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Autore: PerseoeAndromeda    14/04/2018    7 recensioni
In un angolo di Giappone, tra i monti, a poca distanza dal Fuji, si dipanano le esitenze di due giovani uomini, Aito e Daisuke, cresciuti insieme e legati da un sentimento profondo. Aito, tuttavia, sta irrimediabilmente cambiando, trascinato da cupi pensieri e sogni nel baratro della depressione. La foresta di Aokigahara, nota in Giappone per essere il luogo più frequentato dagli aspiranti suicidi, diventa una presenza inquietante, un richiamo al quale Aito non riesce ad opporsi.
[Racconto partecipante al contest "Asylum", indetto da Haykaleen - PRIMA CLASSIFICATA]
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Capitolo 3

 

La mattinata si era conclusa in modo strano, non gli era mai capitato di arrabbiarsi così con Aito. Non ricordava neanche il susseguirsi preciso degli eventi, l’unica cosa chiara era che l’indolenza autodistruttiva dell’amico, a un certo punto, lo aveva esasperato. E ancora di più lo avevano esasperato le sue parole che, sicuramente, riflettevano un profondo odio verso se stesso.

Tutto era cominciato con un suo tentativo di conversazione.

“Potremmo prendere esempio da questa gente e andarcene anche noi da qualche parte nei nostri giorni liberi”.

“E dove?”.

Gli era parso così indifferente il tono di Aito da rimanerne ferito.

“A te dove piacerebbe andare?”.

“Non lo so…”.

“Non ti farebbe piacere fare una gita insieme a me?”.

“Non voglio che tu ti senta in obbligo nei miei confronti, Dai-kun; se ti faccio pena, come ne faccio a tutti, mi fai solo sentire umiliato”.

Era a quel punto che la rabbia aveva preso il sopravvento, l’aveva aggredito con le parole, urlandogli contro che era ingiusto, ingeneroso, dopo anni di affetto, di complicità, di dimostrazioni date e ricevute, come poteva anche solo pensare una cosa simile?

“Pena?” aveva concluso, “mi fai pena, è vero, mi fai pena perché sei cieco, perché non vedi, perché respingi chi ti vuole bene e potrebbe tirarti fuori se solo tu lo volessi!”.

“Ma io non voglio, è inutile, è tutto inutile per me!”.

Aito era scoppiato a piangere e Daisuke non aveva più resistito: aveva allargato le braccia e lo aveva stretto forte, ignorando i suoi tentativi di divincolarsi.

“Che cosa ti succede, Aito? Dimmelo, non tagliarmi fuori dalla tua vita, io…”.

Stava per dirglielo, per confessargli, dopo anni, quali fossero i suoi autentici sentimenti, ma proprio quando si era fermato, spaventato lui stesso da una tale ammissione, Aito aveva ripreso a parlare, come se non avesse neanche ascoltato le sue parole:

“C’è un solo posto dove vorrei andare, in questo momento”.

“E dove?”.

“Aokigahara… una passeggiata notturna tra gli alberi... e poi...”.

Erano state le sue ultime parole e Daisuke era rimasto freddo e rigido per il modo in cui le aveva pronunciate, un tono che gli aveva messo i brividi, una voce che non sembrava neanche più quella di Aito.

Poi l'amico si era sottratto con decisione al suo abbraccio ed era scappato via, lasciandolo immobile, a fissare la sua schiena che si allontanava.

Non era riuscito a fare altro, sconvolto dall’atteggiamento di Aito, da quella sua incapacità di ascoltare, da quella frase che sembrava buttata lì, ma che faceva tanta paura.

Per il resto della giornata aveva provato a chiamarlo: il cellulare di Aito era rimasto spento, sordo ai suoi tentativi, indifferente ai messaggi che gli aveva inviato.

Nel pomeriggio era andato a casa sua, ma la vecchia Saeko-san gli aveva detto che non aveva pranzato ed era uscito di nuovo. Gli era sembrata in ansia, ma forse era solo il riflesso delle proprie stesse emozioni.

Non riusciva a smettere di ripensare a quel loro ultimo contatto, dando dell’idiota a se stesso, che si era arreso lasciandolo scappare, ad Aito, che non gli aveva permesso di confessargli il suo amore.

 

 

Giunse così la sera e, per l’ennesima volta, Daisuke controllò il cellulare: nessuna risposta, nessun segno che i suoi messaggi fossero stati letti.

Fece il numero.

Aveva perso il conto delle volte in cui lo aveva composto, in cui aveva aperto il contatto di Aito in rubrica. Quando dall’altra parte gli rispose la voce asettica della segreteria telefonica, fu sul punto di gettare il telefono contro il muro, invece fece un respiro profondo e si decise a lasciare un messaggio vocale:

“Ai-kun… sono preoccupato. Per favore, chiamami”.

Tenendo stretto il telefono tra le dita si lasciò cadere prono sul letto, l’altra mano penzoloni ad accarezzare Kimi, come sempre accucciata sul tappeto.

Da poco erano passate le nove, il giorno dopo sarebbe stata domenica e, normalmente, l’avrebbe trascorsa in compagnia di Aito, a passeggiare tra i monti o, essendo ancora abbastanza freddo, a rilassarsi in un onsen.

Sapeva che quella domenica non sarebbe accaduto, sapeva che Aito non si sarebbe fatto vivo, ne era certo, come un segnale d'allarme ineluttabile nel suo cuore.

Gli sembrava impossibile provare tanta nostalgia per qualcosa che non era ancora avvenuto, si sentiva come se Aito gli avesse detto addio e gli occhi pizzicavano in maniera prepotente, mentre il cuore gli balzava in gola, soffocandolo ad ogni battito.

I suoi occhi non si staccavano dallo schermo del cellulare e, quando il display si spegneva, un senso di perdita si impadroniva di lui, di speranze infrante che si riaccendevano solo quando premeva il tasto per illuminarlo di nuovo.

Era consapevole, a livello razionale, quanto fosse assurdo dipendere dal display di un cellulare, ma in quel momento gli sembrava l’unico filo che lo legasse ad Aito.

Il tempo passò, minuti, ore, senza che nulla mutasse intorno a lui, senza che il sonno venisse, mentre lui galleggiava in quella dimensione sospesa.

Il suo respiro accelerò di colpo quando il telefono prese a vibrare e sullo schermo comparve la scritta “AITO CASA”.

Ormai erano quasi le undici. Perché Aito chiamava a quell’ora? Aveva visto i suoi messaggi? E allora perché da casa? Il cellulare era scarico?

Quella fila di domande insensate lo fece esitare cancellando, per qualche istante, l'azione più logica ed importante: rispondere.

Pigiò il tasto e si portò il telefono all’orecchio.

“Pronto”.

“Dai-kun, scusa se mi permetto di chiamarti a quest’ora, ma sono molto preoccupata”.

Maeve-san?

Aveva sperato di sentire, dall’altra parte, la voce di Aito…

O forse no…

Aveva saputo fin dall'inizio che c’era qualcos'altro, che la situazione era molto seria e che non ci sarebbe stato lui al telefono. Lo sapeva, ma non se lo confessava.

“Bu… buonasera… Maeve-san”.

Ci fu un’esitazione, poi la voce si abbassò, ma i toni si fecero più pressanti, tanto da trasmettere a Daisuke tutta l’ansia che la madre del suo amico non riusciva a reprimere:

“Speravo… che sapessi dirmi qualcosa di Aito”.

Ogni suo senso si tese all'inverosimile, così come i nervi che presero a fargli male; le membra rigide, si sollevò fino a mettersi seduto.

“L'ho visto stamattina... poi non l'ho più sentito”.

“Non è tornato, ci siamo accorte solo poco fa che non ha portato con sé il cellulare; è scarico nella sua stanza”.

Daisuke deglutì più volte: ecco ogni sua paura che si concretizzava, tutto ciò che fino a quel momento era rimasto tra il conscio e l'inconscio, ridotto a fuggevoli sensazioni, si presentava in tutta la sua vivida realtà.

Avrebbe dovuto dire qualcosa ad una povera madre preoccupata, ma non sapeva lui stesso come reagire e come calmare le proprie paure.

Dopo qualche istante di silenzio, la voce della donna si fece riudire:

“Non hai idea di dove potrebbe essere?”.

Si umettò le labbra, secche come secca era la sua gola, tanto che temeva di non riuscire a formulare neanche una sillaba.

“No” rispose a stento, ma non lo sapeva davvero? Aito non gli aveva forse dato un indizio, quella mattina?

“Ti è sembrato strano stamattina? Ti ha detto qualcosa di particolare?”.

“Non... più del solito”.

Era vero, che domanda era? Aito era sempre strano, da troppo tempo ormai.

Anche se, in effetti, quella mattina qualcosa di diverso era accaduto... e qualcosa di particolare l'aveva detto.

Sussultò, mentre la consapevolezza negata dalla sua mente fino a quel momento esplodeva come una scintilla attraverso le tempie.

Ritrovò tutta l'energia di cui aveva bisogno:

“Ascolta, Maeve-san, non vi agitate. Restate a casa nel caso qualcuno, o lo stesso Aito, si facesse vivo. Io vado a cercarlo”.

“Mi dispiace tanto crearti questo disturbo, ma non sappiamo che altro fare”.

Poi la voce si fece esitante, come se temesse di formulare le successive parole, che suonavano come la conferma di una tragedia in corso:

“Se non torna, domani denunceremo la scomparsa”.

“Io... spero che non sarà necessario”.

Lo sperava, ma quanto ci credeva?

Se l'indizio sfuggito quasi per caso ad Aito quella mattina aveva un senso, la tragedia poteva ancora essere evitata, dopo tutte quelle ore?

Salutò la donna e interruppe la telefonata, poi si portò una mani agli occhi, soffocando un singhiozzo:

“Ai-kun... non fare sciocchezze... ti supplico... non fare niente prima che io sia lì”.

 

 

***

 

Aokigahara, il mare di alberi ai piedi del monte Fuji, una distesa incontaminata di cipressi e conifere il cui intrico non lascia penetrare i raggi del sole.

Aito si inoltrò, guidato solo dall'istinto, dal bisogno di scomparire dal mondo. Quale luogo più adatto della foresta dei suicidi?

In quel luogo abitavano gli spiriti di coloro che più gli assomigliavano, lo chiamavano notte dopo notte per invitarlo a raggiungerli, l'unico posto rimasto sulla terra nel quale, forse, avrebbe potuto sentirsi a casa.

Ignorò i cartelli che invitavano a non abbandonare il sentiero principale, a lui non importava perdersi, era lì apposta. Le strade battute dai turisti non gli interessavano, lui cercava gli altri, coloro che si erano addentrati nel folto della vegetazione per non tornare mai più sui propri passi, per restare lì, immersi per sempre in un mondo pieno di vita che era stato scelto per simboleggiare la morte.

La foresta lo chiamava da tempo, era nel suo destino; da quando aveva intrapreso quel viaggio, qualche ora prima, quello che per mesi era stato un lumicino, un fastidioso prurito nella sua testa, si era trasformato in urgenza di rispondere a quel richiamo, semplicemente perché non aveva altra scelta.

Tra i vivi non aveva più nulla da fare: ciò che gli restava era rispondere al richiamo dei morti.

Si bloccò davanti ad un cartello che si materializzò davanti a lui, come una voce della coscienza, non la sua, la sua era annullata.

La coscienza di qualcun altro?

C'era qualcuno, ancora, desideroso che lui restasse in vita?

La tua vita è un dono prezioso dei tuoi genitori. Pensa a loro e al resto della tua famiglia. Non devi soffrire da solo”.

Si portò una mano agli occhi, scosse il capo.

“Non posso” mormorò, “non ce la faccio più, sono stanco”.

Un gesto che era un rifiuto: non voleva vedere quel cartello, come nessun altro di tutti i messaggi disseminati lungo il percorso.

C'era un solo modo, allora, per eliminare anche quelle ultime tracce di un mondo razionale, che invitava alla vita: non guardare più nulla e inerpicarsi verso le zone meno battute, affrontare il cammino più impervio dove difficilmente simili segnali avrebbero trovato posto.

Così si tuffò, falcata dopo falcata, aiutandosi con gambe e braccia, nell'oceano verde di Aokigahara.

Non sapeva cosa avrebbe fatto, non aveva pianificato nulla, non aveva niente con sé che potesse aiutarlo ad abbandonare la vita.

La spiegazione era una sola: la sua volontà era annullata. Ormai era solo la sua tristezza irrazionale a guidare ogni mossa, ogni impulso, anche quei passi che non sapeva quando avrebbero visto la fine.

Camminò, lottando contro rami ed arbusti, graffiandosi mani, viso e collo, il respiro sempre più affannoso, le lacrime che non sapeva quando avessero cominciato a scendere lungo le sue guance. Forse erano lì fin dal primo istante in cui aveva intrapreso il suo ultimo viaggio.

Perché non vi erano dubbi che sarebbe stato l'ultimo.

Il tempo per lui aveva perso significato. Il sole non splendeva sotto quelle fronde e i rimasugli di luce potevano solo diminuire man mano che le ore passavano.

Seppe che era notte quando i suoi occhi non riuscirono più a penetrare la tenebra, solo a tentoni percepiva la solidità delle cortecce intorno a sé, i suoi piedi avanzavano per inerzia, scivolando a tratti, ma lui si tirava sempre su, aggrappandosi a qualche ramo o artigliando la terra con le dita ormai sanguinanti.

Non sentiva il dolore dei graffi, le ferite non contavano più, lui era già oltre il contingente, oltre tutto ciò che lo collegava alla vita, fosse anche oltre il dolore fisico, la fatica e l'indolenzimento di un corpo ormai allo stremo.

Nel buio completo, i suoni della notte persero alle sue percezioni i connotati naturali, per trasformarsi in lugubri lamenti, ma lui non aveva paura: sapeva a chi appartenevano quelle voci. Erano i suoi amici, gli yurei che lo incoraggiavano a lasciarsi andare, a non opporre più resistenza, perché loro lo avrebbero accolto.

La percezione di sé andava dissolvendosi e si annullava nel languore che si impossessava di lui: ad ogni passo era come fluttuare nel vuoto.

Doveva solo abbandonarsi, accettare quella mano tesa che all'improvviso squarciò il muro di tenebra: apparteneva certo ad uno di loro, uno dei suoi amici pronti ad accoglierlo e a cullarlo nella dimenticanza.

Alla mano seguì il volto: allora avevano ancora un volto, un'identità coloro che, in preda alla disperazione, avevano lasciato la vita?

Eppure perché quel volto sembrava vibrare di vita, sembrava palpitare di emozioni e lacrime?

“Ai-kun, ti ho trovato! Kami-sama, ti ho trovato!”.

Sgranò un attimo gli occhi, udì i singhiozzi disperati mentre quella mano lo attirava in un abbraccio soffocante, poi i suoi occhi si chiusero e ogni residuo di coscienza venne annullato.

 

 

Epilogo

 

Si trattava di tanta stanchezza, dovuta ad ore ininterrotte di camminata nella foresta, al freddo, all'esaurimento nervoso che aveva offuscato ogni forza residua. Nessuna ferita era grave, solo graffi e contusioni.

I medici si erano prodigati nel rassicurare la famiglia di Aito e l'amico, ma si erano anche raccomandati di non lasciarlo privo di sorveglianza per un po' di tempo, e di fare in modo che seguisse una cura presso un terapista.

L'intento di togliersi la vita non era sembrato ben costruito, appariva più come un'irrazionale fuga da una realtà che stava diventando per lui impossibile da sopportare, non vi era nulla di chiaro nei suoi gesti, nulla di realmente pensato.

Non vi era tuttavia nessuna certezza che non ci avrebbe riprovato, quindi era consigliabile assisterlo costantemente e assicurarsi che seguisse le cure.

Saeko-san e Maeve-san erano uscite dalla stanza d'ospedale per prendersi qualche ora di riposo, sapendo che lasciavano Aito in buone mani: Daisuke non aveva nessuna intenzione di allontanarsi dal suo capezzale.

L'amico non apriva gli occhi da ore e lui gli teneva la mano: non gli importava di nulla, che la gente intuisse cosa lo legava a quel giovane e che criticassero pure! L'unica cosa che gli interessava, adesso, era sollevare Aito da quel baratro e lottare al suo fianco perché non si lasciasse più andare così.

Non aveva più paura di quello che si nascondeva nella mente dell'amico, non importava quanto dolore, quanta sofferenza avrebbe portato ad entrambi, quanta fatica sarebbe costata sostenerlo, non avrebbe più avuto paura. L'importante era che Aito capisse che la vita valeva la pena di essere vissuta, che tante cose belle li avrebbero attesi se si fosse fatto aiutare.

Per questo, quando finalmente intravvide tra le palpebre l'accendersi di quelle iridi verdissime, sorrise e continuò a sorridere nel momento in cui Aito focalizzò il proprio sguardo su di lui.

“Bentornato”.

Le palpebre del giovane si strinsero ancora per qualche istante, poi si aprirono con più sicurezza: era ancora debole, si vedeva, ma le labbra si mossero e in un soffio leggero diedero vita alle prime parole:

“Eri... tu...”.

 

Furono le prime parole del ritorno alla vita per Aito e, con esse, il palpitare di un cuore che, dopotutto, non voleva fermarsi.

 

 

 

   
 
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