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Autore: shilyss    21/04/2018    13 recensioni
Ci sono legami che nemmeno Thanos con tutta la sua potenza può spezzare, trucchi e manipolazioni che solamente Loki può inventarsi, imprese e avventure che Thor non si stancherà mai di affrontare: non importa dove o quando: il tempo e lo spazio non significano niente, a volte.
Dal testo: Un guizzo, negli occhi verdi di Loki, avvertì Thor che la sua scusa ovviamente non era stata accettata. Il giorno prima, lo sprezzante ingannatore reinventatosi senza saperlo signore della guerra, non avrebbe saputo celare completamente il fastidio per quell’evidente trappola che gli veniva tesa. Ma adesso, nella calma serafica della lingua d’argento di Asgard c’era come una consapevolezza nuova, un disincanto amaro.
Una storia post Avengers: Infinity War totalmente immaginata e non spoiler.
- Storia partecipante al concorso "MCU ~ Stories of heroes, betrayals and unbreakable bonds" indetto da AleDic sul forum di EFP.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Loki, Thor
Note: Movieverse, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Oltre lo specchio

Oltre lo specchio

 

Loki era seduto con scomposta eleganza e lo fissava dall’alto in basso, come se tutta quella situazione non fosse che uno spregevole contrattempo, e la sedia di legno su cui aveva poggiato le terga non appartenesse a chissà che aula scolastica, come raccontavano i nomi e le scritte incise nel legno con punteruoli e inchiostro, ma fosse il più ricco dei troni, come era stato l’Hlidskjalf di Odino. Dalle labbra, piegate in una smorfia beffarda, pendeva mollemente una sigaretta, il cui fumo bluastro saliva verso la lampadina solitaria che gettava sui loro volti una luce livida, malata.

Thor si passò una mano tra i capelli biondi, sospirando. Da quante ore erano lì dentro, chiusi in quella fottuta stanza? Troppe, tante da averne perso il conto e riempito il posacenere di cicche; eppure lui era ancora lì, con quel sorrisetto divertito sulle labbra, il collo della camicia perfettamente inamidato, la bella giacca di ottimo gusto senza nemmeno una piega fuori posto. E quegli occhi, verdi e attenti com’erano sempre stati, fissi su di lui in impenetrabile attesa.

Gli girò attorno mentre quello che in un altro tempo, in un altro luogo, era stato il dio degli inganni, lo seguiva con lo sguardo, e fu in quel momento che il suo collega, ormai stanco quanto lui, rientrò nella stanza, chiudendo con un tonfo sordo e metallico la porta blindata. In mano aveva delle foto. Thor scosse la testa, non nascose un gesto di stizza. Il sergente Freeman aveva sbagliato clamorosamente strategia, anche questa volta. Si era convinto che l’ipotesi di un processo e della successiva galera avrebbero davvero terrorizzato Loki. Ignorava come una promessa ventilata, per quanto oscura fosse, non avesse alcun potere di scalfire la corazza fatta d’arroganza di suo fratello. Del resto, era diventato schifosamente ricco e si sarebbe potuto pagare qualsiasi cauzione; seppure fosse arrivato al processo, avrebbe trovato il modo di manipolare la stampa, corrompere la giuria e i giudici, creare una realtà alla rovescia dove lui era solo un giovane rampante il cui unico peccato evidente era di vivere e divertirsi. Ma il sergente a questa versione non credeva e, soprattutto, non aveva la misura del disordine che il dio dell’inganno, o quello che ne rimaneva, avrebbe creato.

Lo vide mostrare all’interrogato un mucchio di istantanee che ritraevano soggetti più o meno conosciuti lì al Distretto. Facce sbarbate e occhi truci che salivano o scendevano da macchine importanti, acquirenti provenienti dalle zone più disparate del mondo abbigliati con volgare ostentazione; i capi e gli accessori firmati su quei corpi sembravano aderire in maniera sgraziata, rivelando l’oscurità delle loro origini.

Loki tirò un’altra, lenta, boccata di fumo azzurrognolo e interruppe, finalmente, il contatto visivo con loro per degnare d’attenzione le fotografie. “Sono venuti tutti molto bene,” commentò serafico.

Thor osservò Freeman chinarsi sul tavolo, puntargli l’indice nodoso contro. “Sappiamo chi frequenti, quello che fai.”

“Come tutti,” ribatté il dio degli inganni, mentre una smorfia perfida si disegnava sulle belle labbra sottili. “Ma se queste sono le vostre uniche prove,” sorrise cercandogli gli occhi, “temo che stiate decisamente sprecando il vostro tempo.”

Irritante. Loki era sempre stato fin troppo abile nel provocare il suo prossimo. Si divertiva immensamente a tirare fuori dai suoi interlocutori reazioni scomposte e fuori controllo, incurante delle conseguenze che i suoi comportamenti avrebbero potuto portare a lui per primo. Un tempo, lo avrebbe rimproverato per questo atteggiamento come il fratello gli rinfacciava l’irruenza e l’eccessiva spavalderia con cui si lanciava in battaglia. Quante vite prima era successo?

 “La tua redditizia attività,” ironizzò il sergente, insistendo nel suo inutile tentativo di piegare l’interrogato, “ti porterà a invecchiare in cella o a farti ammazzare dai tuoi presunti amici. Propendo per la seconda,” tentò di spaventarlo. Era anziano e vicino alla pensione e credeva di aver già visto uomini come suo fratello. Aveva ragione e non ne aveva.

Loki gli regalò un ghigno sfrontato e Thor, dietro il suo superiore, non poté fare a meno di piegare le labbra in un sorriso mesto, perché conosceva bene quella reazione e ciò che ne sarebbe scaturito.

“Ma che gentile,” lo sentì ironizzare, “ti preoccupi per me, hai a cuore il mio futuro. Sono colpito, davvero,” rise. La reazione dell’altro non tardò ad arrivare. Gli afferrò il colletto della camicia, offeso dalla sua irriverenza.

“Tu non hai futuro, stronzo arrogante”, gli alitò contro. “Ti sbatteremo in una cella, ti leveremo quel sorriso dalla faccia. Ti credi furbo, ma per quanto tu ti sia guardato le spalle, hai lasciato il fianco scoperto. Se non saremo noi saranno loro, te lo ripeto.”

Loki non si scompose né mosse. Inghiottì l’offesa, e quando riprese a parlare lo fece con lentezza, scandendo bene ogni sillaba affinché la sua frase si conficcasse come un pugnale nella carne del sergente.

“Sono solo parole, le tue,” soffiò con evidente sprezzo.

Imprecando e vincendo a stento l’impulso di spaccargli il naso con un pugno, Freeman si voltò e se ne andò, chiudendo nuovamente la pesante porta di ferro dietro di sé. Thor lo seguì con lo sguardo, soffermandosi sul punto in cui il sergente era sparito dalla sua vista. Fu in quel momento che, inaspettatamente, Loki parlò.

“Tu non ne sei altrettanto sicuro, non è vero?” domandò beffardo. “Tu credi che me la caverò” specificò rispondendo alla sua domanda muta, scoprendo i denti bianchi.

C’era qualcosa di dolciastro, nella voce di quello che in un’altra vita, un altro tempo, era stato suo fratello. Forse era il ricordo, che sapeva di miele, di una familiarità perduta, tornata improvvisamente a galla ora che l’antico dio dalla lingua d’argento si era rivolto a lui. Ed era vero: Thor dubitava che esistesse un modo per incastrare Loki senza dolore, sofferenza e spargimenti di sangue; e se anche fosse riuscito a fermare le sue losche attività, avrebbe potuto tarpare per sempre quell’indole votata al caos? Si voltò lentamente verso di lui, ancora seduto con principesca regalità sull’umile sedia, e provò a ricordarlo com’era un tempo: la giacca che calzava a pennello lasciò il posto al mantello verde cupo, le scarpe scure di vitello italiano agli stivali neri, la camicia ben inamidata alla casacca verde e oro.

“Fuggiresti,” ammise infine Thor.

Per un momento, Loki parve colpito da quella risposta. Lo squadrò dall’alto in basso, valutando il peso della sua affermazione. Infine sorrise, tirando l’ultima boccata alla sigaretta ormai consumata. “Hai una grande stima dei tuoi colleghi carcerieri, vedo. Ma sei più pragmatico del tuo amico. Mi piaci,” decise infine, inclinando leggermente la testa da un lato come per scrutarlo meglio.

“Ti sbagli, non è mancanza di fiducia,” lo corresse il tonante. “È solo che, alla fine, le manette non potrebbero placare la tua sete di libertà. La prigionia sarebbe la tua tomba, ti spegnerebbe. Faresti di tutto per uscire.” Il ricordo volò via a un tempo lontano, a una condanna gridata da un padre infuriato, alla cella distrutta dopo un dolore troppo grande.

“Suona come la reazione di un uomo davvero disperato, in effetti” commentò Loki con un ghigno.

“Se sapessi di non poter uscire mai più, se avessi la certezza che nessuna cosa, nessuno stratagemma, nessun inganno, nessuna bugia potrebbe tirarti fuori da quelle quattro mura, ho la certezza che la disperazione prenderebbe il sopravvento su di te. Ti conosco più di quanto tu non conosca te stesso,” confessò.

“Tu credi davvero?” Loki rise sulla sedia di legno.

Negli occhi verdi scintillò per un attimo un bagliore conosciuto, un guizzo divertito del tutto scevro da quell’aria di strafottente alterigia che aveva caratterizzato il fratello perduto per tutte quelle ore. Parve anzi a Thor di scorgere, in quello sguardo di solito duro come la pietra, la luce giocosa e divertita che aveva talvolta il dio degli inganni quando era ragazzo e Midgard ancora giovane, e loro due giocavano e scherzavano assieme, fantasticando delle loro future avventure. A quel tempo, probabilmente, le Norne avevano già filato il destino terribile di entrambi; il Ragnarok e i suoi oscuri presagi forse iniziavano a profilarsi all’orizzonte, come un temporale ancora lontano destinato a spazzare via l’estate. Il ricordo della bella risata da ragazzo di Loki si confuse con le grida degli Aesir, con le fiamme di Muspellheim, con la rovina e la morte di Asgard; il figlio di Odino provò una fitta di dolore nel petto, per quell’orrore che doveva tenere dentro di sé senza poterlo condividere con nessuno, nemmeno con colui che al suo fianco, nel bene o nel male, aveva passato di tutto.

E se avesse ceduto a quel bisogno così umano di doversi aprire con qualcuno, parlare del passato, rievocare la meraviglia che era stata Asgard? Se Loki avesse ricordato chi era e cosa era stato, nei suoi occhi troppo verdi Thor avrebbe scorto la magnificenza dell’oro della città degli Aesir, e Asgard sarebbe rivissuta una volta ancora, nei loro ricordi; la voce del dio degli inganni avrebbe saputo raccontare la reggia di Odino in ogni suo dettaglio, tanto che se avesse potuto chiudere gli occhi al suono di quella voce incantata, il dio del tuono avrebbe potuto percorrerne ancora una volta ogni stanza, corridoio, angolo. Ma se Loki avesse recuperato la memoria perduta, avrebbe anche trovato il modo di riappropriarsi del seidr: e il giorno che l’avesse avuto, nessuna cosa se non il Mjollnir ormai perso avrebbe potuto fermare la distruzione e il caos che il dio degli inganni avrebbe portato inevitabilmente con sé.

 

Ci sono scelte che sono troppo difficili da fare: anche se si è, o si è stati, Thor Odinson. Finché non avesse saputo come recuperare il martello, il dio del tuono non poteva che aspettare, senza rivelare al fratello ritrovato nulla del passato fuori dal tempo che li univa. Non era facile, purtroppo, poiché a volte, come in quel momento, gli mancava Loki e lottava contro se stesso per cercare di resistere all’impulso di dirgli la verità. Ma cosa sarebbe successo, se gli avesse raccontato finalmente tutto? L’altro lo avrebbe squadrato da capo a piedi con un sopracciglio alzato e una smorfia di patetico disgusto sulle labbra sottili, ridendo di lui e chiamandolo pazzo. Oppure, avrebbe ricordato. In entrambi i casi, Thor sapeva che non sarebbe stato un momento privo di tensione, tutt’altro.

Ora, però, non poteva far altro che osservare l’impero del male costruito con poche, perfide mosse da Loki. Di fronte a lui, all’oscuro di tutto, la lingua d’argento di Asgard lo fissava con i suoi occhi brillanti, senza perdersi nemmeno una delle sue mosse: erano le occhiate che suo fratello era solito riservare a coloro che stava studiando, di cui non si fidava. E il dio degli inganni non si fidava di nessuno, a parte due eccezioni che confermavano la regola. Mai, nella lunga vita che avevano passato assieme ad Asgard, Loki lo aveva scrutato in quella maniera attenta e così penetrante da dare l’impressione, persino a lui che lo conosceva da sempre, che i suoi occhi potessero guardare fin dentro la sua anima, e si sentì a disagio per questo. E se avesse già recuperato la memoria di Asgard, si domandò Thor di fronte a quello sguardo inquietante; se questo non fosse che l’ennesimo scherzo di suo fratello?

Possibile, anzi, probabile, macché: scontato. Immaginò il divertimento sottile che avrebbe provato Loki, che forse stava gustando già in quel momento, dissimulandolo sotto quel sopracciglio alzato e la smorfia leggera che aveva stampata sulle labbra. Non poté resistere dal sondare se quel tarlo fosse giustificato o meno. Sospirò sonoramente, cercando le parole adatte da dire per non destare sospetti e, allo stesso tempo, insinuare eventualmente il dubbio in suo fratello, contrariamente a tutto quanto aveva deciso fino a poco prima.

“Ho come l’impressione che ci siamo già scontrati, io e te” disse, ma se ne pentì immediatamente perché quella frase, che nella sua mente gli era parsa neutrale, ora sembrava carica di significati reconditi. Fissò Loki, cercando ogni segno, anche il più insignificante, che svelasse la verità che si celava dietro il suo viso affilato. 

“Viviamo nella stessa città, frequentiamo le stesse brutte compagnie, detective” replicò quello con un’alzata di spalle, alludendo alle foto ancora sparpagliate sul tavolo. “Chissà,” continuò stirando la schiena, “magari hai ragione. Prova a ricordare dove, la prossima volta.”

Neutrale. Fottutamente, orribilmente neutrale, come solo Loki sapeva essere. Si alzò, poiché ormai sapeva che non avrebbe potuto cavare da lui un ragno dal buco, ma prima di uscire dalla pesante porta blindata si fermò sulla soglia, esitante.

“Con i guerrieri di Svartlfheim hai fatto davvero un grande lavoro,” disse.

Sperò che rispondesse. Strinse il pugno finché non gli fecero male i palmi, fantasticando che ricordasse perché, in fondo, quella solitudine in cui era precipitato era troppo dura da sopportare. Se anche Loki fosse tornato come dio delle astuzie e degli inganni, se avesse ancora seminato il caos come aveva fatto nei tempi lontani, Thor avrebbe avuto comunque qualcuno con cui condividere il ricordo della perduta Asgard dorata, della gelida Jotunheim e di tutti i Regni che senza il Mjollnir non avrebbe potuto più visitare e che sapeva esistere ancora, lì nel firmamento splendente.

L’ingannatore aggrottò la fronte, si mosse sorpreso sulla sedia. Non colse il riferimento, non riconobbe quel nome straniero e quasi impronunciabile. Si sentì braccato, però, incastrato in una situazione di cui stava lentamente perdendo il controllo e questa cosa non gli piacque, affatto. Non era intuito né memoria di una vita precedente, perduta e dimenticata, ma solo la strisciante sensazione che il detective di fronte a lui volesse tendergli una qualche trappola e, cosa ancora peggiore, fosse a conoscenza di qualcosa che lui ignorava.

 “Non so proprio di che parli” soffiò tra i denti. “Voglio chiamare i miei avvocati.”

 

 

Un abuso di potere. Quel maledetto detective voleva ingannarlo con uno di quegli stupidi, ridicoli giochetti da serie TV del venerdì sera di cui avrebbe potuto recitare a memoria il copione. Tra un’ora o tre o quattro, gli avrebbe sbattuto in faccia una scusa patetica: non era riuscito a mettersi in comunicazione con lo studio legale, i suoi avvocati erano stati abdotti misteriosamente da una nave aliena. Tutte idiozie per prevaricare un suo stramaledetto diritto e tenerlo confinato lì, in quella cella che puzzava di detergente scadente e muffa. Si tolse la bella giacca di Gucci, si abbassò a sedersi sulla branda cigolante. Meno di ventiquattr’ore. Doveva resistere ancora solo per meno di ventiquattro maledette ore, poi lo avrebbero dovuto rilasciare per forza perché non avevano niente di concreto in mano, nulla: solo prove sparse, indizi troppo flebili perché un’accusa potesse scagliarglisi contro. Fissò le grate e si accorse di stare sudando freddo, come se il reticolo di ferro gli suggerisse un presagio oscuro, incomprensibile. Respirò con lentezza: è solo una formalità, mormorò tra sé, il tentativo di un uomo frustrato e miserabile di incastrarne uno più potente e punirlo per il suo successo. Una vendetta, nient’altro, questo è il prezzo da pagare per lo sfarzo che lo circondava, per le modelle dalle gambe lunghe e sottili cui si accompagnava, per le ville sparse e le macchine spettacolari che guidava.

Poteva concedere, a quel detective che in un delirio di onnipotenza pretendeva di conoscerlo più di chiunque altro, un’altra mezza giornata di gloria? Farlo crogiolare nell’illusione che ci sarebbe stato un processo e avrebbe avuto onori e applausi, neanche fosse stato un guerriero antico? Gli occhi verdi, mobili e aguzzi, di ciò che era rimasto di Loki Laufeyson vagarono inquieti sul lavandino sbeccato davanti alla branda, sullo specchio rettangolare opaco, sulla finestra piccola e lontana, sul muro scrostato e, infine, si soffermarono di nuovo sulla porta della cella e sulle grate. No, maledizione, no. Non poteva resistere: era come se una furia ancestrale gli rendesse quello spazio insopportabile, stimolandogli una claustrofobia ridicolmente ingiustificata. No, non sarebbe stato condannato; avrebbe mentito e ingannato affinché il giudizio gli fosse favorevole e, nel giro di qualche mese, avrebbe dimenticato quella storia per sempre. Ma allora perché gli tremavano le mani al pensiero di essere stato rinchiuso, di nuovo?

 

Il pensiero gli attraversò la mente in maniera quasi dolorosa, ma senza trovare nessun corrispettivo nella sua memoria. Non era mai finito in un distretto di polizia o, peggio ancora, in una cella; non soffriva di nessuna paura particolare, né era a conoscenza di qualche trauma sepolto nell’infanzia. Eppure qualcosa, nella sua testa, gli suggeriva che si sbagliava: una voce, un’allucinazione che non sparì nemmeno quando infilò letteralmente la testa sotto il getto d’acqua fredda del lavandino. Era già notte, ormai. Le luci si erano spente da un paio d’ore e sulla branda disgustosamente cigolante non riusciva a dormire. Si ero messo in testa che il suo disagio non dovesse trasparire in nessun modo ai poliziotti di turno, perché non desiderava affilare lui stesso le armi di quel gran bastardo del detective. A un tratto, però, l’oscurità iniziò a prendere forma. Le ombre si allungarono, si incrociarono, fino a congiungersi in una figura che pareva quasi umana. Si alzò di scatto battendo le palpebre. Sperava, forse, che quell’immagine si dissolvesse di fronte ai suoi occhi e l’allucinazione sparisse. Ma quando li riaprì, vide invece che la zona buia aveva assunto quasi la forma di una sagoma, che sulla testa si allungavano come due lunghe zanne, anzi no, corna. Un elmo, del colore dell’oro, ecco cos’era, e intravide nel buio abiti di velluto, cuoio e placche di metallo Due occhi, brillanti come smeraldi, gelidi come ghiaccio, lo fissavano divertiti; un sorriso sghembo su un viso affilato, così simile al suo, si prendeva gioco di lui; i capelli, scuri e scarmigliati, gli ricadevano sulle spalle. Era ancora avvolto nell’oscurità.

“Chiedimelo,” ordinò l’ombra con voce tagliente.

Si stropicciò le palpebre e poi, spinto da una forza che non riconobbe come sua, sentì la sua voce domandare. “Chi sei tu?”

“Io sono te” rispose pronta l’apparizione con un ghigno. “Ho dormito per lungo tempo, ho attraversato molti luoghi. Ma finalmente mi hai svegliato, ti sei svegliato.”

“Chi sei tu?” domandò ancora, con una punta di disperazione nella voce, vincendo l’irresistibile impulso di tempestare la porta della cella di pugni, chiamare le guardie, farsi portare via, lontano da lì, nella luce calda e confortevole dell’infermeria.

“Io sono Loki, il dio degli inganni e dell’astuzia. Porto il caos ovunque vada. Mio era il compito di aiutare gli Aesir quando erano in difficoltà; mio il compito di turbare la quiete che regnava su Asgard e sui Nove Mondi. Mio il compito di scatenare con i miei poteri e i miei inganni, il Ragnarok, gettando la tiara di Surtur nella Fiamma Eterna. Mi sono liberato dalle mie catene impossibili da distruggere, dal veleno del serpente che corrodeva la mia carne di Ase e, al timone di una nave rubata, dalla lontana Sakaar con un esercito indegno ho raggiunto Asgard. E lì, come filato dalle Norne, il tempo degli Aesir è giunto, il Crepuscolo degli dèi è iniziato e si è concluso con l’oscurità scaturita da Hela e che tutti noi ha inghiottito. Odino e Fenrir, Thor ed Heimdall e, infine, persino io.” L’ombra si accigliò, il suo sguardo si perse nel vuoto tentando di recuperare un ricordo perduto, sbiadito, lontano. “Fu il Titano,” decise soffiando appena il nome proibito dalle labbra.

“Perché sei qui?” tremò l’altro, mentre la lucida consapevolezza di non essere in grado di chiamare aiuto, ma solo di ascoltare, si faceva strada nella sua mente annebbiata dalla paura.

Il dio degli inganni fece una smorfia. “Noi Aesir siamo morti, il tempo di Asgard si è compiuto, è finito. Eppure, le nostre anime non si sono annullate nello scontro con il Titano. Hanno continuato a vivere, come piccole scintille nel buio, in questo mondo così misero e meschino. A volte, ci siamo svegliati. Altre, abbiamo semplicemente dormito, la nostra essenza è rimasta sopita.”

L’ombra fece un passo verso di lui e di nuovo sorrise, ma stavolta egli vide che il dio degli inganni aveva delle piccole cicatrici intorno alle labbra.

“Ma tu, proprio tu mi hai svegliato. Facendoti rinchiudere in questa cella, tramando per uscire, disperandoti per la mancanza di libertà, hai rievocato desideri che furono anche i miei. È in virtù di questa condivisione che mi vedi qui, ombra di fronte a te, pronto a recuperare ciò che fu mio appannaggio.”

Si era guardato allo specchio per tutto il tempo.

 

 

 

Il bicchiere d’acqua poggiato sul tavolo gli fece pensare che avrebbe desiderato ci fosse un corno d’idromele, al suo posto. Gli avrebbe bagnato la gola con il suo sapore acre e intenso e sapeva di Asgard, di casa. La porta si aprì cigolando e Thor gli si sedette davanti. Indossava un impermeabile stazzonato e fradicio di pioggia, sotto il braccio teneva un fascicolo da cui spuntava qualche foglio stropicciato, in una mano reggeva una tazza di caffè.

“Dormito bene?” gli chiese senza guardarlo in viso.

Loki Laufeyson si inumidì con lentezza le labbra sottili, beffarde. Il primo istinto fu quello di spaccargli la faccia su quel tavolo e chiedergli perché e quanto gli era costato, quell’atto sconsiderato. Si accorse di tremare e poggiò le dita eleganti, di mago, sulla superfice ruvida del tavolaccio. Non era il momento di rivelarsi, non ancora. Doveva capire le intenzioni di quello che in un altro luogo, in un altro tempo, aveva chiamato fratello e crogiolarsi nel goffo tentativo che Thor stava mettendo in atto: qual era il fine, lo scopo di quella pagliacciata?

“Come un re,” ghignò sollevando leggermente il mento.

 

La risposta attirò l’attenzione del tonante. I suoi occhi blu si soffermarono un istante di troppo nei suoi, i sensi all’erta, suggerendogli per un solo istante l’idea che l’ingannatore fosse tornato. Gli squadrò il viso pallido, tentò di decifrare il leggero sorriso che gli piegava le labbra sottili. Che differenza c’era, tra il fratello che aveva combattuto con lui e contro di lui e quell’uomo tronfio e sicuro di sé? Il giorno prima, durante l’interrogatorio, gli era sembrato che l’aderenza tra il prima e il dopo fosse qualcosa di perfettamente combaciante eppure profondamente diverso. Il rampante trafficante senza scrupoli – perché questo era diventato Loki –, aveva nascosto il disagio di trovarsi lì e, soprattutto, mascherato abilmente la paura sotto una coltre di palpabile indifferenza e palese sprezzo. Adesso, invece, Thor era quasi pronto a giurare che Loki non lo temesse affatto né fosse particolarmente colpito dalle carte inumidite che aveva posato accanto a sé. Del resto, il dio dell’inganno lo aveva raggirato e contrastato persino quando stringeva ancora tra le dita il Mjollnir, non risparmiandogli in nessuna occasione le sue battute pungenti, irriverenti, gonfie di sarcasmo, a volte di tristezza. Gli allungò un pacchetto di sigarette mezzo vuoto. Loki ne estrasse una quasi con circospezione, Thor sfilò rapido dalla tasca l’accendino e lo fece scattare mentre l’altro si sporgeva verso di lui. Lo vide saziarsi di quella prima boccata, la migliore, e sederglisi sfacciatamente davanti con il suo solito piglio arrogante.

“Proseguiamo con questa farsa, detective?”

“Credevo che una notte al fresco ti avrebbe reso più, come dire? Collaborativo, ecco,” prese tempo Thor.

L’ingannatore, o ciò che ne rimaneva, ghignò divertito, diede un’altra lenta boccata alla sigaretta, si sistemò meglio sulla scomoda sedia di legno.

“I miei avvocati. È un mio diritto. Dove sono?” lo incalzò.

“Non possono venire, stamattina. Forse più tardi, nel pomeriggio,” mentì in fretta.

Un guizzo, negli occhi verdi di Loki, avvertì Thor che la sua scusa ovviamente non era stata accettata. Il giorno prima, lo sprezzante ingannatore reinventatosi senza saperlo signore della guerra, non avrebbe saputo celare completamente il fastidio per quell’evidente trappola che gli veniva tesa. Ma adesso, nella calma serafica della lingua d’argento di Asgard c’era come una consapevolezza nuova, un disincanto amaro che gli fece schiacciare nel posacenere la sigaretta ancora a metà dopo solo un paio di boccate distratte, come se il vizio terrestre gli fosse diventato improvvisamente insopportabile o non necessario.

E così era, in effetti, perché Midgard è un atomo opaco di male, un puntolino celeste nella vastità di un universo in pezzi che esiste ancora solo perché, in mezzo al fuoco e alla distruzione di una guerra assoluta, a Loki era venuta in mente un’idea pericolosa, ma brillante. L’aveva sibilata a suo fratello, che non sapeva se levare la sua arma con o contro di lui, come sempre. Ricordò vagamente di aver sorriso, mentre pronunciava le frasi che avrebbero contribuito a salvare l’universo e concluso definitivamente la sua – la loro – vita.

 

***

Sarebbe stato il suo ultimo inganno. L’atto finale di una tragedia che li avrebbe definiti come i protagonisti fieri e indiscussi di una lotta sproporzionata e impossibile anche solo da considerare, ma che in fondo sarebbe stato bello poter combattere. Non lo aveva fatto per vendicare Asgard, né per tendere un’ultima volta la mano a quel fratello amato e combattuto una vita intera con cui aveva giocato, combattuto, sofferto, riso. L’unico frammento di una famiglia sgangherata del cui affetto non aveva dubitato mai, neppure quando avevano incrociato le armi, nemmeno dopo che il vetro spesso di una prigione li aveva divisi.

“Da che parti stai, adesso?” Thor lo aveva guardato con l’unico occhio che gli era rimasto, in allerta. Non assomigliava a Odino nemmeno con quell’aspetto. Lo sguardo di Padre Tutto era stato rapace, gelido, carico di una sottesa ironia che era venuta meno solo sulla scogliera midgardiana di un luogo chiamato Norvegia e assomigliava vagamente ad Asgard, la bellissima e perduta patria degli Aesir dispersi.

La pupilla del dio del tuono, invece, aveva la durezza di un guerriero, ma continuava a essere illuminata dalla meraviglia dell’innocenza. Loki si era ritrovato ad ammirare nel viso del fratello quella che in passato aveva chiamato all’occorrenza ingenuità, stupidità, indifferenza persino. Intorno a loro, l’Universo tremava.

“Dalla mia. L’unica possibile, la sola che ha senso,” aveva risposto allargando le braccia. Tra le dita agili stringeva una coppia di pugnali affilati, scintillanti. Armi adorate e preferite su tutte, che teneva sempre addosso e ora, si rese conto fissando il bicchiere d’acqua e il posacenere con il mozzicone dentro, gli mancavano disperatamente. Cos’era successo? La memoria ancora aggrovigliata, a fatica lo riportò indietro nel tempo, lontano da Midgard e da quella stanza spoglia con le pareti scrostate.

Le galassie erano in fiamme, le Gemme riunite, Thanos più potente che mai. “La tua? Che significa?” tuonò Thor, incapace di dimenticare l’inevitabile sollievo provato quando lo aveva visto correre in suo aiuto, terrorizzato dai repentini mutamenti di quel suo fratello sfuggente e inafferrabile, sarcastico e ambiguo.

 

Loki aveva ancora addosso i segni della punizione del Titano. Lo zigomo escoriato e la fronte appena sfregiata ne accentuavano la bellezza feroce, la pericolosità: a cosa aveva dovuto rinunciare, per avere salva la vita? Quante verità aveva confessato, menzogne inventato, per godere di un’occasione, una soltanto, per essere di nuovo sul campo di battaglia? Lo vide muoversi con eleganza sulla terra ricoperta di macerie e resti di altri combattimenti, avanzando sicuro con il passo lieve con cui aveva attraversato la sua vita breve, ma complessa, contorta come i ragionamenti dietro cui si perdeva.

L’ingannatore arricciò le labbra in una smorfia leggera, roteò i pugnali tra le dita agili. Avrebbe voluto parlargli di Thanos, forse. Confessare cos’era per lui e quante volte aveva pensato al suo nome con terrore, ma ritenne che il Titano avesse già mostrato se stesso all’arrogante fratello, e valutò una risposta diversa, più vera e sincera, probabilmente. Provò a spiegargli il caos, allora. Quella caratteristica che era rimasta appiccicata al suo nome, suggerendo e rivelando una parte del suo spirito che non poteva essere domata né controllata. La sfolgorante e cruda neutralità che caratterizzava ogni suo gesto, pensiero, respiro.

“Se ti dicessi che combatterò per l’Universo, la pace, la giustizia, sarei nient’altro che un terribile ipocrita, fratello. Un derelitto senza più nulla in mano, che si sciacqua la bocca con termini altisonanti. Che vuol dire, salvare l’Universo? È poi davvero giusto farlo?” i suoi occhi vagarono nella desolazione di quello spicchio di terra lontana e dimenticata, ammirandone la bruttezza. “Chi siamo noi, per decidere che il progetto di Thanos è sbagliato?”

Thor imprecò, calciò via l’elmo spaccato e riverso a terra di un soldato morto chissà quando. Non desiderava stare a sentire le farneticazioni prive d’importanza di Loki. La sua lingua bugiarda avrebbe saputo irretirlo, confonderlo, raggirarlo, e il tonante si sarebbe ritrovato solo e beffato su quello spiazzo desolato, le spalle tragicamente scoperte. L’eco della risata del dio degli inganni gli avrebbe ferito le orecchie confermandogli quello che già sapeva: non si sarebbe fatto scrupolo alcuno di infilargli i pugnali dritti nella schiena, all’occorrenza. Gli gridò di stare zitto e di combattere.

Loki scosse il capo desolato, divertito. “Voglio che tu capisca perché lo faccio, perché questa è, ragionevolmente, la mia ultima battaglia, Thor.”

A volte la voce arrochita di suo fratello aveva una nota dolce, comprensiva, consolante decise il dio del tuono. Abbassò l’arma che stringeva tra le dita, mero surrogato del perduto Mjollnir, colpito dal tremore quasi impercettibile nascosto in quel ragionevolmente, stupito dalla sfumatura di azzurra tristezza che aveva velato lo sguardo altrimenti sempre ironico di Loki.

C’era un’urgenza, in quegli occhi, mai vista o riconosciuta, perché Thor era stato molte cose, nella sua vita, ma in fin troppe occasioni si era rivelato superficiale, disattento, come quando era stato incapace di vedere la tragedia che consumava la Casa di Odino. Si chiese se Loki avesse avuto quell’espressione anche quando si era recato nella gelida Jotunheim offrendo, ai Giganti di Ghiaccio, il segreto del nascondiglio che collegava il loro mondo, oscuro e impietoso, alla fertile Asgard. Inutile domandarselo, adesso. Mezzo universo sarebbe stato spazzato via, l’altra metà avrebbe finito per appartenere al Titano e loro erano lì, su quel pianeta morto e funestato dalla guerra. Non aveva importanza rievocare scontri e tradimenti, dolori e vendette. Erano stati avversari, ma anche e soprattutto alleati. Loki poteva svanire da un istante all’altro dalla sua vista rivelandosi solo l’ombra beffarda di un corpo nascosto chissà dove, sarebbe stato capacissimo di tradirlo e rifugiarsi in qualche anfratto perduto dove avrebbe continuato a sopravvivere, ma queste non erano le uniche alternative che aveva, su cui oscillava. Glielo disse il sorriso appena accennato delle sue labbra sottili e beffarde, il modo lento in cui gli si avvicinava, l’aria scarmigliata, anche.

Thor deglutì. “La nostra. La nostra ultima battaglia. E puoi fare la differenza,” puntualizzò tendendogli idealmente la mano lontana.

 

 

Il dio dell’inganno e delle beffe parve valutare quel gesto come aveva fatto in un altro luogo, in un altro tempo, quando quello stesso fratello gli aveva offerto a muso duro la possibilità di una vendetta necessaria. Mentiva, ovviamente. La decisione era già stata presa, l’ago della bilancia inesorabilmente pendeva da un lato. Morire liberi è meglio che morire da schiavi, e il Titano non si circonda che di questo: sgherri compiacenti, servitori zelanti. Loki era nato per essere Re, non per crepare come un qualunque vassallo in una galassia dimenticata.

“Combattere per un alto fine,” rifletté ad alta voce come se la decisione non fosse già stata presa, “non è qualcosa che mi appartiene. È vuota retorica, nient’altro. Non c’è più niente, nessuno per cui valga la pena sacrificarsi. Non avremo spettatori che canteranno le nostre battaglie, non verremo ricordati come i salvatori dell’Universo e, francamente, è anche piuttosto indubbia la riuscita del nostro eventuale piano,” puntualizzò. “Affrontarlo oggi è follia” ammise.

Forse sarebbe dovuto tornare da Thanos e lasciare che Thor compisse il suo destino di eroe senza macchia né paura; l’ago della bilancia poteva ancora oscillare dalla parte opposta a quella dove ora pendeva e Loki avrebbe avuta salva la vita, almeno per un po’. Solo che qualcosa lo frenava inchiodandolo lì, tra il fango e le placche spezzate e arrugginite di armature sconosciute e sbeccate. Non era solamente l’idea che il merito di una remotissima vittoria di suo fratello sarebbe andata solo a lui, a bloccarlo e a irritarlo, ma qualcosa di diverso: un pensiero più subdolo e ingiusto che gli grattava le viscere e il petto dall’interno. Se Thor sceglieva di farsi ammazzare combattendo contro Thanos in persona, lui non poteva rimanere lì a guardarlo impugnare le armi da solo. L’idiota si sarebbe sacrificato in maniera stupida, ridicola, inutile, e a lui sarebbe toccato raccogliere i cocci di quell’azione priva di discernimento. Eppure, nel momento decisivo, mentre il dio del tuono gli offriva per l’ennesima volta la mano, esitò.

In passato, Thor avrebbe accusato Loki di essere un vigliacco, di non avere il coraggio di lanciarsi nella mischia. Avrebbe confuso la ragionevole prudenza con la paura. L’erede di Odino non sarebbe ricaduto più in un errore tanto banale, ma su quel campo di battaglia distrutto e sconquassato s’innervosì ugualmente, perché detestava pregare e corteggiare suo fratello. L’inganno ai suoi occhi era stato rivelato, Loki voleva vendicarsi di Thanos e non ci teneva a venire calpestato come un subalterno qualsiasi. Preferiva lottare da principe degli Aesir offeso, che strisciare nel fango.

“Meritare il Valhalla, Loki. Sistemare le questioni in sospeso che hai,” gli suggerì dando alle parole un’urgenza nervosa, una durezza da comandante che l’altro decisamente apprezzò e ben conosceva.

Lo sguardo di Lingua d’Argento si scostò dal suo e vagò sulla terra brulla, sul fango intervallato dalla roccia, sui resti di armi e ossa e cuoio. Il Valhalla era qualcosa cui Loki aveva rinunciato, che aveva deciso di depennare dalla sua esistenza e non gli sarebbe comunque spettato, perché le regole che ne determinavano l’accesso le aveva disattese e infrante, tutte. Solo i grandi guerrieri e gli eroi potevano accedervi. Una volta dentro, avrebbero brindato con il migliore idromele, rievocando le battaglie che li avevano visti protagonisti. Retorica vuota, insipida, che alle orecchie di Lingua d’Argento suonava falsa più della sua peggiore menzogna.

“Ne ho decisamente troppe fratello, mi spiace,” scosse la testa.

“Andartene da eroe, maledizione!” esplose Thor. “Sai qual è la cosa giusta! Non saresti qui, altrimenti!”

Gli eroi, avrebbe voluto spiegare a Thor, al suo ingenuo e irresponsabile fratello, sono la favola che i potenti raccontano agli sciocchi prima di mandarli al macello. La scusa con cui riempirsi la bocca per giustificare atti indegni che, se solo fossero stati guardati con più attenzione – o da una diversa prospettiva – sarebbero apparsi per ciò che erano: gesti nefandi, violenti, che trovavano una ragion d’essere solo nell’eterna prevaricazione del forte nei confronti del debole. La storia e i poemi epici sono scritti dai vincitori, fratello, e quelli che chiamiamo eroi spesso non lo erano affatto o sono morti male, perché ricorda, Thor, tieni a mente questo: il vero eroe alla fine muore, muore sempre, e io non voglio crepare, non ne ho nessuna intenzione, e nemmeno tu dovresti.

Ma il dio dell’inganno scelse di dirgli altre parole e, poiché erano le ultime che si scambiavano e lo sapeva, scelse di usare un tono distante, frettoloso, per nulla adatto alla circostanza. Così si esorcizza la paura, tra gli Aesir: ignorando il pericolo, beffandosi delle asperità, alleggerendo la tensione, forse.

 “Eroe,” gli fece eco Loki accostandoglisi finalmente. “Ho una mia personale teoria, che non ci sono eroi e mostri in questo mondo. E neanche negli altri. Esistono solo individui imperfetti governati da passioni più o meno lecite, vizi e virtù. Un Universo abitato da gente discutibile, insomma,” sentenziò roteando i pugnali affilati, lucidi e scintillanti.

Thor si fermò un istante a guardarlo, aggrottò la fronte. “Allora perché stai dando la tua vita per loro come un eroe?” domandò alzando finalmente l’ascia.

Il dio dell’inganno buttò il capo all’indietro e rise di gusto, come era solito fare ai banchetti di Odino quand’erano ancora ragazzi. Nel pianeta distrutto e vicino al collasso, quella risata suonò inadatta e strana. “La bellezza sta nell’imperfezione, nel caos, nel disordine,” spiegò.

Thor annuì e Loki gli espose di nuovo il piano folle che aveva architettato per vendetta, rivalsa, giustizia e mille altre cose, ma soprattutto per se stesso, e per lui, forse.

“Devo essere davvero disperato, per aver accettato questa tua idea deficiente,” commentò sconsolato.

Loki ricordò di aver sorriso. “Quando iniziamo?”

 

***

 

Il mozzicone sigaretta aveva smesso di esalare il suo fumo amarognolo. A Thor sembrò che lo sguardo di suo fratello fosse tornato a essere come il suo, antico e consapevole come chi ha vissuto secoli, giovane e fresco come chi ha davanti a sé ancora tanti anni da vivere da dirsi quasi immortale.

Lingua d’argento sorrise. “Allora, detective, quando iniziamo?” domandò inclinando appena il capo da un lato.

Il dio del tuono impallidì sentendo quella frase, osservando il modo in cui l’altro l’aveva pronunciata. Gli ricordò un’altra prigione, ma soprattutto un diverso e decisivo momento. Si riscosse. “Facciamola finita, adesso. Hai avuto il potere, il denaro, ogni cosa. Patteggia, aiutaci a smantellare lo schifo in cui ti sei immischiato. Fai la cosa giusta.”

Loki finse di sorprendersi per l’improvvisa richiesta e si accomodò meglio sulla sedia. “Vuoi che faccia l’eroe? Lascia che ti dica la mia personale…”

“Credo di conoscerla, la tua personale teoria,” lo bloccò Thor. Avrebbe voluto dirgli molte altre cose, ma non ne ebbe il tempo. La porta si aprì, gli avvocati entrarono, e quello che era stato suo fratello si alzò con un sorriso trionfante stampato sulle labbra sottili. Aveva corrotto qualcuno, lì al comando. Tipico di Loki. Ora non poteva più trattenerlo in stato di fermo né fargli domande.

Prima di andarsene, quando già era sulla soglia, l’ingannatore si fermò, lo fissò a lungo. “Lo so,” concesse, e uscì in fretta.

Il dio del tuono rovesciò il tavolo, masticò un’imprecazione, poi si risolse a uscire dal Distretto. Pioveva ancora. Una pioggia fitta e scrosciate lavava la città, si infilava nelle ossa, infradiciava abiti e capelli. Girò l’angolo di corsa e vide suo fratello chiuso nel suo elegante cappotto nero di lana, circondato dai suoi legali. Quelli lo notarono e anche Loki si voltò. Strinse le palpebre come per guardarlo meglio, poi strappò dalle mani di uno degli avvocati l’ombrello e gli si avvicinò con il passo lieve con cui aveva attraversato questa e vita e l’altra. Lo raggiunse.

La sua voce sovrastò per un momento il traffico congestionato e la pioggia battente, mentre descriveva, per l’ultima volta, gli intarsi del trono maestoso di Odino, gli affreschi distrutti con un solo colpo dalla spietata Hela, il fiordo su cui si affacciava il palazzo reale e il ponte dell’arcobaleno. Gli raccontò quello che era stato in mezzo alla strada, sull’asfalto luccicante di pioggia, sotto a un lampione spento triste e abbandonato e le automobili troppo vecchie che giravano per il quartiere in degrado. Il bel cappotto di lana di Loki era zuppo di pioggia nonostante l’ombrello, i capelli neri si erano incollati al suo viso, ma quello che era stato, in un altro luogo, in un altro tempo, suo fratello continuò a descrivere e a ricordare l’infanzia spensierata, la giovinezza allegra già venata di ombre scure, le battaglie trasformate in poemi in cui erano racchiuse le loro gesta. Nessuno più conosceva quei versi, poteva avere memoria di cosa era stata Asgard: gli Otto Regni esistevano ancora, sebbene uno dei rami dell’Yggdrasill si fosse invariabilmente seccato e spezzato.

Quando il racconto finì e, assieme a lui, cessò l’incanto, il dio del tuono provò ad avvicinarsi al fratello, ma Loki scosse il capo e lo guardò con occhi offesi.

“Cos’hai fatto, Thor?” La voce dell’ingannatore non nascondeva una vibrazione nervosa, preoccupata, irritata persino: non era altro che l’eco più matura e certamente più cupa dell’accorata esclamazione del Loki ragazzo che cercava di trascinarlo via da qualche guaio troppo grande. Peccato che, esattamente come allora, il dio del tuono non fosse semplicemente in grado di ascoltarlo.

“Sono sopravvissuto qualche attimo di più, credo. Una manciata di minuti necessaria a prendere una delle gemme e chiedere di tornare. Mi sembrava importante,” confessò stringendosi nelle spalle.

Loki gli rivolse un’occhiata severa e breve, tagliente come la sua voce. “Cosa? Avere un’altra occasione per sbagliare?”

“Per correggerci.”

La pioggia mondava ogni lordura, trascinando con sé la sporcizia e la polvere, per lasciare il posto a una città altrettanto marcia, ma leggermente più pulita: forse nettò anche alcuni dei pensieri contorti che invadevano la mente di Loki.

Il dio degli inganni aggrottò la fronte sovrappensiero, infine regalò a Thor un ghigno tetro, sarcastico, crudele. “Mi pare evidente che hai commesso un errore,” osservò indicando con la mano libera la strada e le facciate dei palazzi imbrattate di scritte consumate, cartelloni staccati e soprattutto lei, la macchina elegante che lo attendeva già in moto. “Non dovremmo essere qui. Tornare non era negli accordi.”

Midgard non era Asgard, non lo sarebbe stata mai; Loki avrebbe vissuto una vita da straniero per sempre, anche se il retaggio degli Aesir non era nella terra che da tempo non esisteva più, ma nello spirito e negli ideali di quel popolo di fieri guerrieri cui lui apparteneva, nonostante tutto. La dimora che era stata di Odino non sarebbe mai più stata ricostruita, ma qualcosa dello sfarzoso palazzo avrebbe continuato a sopravvivere nella memoria di entrambi. Solo che il dio dell’inganno temeva la ciclicità del destino, il ripetersi inevitabile di eventi, situazioni, dolori. Sarebbe stato meglio troncare, dimenticare, ma Thor era un sentimentale e, quando non c’era lui a controllarlo, finiva sempre per commettere qualche enorme idiozia, rifletté.

Il tonante allargò il sorriso sornione, riconobbe qualcosa di conosciuto nello sguardo dell’altro. “Avevamo degli accordi? Proprio tu mi parli di lealtà, fratello?”

La battuta risvegliò Loki Laufeyson dai suoi pensieri. Guardò Thor e non poté fare a meno di lanciargli un’occhiata irritata e sconsolata assieme, poi piegò le labbra sottili nel principio di un sorriso laterale che nascondeva una risata sommessa.

 

 

 

Fine


Specchietto Autore:
Nickname sul forum e su EFPShilyss/shilyss
PersonaggiThor, Loki
Citazioni scelte“Il vero eroe alla fine muore.” ~ Aldo Busi / “Ho una mia personale teoria, che non ci sono eroi e mostri in questo mondo.” ~ Alfred de Vigny
Numero Parole6840
Note autoreIl nome del collega di Thor, Freeman, è un omaggio a Seven. Alcune delle battute di Loki sono quelle effettivamente pronunciate nel corso dei vari film. L’espressione “atomo opaco di male” mi è venuta spontanea scrivendo, ma è un palese calco di Pascoli (X Agosto).  Non volevo scivolare su Infinity War, lo giuro, ma poi ho letto le frasi del contest di AleDic e, immediatamente, ho visto Thor e Loki che parlavano in mezzo a un campo di battaglia abbandonato di eroi, battaglie e sacrifici.

Il distretto in cui lavora Thor come detective è di stampo statunitense; il sospettato (Loki) può essere tenuto in stato di fermo e interrogato per un tempo massimo di 24 ore: trascorso questo lasso di tempo o il tonante trova delle prove valide o è costretto a lasciare andare il fratello. Una tecnica per mettere i fermati sotto pressione e che si vede spesso nei film, è quella di ostacolare/ritardare l’arrivo dei loro legali e ottenere, nel mentre, una confessione o un accordo scritto.

Vi ringrazio per essere arrivati fino a qui,
Shilyss

 

   
 
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