Note: - SPOILER PER LA 5x01 DI TO. Ho detto SPOILER quindi poi non ditemi che non vi avevo avvertito;
- solita roba breve e noiosa e che non mancava a nessuno di introspezione sul personaggio di Caroline; 
- NO BETA e non scrivo da mesi quindi segnalatemi qualsiasi svista, errore, tempo verbale che non funziona.

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Caroline Forbes, o quel che ne resta sotto la pelle della diciassettenne che è morta soffocata in un letto d’ospedale, conosce il peso dell’essere seconda, dell’essere il pensiero che sfiora la mente solo dopo che il voto è stato scritto sul registro, che la porta è stata chiusa, che il piano è stato messo in atto, che l’appello è stato fatto e una studentessa è stata dimenticata alle Olimpiadi di Matematica e solo dopo ricordarsi: “oh, ma c’era anche Caroline con noi”.
Quando ha aperto la scuola per Giovani Dotati – e quanto avrebbe riso Steven, di lei, che dopo aver disprezzato per estati intere la sua collezione di X-Men era finita per diventare una versione bionda di Charles Xavier. Quanto avrebbe riso, se non l’avesse odiata perché era un vampiro – Caroline si è ripromessa di non commettere mai l’errore di preferire un suo studente agli altri ed è stato facile farlo, all’inizio. È stato come eseguire uno split lift o leccarsi le labbra dopo aver bevuto una sacca di sangue B negativo.
Le cose sono diventate più complicate quando Hope Mikaelson, con l’età di Lizzie e Josie, gli occhi di Klaus e la mano stretta intorno alle dita di Hayley Marshall, ha messo piede per la prima volta nella scuola sorta dalle ossa della casa di Damon e Stefan Salvatore. Caroline ha accolte le due donne con il sorriso perfetto di una vecchia Miss Mystic Falls e le dita strette intorno alla balaustra dell’ampia scala tanto da scheggiare il legno e abbastanza da nascondere il tremito che le aveva scosso la mano come una corrente elettrica, come un singulto del mostro che le vive nelle ossa e che non avrebbe voluto altro che affondare i denti nella giugulare di Hayley.
Ma c’era di mezzo una bambina. E c’era di mezzo Klaus ed era tutto più complicato.
 
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Caroline non si rende subito conto subito dell’attenzione con cui i suoi occhi seguono i passi di Hope Marshall lungo i corridoi della scuola, di come segni i suoi progressi con la stessa dedizione che rivolge a Lizzie e Josie.
Non se ne accorge fino a quando Alaric non le si siede accanto, un giorno, con un sorriso tirato come un vecchio palloncino sgonfio. Caroline ricorda lo scuro mogano della panchina su cui erano seduti e la leggera brezza che scuoteva le fronde brillanti degli alberi; ricorda le risate di Hope e delle gemelle che correvano nel prato. Ricorda di aver pensato a un altro giardino, a un altro sole e al battito d’ali di un colibrì.
- Ti sei fermata di nuovo a parlare con Hope, dopo la lezione. –
La voce di Alaric l’aveva fatta sussultare e Caroline si era umettata le labbra improvvisamente secche. Aveva scosso le spalle in una parvenza di serenità.
- La situazione è complicata – aveva sussurrato furiosamente per non farsi sentire dai bambini. – Lo sai cos’è e cos’ha passato. Sto cercando di farla ambientare perché nessun bambino merita una cosa del genere e perché non possiamo permetterci che diventi un pericolo per gli altri studenti. -
Alaric l’aveva guardata con un sopracciglio inarcato e un’espressione divertita sulle labbra che per un istante le aveva ricordato Damon; che per un istante le aveva fatto venir il desiderio di prenderlo a schiaffi.
- La situazione è complicata, ma non per i motivi che dici tu – aveva risposto con l’aria di chi ha vissuto più anni di te e vede cosa stai cercando di nascondere.
Caroline aveva ingoiato un ringhio tra i denti bianchi.
 
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Caroline si impone di fare più attenzione, di tornare a scivolare nell’ombra in cui si nascondono i mostri dei romanzi gotici e i presidi dei racconti furiosi degli studenti. Lascia che sia Alaric a gestire le relazioni e le comunicazioni con Hayley Marshall e Freya Mikaelson, smette di sedersi con Hope e ascoltare i racconti della bambina sul suo zio preferito e delle foto che le manda dalla Namibia, sulla zia che vive in un loft a New York e su quel padre che ama come il suo respiro e che ogni tanto la chiama. Caroline smette di sorriderle ogni mattina e di accarezzarle i capelli quando si incrociano nei corridoi ed è come staccarsi un braccio, come tirare, tirare, tirare e sentire il pop dell’articolazione della spalla che si lussa e sentire i tessuti – muscoli, ossa, vasi sanguigni – che si lacerano, ma è necessario e Caroline stringe i denti, serra i pugni e, ogni mattina, le passa accanto senza sfiorarla.
Continua a seguirne i progressi - gli incantesimi che Hope impara e le amicizie che stringe - da dietro l’uscio chiuso del suo ufficio e se lo fa con più attenzione, con più affetto di quanto dovrebbe, beh, non c’è nessuno a poterlo testimoniare.
 
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Quando viene a sapere che Klaus ha smesso di parlare con la figlia, Caroline sfiora lo schermo del telefono con il polpastrello prima di ricordarsi che non è suo compito, che non è la sua chiamata da fare.
 
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È difficile parlare con Klaus di Hope e non lasciare che le scivolino nella voce quelle attenzioni particolari che Caroline, ancora ora, non riesce a impedirsi di dedicare alla figlia dell’uomo che le sta di fronte, con le mani sporche di sangue e una pila di cadaveri intorno ai piedi. È difficile non lasciare che gli occhi le si ammorbidiscano al pensiero di Hope, che l’affetto non le impregni le parole che mastica e sputa come denti cariati.
È difficile non lasciare trapelare che è complicato – è appoggiata ad uno schienale di mogano, c’è il sole e la voce di Alaric si mischia alle risate delle bambine che si ricorrono nell’erba alta – perché Hope è sua figlia e Klaus è il mostro che ha trasformato il suo sangue e che ancora le vive nelle ossa.