Crossover
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Autore: Registe    22/04/2018    4 recensioni
Tredici guardiani. Tredici custodi del sapere.
Da sempre lo scopo dell'Organizzazione è proteggere e difendere il Castello dell'Oblio ed i suoi segreti dalle minacce di chi vorrebbe impadronirsene. Ma il Superiore ignora che il pericolo più grande si annida proprio tra quelle mura immacolate.
Questa storia può essere letta come un racconto autonomo o come prologo della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
[fandom principale Kingdom Hearts; nelle storie successive lo spettro si allargherà notevolmente]
Genere: Fantasy, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Anime/Manga, Videogiochi
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 16 - Marluxia (II)





Marluxia





Marluxia si sedette sul letto, appoggiando il vaso sulle ginocchia.
Non era stato facile convincere la rosa selvatica di Roto a sbocciare nelle sue stanze. Pur avendo raccolto il terreno di quella regione, la scarsa quantità di luce solare lo aveva costretto ad offrire un’ingente quantità di magia all’esile pianta per raggiungere la fioritura.
Al suo tocco i petali gialli si aprirono, invitandolo a sfiorare il polline argentato. Non ve ne era più di un pizzico, ma più che sufficiente per le sue necessità; ripose il vaso vicino all’armadio, dove la poca luce che riusciva ad entrare dalla finestra avrebbe continuato a dare forza e nutrimento al piccolo fiore di bosco. Probabilmente non sarebbe sopravvissuto ancora a lungo, o almeno non senza la sua magia, ma Marluxia gli versò comunque dell’acqua.
Sarebbe potuto tornare utile in futuro.
Versò il prezioso polline in una minuscola ampolla che aveva chiesto in prestito al n. IV senza molte difficoltà e lo unì agli altri contenitori che aveva accumulato in una bisaccia.
Mancavano solo poche ore.
Stava controllando di nuovo l’inventario quando tre colpi secchi lo avvisarono che qualcuno stava bussando alla sua porta. E nel Castello dell’Oblio, dove alcuni membri usavano il teletrasporto persino per andare dalla stanza da letto al bagno, vi era soltanto una persona che chiedesse il permesso prima di entrare nelle stanze altrui.
“Non attendevo una sua visita, Superiore”.
“Hai forse dimenticato che giorno è oggi?”
Il n. XI sospirò dentro di sé, ma mise sulle labbra il suo sorriso migliore. “Il secondo anniversario. Non potrei mai dimenticarlo”.
Far attendere il n. I alla porta sarebbe stata una grave mancanza di rispetto, quindi fece passare l’uomo dai capelli argentati nella sua stanza, offrendogli l’unica sedia disponibile. Prese con noncuranza la bisaccia e la appoggiò oltre il letto, ma il Superiore sembrò non dare peso alla cosa e si accomodò. “La tua stanza è uno scorcio del Nirvana in questo mondo, figlio mio. Non avrei mai pensato che i fiori potessero crescere in questo posto. Da due anni a questa parte non trascorre giorno in cui io senta la mancanza del sole del nostro mondo”.
I suoi occhi gialli si poggiarono sulla rosa di Roto, e poi sulla finestra. Marluxia seguì quello sguardo con fastidio, fissando la tenue luce che filtrava tra le finestre.
Il luogo in cui avevano teleportato il Castello dell’Oblio era una terra vuota. Il n. IV aveva trascorso numerose ore a far comprendere loro, mediante disegni e mappe, che non avevano spostato la loro casa in una qualsiasi regione del loro mondo, perché in ogni landa ci sarebbe sempre stato un Occhio di Zaboera in attesa di individuarli. Avevano usato la loro magia, unita alla potenza ancestrale del Castello, per spostarsi in un altro mondo.
Marluxia (e molti altri come lui) non avrebbe avuto grossi problemi a recarsi su un qualsiasi pianeta tra quelli che aveva visitato nelle prime missioni -un certo Ithor gli sarebbe piaciuto- ma il Superiore non era stato di quell’avviso. “Ma nonostante tutto sono convinto che si sia trattato della decisione migliore. Nessuno verrà a minacciarci qui”.
“Oh, su quello non ne ho dubbi, n. I” disse, e non si sforzò di nascondere il sarcasmo che gli sgorgò dalle labbra.
Nessuno sano di mente verrebbe qui.
Il posto che avevano scelto non aveva nemmeno un nome. Persino il n. VII aveva setacciato la biblioteca nella speranza di trovare, tra i libri autoscriventi, un nome per quella gigantesca landa fatta di rocce, dirupi, e dei fiumi più simili a dei rigagnoli che a dei veri corsi d’acqua. Vi erano diverse carte celesti, quelle sì, ma nessuna scritta in caratteri che potessero leggere. L’atmosfera era respirabile, per fortuna, ma il sole era molto più piccolo di quello a cui erano abituati. Il n. IV aveva spiegato che fosse un sole persino più grande del precedente, ma assai più lontano: tutti discorsi che, per il n. XI, trovavano solo il tempo di una squisita dissertazione filosofica.
Da quando aveva scelto come elemento le piante ed i fiori, Marluxia si era reso conto di detestare quel luogo arido, buio e privo di forme di vita evolute più di ogni altra cosa al mondo; aveva bisogno del sole, quello vero, e di respirare dell’aria che non contenesse sottili tracce di metano. Aveva provato a convincere il Superiore a spostare altrove il Castello, almeno per un po’, ma il Radigata si era sempre rifiutato; era chiaro che la minaccia della famiglia demoniaca avesse dato il colpo di grazia a quell’uomo stravagante e paranoico, ed il loro capo aveva vietato loro l’apertura dei portali di teletrasporto verso altri mondi salvo suoi specifici permessi e soltanto per brevi periodi.
Regola che Marluxia non aveva mai rispettato.
“So quanto la mia decisione sia pesata su tutti voi. I nostri poteri elementali ne hanno sofferto. Capisco quanto la luce del sole sia necessaria per te, figlio mio, almeno quanto lo è per il giovane Roxas”.
Scegliere come elemento le piante poco prima di essere imprigionato in un luogo con scarsa illuminazione sembrava una crudele ironia, ma senza dubbio al giovane e sprovveduto n. XIII era andata peggio. Il ragazzo aveva scelto come attributo la luce e … beh, una terra avvolta quasi totalmente dalle tenebre non era di certo il posto più salubre. In quei due anni il nanerottolo era cresciuto al massimo di un palmo, ed erano più le ore che trascorreva dormendo che quelle in cui lo si vedeva andare in giro per il Castello trascinandosi dietro al n. VIII. “Non nego che sentire il calore del sole sulla pelle sarebbe un mio grande desiderio, n. I” sorrise, inghiottendo tutto l’amaro che avrebbe voluto sputargli addosso. “Ma il suo giudizio è stato corretto. Qui siamo al sicuro”.
“Vorrei che anche altri condividessero il tuo pensiero, figlio mio. Mi sarebbe di grande conforto. È per questo che volevo dirti che stasera pensavo di indire una festa tra di noi. Qualcosa per ricordarci di essere felici, visto che siamo ancora vivi e lontani da chi ci minaccia” disse. “Ho parlato con Demyx, e ha detto che preparerà qualcosa di speciale. Volevo che tutti voi lo sapeste”.
Che ipocrisia …
“Un pensiero davvero bello, n. I. Ammetto che, prima di entrare nell’Organizzazione, attendevo sempre con ansia che la mia famiglia desse qualche festa”.
L’uomo sorrise, stavolta in maniera meno greve. “È una gioia sentirlo dire, figlio mio. Andrò subito a comunicarlo agli altri!”
Si alzò, e se il n. XI avesse potuto spingerlo con le mani ed i calci oltre la porta della stanza lo avrebbe fatto, eppure attese con pazienza che il suo capo si avvicinasse con tutta la calma del mondo agli stipiti. Sentiva ancora il sorriso falso che aveva indossato per lui tirargli persino le guance.
“Marluxia?”
Il tono era quello casuale di conversazione, ma qualcosa scattò d’istinto sotto la sua pelle.
“Perdona la mia curiosità … cosa c’era in quella bisaccia?”
“Ah … nulla di che, Superiore …” mormorò, maledicendo la propria disattenzione. “Campioni di erbe … e piante. Per il n. IV. Sa, in questo mondo non sboccia praticamente nulla, uso i miei poteri per far crescere anche alcune piante medicinali per lui”.
Lo scrutò da dietro, incapace di vedere la sua espressione, chiedendosi se gli avesse creduto. Rimasero in silenzio diversi secondi, e il n. XI si chiese se l’uomo dalla pelle scura stesse davvero soppesando le sue parole o se avesse intuito qualcosa. Era stato attento, dannatamente attento, non aveva alcun motivo di sospettare del suo operato eppure, senza alcun preavviso, gli aveva posto quella domanda.
Aveva intuito qualcosa?
“Comprendo. Perdona la mia curiosità” rispose, e si voltò per mostrargli un’espressione bonaria, rilassata. Una faccia che Marluxia avrebbe voluto prendere a pugni per strappargli quel sorriso ipocrita che stava mandando tutti, lì dentro, fuori dai gangheri. “Sono felice di sapere che la mia famiglia collabori”.
“È sempre un piacere aiutare i miei superiori” rispose.
E, dopo quelle parole, aspettò che l’uomo avesse varcato la soglia per chiudergli, con educazione ma con una forte urgenza che gli attraversava i polpastrelli, la porta alle spalle.
Riprese fiato, cercando di calmarsi.
Il cuore sembrava impazzito, e solo perché quel maledetto Radigata gli aveva fatto una, una stupida domanda; si era lasciato spiazzare come un marmocchio, e questa sua leggerezza avrebbe potuto mandare a monte il piano che stava mettendo a punto. Un piano che stava elaborando da esattamente due anni e che non poteva più attendere.
Raccolse la sacca, controllò ancora l’integrità di tutte le provette ed aprì un portale di teletrasporto.
 


Il Bosco delle Lame Nere era molto meno oscuro di quanto il nome potesse suggerire. Le querce, basse e piuttosto rade, gettavano delle ombre scomposte sul terreno formato per lo più da fango secco, radici sporgenti e foglie cadute nel precedente autunno; i cespugli di inea si erano riempiti di boccioli azzurri ed arancioni, ma sarebbero trascorse diverse settimane prima di poter godere della loro fioritura, mentre solo in estate inoltrata sarebbero comparse le loro dolci e succulente bacche. Marluxia, scivolando nel sottobosco, si ripromise che ci sarebbe tornato.
L’intero colore del bosco era un bel verde, profondo e vibrante.
Si incamminò verso la meta che si era prefisso, lasciandosi trascinare dal bisogno di sentire l’essenza di quel luogo sin nei polmoni, il senso della vita che da due anni gli era entrata in ogni fibra del corpo.
Imboccò un sentiero sterrato che era poco più di una pista per animali; lo percorse per svariati minuti, scivolando tra vecchi alberi così imponenti da fargli percepire propria forza. Avrebbe potuto teleportarsi, ma il bisogno di attardarsi tra quelle fronde era diventato una fame molto più intensa di giornate di digiuno. Di fianco alla pista, una coppia di ruscelli si riunì in un unico corso e l’acqua che ne usciva aveva un suono cristallino. Un daino si stava abbeverando, ma quando gli passò accanto scappò nel sottobosco.
Sentiva cantare gli uccelli. L’aria che respirava era fresca, pulita, vera, ben lontana da quell’atmosfera rarefatta a cui il Superiore li aveva condannati.
Non aveva scelto quel posto a caso.
Aspettò ancora qualche minuto, sedendosi ai piedi di un albero e scegliendo con cura tra le sue ampolle. Poi, come programmato, un rumore di zoccoli anticipò l’arrivo del suo obiettivo.
Contò otto cavalli prima della carrozza, poi altri otto ed una decina di soldati a piedi. Una lama nera in campo azzurro decorava lo stendardo ed entrambi i lati della carrozza, il simbolo che i signori del bosco e di tutte quelle terre stavano attraversando le loro proprietà.
Pochi passi più avanti il sentiero era leggermente più ripido: nessun problema per i cavalieri, ma il cocchio iniziò a rallentare e, come previsto, nel punto in cui la via curvava intorno ad un enorme castagno, finì per fermarsi quasi del tutto.
Marluxia, nascosto dietro un tronco, soffiò il polline della rosa selvatica di Roto.
Il profumo che si irradiò tra le sue dita gli accarezzò le narici per un istante, poi si disperse nell’aria. La sua magia, eccitata da tutte quelle piante, fece il resto.
Un primo cespuglio di rose gialle sbocciò proprio accanto alle ruote della carrozza, e nel tempo di qualche battito di ciglia lo stelo si attorcigliò su uno dei raggi, avviluppandolo tra le sue foglie ed i primi petali che si schiusero al suo comando. Un secondo serpeggiò lungo la corteccia del castagno, trafiggendo con le sue sottili radici il cuore del tronco e si esibì in una fioritura color del sole. Uno dei soldati appiedati si accorse del processo, ma quando iniziò a gridare non vi era più nulla che non fosse invaso dai petali.
Un primo cavallo impennò, già con la schiuma alla bocca. Con un nitrito scomposto rovinò a terra portandosi dietro il proprio cavaliere, che non riuscì a prevedere la caduta e rimase incastrato sotto di esso. Cercò di liberarsi, ma venne travolto da un secondo destriero agonizzante che gli cadde addosso, schiacciandolo sotto gli zoccoli mentre le narici diventavano violacee al contatto con il polline argentato.
La rosa di Roto, tossica per qualsiasi cavallo, si nutrì della sua magia ed in pochi istanti tutto si trasformò in un letto giallo.
Gli animali caddero uno dopo l’altro. I soldati appiedati corsero verso i cavalieri, cercando di liberarli dal peso tagliando le cinghie delle selle, e solo un manipolo rimase intorno alla carrozza; il cocchiere, un anziano uomo in livrea, scese per controllare le sue bestie ed inciampò dal sellino, finendo riverso nel terriccio.
Quando Marluxia affondò la propria falce nel petto di un fante fu come se tutti gli anni trascorsi in quel mondo vuoto e buio avessero deciso di ruggire insieme sulla punta della sua lama. Lo abbatté come una pianta esile, con un solo colpo netto, e prima che un altro giovane soldato in nero e azzurro potesse opporsi gli calò l’arma color rosa tra capo e collo, disegnando un arco rosso sulla portiera della carrozza. Sollevò il manico quanto bastava per respingere una spada rivolta nella sua direzione, poi con uno strattone mirò al mento scoperto del fante e lo costrinse a perdere la presa sull’arma per poi voltarsi e spargere le sue interiora nel fango.
Non era stato facile apprendere l’uso di una falce, ma Marluxia non aveva mai avuto dubbi. Al momento della scelta dell’arma, scelta che lo avrebbe qualificato ufficialmente come membro dell’Organizzazione XIII, sapeva già che la falce, lo strumento della mietitura, sarebbe stato l’unico suo attributo possibile. Il n. III era un vero esperto nell’uso di armi a due mani, ed aveva appreso da lui tutto il possibile.
Anche se, rifletté Marluxia abbattendo un’altra guardia, l’obbediente Xaldin non sarebbe stato molto felice del sapere come avrebbe messo in pratica i suoi insegnamenti.
Peggio per lui.
Colpì il cocchiere alla tempia prima ancora che potesse riprendersi dalla caduta, poi portò la lama della sua arma in avanti, parando il colpo di una picca che gli avrebbe trapassato le costole. Quasi tutti i cavalieri erano riemersi dalla confusione creata dalla rosa selvatica e si erano riorganizzati, estraendo le spade. Era chiaro che si fossero resi conto di non avere davanti il primo brigante di passaggio, ma probabilmente la persona che li aveva assoldati aveva pagato piuttosto bene il loro coraggio.
“Butta l’arma, figlio di puttana!” disse un uomo dalla corazza borchiata. Gli altri si strinsero intorno a lui, creando uno scudo umano davanti alla carrozza. Alle loro spalle Marluxia udì il suono secco di una balestra caricata. “Siamo in undici contro uno, in caso non lo avessi notato”.
“Che disgrazia, capitano …” mormorò.
Abbassò di poco la falce, lasciando che gli uomini seguissero il movimento della lama. Nessuno prese in considerazione la sua mano, che scivolò con noncuranza tra le pieghe della tunica nera. Sentì i piccoli semi premere contro il proprio guanto, percepì la vita pronta a germogliare impaziente ad un suo comando. E non vi era nulla di più elettrizzante. “… ero quasi convinto di essere io in superiorità numerica qui dentro”.
Poteva sentire tutto il bosco dentro se stesso. Percepiva cose che nessun umano, ma forse nessun mago avrebbe dovuto essere in grado di sentire. Il gemito dei rami scossi dal vento, che lottavano per non spezzarsi. Il sussurro dell’erba calpestata dalle ruote della carrozza e dagli stivali di quei mercenari. Lo scricchiolio della corteccia.
La magia che da sempre nutriva il loro mondo, che scorreva in qualsiasi pianta, quel potenziale sopito che rendeva persino i demoni ebbri di potere: poteva quasi tendere la mano, toccare quello che riusciva ad annusare e ascoltare, assaporare e sentire, come se gli alberi, i rovi e le foglie cadute si unissero a lui. Tutto il Bosco delle Lame Nere rispose alla sua chiamata.
Sorrise quando i semi dell’edera velenosa di Ithor lasciarono il suo palmo e caddero nel sangue appena versato.
“Nascete” ordinò alle piante. “Nascete per me”.
Il primo tralcio di edera scattò accanto al suo piede destro, avvolgendosi contro il cavaliere più vicino. Tutti gli uomini si voltarono all’unisono nella sua direzione, e Marluxia fece calare l’arma davanti a sé. Le piante, assetate di acqua e ferro, si mossero insieme a lui.
Il primo uomo che era stato attaccato mandò un grido quando le foglie verdi ed oro sfiorarono la sua pelle nuda; in pochi istanti il braccio diventò da rosa a rosso acceso, riempiendosi di piaghe che lo costrinsero a perdere la presa della picca per stringerselo in maniera convulsa. La pianta si avventò su di lui, e le minuscole radici attecchirono alla base del collo fino a strisciare al di sotto della gorgiera dell’elmo. Un altro uomo gli si avvicinò per strappargliela di dosso, ma ad un cenno di Marluxia un altro tralcio si scaraventò nella sua direzione, mirando agli occhi.
Le grida coprirono persino quelle del mercenario a cui piantò la falce nello stomaco.
Non aveva mai avuto modo di sperimentare in questo modo i poteri del Castello dell’Oblio, la magia vera, pura.
Capì come potevano sentirsi i demoni.
Quando sollevò la testa dal corpo della guardia abbattuta si accorse che erano rimasti solo cinque avversari, e quello armato di balestra gettò via l’arma e si mise a correre. Marluxia ispirò di nuovo, sentendo addirittura i passi dell’uomo nel sottobosco dritti fin nelle sue orecchie, e quando estese i propri poteri sentì le radici delle querce alzarsi, bloccandogli la fuga. Atterrò un’altra persona con il manico della falce, spezzando in due la sua lancia e spingendolo di peso contro il groviglio di edera che ormai circondava loro e la carrozza, ascoltando le sue piante avvolgersi su di lui fino a farlo scomparire alla vista. Nemmeno si accorse degli ultimi nemici, perché il filo della sua lama trovò le loro teste in pochi istanti.
Si fermò in mezzo a loro, tendendo le orecchie, finché non fu sicuro che il rumore oltre il sentiero fossero le ossa del mercenario che aveva tentato di fuggire.
Si avvicinò alla carrozza e la aprì.
“Vogliate scusare l’interruzione del viaggio, signori” disse. Due paia di occhi, così simili tra loro, si poggiarono su di lui. “Come voi, anche io sono qui per … affari di famiglia”.
La ragazza, sedici anni al massimo, si premette contro il lato opposto del cocchio, trattenendo un grido. Provò ad aprire la portiera dall’altro lato, ma i tralci della rosa selvatica avevano già bloccato la maniglia dall’esterno. Marluxia attese col sorriso sulle labbra che smettesse il suo tentativo puerile di fuga, godendosi l’espressione di puro terrore sotto quei riccioli scuri trattenuti da una tiara ingioiellata. Da qualche parte oltre quel bosco senza dubbio un qualsivoglia nobile si stava domandando come mai la sua promessa sposa fosse in ritardo, ma i suoi pensieri furono rapiti dallo sguardo severo, ma allo stesso tempo terrorizzato, dell’uomo al suo fianco. “Buon pomeriggio, conte Durlyn. È un vero piacere incontrarvi di nuovo”.
L’altro lo riconobbe.
Sul suo viso si delineò un’espressione indefinibile, e quello gli fece scorrere il sangue nelle vene più di qualsiasi incantesimo. Il nobile si alzò dal sedile con uno scatto, parandosi tra lui e la ragazza. La barba ed i capelli presentavano delle screziature argentate, ma il volto era sempre quello che Marluxia aveva coltivato nei propri incubi negli ultimi due anni. “Dovevi essere morto!”
“A quanto pare i vostri sicari si sono dimenticati di finire il lavoro. Sapete, sono cose che succedono quando uno non si occupa di persona di certe questioni”.
“Vattene immediatamente, altrimenti …”
“Altrimenti cosa?” rispose, strappandogli le parole di bocca. La vista dell’uomo che aveva dato l’ordine di massacrare la sua famiglia ridotto ad un animale impaurito lo ripagò in un istante di tutti i giorni, tutte le settimane trascorse in quel mondo tetro e freddo, in attesa. In attesa del momento giusto, del giorno perfetto. Dei portali aperti lontano dagli occhi del Superiore per recarsi di notte nei giardini del palazzo dei suoi nemici, studiando ogni loro mossa, ogni singolo messaggero che entrava ed usciva dal ponte levatoio.
Del sapere con giorni di anticipo il percorso che avrebbe fatto la carrozza che avrebbe trasportato il conte Bernard Durlyn e la sua unica, preziosissima figlia Bernice, il giorno delle nozze e da quanti armigeri ne sarebbe stata composta la scorta.
Aveva aspettato perché lui era come una rosa.
Le sue spine ed i suoi petali si mostravano solo al momento propizio. “Non vi facevo un tipo da minacciare a vuoto, sapete?”
L’uomo si gettò su di lui, brandendo uno stiletto che portava alla cintura. Marluxia non aveva notato l’arma, ma si limitò a scansarsi di lato ed a colpire l’uomo al centro del torace con il manico della falce. Quello perse l’equilibrio, cadendo dal cocchio riverso a terra, e lo colpì di nuovo alla testa prima che potesse rialzarsi.
Quando il conte provò a muoversi i rampicanti erano già avvinghiati ai suoi polsi ed il pugnale era svanito in mezzo alle loro radici.
“L’edera velenosa non è una pianta di questo mondo, sapete? Ne esistono diverse varietà, ma questa di Ithor è in assoluto la mia preferita. Non avete idea di quanta fatica mi sia costata farne crescere i semi nel mio Castello. Ha bisogno di luce, sole e possibilmente un terreno ferroso. Sì, il sangue umano è il concime migliore che possa mai desiderare” commentò con calma. “In realtà, a dispetto del nome non sono propriamente velenose, ma le loro radici contengono un principio così irritante e doloroso che il cuore stesso della vittima non riesce a resistervi molto a lungo. Ho chiesto comunque alla mia edera di attendere un attimo con voi, conte … una decina di minuti, giusto il tempo di concludere un altro lavoro …”
Tornò alla carrozza, afferrò la ragazza e la trascinò nello spazio aperto, puntando a un robusto castagno proprio davanti al nobile immobilizzato. La rosa gialla fece capolino dalle fessure della corteccia, crescendo al tocco della sua mano ed avviluppando i propri tralci proprio all’altezza del ramo più basso. La contessina, resasi conto di ciò che stava accadendo, prese a scalciare ed a gridare.
“Lasciala stare!” gridò Durlyn. Marluxia sorrise, godendosi la vista dell’assassino della sua famiglia più simile ad una mosca nella tela del ragno che ad un essere umano. Delle piaghe rosse ormai erano comparse a livello dei polsi, ma non era certo per quelle che il conte si divincolava. “È con me che hai un conto in sospeso, Dayel!”
“Infatti è voi che sto colpendo, conte”.
Il morbido tralcio scese fino alla sua mano, deponendo nel palmo i petali gialli della più perfetta delle fioriture. Ironico, anche l’abito della giovane sposa era dello stesso colore.
Il destino?
Forse.
“Anche mio fratello Asfania non aveva nessuna colpa”.
Sollevò Bernice Durlyn da terra, ignorando i suoi patetici calci, e lasciò che la rosa di Roto avvolgesse i tralci intorno al suo collo bianco.
Era tutto come lo aveva sempre immaginato.


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Fonte della fanart a inizio capitolo: https://silvestris.deviantart.com/art/TPBOD-Totem-Marluxia-176928377
  
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