Anime & Manga > Lady Oscar
Ricorda la storia  |      
Autore: heulwen_mai    14/04/2018    9 recensioni
Rosalie offre da mangiare a Oscar, scatenando tutta una serie di elucubrazioni.
(Tratta di disturbi alimentari attraverso la prospettiva di un personaggio che ne soffre. Malgrado le intenzioni dell'autrice, la storia potrebbe quindi risultare offensiva per alcuni lettori.)
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Oscar François de Jarjayes, Rosalie Lamorlière
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 

 

 

La nobile fame

 

 

Quella fetta di pane- forse più segatura e terriccio che farina, sapeva Dio cosa ci fosse dentro- lei non sapeva neanche quanto costasse.

 

Rosalie la guardava con la soddisfazione di una ragazzina che ha fatto tutti i compiti in tempo, la stessa soddisfazione di quando tanto tempo prima Oscar le insegnava a leggere, a fare le composizioni, a mandare a memoria rosa rosae rosae…

 

Gliela aveva fatta a pezzettini. “Come piace a voi, madamigella.” Certo l’aveva osservata a dovere, all’epoca in cui vivevano sotto lo stesso tetto, si vestivano dagli stessi sarti e mangiavano alla stessa tavola. Eppure la sua voce era sottile, più del solito: come se temesse che Oscar sarebbe sparita, filata via come un coniglio o un folletto, al minimo rumore forte. O che le facesse gli occhiacci di cui un tempo aveva tanta paura. Forse si rendeva conto dell’enormità di quello che aveva fatto.

 

“Grazie, Rosalie,” rispose cercando di mascherare l’astio di cui si vergognava.

 

Era tutto sbagliato, pensò con un dolore acuto e ridicolo, un dolore di persona adulta, di colonnello della Guardia Reale, che fissa disperata e all’erta una tazza di brodo e undici tocchetti di pane vecchio e duro; era tutto sbagliato perché erano dispari e ora non li avrebbe potuti mangiare. Non sapeva quando avesse deciso che i numeri dispari erano cattivi- lo aveva deciso e basta, molti anni addietro. Le piaceva darsi limiti arbitrari solo per il gusto di imporsi qualcosa e di sentirsi fiera della propria disciplina.

 

E poi, Rosalie li aveva toccati per prima; era stata lei a fare a brani quella fetta di pane. E ora non era più sua, di Oscar, da sviscerare, da dividere. Da padroneggiare.

 

E lei neanche sapeva quanto fosse costata.

 

 

 

 

Nella teoria era tutto meravigliosamente facile: adesso Oscar avrebbe sollevato di nuovo quel cucchiaio, se lo sarebbe cacciato in bocca, avrebbe inghiottito il brodo ormai raffreddato. Ne aveva mangiate quattro cucchiaiate in un lasso di tempo durante il quale le campane avevano rintoccato due volte.

 

Nella realtà, però, non era il giorno in cui si mangiava la minestra; fosse stata a casa, avrebbe avuto una tazza di caffelatte e pane e burro. Che cosa straordinaria, il pane con il burro; quanto se ne erano fatto fuori, lei e André, negli inconsapevoli anni dell’infanzia? Quando mettere su un po’ di carne significava uno scatto di crescita imminente, non una perdita in agilità. O doversi fasciare il petto perché non si vedesse il seno, e sangue tra le gambe per tre o quattro giorni al mese. Il disgusto di un corpo imperfetto- come poteva Rosalie averlo tollerato? Come poteva sua madre, o sua maestà la regina? Sanguinare, a meno di non mettersi a fare figli- diventare grossa e lenta, chiusa in un mondo piccolo come un gineceo, a organizzare serate mondane, a leggere romanzi, a fare l’antipatica con i domestici e a sparlare di questo e di quell’altro.

 

Rosalie la fissava con tanto d’occhi.

 

“Cosa c’è?” chiese secca, esasperata. Le guance e le orecchie le scottavano. Aveva davanti un autentico tesoro in brodo e pane.

 

“Niente, niente… Non vi piace? Non avete fame?”

 

Oh, ma come fai a non vederlo? E’ tutto sbagliato! Perché mi hai rovinato il pane, ora non potrò più mangiarlo! Senza contare che avevo pane e burro che mi aspettavano a casa, ma eccomi qua a mangiare la tua roba; dovrò sognarmeli di notte fino alla prossima settimana!

 

E, in sottofondo, pensava allo squallore di quella casa, di quella vita. Ai bambini per strada, sporchi, vestiti di cenci, le loro facce apatiche come quelle di adulti in miniatura- quanti ne morivano ogni inverno? Quanti ne stavano morendo, proprio in quel momento? Rivide Rosalie che fermava la sua carrozza, ormai quasi dodici anni prima. Una bambina di dodici anni con una mamma malata, gli occhi enormi che divoravano la faccetta emaciata, pronta a vendersi a patto di mangiare ancora una volta.

 

 

 

 

Suo padre, il generale, era orgoglioso di lei quando veniva scambiata per un damerino. Non aveva dubbi che Oscar fosse suo figlio- ma che immenso sollievo, quasi una soddisfazione, quando erano altri a vedere in lei un militare, un erede, e non l’ennesimo fallimento. Erano così evidenti, i sentimenti del generale, che Oscar stessa si sentiva orgogliosa di sé per osmosi. Delle proprie spalle larghe e magre, i muscoli addominali ben delineati, le costole in rilievo come ricamate sul torace, le braccia sottili e forti, allenate alla spada (certo, la sua spada era calibrata apposta per lei, ma non avrebbe desiderato un’arma più pesante o più potente, come non desiderava diventare una valchiria per guadagnare in forza e perdere in leggerezza).

 

Rosalie era arrivata a casa sua così piccola e gracile che sembrava che un soffio di vento se la sarebbe portata via; e Oscar aveva deciso di plasmarla, per quel che poteva, a propria immagine e somiglianza. Senza farsi illusioni: intuiva, con una certa superbia, di essere unica nel proprio genere, né donna né uomo, un essere straordinario.

 

E infatti, nonostante tutte e lezioni di scherma e di equitazione, nonostante le nottate di campeggio nei boschi sul confine della proprietà e le levatacce, il suo essere imperfetta aveva vinto, e Rosalie se ne era andata ragazza. Una ragazza deliziosa: le braccia tonde, le guance piene e rosa, il seno florido. Fosse stata lei il figlio del generale, avrebbe ricoperto di ridicolo suo padre e tutto il casato.

 

Ma tanto, Rosalie- che Oscar amava come una sorella- non era destinata a nulla di particolare.

 

Oscar lo era. Oscar ambiva alla gloria- non era certa per quali vie, ma sapeva che il destino le avrebbe riservato la sorte delle leggende. La vita le aveva posto davanti due scelte possibili: diventare una graziosa dama, magari perché un uomo inferiore a lei sotto ogni aspetto potesse prenderla sottobraccio e andare in giro a pavoneggiarsi; oppure osare più di qualunque altro essere umano, muoversi sempre sopra le righe, essere fedele a sé stessa prima che a chiunque altro.

 

Era per questo che si osservava allo specchio minuziosamente e senza pietà.

 

Non aveva quasi seno- chi se ne frega, a un militare non serve certo un davanzale ingombrante. I fianchi c’erano, ossuti e sporgenti, con le creste degli ilei che si delineavano come lame sul davanti, così piacevoli al tatto, affilate e pericolose, a protezione della sua verginità. Le cosce non si toccavano più- per Oscar ciò era motivo di grande orgoglio. Quando aveva diciotto o vent’anni le braghe le frusciavano nel camminare, con un suono che le faceva quasi digrignare i denti.

 

Se le sue gambe si toccavano era segno che i parenti prima o poi sarebbero tornati a farle visita; che suo padre avrebbe scosso la testa, imbarazzato e irritato, nel saperla a letto indisposta per mezze giornate di fila, a torcersi per via dei crampi (sua madre e la tata Marie dicevano che era normale, che era una cosa “di famiglia”- ma lo dicevano solo perché gli stessi impedimenti erano toccati in sorte anche alle sue sorelle femmine).

 

 

 

 

Rosalie le tolse la scodella da davanti, e Oscar non poté fare a meno di alzare su di lei uno sguardo sorpreso e un po’ irritato. Perché lo aveva fatto? E se lei avesse poi deciso di finire il suo brodo? Lo stesso che era stata praticamente costretta a mettersi in corpo?

 

(Il pane no, sapeva che non avrebbe potuto nemmeno guardarlo un’altra volta… ma Rosalie non accennò a toglierglielo).

 

“Lo metto a scaldare un po’ sul braciere,” le disse tutta mite.

 

Oscar sospirò e annuì. Che facesse quel che le pareva. Rosalie, ma perché non lo mangi tu, piuttosto? Tu che hai lavorato, che ti sei scorticata le mani per del cibo che ora andrà sprecato, che per colpa mia ti farò sprecare. Si chiese se Rosalie e la sua coinquilina si sarebbero schifate di finire i suoi avanzi. Lei non ripuliva un piatto da anni; non si era mai chiesta dove finisse quello che non poteva mangiare- le metà geometriche, ordinate come aiuole, di quello che le sembrava giusto e parco e morigerato prendere per sé.

 

Ogni cibo imprevisto era un errore, una macchia sulla coscienza, una debolezza che non si sarebbe perdonata.

 

 

 

 

Neanche tanto tempo prima, aveva ballato con Fersen. Vestita da donna. Sottile e senza peso, come una farfalla; un corpo filiforme e grandi ali di tessuto chiaro.

 

Molti, al ballo, l’avevano commentata: era esile e perfetta come una dea, oppure secca e ossuta come un manico di scopa. Nessuna delle due definizioni le era dispiaciuta. Le clavicole, allo specchio, erano linee sporgenti sotto la pelle diafana, venata di azzurro. Sulla schiena i capelli tirati su e l’abito scollato lasciavano vedere, piccoli e graziosi, i segmenti della colonna vertebrale. Il corsetto era stretto fino a soffocarla, fino a creare l’illusione che il suo addome non contenesse viscere.

 

“Non ci siamo,” aveva brontolato la tata Marie durante la vestizione, scherzando a metà. “Sembrate sempre un ragazzino con addosso la biancheria della mamma,” e intanto le pizzicava i fianchi in cerca di un po’ di morbido, di un po’ di carne flaccida che non c’era, e Oscar aveva sorriso alla dama nello specchio.

 

Certo, a Fersen non era piaciuta; era “il suo migliore amico”, lei. L’amico con cui allenarsi nella scherma, quello che non aveva paura a rispondere a tono, a fare ramanzine; quello che non si spaventava se uno sparava a una mela volante a qualche spanna dalla sua testa. Quella povera mela, che Oscar non vedeva l’ora di avere tra le mani, di fare a fette con il temperino mentre il succo le rendeva le dita appiccicaticce… Fosse stato chiunque altro, a distruggere la sua mela già pregustata, avrebbe pagato caro l’affronto- ma Fersen sapeva, istintivamente, che se Oscar doveva essere il suo amico allora non ci potevano essere mele fuori programma ad attentare alla sua spartana condotta di militare.

 

E Oscar, dal canto suo, sapeva quali compagne di danza piacevano a lui: fresche e in carne, col busto sottile e i seni spremuti fuori dalla scollatura. Lei non sarebbe mai stata una di quelle creature.

 

 

 

 

Il brodo, nella pentola, aveva appena appena ricominciato a fumare. Rosalie lo riscodellò, attenta a non versarne nemmeno una goccia.

 

“Madamigella Oscar, cercate di non farlo raffreddare di nuovo, o a forza di riscaldarlo evaporerà tutto.” Il suo tono era leggero, quasi allegro, con sotto uno strato di fermezza che si intravvedeva appena, come una pietra sotto il muschio.

 

Oscar sospirò ancora una volta- doveva sembrare una marmocchia capricciosa. Prese il cucchiaio.

 

“Rosalie, perché non mi fai compagnia? Prendine un po’ anche tu”

 

“No, grazie”

 

“Insisto. Prendi almeno un po’ di pane...”

 

Rosalie aggrottò le sopracciglia. “Madamigella Oscar, con tutto il rispetto, lasciate che sia io a insistere. Mangiate, ora.”

 

Oscar si mise lentamente in bocca il cucchiaio mezzo vuoto, dopo aver soffiato a lungo sul brodo tiepido. Era orribile, insipido, con un fondo di verdura marcia.

 

Sognò pane e burro mentre se lo rigirava per la bocca come assaggiando un vino pregiato.

 

 

 

 

Era così esasperante, che Rosalie non capisse. Non c’era niente da fare: non capiva! Come non capiva nessuno, del resto. Nemmeno André.

 

André si portava sempre dietro una mela anche per lei; le portava pane e salame quando Oscar si fermava fino a tardi in cortile a tirare di scherma contro le ombre lunghe del tramonto. Neanche lei fosse ancora il piccolo compagno di scorrerie con il quale infilarsi sotto il tavolo durante i ricevimenti, quando tutti gli adulti si aggiravano tronfi dicendo cose noiose e ridendo risate noiose tra una danza e l’altra; e loro due, Oscar e André, i due soliti monellacci, ridacchiavano in segreto sotto la tavola, all’ombra della tovaglia, rubando pasticcini e meringhe e vino dolce… poi tornavano in camera barcollando furtivi, mezzi ubriachi di fondi di bicchiere, facendosi sssst! a vicenda.

 

Il mattino dopo, la tata Marie li avrebbe trovati sdraiati sullo stesso letto, tra le briciole, e André le avrebbe prese. Ma erano così inarrestabili e determinati, quei due predoni di dolci, che già pianificavano il prossimo saccheggio.

 

Oscar era un bambino, allora. Adesso, era qualcosa che camminava sul filo del rasoio. Sarebbe bastata un’indulgenza a scaraventarla nel ruolo sbagliato, creatura grassa e pigra, obnubilata dallo zucchero. E’ così che mi vuoi?, avrebbe voluto gridargli quando André- con quella voce mansueta e ragionevole, quei modi solleciti- le chiedeva se avesse saltato di nuovo il pranzo, se avesse messo nello stomaco qualcosa di più sostanzioso del vino.

 

No, non sarebbe stato giusto; sapeva che André non la voleva così. André voleva quello che era meglio per lei, solo che il suo animo semplice e gentile non vedeva oltre il bambino che lei era stato, non concepiva l’importanza della disciplina, di quella nobile fame che giorno dopo giorno forgiava Oscar il militare, Oscar l’orgoglio del padre e del casato, Oscar il figlio di Marte, dal futuro glorioso.

 

 

 

 

Quanto era sprezzante rifiutare il cibo dei poveri, offerto dalla carità di due donne che si trovavano a un giorno di pioggia dalla rovina?

 

Rosalie aspettava fiduciosa la sua prossima mossa. Quella che per Oscar era la più dignitosa delle rinunce, per lei sarebbe stata uno schiaffo in piena faccia. A lei, a tutte le Rosalie di Parigi e del mondo, nelle loro stanzette brinate, con i loro piccoli bracieri, col loro dubbio eterno- come arrivare fino a domani?

 

Ma lei era Oscar, il figlio, l’amico, il compagno fraterno; c’erano debolezze che non poteva permettersi, verso di sé e verso gli uomini che avevano validato ciò che era, che la guardavano con il rispetto e l’affetto dovuto ai propri eguali.

 

Inghiottì e mise giù il cucchiaio. Con grande delicatezza spinse via la scodella. Lo stomaco le si torceva dolorosamente- ormai, per quel giorno, avrebbe digiunato fino alla sua tazza di cioccolato serale.

 

“Non posso, mi dispiace,” disse; e si sentì meschina e orgogliosa insieme.

 



 

 

[NdA- questa storia è rimasta per un bel po’ di tempo in uno stato embrionale e informe; l’avevo scritta d’impulso, e non ho nemmeno idea se qualcuno ci sia arrivato in fondo XD. Ho deciso di rimaneggiarla e pubblicarla dopo aver letto un breve passaggio di “Scorre la Senna, scorre lenta” di _Agrifoglio_, che nel capitolo dedicato a Oscar scrive:

 

Affamata di giustizia e di libertà, ma non del cibo,
a esaltazione di un corpo androgino e filiforme.

 

Questa frase, che in realtà ho isolato dal suo contesto, mi ha colpita per la somiglianza con questo mio- diciamo- headcanon (ma si dice ancora “headcanon”?). La mia interpretazione di Oscar e delle sue nevrosi non riflette assolutamente il ritratto- molto, molto bello- di _Agrifoglio_. Un racconto, ovviamente, deve reggersi sulle sue gambe senza che l’autrice lo difenda o lo spieghi a eventuali lettori, ma comunque sia metto le mani avanti dicendo che l’intento non era di essere offensiva o stramba in modo gratuito.

Detto questo, “Scorre la Senna...” non ha certo bisogno della mia raccomandazione, ma la raccomando caldamente a chiunque non l’abbia ancora letta!]

 

  
Leggi le 9 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Lady Oscar / Vai alla pagina dell'autore: heulwen_mai