai. Tu, mio crudele fratello, le ricordi ogni giorno l’errore che ha commesso. Anche se non lo sa, lei mi porta notizie dal mondo di fuori, che non posso più vedere. Quando piove, tiene i capelli raccolti in due rigide trecce fissate sulla nuca; se c’è il sole e il tempo è bello, la treccia è sciolta sulla schiena, tra la sua chioma dorata scorgo piccoli fiori. Se ad Asgard si attendono ospiti importanti, non indossa il vecchio scialle scuro con cui scende sempre qui sotto, ma un mantello di velluto, e fa sfoggio di qualche delicato gioiello.

È stato mentre mi consegnava la tua ennesima, sconclusionata lettera, che ho notato l’anello. Un cerchietto d’oro, sottilissimo, che le fascia il dito esile. Ha abbassato gli occhi, seguendo il mio sguardo, e li ha rialzati con me. Sarà senz’altro un matrimonio felice, il suo. Suo padre ha scelto per lei un buon uomo. Fedele, giusto, coraggioso. Certo, forse un giorno lo guiderai in battaglia, assieme a moltissimi altri, e creperà, cadendo in mezzo al sangue e al fango, ma questo è il destino degli Aesir, e sarebbe una buona morte.

Ma lei aggrotta le sopracciglia, soffoca a stento un singhiozzo. Non è questo che avrebbe voluto, ma disobbedire non è nella sua natura. Ma trasgredire a cosa? Che alternative ha, questa dolce ragazza?

“Sarà un’unione felice,” le dico. E lei arcua appena le labbra sottili in un mesto sorriso e risponde con parole che mi aspettavo dicesse. “Voi mentite.”
“E tu non puoi prevedere ciò che hanno filato per te le Norne,” ribatto.

“Non ne ho bisogno,” risponde lei. “Io conosco l’uomo che sposerò. Non è coraggioso né gentile, ma ama la sua terra e i suoi abitanti. È fiero di indossare l’armatura dei guerrieri Aesir, e quando la sera mi incontra, non manca mai di portarmi in dono un fiore. Ma io non attendo il tramonto con ansia. Non aspetto alla finestra che la sua sagoma si stagli all’orizzonte. Non mi batte il cuore quando giunge alla mia porta, non arrossisco quando mi guarda.”
 Potrei chiederle quand’è che, invece, sente il cuore batterle nel petto, ma forse conosco la risposta. E allora le dico, con tono leggero, che forse legge troppi poemi pieni di dame sognanti e cavalieri intrepidi. E lei non risponde, anche se è tentata di farlo, perché non può scoprirsi ancora, e se ne va, salutandomi con una riverenza aggraziata.
 
Lettera 6
 
Ho riso fratello, ho riso a lungo leggendo la tua ultima lettera. Dimmi, ti prego, che è stata la tua donna mortale a insegnarti le frasi che hai scritto. Se così non fosse, e le parole sdolcinate fossero le tue, sarei tentato di leggerle ad alta voce, qui, nei sotterranei, affinché i miei compagni di cella possano divertirsi assieme a me sentendo come il possente dio del tuono scriva come una ragazzina innamorata. E farei vergognare i secondini, costretti assieme a noi a vivere nell’oscurità, constatando come si è spenta dentro di te la fiamma feroce che ha reso la stirpe degli Aesir quella che è. Che ti inventi, figlio di Odino? Di quale dolce lirismo parli? Ti incanta a tal punto, il mio modo di scrivere, che confondi l’abilità retorica con l’ispirazione amorosa? Credi dunque, sul serio, che io ricambi i sentimenti di quella ragazza? Davvero, Thor?

È ovvio che guardi con interesse la sua figura. È graziosa, e io sono rinchiuso dentro una cella sotterranea. Le uniche cose che vedo, oltre lei, sono le brutte facce di criminali catturati in giro per i Nove Mondi o quelle, molto poco effeminate, dei soldati che ci controllano. Non mi pare strano, dunque, che la fissi con insistenza, o che trovi la sua presenza piacevole. Mi ricorda quanto sono belle le donne.

Se fossi libero, probabilmente, dato l’ascendente che ho su di lei, l’avrei corteggiata e sedotta. Sarebbe stata una facile preda, come lo sono state tante altre, per me come per te. Ma questo non significa che la ami, mio povero, ridicolo, ingenuo fratello. Significa solo che non sono indifferente ad una ragazza carina che scende nelle carceri dove sono rinchiuso e mi fa gli occhi dolci.
 
Lettera 7
 
Se non fossi rinchiuso in questa putrida cella, che pure se è arredata riccamente sempre fetida e buia rimane, è evidente che non sprecherei il mio tempo e la mia vista a scriverti. E nemmeno a parlarti. Ma devo vincere la noia, ingannare il tempo che scorre con inesorabile lentezza e, come se non bastasse, debbo anche limitare la portata delle mie richieste in fatto di libri. Per questo sono costretto a dilungarmi con l’unico interlocutore che mi è stato concesso in ciarle inutili. L’episodio che ti è stato riferito, innanzitutto, è stato distorto. La mia fama, qui sotto, è quasi immeritata, fratello. Ogni lampada che si spegne, ogni cosa che si perde, ogni alito di aria che ogni tanto giunge persino qua sotto, pare essere causato da me. Ma se io fossi il responsabile di ogni cosa, vorrebbe dire che il mio potere si estende oltre la mia cella. E se il seidr mi permettesse di influenzare l’esterno, credi davvero che rimarrei chiuso nei pochi metri che mi avete concesso?

Ma torniamo a noi. Il fatto è che lei è ingenua, tremendamente ingenua. A volte, mi sembra dimentichi un po’ troppo facilmente dov’è e cosa sta facendo: si è avvicinata ad un orco che lamentava inesistenti malesseri, e quello l’ha afferrata e l’ha quasi trascinata dentro la sua cella. Evidentemente, era difettosa. Io, chiaramente, non l’ho salvata. Sono state le guardie, a farlo. E nemmeno è vero che sono riuscito ad utilizzare la mia magia sull’orco. Se potessi lanciare incantesimi oltre il vetro della mia prigione, chiaramente li indirizzerei verso le guardie io per primo, e me la darei a gambe. Ti concedo che, forse, mi prenderei un ostaggio, tanto per vivacizzare un po’ il tutto. Ma se ancora non ho realizzato questo piano è perché non posso farlo, mi pare ovvio.

Quello che c’è stato e che ha tanto terrorizzato tutti i prigionieri e fatto letteralmente pisciare sotto dal terrore le guardie, è stata una semplice illusione creata all’interno della mia cella. Un trucco di una banalità disarmante, lo stesso in cui sei caduto tu più volte, non ultima su Midgard. Ho finto di aver aperto la cella e di avere, dietro di me, qualche creatura terrificante. Ho minacciato l’orco di una brutta e colorita morte – cosa che avrei fatto a prescindere da lei, dato che la sua cella mi è proprio davanti e mi disgusta immensamente vedere come mangia – e ho chiamato le guardie. Ti pare che dovevo lasciare che l’unica gonnella che gira qua sotto rimanesse traumatizzata da una bestiaccia del genere?

L’ultimo, ma non meno importante dettaglio, riguarda ciò che le avrei detto. Devi partire dal presupposto, già più volte espletato, che qui nei sotterranei non è che ci si diverta in modo particolare. Solo io ho il privilegio di poterti scrivere e di ricevere libri. Gli altri passano le loro vite fissandomi, fissandosi, fissando le guardie, fissando lei. Ah, ogni tanto mangiano – in maniera disgustosa – e dormono – rumorosamente – ma, per la stragrande maggioranza del tempo, si limitano a fissarci inebetiti. Poi, chiaramente, se potessero uscire e tagliare la gola a tutti gli Aesir possibili, sarebbero strafelici e, probabilmente, dietro ai loro sguardi ebeti si nasconderà pure qualche mente acuta che sta elaborando chissà che piano, ma tant’è. Nella noia generale che regna sovrana, dunque, capita che i prigionieri travisino ciò che vedono. Poiché è davvero misero, lo spettacolo che viene offerto loro, lavorano, com’è logico, di fantasia. Inventano di sana pianta discorsi e male interpretano toni e gesti, riempiendo così quei vuoti che credono debbano essere colmati. La loro fiaba preferita, al momento, siamo io e lei.

Ad ogni modo, non le ho detto di stare attenta con voce preoccupata. Era, semmai, scocciata, perché l’orco fingeva, bene ma fingeva. E prima che potesse tirarla dentro, l’ho distratto, perché era proprio di fronte alla mia cella, nel modo che già ti ho spiegato. E qui chiudo, prima che ti inventi ancora che riempio le mie lettere di frasi su di lei. Sei tu che chiedi con morbosa insistenza, e io ti rispondo solo per cortesia.  Anzi, obbligo.
 
Continua...

Caro Lettore che sei arrivato fino a qui,
Grazie per il tuo tempo. Ti sarei infinitamente grata se mi lasciassi un pensiero di qualsiasi tipo su queste mie paginette. Non pensare di dovermi scrivere necessariamente venti righe di testo super profondo e descrittivo o che non mi accontenterei di una semplice frase. Ti giuro che sono molto alla mano. Qualcosa tipo “Guarda ti leggo, aspetto il prossimo capitolo, la storia mi è piaciuta/non mi è piaciuta” o “ho letto la tua storia, mi ha tenuto compagnia mentre aspettavo il treno,” o un più stringato “storia carina/non carina, questo Loki mi è simpatico/antipatico,” vanno già no bene, benissimo. Non pensare neanche vabbé, ma perché aggiungere un mio pensiero che conta 0, che se ne fa? Me ne faccio, me ne faccio, e non conta 0 neanche per niente. Altra cosa che non devi pensare? Se le scrivo la disturbo nella sua Torre dello Scrittore Inavvicinabile e Altera. Se avessi voluto fare l’eremita non avrei postato! J
Insomma, Silente Lettore, ogni volta che non recensisci una storia, la Fatina dell’Ispirazione perde un po’ della sua magia e un capitolo o una fanfiction ne risentono e non verranno mai create o saranno interrotte. A tal proposito, dedico “Confessioni” a E., a S e A. che mi hanno spinto a dare un senso a questo file parcheggiato nel mio pc all’incirca dal 2015.

S.
   
 
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