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Autore: Black Swallowtail    13/04/2018    1 recensioni
“Se vuoi vivere, se vuoi avere un nome, se vuoi soffocare il mondo nel sangue... Allora, dimostralo. Dimostralo, ed io ti concederò un dono. Il dono della Morte.”
La Talon è il nome che manda un brivido lungo le schiene di chi lo sente, l'organizzazione che agisce nell'ombra per i suoi scopi contorti, portando avanti un disegno illeggibile, uno schema criptico, impossibile da percepire.
Nemici giurati di Overwatch, hanno a lungo tramato nell'ombra, pronti ad emerge nel momento più opportuno.
Ma queste sono tutte storie per una ragazza senza nome, che vive in un gelido orfanotrofio nei sobborghi di Londra, senza un nome, senza uno scopo, se non quello di vivere un giorno in più.
Tuttavia, la vita può cambiare in un secondo. Basta un battito d'occhi, un angelo nero, con una maschera da gufo, ed una disperazione rabbiosa a mutare una persona.
Divenire agenti della Talon è come firmare un contratto con la Morte; un dono che è concesso solo a chi vive negli abissi più bui e privi di speranza.
Chi desidera uno scopo ed un nome.
Genere: Azione, Dark, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Altri, Amélie 'Widowmaker' Lacroix, Gabriel 'Reaper' Reyes, Sombra, Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Agents of Talon — Prologue I

Nascere senza un talento, una capacità, equivale ad una vita piatta e noiosa, destinata ad essere spesa nel grigiore e nell'inutilità. Priva di qualsiasi particolare bravura, una persona è solo un piatto automa che, mosso da scelte di convenienza, continua a vivere in modo fugace e tremolante.

Nascere senza un nome, è una maledizione per la quale non c'è cura. Rifiutata, abbandonata fin dal primo istante, non c'è nulla che possa fare, se non rimanere immobile e con occhi vitrei osservare la vita altrui scorrere, fuori dalla finestra incrostata di sporcizia di un orfanotrofio tetro e soffocante, quattro mura percorse da una ragnatela di crepe, dove il tanfo di umidità e spazzatura è tanto forte da soffocare. Ammassati come animali in stalle, rannicchiati su pavimenti di assi sconnesse, a tremare al freddo dell'inverno che scivola tra le crepe dell'intonaco spaccato, a rigirarsi scomodamente contro un chiodo che spinge la schiena, senza potersi muovere, perché lo spazio è un lusso che noi, tagliati fuori dal mondo fin dai nostri primi istanti, non meritiamo.

Il Saint Elizabeth's Orphanage è sempre stato un edificio così tetro e cadente da risaltare perfino in mezzo alla fatiscenza dei bassifondi londinesi, le periferie scure, male illuminate, dove i pub sono pieni di loschi individui che emettono un tanfo soffocante di tabacco ammuffito e vecchio rum, come se lo usassero al posto dell'acqua, una puzza tanto penetrante da provocare i conati di vomito.

Le loro risate chiassose e le loro voci rauche sono udibili ad ogni ora del giorno, dal balconcino che si affaccia sulla strada; la notte, spesso, scoppiano risse violente, accompagnate da qualche coltellata, qualche bicchiere rotto e non è raro che Padron James si alzi in piedi arrabbiato per lamentarsi con la polizia al telefono. Dopo dieci, quindici minuti di urla, la volante arriva e, in un attimo, porta via chi è rimasto a barcollare negli angoli più bui, a vomitarsi sulle scarpe; il rumore delle sirene delle forze dell'ordine è spesso accompagnato da quello delle ambulanze, che caricano il ferito, nel peggiore dei casi, o l'ennesimo barbone finito in coma etilico, nel migliore, prima di sparire nella notte londinese lasciandosi alle spalle solo un vago ululare ed il silenzio del primo mattino.

Padron James, la mattina successiva, è sempre irritabile. Più del solito, almeno.

I suoi occhi sono sempre cerchiati di viola, come se non conoscesse il sonno, e la sua bocca è sempre distorta in un'espressione di profondo disgusto. Ogni volta che può, ci punisce, punizioni corporali, per metterci a tacere e ricordarci che i morsi della fame non sono nulla in confronto ai suoi pestaggi. È una specie di rituale, la mattina, quando arriva con passo sghembo e occhiata rabbiosa, trovandoci in fila di fronte ai bassi tavoli ammaccati, in attesa di quel poco cibo che ci serve controvoglia. Quella cucchiaiata di porridge è tutto ciò che ci viene servito, insieme ad un ringhio ed un'occhiataccia, la stessa che si lancia ai sacchi della spazzatura che emettono un odore maleodorante e disgustoso.

Per quanto la fame ci divori ed i nostri stomaci si contraggano, insoddisfatti da quella strettissima razione, nessuno osa chiedere più di quanto gli viene dato, perché nessuno vuole vedere Padron James infuriato o finire con un livido sul braccio o sulle gambe. Per un uomo giovane com'è, è decisamente irritabile, forse perché, come noi, non mangia molto. Solitamente, Padron James si siede all'estremità di un tavolo vuoto e, in silenzio, ingolla quel poco di porridge melmoso ed insapore, che si incolla alla bocca, ai denti, al palato, senza staccare gli occhi da noi, seguendo ogni nostro movimento con occhi attenti.

Poi, come ogni volta, ci raduniamo tutti attorno al tavolo più grande, attendendo che sia pronto a parlarci, per il discorso mattutino. È sempre lo stesso, pronunciato con tono laconico ed annoiato, lo sguardo vuoto, che passa attraverso di noi senza vederci davvero. Per lui, non siamo che una schiera di bambini decrepiti, senza volto e senza nome. Ed è quello che ripete, sempre, come un dogma, una preghiera che deve entrare nella nostra testa esattamente con lo stesso tono della sua voce.

“Nascere senza un talento, una capacità, equivale ad una vita piatta e noiosa. Ma nascere senza un nome, è una maledizione per la quale non c'è cura. Nessuno vi ha voluto, vi hanno abbandonato, senza pensarci due volte, al freddo e alla fame. Non siete niente, per il mondo fuori, siete solo bambole che parlano e mangiano, ma a cui nessuno si è sforzato di dare nemmeno un nome, prima di gettarle via. Nessuno vi aspetta, nessuno vi vuole o vorrà mai. Quelli come voi, non hanno scopo.” Qui fa sempre una pausa, come se stia riflettendo, come se sia sul punto di dire qualcosa, ma poi sembra ripensarci e, dopo una scrollata di spalle, “Ricordatevelo, se uscirete vivi da qui.”

Le giornate sono vuote, monotone, soffocanti. Ogni volta che mi guardo allo specchio, mi chiedo cosa accadrà un domani, se davvero verrò rifiutata dal mondo come dice Padron James. La sua espressione di ripugnanza è talmente marcata che non riesco a pensare, nemmeno per un istante, che ci veda più di zecche o, peggio, spazzatura.

Padron James è un uomo prosciugato di ogni cosa. Padron James è un uomo distorto, putrescente, che prova disgusto per noi. A volte, mi chiedo perché ci dia da mangiare. Dice che è il suo lavoro, non aggiunge mai altro, perché poi scaccia via chiunque gli ponga questa domanda oppure, se è una brutta giornata, lo picchia direttamente, lasciandogli qualche livido, in modo che non faccia più domande di quel genere.

Negli ultimi giorni, fuori dalla finestra sono comparsi sempre più manifesti. Li vedo affissi sui muri dall'altra parte del marciapiede, sgualciti dalla pioggia e dallo smog, ma riesco ancora a leggere le lettere sbiadite. Sono cartelli di propaganda, rabbiose urla contro gli Omnic. Costruiti per servire, dicono, e gli uomini che li attaccano, ogni giorno, sono sempre estremamente cauti, probabilmente spaventati dalla polizia. Padron James sembra preoccupato, ogni tanto schiocca la lingua e borbotta qualcosa, poi sparisce al piano di sopra e si attacca al telefono.

Ieri notte, ha detto qualcuno rientrando, ha visto un gruppo di persone poco raccomandabili infilarsi in un vicolo con un Omnic; li ha seguiti, scivolando nell'ombra di nascosto, nascondendosi tra i bidoni e li ha visti che lo colpivano fino a ridurlo in pezzi, gridando oscenità di ogni tipo. I loro occhi palpitavano di rabbia, i loro visi sembravano quelli di psicopatici impazziti. Si stavano vendicando per qualche strage avvenuta in un altro quartiere, cinque o sei dei loro uccisi da qualche Omnic, o almeno così si racconta. Non abbiamo il permesso di allontanarci dal quartiere, quando usciamo per le commissioni, ma qualcuno ignora gli ordini di Padron James. Nonostante non gli importi di noi, non vuole che andiamo a causare guai di cui lui dovrebbe rispondere, ripete ogni volta che qualcuno varca la soglia del Saint Elizabeth.

“Siamo sull'orlo di una guerra civile,” diceva qualcuno, ieri, mentre passavo di fronte al pub dall'altra parte della strada, “Ma ti giuro che quei bastardi di metallo non faranno una bella fine.”

“Se solo ci fossero ancora gli Overwatch…”

“Che cosa stai dicendo?” l'altro ha afferrato per le spalle l'interlocutore, entrambi ubriachi come spugne, preda dei fumi dell'alcool, “Quelli erano dei criminali. Facevano gli eroi, ma poi hai visto? Non rispettavano nessuna legge, facevano come gli pareva, no?”

Sono sgattaiolata via, senza ascoltare di più, perché il coprifuoco era sempre più vicino e non volevo essere picchiata da Padron James, in attesa sulla soglia della casa, accigliato, ma che non ha proferito parola, lasciandomi entrare. Ha solo schioccato la lingua, disgustato, all'indirizzo di quei due.

Mentre tornavo in camera, oggi, ho pensato che per divenire un Overwatch avrei bisogno di qualche potere o abilità incredibile e che io, inutile, senza talento e nome, non potrei di certo nemmeno immaginare di difendere questo mondo.

La notte, al gelo, tremando, divorata dalla fame, in quella stanzetta così stipata, mi chiedo perché dovrei difendere il mondo. Mi chiedo, perché qualcuno vorrebbe difendere un posto così crudele, che ci ha abbandonati tutti, che non ci ha dato un nome, che ci ha lasciati in un orfanotrofio, nella periferia di Londra, a soffrire?

Perché qualcuno vorrebbe difendere un mondo che non gli ha donato nulla, nemmeno un talento qualsiasi? È ovvio, certo, che quelli nati con una capacità incredibile ammirata da tutti, vogliano sfoggiarla e possano andarne fieri. E forse, per farlo, possono anche ergersi a paladini di una realtà crudele come questa, che però è stata gentile con loro, solo per privare quelli come me di un futuro.

Allora, mi chiedo…

Non sarebbe meglio distruggere questo mondo?

Sarebbe così sbagliato vederlo bruciare?

Senza un talento, senza una abilità, senza una capacità, senza un nome, senza un'identità, rifiutata da tutto e da tutti… qualcuno potrebbe biasimarmi, se volessi solo affogarlo nel sangue?

Mi avvicino alla finestra dal vetro sudicio e graffiato, dal balconcino con l'inferriata arrugginita, e attraverso l'oscurità della notte, pallidamente illuminata dal fioco bagliore di un lampione rotto, riesco a vedere una figura curva sotto il peso di qualcosa, che si avvicina alle porte dell'orfanotrofio. Esita, prima di scuotere la testa e, con decisione, bussare. Il rumore è tanto lieve da poterlo appena udire. Nessuno andrà ad aprirgli, nemmeno Padron James, che odia doversi alzare dal letto nel cuore della notte, quando riesce a dormire per qualche ora prima che la sua insonnia lo afferri di nuovo.

Rimango in silenzioso ascolto, immersa nell'immobilità delle gelide stanze dell'orfanotrofio, con il fiato sospeso, in attesa di qualcosa che nemmeno io riesco a capire.

Poi, dal nulla, senza alcun preavviso, abbastanza per farmi sobbalzare, la porta della camera di Padron James si apre con uno scricchiolio. Il bussare si fa più insistente e, con esso, anche il vociare sempre più forte che viene da fuori. Cautamente, scivolo fuori dalla camera, rimanendo rasente al muro, fino a raggiungere le scale scricchiolanti, dalle quali riesco a vedere Padron James socchiudere l'ingresso alla luce di una lampada. I suoi lineamenti si distorcono dalla sorpresa, poi dalla rassegnazione. Scuote la testa, ad una domanda che arriva dal suo interlocutore fuori dalla porta, “Guarda che qui ci sono dei bambini, Singh. Bambini, cristo! Non posso—Oh, ho capito. Entra, svelto. Non ti ha visto arrivare nessuno, vero?”

L'uomo che è entrato, dalla pelle scura ed il volto provato, è poco più vecchio di James. È ferito, zoppica e respira affannosamente, sulle spalle porta un Omnic che si agita a malapena, come in punto di morte. Senza aspettare, Padron James li porta fino alla sala comune, socchiudendo la porta senza attenzione; è la prima volta che lo vedo così infuriato ed è anche la prima volta che lo vedo far entrare qualcuno nell'orfanotrofio. L'intera faccenda sembra essere abbastanza sospetta da spingermi a scivolare prudentemente fino alla porta e accostare l'orecchio allo spiraglio, per tentare di udire le parole biascicate sottovoce dai due, seduti l'uno di fronte all'altro, l'Omnic sdraiato poco più in là che emette bassi rumori incomprensibili.

“Mi seguono, James, da un bel po'…”

“Prima spiegami cos'è questo Omnic.”

Singh, così lo ha chiamato Padron James, lancia un'occhiata impietosita al robot agonizzante, prima di scuotere la testa rassegnato, “Lì fuori è un casino. Li ammazzano a vista ed i rapporti sono sempre più tesi, sopratutto da quando un estremista ha sparato a Mondatta. Ma io...” si avvicina a James, “Io so la verità.”

“Io non c'entro nulla con tutto questo, Singh. Ho dei bambini di cui occuparmi, ho finito di giocare a fare l'eroe.”

“Bambini, James? Sul serio? Lì fuori ci sono quelli della Talon che...”

“Non mi interessa, ho detto! Loro hanno solo me!” Non l'ho mai visto così arrabbiato, così infuriato, nemmeno quando qualcuno è tornato a casa ferito o ha infranto le regole, quando ha dovuto pagare dei danni a causa di qualche guaio causato da qualcuno di noi. “Senza di me,” ruggisce, scattando in piedi, “Chi si occuperà di loro, eh? Chi? La società li disgusta, il mondo non sa nemmeno che esistano! Voi avanzi di Overwatch, forse, che giocate a fare gli eroi?”

“James, non—”

“Il tempo dell'eroismo è finito,” si siede, massaggiandosi la fronte con aria immensamente stanca, “Non eravamo che reclute, alla fine. Non avevamo nulla di speciale.”

“Quindi è così che la pensi, James?”

“Mi dispiace,” scrolla le spalle, “Devi andare, ora. Non voglio che succeda qualcosa ai bambini.”

“Va bene, amico mio. Ma ricorda: il mondo ha sempre bisogno di—”

Non saprò mai di cosa ha bisogno questo mondo, perché le parole di Singh vengono brutalmente soffocate nel suo stesso sangue da un proiettile che trapassa il suo collo, da parte a parte, facendo zampillare una fontana di sangue. Senza un rumore, l'uomo crolla sul tavolo, in una pozza di liquido cremisi che esce fuori dalla sua giugulare squarciata.

Un attimo.

Si tratta di un attimo.

Poi, realizzo che quell'uomo è morto.

Poi, sento le urla venire dal piano di sopra.

Poi, inizio ad urlare con tutto il fiato che ho in corpo.

James corre verso di me, spalancando la porta, gettandosi a terra, proprio mentre qualcosa passa ad un centimetro da dove stavo un momento prima con la bocca aperta ad urlare dal terrore, le lacrime che colano lungo le mie guance.

Qualcosa di caldo risale fino alla mia bocca, riempendo l'esofago, ed eruttando improvvisamente dalle mie labbra. Il sapore è amaro, acido, mi stringo lo stomaco mentre vomito bile sul pavimento, aggrappandomi piangente ad un James che rimane immobile, stringendomi al petto, mentre dal piano di sopra arrivano urla disumane, grida di dolore come mai le ho sentite, che riempiono le mie orecchie.

“Stai bene? Ascoltami, stai bene?”

Annuisco.

“Bene, dobbiamo andarcene di qui. Vieni, andiamo alla porta sul retro. Ce la fai a camminar...”
Uno stivale nero lo colpisce al fianco, facendolo rotolare a terra. Tre uomini mi passano accanto, avvolti in equipaggiamento nero come la pece, fucili d'assalto spianati contro James che giace a terra, tossendo sangue. Qualcuno mi spinge verso di lui, gettandomi al suo fianco, ma io caracollo contro il muro senza nemmeno guardarlo.

Non riesco… a guardarlo.

Ho troppa paura. Non voglio morire.

Riesco a pensare solo… che non voglio morire qui. Non voglio abbandonare questa vita. Voglio continuare a vivere, nonostante tutto, nonostante l'odio del mondo.

Se il mondo mi odia, non mi interessa…

Se il mondo mi odia, io posso fare di peggio…

Io posso, io posso, io posso, io posso—soffocarlo nel suo stesso sangue.

“Li avete uccisi?” una voce gelida, priva di emozione, con un accento straniero, elegante, che suona all'orecchio come il sibilo di una serpe, ma che scivola lungo il corpo come un brivido, come la vischiosa tela di un ragno. Una donna dalla pelle violacea, come quella di un corpo intirizzito dal freddo, che non tradisce alcun sentimento nemmeno nel profondo delle sue pupille. È scivolata all'interno passando per la finestra dalla quale è arrivato il proiettile che ha ucciso Singh.

Accanto a lei, c'è—la Morte.

Mantello nero, teschio di un gufo, il corpo che si distorce e si accartoccia in volute di fumo, come se si stesse disfacendo per poi rimettersi nuovamente insieme, combattendo furiosamente una lotta per l'esistenza che non sembra intenzionato a perdere. Il cavernoso e graffiante suono che esce dalle profondità al di là della maschera, dalle tenebre nel suo cappuccio, sembra volermi schiacciare, “Tutti. Al piano di sopra c'erano solo bambini.”

Très Bien. Che ne facciamo di loro?”

La Morte si piega su di me, allungando le sue dita artigliate, come per udire meglio quello che sto sussurrando.

Cosa sto sussurrando, con voce così tremante, senza riuscire a smettere, come in un folle mantra?

Non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire, non voglio morire.

Non sto implorando, non sto piangendo.

Lo sto dicendo con rabbia.

La rabbia di chi, nato senza nome, senza talento, senza capacità, che ha dovuto guardare con invidia gli altri con un posto nel mondo, ora si vede strappato perfino quel flebile, tenue dono che è la vita.

“—Voglio soffocare il mondo nel sangue.”

Se avesse un viso, forse riderebbe. Sogghignerebbe. La Morte è sempre felice, quando trova un altro che, come lei, è ossessionato dall'uccidere. E allora, senza pensarci due volte, affonda la mano nel suo mantello e, come materializzandola dall'ombra, mi poggia nella mano una grande pistola, il cui peso sembra troppo per le mie sottili, smagrite braccia.

“Che stai facendo, Reaper?” sibila la cecchina francese, storcendo le labbra, in una pallida imitazione di rabbia che non sembra sentire davvero, “Uccidila e basta.”

Ma, ignorandola, la Morte continua a rivolgersi a me.

“Se vuoi vivere, se vuoi avere un nome, se vuoi soffocare il mondo nel sangue...” indica James, “Allora, dimostralo. Dimostralo, ed io ti concederò un dono. Il dono della Morte.”

James mi guarda, terrorizzato. Quello sguardo, l'ho sempre odiato. Occhi cerchiati di viola, sempre stanchi, sempre vitrei, sempre pronti ad arrabbiarsi. Quella bocca, sempre aperta a parlare, parlare, parlare, dirci quanto siamo inutili, quanto non dovremmo nemmeno esistere, non dovremmo vivere.

“Non farlo, non farlo...” scuote la testa, freneticamente, “Ti prego, bambina mia, io ti ho nutrito, ti ho protetto. Vi volevo bene, perché voi siete come me, siete sempre stati soli!”

Non m'importa di quello che hai fatto. Non m'importa del cibo, della protezione, non mi importa.

“Non ti sembra ingiusto?” Il suo tono è alterato, ora, ma ha paura.

Perché, ingiusto? È ingiusto che io voglia vivere, che voglia combattere con le unghie e con i denti?

“Un essere inutile come te, spazzatura che respira, quale può essere il suo posto nel mondo?” Poggio la pistola sulla sua fronte.

Non lo so, non lo so. Come posso saperlo, se non conosco nulla, nemmeno il mio vero nome?

“Quelli come te, non hanno scopo. Esistono solo per essere spazzatura. Dovreste morire – solo così sareste utili alla società.”

Oh, no. Io non morirò. Io vivrò, vivrò, vivrò, ora che ho uno scopo.

Ora che voglio soffocare il mondo che mi ha sempre odiato nel sangue.

“Ciao.”

Premo il grilletto.

Qualcosa di caldo schizza su di me, sangue, pezzetti di carne, resti del suo cranio ridotto a poltiglia dal colpo di pistola vomitato fuori dalla bocca da fuoco, dall'arma che mi ha consegnato la Morte.

Di fronte a me, il corpo contorto di Padron James continua ad essere scosso da spasmi, nonostante il capo sia stato estirpato con una sola pressione del grilletto.

Dell'uomo che prima stava davanti a me, cosa rimane, ora? Nulla. Morto. Come tutti gli altri. Solo io sono viva.

“Andiamo, bambina. Sei stata brava. La Morte ti donerà qualcosa.”

“—Nome.”

“Oh?”

“Voglio un nome,” guardo la Morte nelle sue orbite vuote, “Un nome per rompere la mia maledizione.”

 

Mentre mi lascio alle spalle l'orfanotrofio vuoto e silenzioso, che scompare sotto di me tra i tetti di Londra, mentre un elicottero ci porta via, non posso fare a meno di chiedermi se le ultime parole di Padron James fossero veritiere o stesse solo cercando, in un ultimo disperato tentativo, di salvare almeno uno dei bambini che sembrava odiare così tanto.

Non importa. Questi sono pensieri che appartengono ad una bambina senza nome, morta insieme agli altri nel suo gelido giaciglio, nei sobborghi di Londra, senza lasciare di sé nemmeno un'impronta, in questo mondo.

Dopotutto, coloro nati senza abilità o talento, non hanno diritto che ad una morte noiosa, grigia e vuota, proprio come la loro esistenza; e quelli maledetti, senza nome, non possono che meritare una fine anonima come lo è stata la vita.

Ho rotto la maledizione.

Ora ho un nome.

Uno scopo, soffocare il mondo nel sangue, ripagarlo della sua ingiustizia.

Un posto nel mondo, accanto alla Morte.

Ed un talento—uccidere.

AGENTS OF TALON
PROLOGUE — END

   
 
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