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Autore: Watson_my_head    17/04/2018    5 recensioni
Sherlock è morto. Cosa è successo in quei due anni prima del suo ritorno?
Questa è la storia di John, un uomo distrutto costretto a venire a patti con se stesso e a trovare la forza, forse, di cambiare il proprio destino.
#introspettivo #friendstolover #fixingpostreichenbach #happyending #dontbescared!
Genere: Angst, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson, Mary Morstan, Mycroft Holmes, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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A presto!


 



 

A broken man






“Prima scrivevo per te, ora scrivo per i momenti che hai portato via”

Víctor de la Hoz

 

 

 

“A volte mi sembra ancora di sentirlo.”

Lo studio di Ella è avvolto in una luce soffusa. E' il tramonto, c'è silenzio.

“Che cosa?”

“Niente.”- Dovresti pensarci un po' di più prima di parlare se non vuoi dire quello che pensi. Guardala come ti scruta. Come se capisse davvero. Non può capire. Sono già stufo di essere qui. Quanto manca alla fine? Perché sono venuto?

“Siamo qui per parlare, John.”

Respiro forte. Ho mal di testa.

“L'odore.”

“Quale odore?”

Respiro di nuovo. Lo sento anche adesso. Ho voglia di vomitare.

“John..?”

“Il sangue. L'odore del sangue sull'asfalto.”- Perché cazzo mi fa dire queste cose. Penserà che sono pazzo. Forse lo sono in effetti. Chi se ne frega. Sono fuori di me. Fuori da me. Devo mettere fine a questa cosa. Ora dirà qualcosa di psicologico sull'olfatto, ci potrei scommettere. Come se non lo sapessi già.

“E' normale. L'olfatto è uno dei sensi più potenti. E' in grado di conservare un ricordo per molto tempo. Che cosa senti quando avviene?”

Le sorrido, ma vorrei ucciderla. Si, con le mie mani, adesso. Stringerle attorno al suo collo. Che cosa vuoi che mi provochi sentire l'odore del sangue di.. Devo vomitare, Dio.

“John, devi permettermi di aiutarti. Sono qui per questo. Puoi dirmi ogni cosa.”

Anche che vorrei farti stare zitta?

 

“Niente, non mi provoca niente.” A parte il desiderio di smettere di respirare. “Credo che l'ora sia finita, giusto?”

“...giusto. Ci vediamo la settimana prossima. Spero che tu venga.”

“Contaci.” Devo uscire da qui il più in fretta possibile. Mi alzo, recupero la mia giacca e apro la porta. Scendo una rampa di scale, cammino lungo il corridoio e finalmente esco sulla strada. Tutto senza pensare assolutamente a niente. Mi fermo, il cielo è rosso. Forse qualcun altro lo apprezzerebbe. Io non lo vedo nemmeno. Non ho più occhi per vedere queste cose. E' un giorno qualunque, di un mese qualunque, in una vita qualunque. La mia.

Riesco a girare l'angolo un attimo prima di dovermi piegare sulle ginocchia e vomitare quel poco che ho mangiato da questa mattina. Mi appoggio con una mano al muro su un manifesto sbiadito di una compagnia di assicurazioni. “La tua vita nelle nostre mani”. Fanculo.

 

***

 

“Sherlock!” - lo sto chiamando disperatamente. “Sherlock!!” - continuo ad urlare ma lui non si volta. Vorrei correre verso di lui ma non riesco a muovermi. Sono su un albero senza foglie. All'improvviso c'è la neve attorno a noi. Perché sta fermo di spalle e non si gira? “Sherlock!”. Non riesco a respirare, non riesco...

Mi sveglio in preda ad un attacco di panico. Mi manca il respiro. Il cuore sta per uscirmi dal petto. Sento che potrei morire questa volta. John, è un attacco di panico notturno, lo sai bene. Devi restare calmo. Metto la testa tra le ginocchia per evitare di soffocare e respiro il più lentamente possibile per cercare di abbassare il ritmo cardiaco. Respiro. Respiro. Cinque minuti dopo sono completamente sveglio, terrorizzato, immobile, seduto sul mio letto, al buio. Mi prendo la testa fra le mani e piango. Piango disperatamente. Non piango per te bastardo. Piango per me. Per il fantasma dell'uomo che sono diventato. Sono morto anche io quel giorno, sul marciapiede davanti al Barts.

 

Ho pianto forse per un'ora prima di avere la forza di alzarmi, accendere la luce e dare colore alla tristezza in cui vivo in questo momento. La camera è vuota, squallida, così come l'appartamento intero. Il verde di queste pareti mi provoca un odio viscerale. Ho provato a strappare la carta da parati con le mani una notte, in preda ad una crisi di nervi. E' venuta via un po', mi sono fatto male. Mi sono seduto per terra a guardare quello scempio malriuscito e ho urlato con tutto il fiato che avevo. L'ho lasciata così. Sotto si intravede una vecchia carta da parati gialla. Odio anche il giallo. Il giallo mi sorrideva una volta. Adesso lo odio.

Cammino verso la cucina. Accendo la luce. E' un orribile neon bianco, freddo come la morte. Mia madre diceva sempre che la cucina è il cuore della casa. Perché penso a mia madre adesso? La mia invece sembra una stanza d'ospedale. Un po' me ne compiaccio e non so neanche perché. Dovrei mangiare qualcosa ma non ho fame, ovviamente. Bevo un bicchiere d'acqua. Mi fa male il petto. Mi siedo su uno dei due sgabelli della penisola, la testa fra le mani. Vorrei piangere ancora, ma mi scopro a ridere. John, che cosa stai facendo? Che cosa stai facendo? Devi rimettere insieme i pezzi. Sono passati sei mesi, Cristo. Cinque mesi, tre settimane e quattro giorni, puntualizzerebbe qualcuno. Non rido più.

L'orologio alla parete segna le 3:46 del mattino. So che non tornerò a dormire. Respiro profondamente. Davanti a me, abbandonato, c'è il mio computer. Lo faccio scivolare verso di me, il cavo collegato alla corrente trascina una tazza lasciata lì non so da quanto e la fa cadere a terra. Si rompe. Lo noterò solo fra due giorni quando calpestandola mi ferirò un piede che lascerò sanguinare. Alzo lo schermo, si accende, apro un file di scrittura nuovo.

 

“Ella dice che scrivere mi aiuterà a rimettermi in sesto. Ma dato che non posso scrivere sul blog, scrivo file a caso. File a caso file a caso file a caso file a caso”. John smettila. Cancello e ricomincio da capo.

“Secondo la mia psicoterapeuta, che io non voglio assolutamente uccidere, scrivere mi aiuterà a superare la morte del mio migliore am” non ce la faccio. Cancello di nuovo.

 

“La mia psicoterapeuta è convinta che scrivere potrebbe aiutarmi a superare questo momento difficile della mia vita.”

 

Guardo lo schermo, rileggo. Sembra che mi sia morto il cane. O che abbia divorziato. Sicuramente questa frase a lei piacerebbe. “Aiutarmi a superare questo momento difficile della mia vita”. Aiutarmi, lei? Non credo proprio. A superare? Io non lo voglio superare. Lo renderebbe vero, sarebbe come lasciar andare. Che cazzo stai dicendo. Momento difficile? Momento difficile. Perdere il lavoro è un momento difficile. Avere una qualche malattia fisica è un momento difficile. Ritrovarsi soli, è un momento difficile. Morire, morire ma dover restare vivi e sorridere agli altri affinché si sentano tranquilli nelle loro vite vive. Questo è tutt'altro che un momento difficile. E' una condizione perenne. Uno status quo di squilibrio. Un'impasse.

Forse dovrei scrivere queste cose e mandarle ad Ella via email. Oggetto: file a caso. Respiro. Il mio divagare è estenuante.

“La mia psicoterapeuta dice che scrivere i miei pensieri potrebbe aiutarmi. Dice potrebbe, perché è evidente che nemmeno lei ne è convinta. Forse devo cambiare psicoterapeuta. Forse devo cambiare casa, città, stato, nazione. Forse devo cambiare faccia.

Sherlock.

Ecco l'ho scritto. Sei contenta? Merito una stellina sul registro, vero?”

Passo una mano sulla faccia. Non riesco a smettere di essere odiosamente sarcastico nemmeno quando scrivo. Rileggo. Cancello tutto. Riscrivo solo una parola.

“Sherlock”

Guardo per un po' il nome scritto nero su bianco. Mi do un minuto per assimilare quello che sento. Per capire. Credo sia odio. Aspetta, questo lo devo scrivere.

“Credo sia odio. Ah è odio, sicuramente. E' questo quello che provo. Un odio profondo e viscerale. Come hai potuto? Come hai potuto farmi questo e farti questo? Farci?”. Mi fermo. Farci?

Farci...

Voglio di nuovo piangere. Mi prendo la testa tra le mani. Ho freddo. Sono solo, seduto su uno sgabello scomodo nella mia cucina/stanza da ospedale, con una maglietta a maniche corte e i pantaloni del pigiama di un'altra persona. Una di cui non riesco nemmeno a dire il nome. Mi sento patetico. Sono patetico. Ah se lo sei. Il cursore lampeggia sullo schermo davanti a me. Anche lui sta aspettando. Tutti che aspettano. Tutti che si aspettano qualcosa da me. “John Watson, se la caverà”, “John Watson sta bene”, “John Watson è un medico stimato e professionale”, solo perché a lavoro indosso il camice e quello che ne deriva. E invece, non sono me. Se solo sapessero. Sono un medico, ma non sono più me. Sono quello che fingo di essere per gli altri, il bravo medico, attento, focalizzato, scrupoloso. Ma quello, non sono io. Invece, questo, questo sono io. Patetico, triste, perduto John. Solo nella mia cucina a scrivere e pensare cose a caso.

Sono distrutto.

Davanti ai miei occhi un'unica parola campeggia sul file bianco:

 

“Sherlock”

 

E il cursore lampeggia affianco alla k. Lampeggia. Lampeggia. Lo sposto. Vado a capo.

“Come hai potuto farlo? A me.”

A me. Rifletto. In fondo chi sono io? Chi sono stato io per te? In teoria il tuo unico amico. Parole tue. “Io non ho amici, ne ho solo uno”. All'improvviso un ricordo mi colpisce al petto forte, come se fossi stato investito. E' il profumo dell'erba di quel vecchio cimitero. Chiudo gli occhi, abbandono le mani sulla tastiera del pc. Ella ha ragione sull'olfatto. Ma non è il momento di pensare a lei. Concentrati John. Sei sicuro di volerlo fare? Si, voglio ricordare. Adesso. E' quel vecchio cimitero e l'erba ancora un po' bagnata dalla brina del mattino. Sono seduto sui gradini della chiesa e sto scrivendo qualcosa. Sono arrabbiato. Con te ovviamente. Sei stato il solito stronzo, egoista, figlio di puttana. In realtà ricordo bene che non stavo scrivendo niente. Scarabocchiavo per non pensare e mi sentivo anche piuttosto stupido per quella falsa pista che avevo seguito. E poi sei arrivato tu. Camminavi dritto, come sempre, elegante anche dentro un cimitero, col tuo cappotto, le mani in tasca ed una faccia mesta che poche volte ho visto sul tuo viso. Avrei comunque voluto prenderlo a pugni, sappilo. E invece ho deciso di ignorarti e andarmene. Non voler parlare con qualcuno non è proprio ignorare, comunque. E' piuttosto prendere una posizione. Sono arrabbiato, mi hai ferito, non voglio parlarti o permetterti di parlarmi. Questo vuol dire. E' tutto l'opposto dell'ignorare. John, siamo dalla stessa parte, non puoi essere in conflitto con te stesso. Mi hai fatto qualche domanda, hai cercato anche di essere simpatico. Ti ho detto che non ti si s'addiceva. Non era vero. Non sempre almeno. Mi sei venuto dietro, ho apprezzato. Poi ti sei aperto con me, hai cercato di spiegarmi la paura, il dubbio, quello che hai provato. Ma ero troppo arrabbiato, troppo. Ti ho dato le spalle di nuovo. Certo, sono stato un coglione comunque, anche io. Che razza di comportamento. E poi mi hai detto di avere un unico amico. Ti ho guardato e me ne sono andato, di nuovo.

Mi fermo a riflettere su questo punto del ricordo. Perché ho agito in questo modo? Osservo il muro.

Soffiava forte il vento.

 

“Io non ho amici, ne ho solo uno”. Forse uno era troppo poco per tenerti aggrappato alla vita. Non sono stato abbastanza, evidentemente. Tu non avevi amici, avevi solo me. Bel ringraziamento. Non mi sento lusingato adesso, questo è certo. “Ho solo un amico” e visto che tanto ho solo te, mi butto da un tetto. Dio, che cosa sto pensando. Non lo so. Non so più cosa pensare. Il ricordo svanisce, sono di nuovo solo.

 

Sono le 4:50. Tra poco sarà lunedì. E' già lunedì. Mi farò la doccia, mi vestirò, andrò all'ambulatorio, indosserò il camice e sarò quello che tutti si aspettano che io sia. Poi prenderò la metro e se pioverà tornerò a piedi. Mi siederò qui, e neanche mi asciugherò. Aprirò questo file e tornerò ad essere me. Me, solo per me.

 

Tu non ci sei più.

   
 
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