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Autore: itsAlisAgron    24/04/2018    2 recensioni
Entrambe nascondevano un segreto che pochi conoscevano, ma che molti apprezzavano. Non di rado ricevevano sgradevoli appellativi e se questi provenivano dalla bocca di un cliente, allora erano pronte a raddoppiare la tariffa: erano delle signorine, insomma, quelle poco vestite che si appostano sui marciapiedi di notte, come ragni in attesa di vittime da intrappolare nelle loro ragnatele, come vampiri assetati pronti a succhiare via tutto il sangue che hai in corpo. Ma possedevano un segreto nel segreto, ben più profondo, che nascondevano da anni e di cui nessuno era a conoscenza. Infanzie difficile e falsi pregiudizi le avevano portate a ciò che erano diventate, non erano mai riuscite a farsi strada tra la folla e se il mondo aveva deciso di essere crudele, loro lo sarebbero state ancor di più.
Genere: Drammatico, Erotico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash | Personaggi: Brittany Pierce, Quinn Fabray, Sam Evans, Santana Lopez | Coppie: Brittany/Santana, Quinn/Santana
Note: AU, Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Cap 3 – Tour de force
 
«Abuela, sono tornata» urlò Santana dall’ingresso, mentre si richiudeva la porta alle spalle. Nel giro di pochi secondi, la vide sbucare dal corridoio e venirle incontro con le braccia spalancate. La stretta di sua nonna, Alma, le infondeva una sensazione di sicurezza unica, in grado di cacciar via qualsiasi sensazione negativa in un solo attimo. Affondò il viso sulla sua spalla, inspirando il familiare odore di lavanda che l’avrebbe fatta sentire a casa dovunque si fosse trovata. Non c’era dubbio che sua nonna fosse la persona più importante della sua vita, colei alla quale guardava ogni giorno con ammirazione e stima, la sola in cui aveva sempre riposto la sua intera fiducia. Sentiva che fosse arrivato il momento di condividere con lei una parte fondamentale di se stessa e della propria quotidianità; in cuor suo era certa che avrebbe continuato ad amarla come il primo giorno in cui l’aveva stretta fra le braccia.
«Vieni tesoro, ti ho preparato il pranzo» si rivolse a Santana con la solita aria premurosa, prendendole la mano per condurla verso la cucina, dalla quale proveniva un profumo delizioso. Afferrò un cucchiaio di legno e mescolò qualcosa che bolliva all’interno di una pentola, per poi volgerlo alla nipote.
«Su, assaggia!» le disse quasi come se fosse un ordine, che Santana assecondò senza obiezioni, emettendo subito dopo un verso di apprezzamento.
«E’ delizioso, abuelita, come sempre» la complimentò, da un lato perché era nient’altro che la verità, dall’altro perché sapeva che quelle lusinghe le avrebbero addolcito la pillola.
«Adesso siediti, devo parlarti» le confidò, poi, posandole delicatamente una mano sulla schiena.
«Prima devi mangiare, è già tutto pronto» esclamò Alma, affaccendandosi intorno ai fornelli ed armeggiando con piatti e utensili da cucina «Sei magra come Gesù in croce!»
«Per favore, è importante» la pregò Santana, afferrandole una mano «Vieni a sederti con me»
Alma la guardò con un’espressione preoccupata e si decise ad abbandonare la cucina per seguirla verso il divano, rassegnata, e prendere poi posto accanto a lei.
«Sei la persona più importante della mia vita» le confessò Santana con tono delicato e sincero, stringendo saldamente la mano della nonna fra le sue «E ti ammiro profondamente perché hai sempre inseguito i tuoi ideali, non curandoti del giudizio altrui»
«Santana, se sei incinta giuro che oggi ti lascio digiuna!» esclamò Alma, agitandosi per la confessione imminente della nipote e facendole scappare una breve risata, la quale stemperò l’aria di tensione. Tuttavia Santana riacquistò un’espressione seria subito dopo, prima di inspirare profondamente con fare concitato.
«A me piacciono le ragazze, nello stesso modo in cui dovrebbero piacermi i ragazzi» dichiarò dopo una breve pausa, quelle parole erano fuoriuscite dalla sua bocca come una cascata di emozioni che non riusciva più a trattenere.
«Ho provato a reprimere questo sentimento per molto tempo, ma è più forte di me» continuò, senza staccare un attimo gli occhi da quelli di sua nonna. Sentiva di  aver finalmente rimosso un macigno dal cuore, libera di esternare finalmente un sentimento che aveva a lungo celato con fatica. Scrutò l’espressione indecifrabile della nonna, attendendo nervosamente una reazione da lei, finché quest’ultima non ritrasse improvvisamente la mano, divincolandosi dalla presa di Santana.
«Vattene da questa casa» ordinò Alma, alzandosi bruscamente dal divano.
«Ma, abuelita…» mormorò Santana, la voce rotta dal turbamento e gli occhi lucidi, mentre sentiva gli arti abbandonarla all’improvviso e la testa girarle vorticosamente.
«Hai fatto la tua scelta, questa è la mia» esclamò, irremovibile, la donna, con tono freddo e indifferente «Vai via! »
 
1 Novembre, ore 9.50
Si svegliò di soprassalto, sobbalzando a causa di ciò si era rivelato essere nient’altro che il solito, spiacevole sogno ricorrente. Si sollevò sui gomiti e strabuzzò gli occhi, aveva il respiro affannoso e la vista offuscata dalla luce dei raggi del sole, la quale filtrava attraverso gli infissi della persiana. Si mise a sedere con le gambe incrociate ed iniziò ad osservare l’ambiente circostante, il quale non le era affatto familiare, cercando di mettere a fuoco gli eventi annebbiati della scorsa notte. Si voltò alla sua destra e scorse una testa bionda, i capelli arruffati erano sparsi sul cuscino. Piegò leggermente le labbra in un sorriso, mentre i ricordi lentamente riaffioravano, numerosi, e scrutò attentamente quel volto. Aveva un’espressione serena e angelica, i muscoli del viso non erano più contratti e rigidi, come lo erano stati nel corso della serata precedente. Il petto si sollevava ed abbassava gradualmente, seguendo il regolare ritmo del respiro, e le curve del suo corpo nudo erano perfettamente sagomate dal lenzuolo, il che lasciava ben poco all’immaginazione. Le si avvicinò, poggiandosi sul gomito e rimanendo a scrutare ogni suo singolo dettaglio; le scostò delicatamente una ciocca di capelli dal viso e ripercorse mentalmente le vicende che si erano susseguite una dopo l’altra, fino a quel singolo istante. Sgattaiolò via dal letto, prestando attenzione nei movimenti in modo tale da non svegliare Brittany, ed iniziò ad esplorare il locale in cui si trovava. La stanza era piuttosto piccola, così come l’intero appartamento, il quale trasmetteva sensazioni di conforto e familiarità. Le pareti erano di un beige molto chiaro, che dava un aspetto più luminoso all’intero ambiente, mentre il pavimento era rivestito da una moquette marroncina, visibilmente usurata. Mentre si faceva strada lungo il corridoio, non poté fare a meno di notare che i mobili scarseggiavano, tuttavia le decorazioni abbondavano: poster di film, vasi e piante sui davanzali, candele e addobbi vari. La sua attenzione si posò su un vaso di vetro con una manciata di sabbia e diverse conchiglie disposte a caso al suo interno; era curiosa la carenza di arredamento funzionale da un lato, ma la ricchezza di cimeli apparentemente inutili dall’altro. Scovò una porta socchiusa e, sbirciando, capì che si trattava del bagno, anche quello piuttosto piccolo; vi entrò per sciacquarsi il viso, essendosi ormai rovinato il trucco della sera prima. Il lavandino era sommerso di oggetti vari per la cura personale, da creme a forcine, deodoranti e via dicendo. Aprì il rubinetto e percepì la sensazione rinfrescante dell’acqua sulle mani, gettandosela sul viso, e ripeté quest’azione più volte. Rimase poi ad osservare la sua figura allo specchio, emettendo un gran sospiro e posandosi la mano sul petto. Una sensazione insolita la pervase inaspettatamente, come se fosse accaduto qualcosa di grave oppure una persona a lei cara stesse male, a sua insaputa. Cacciò via il cattivo presentimento e raccolse una manciata di carta igienica, per poi rimuovere i residui del trucco dal viso e dagli occhi, non con poca fatica. Dopodiché tornò nella camera da letto e ritrovò Brittany nell’esatta posizione in cui l’aveva lasciata, rannicchiata sul fianco destro e con la guancia premuta sul cuscino. Le si avvicinò in punta di piedi e tirò con cautela il lenzuolo fino a coprirle le spalle, che fino ad allora erano rimaste scoperte. Rinsavì da quel momentaneo stato di trance nel momento in cui sentì una vibrazione della quale non riusciva ad individuare il punto di provenienza, finché non si rese conto che si trattava del cellulare. Si alzò alla ricerca della borsa, dalla quale, una volta trovata ai piedi del letto, estrasse il cellulare, accorgendosi di essere ormai arrivata in ritardo. Spalancò gli occhi nel momento in cui il suo sguardo si posò sullo schermo: tre messaggi e quattro chiamate perse da Quinn, più altre cinque chiamate perse da un numero che non riconosceva, tra cui una che aveva appena perso.
“San, ho bisogno di te. Mi trovo in macchina con un uomo e non ho un buon presentimento” 00.48
“Gli ho chiesto passaggio, ma non mi ha ancora domandato dove abito. Devi chiamare la polizia!” 00.50
“Che fine hai fatto? Ti prego, rispondi” 0.53
Santana sentì il cuore esploderle dentro al petto e, senza nemmeno rendersi conto della situazione, raccolse i propri indumenti e si precipitò fuori dalla stanza, vestendosi mentre si faceva strada lungo il corridoio. Tutto d’un tratto comprese il motivo della sensazione insolita che l’aveva pervasa un attimo prima e sentì il respiro farsi più affannoso e pesante. Compose il numero del servizio taxi, mentre il telefono barcollava tra le mani tremolanti, ed afferrò un cappotto color grigio chiaro appeso all’attaccapanni accanto alla porta d’ingresso, lungo abbastanza da coprire il travestimento poco consono della sera precedente. Si chiuse la porta alle spalle facendo attenzione a provocare il minor rumore possibile, nonostante la quasi incontrollabile agitazione che le faceva tremare ogni parte del corpo, e scese frettolosamente le scale, rischiando di inciampare più di una volta. Fu lieta di constatare che il taxi si era già accostato sul ciglio della strada, in sua attesa, e vi si precipitò all’interno senza preoccuparsi di prendere fiato. Portò all’orecchio il cellulare, sperando con tutte le fibre che aveva in corpo di sentire la voce di Quinn da un momento all’altro: non si sarebbe mai perdonata se le fosse successo qualcosa di grave a causa del suo mancato soccorso.
«Dove la porto, signorina?» chiese con garbo l’autista, intravedendo la ragazza dallo specchietto retrovisore.
Santana scandì attentamente la via di casa propria, lanciando un sospiro ricco di tensione dopo l’ennesimo squillo andato a vuoto. Prima che potesse ricomporre il numero di Quinn, una chiamata in arrivo comparse sullo schermo, il numero non era registrato ma questa volta lo riconobbe.
«Cambio di programma» esclamò Santana con voce rotta, il cellulare tenuto accanto all’orecchio dalla mano tremolante «Mi porti alla stazione centrale di polizia»

La sera precedente, ore 1:25
«Pretendo un avvocato, ne ho il diritto!» esclamò Quinn mentre veniva trascinata all’interno della stazione di polizia, le mani erano ancora ammanettate dietro la schiena e l’andatura era pesante a causa del dolore ai talloni, provocato dai tacchi alti su cui aveva camminato durante l’intera serata.
«Domani mattina ce ne occuperemo» rispose prontamente Samuel, il poliziotto che l’aveva arrestata quella stessa sera  «per questa notte è in custodia cautelare»
«Non ho la minima intenzione di dormire in questo…obbrobrio» affermò Quinn, voltandosi di scatto e torcendo le labbra in un’espressione di disgusto, mentre esplorava con gli occhi il luogo in cui era stata portata contro la sua volontà; l’uomo in divisa emise un breve risolino e scosse il capo.
«Non ha altra scelta, signorina» così dicendo la portò in una sala, che abbandonò dopo averle rimosso le manette dai polsi. Prima che se ne potesse rendere conto, Quinn si trovò faccia a faccia con lo stesso uomo a cui aveva chiesto un passaggio poc’anzi e che si era finto un suo cliente, incriminandola. Si era cambiato d’abito, ma non indossava la divisa probabilmente perché si trattava del capo del dipartimento in cui si trovava. La sua vista la fece irrigidire ed il trovarsi da sola con lui in quella stanza scaturì in lei una sensazione di disagio e indisposizione.
«Ci rincontriamo» la sbeffeggiò, sorridendo sotto i baffi ed ottenendo un’occhiata di disprezzo in cambio.
«Lei mi ha incastrata» gli si rivolse Quinn con tono sprezzante e guardandolo dritto nelle pupille «Io…le avevo solamente chiesto un passaggio»
L’uomo si morse le labbra per trattenere una risata chiaramente derisoria, dopodiché iniziò a picchiettare una penna sul tavolo, ignorando completamente le sue parole.
«Signorina, adesso dovrà fornirmi alcune informazioni» dichiarò, piazzando un foglio di fronte a lei «Avrò bisogno della sua collaborazione in modo da finire il più presto possibile»
Quinn abbassò lo sguardo ed emise un sospiro profondo, scuotendo la testa in segno di rassegnazione. Le furono poste una serie di domande, per la maggior parte dati personali quali nome, cognome, data di nascita, indirizzo e via dicendo, oltre ad alcune caratteristiche esteriori necessarie per l’identificazione fisica. Le fu presa l’impronta digitale e scattate alcune foto segnaletiche, dopodiché fu portata in un’altra zona dell’edificio, dove ricevette l’ordine di lavarsi e cambiarsi d’abito. Le venne, inoltre, procurata una lista contenente gli oggetti che le erano stati confiscati: i vestiti, la borsa insieme a tutto ciò che vi era al suo interno e la parrucca che era stata costretta a rimuovere. Si sentì inerme ed impossibilitata a reagire, spogliata della sua dignità e senza alcuna difesa, trattata come una criminale immeritevole e guardata come una donna priva di rispetto per se stessa. Percepì l’umiliazione travolgerla, continuando a ripetersi nella sua mente che sarebbe tutto finito presto, nonostante quegli istanti sembrassero durare un’eternità. Dopo essere stata sottoposta a tali procedimenti, come da protocollo, fu scortata da una guardia carceraria alle cabine telefoniche della centrale.
«Ha diritto ad una telefonata, nel caso in cui abbia bisogno di avvisare qualcuno»
Quinn sollevò la cornetta, lieta di constatare che ricordava il numero di Santana a memoria e sperò con tutta se stessa che le rispondesse. Iniziò a mangiucchiarsi le unghie della mano sinistra, mentre teneva la cornetta con l’altra, che rischiava di scivolarle a causa della sudorazione eccessiva, provocata dall’agitazione; con la coda dell’occhio scrutava la guardia, che si era fermata a qualche centimetro di distanza da lei, con braccia incrociate e sguardo impassibile. Dopo i primi squilli andati a vuoto, ricompose frettolosamente il numero, mentre picchiettava ripetutamente il piede sul pavimento dall’impazienza. Un misto tra rabbia e disperazione la travolse così intensamente che quasi le mancò il respiro e sentì il suolo crollarle sotto i piedi. Solo in quell’istante si rese conto della situazione in cui si era ritrovata: era da sola, costretta a trascorrere la notte in un luogo ch’era tutt’altro che accogliente, circondata da persone che avevano intenzione di rinchiuderla tra quattro mura per Dio sapeva solo quanto tempo e lontana dall’unica che le era stata vicina nel corso di anni tortuosi; la sola che l’avrebbe potuta salvare dal disastro in cui era precipitata, non c’era. Percepì la solitudine e la tramutò in mancanza di speranza, che divenne disperazione nell’arco di pochi secondi. Si lasciò scivolare lungo la parete spoglia, incastrando le dita fra i capelli e scuotendo vigorosamente il capo dalla disperazione. L’enorme sospiro che lanciò subito dopo diede il via libera ad una cascata di lacrime, le quali racchiudevano emozioni contrastanti, sensazione di inadeguatezza, la delusione di una vita lontana dalle aspettative riposte in un futuro che avrebbe dovuto soppiantare il passato, non emularlo. Ogni singola di quelle lacrime portava via con sé le speranze coltivate a lungo, i sacrifici fatti nell’illusione di poter ottenere la possibilità di raggiungere la famigerata felicità, di cui aveva solamente sentito parlare, ma che non aveva mai sperimentato in prima persona. Il peso insostenibile dei suoi irrimediabili errori le crollò addosso, schiacciandola, e la solita vocina interiore le sussurrò ciò di cui aveva ormai preso coscienza da sola: aveva miseramente fallito.

1 Novembre, ore 11.20
«Tenga il resto» esclamò Santana, precipitandosi fuori dal taxi dopo aver pagato l’autista più di quanto dovesse. Durante il tragitto non aveva fatto altro che dipingere nella sua mente ancora e ancora  l’espressione di Quinn nel momento in cui si fosse presentata davanti a lei: delusa, amareggiata, arrabbiata. Sentiva addosso a sé l’intera colpa per ciò che le era capitato ed era per tale motivo che adesso stava a lei porre un rimedio al disastro che aveva provocato. In cuor suo era convinta del fatto che Quinn non l’avrebbe mai perdonata, dapprima per aver sottovalutato la sua preoccupazione ed averla involontariamente forzata a fare ciò che non voleva, in secondo luogo per non averle prestato soccorso quando ne aveva bisogno, oltre ad averla lasciata da sola, abbandonandola a se stessa.
Rischiando di inciampare sui tacchi rossi che aveva indossato la sera precedente, piombò all’interno dell’edificio e venne immediatamente fermata da un agente di polizia.
«Come posso aiutarla?» le domandò con sguardo allarmato, mentre Santana riuscì a malapena a pronunciare il nome di Quinn a causa del fiato corto.
«E’ una sua parente?» le fu chiesto, mentre veniva scortata lungo un corridoio.
«No, ma sono l’unica persona che ha» confessò, ottenendo in cambio uno sguardo diffidente.
Le fu chiesto di attendere in una stanza, in cui fu lasciata da sola per un arco di tempo che le sembrò interminabile. Sembrava essere un piccolo ufficio, vi erano scaffali pieni di scartoffie ed una scrivania con un computer abbastanza ingombrante ed altri documenti sparsi su di essa. Dopo aver girovagato per qualche istante nella stanza, si sedette in una delle sedie di fronte la scrivania ed iniziò a picchiettare impazientemente il piede sul pavimento. In seguito ad un’interminabile e snervante attesa, finalmente la porta si aprì e vide un uomo comparir; dietro di lui c’era lei, Quinn. Indossava una tuta arancione, i capelli erano legati in una coda bassa e il viso aveva un aspetto logorato, gli occhi gonfi suggerivano stanchezza e scarso sonno. Alla vista di Santana le si illuminò il volto e lo sguardo assunse un’espressione indecifrabile, dalla quale trapelavano emozioni contrastanti. Alla sua vista, Santana le si piombò addosso, gettandole le mani al collo, e non riuscì a trattenere un paio di lacrime, sia per la commozione nell’averla finalmente rivista sia per il senso si colpa che la stava lacerando dall’interno.
«Mi dispiace» le sussurrò all’orecchio, dopo averle stampato un bacio sulla tempia.
La reazione di Quinn fu apatica e passiva, si limitò a poggiare le mani sulla schiena di Santana, dalla quale si lasciò abbracciare senza obiezioni. Non riusciva a comprendere se era più adirata per la situazione in cui l’aveva abbandonata o sollevata che fosse finalmente venuta a prenderla.
«Prendete posto, per favore» ordinò l’agente, dopo essersi accomodato sulla poltrona dietro la scrivania, ed iniziò a far scorrere diversi documenti tra le dita.
«Abbiamo analizzato il registro della signorina e, dopo aver appurato la mancanza di precedenti penali la presenza di un’educazione in corso e un lavoro stabile, abbiamo deciso di rilasciarla sulla parola» dichiarò poi, spostando l’attenzione da una ragazza all’altra. Santana emise un lungo sospiro di sollievo, allungando la mano verso quella di Quinn e rivolgendole un sorriso, il quale venne a malapena ricambiato.
«Tuttavia dovrà presentarsi giovedì per la sua citazione in giudizio - continuò subito dopo - dal momento che non si è dichiarata colpevole, in modo tale da contestare i capi d’imputazione nei suoi riguardi»
Detto questo, consegnò a Quinn un fascicolo contenente una copia del suo mandato d’arresto, insieme a data e luogo della citazione in giudizio, con tutte le informazioni necessarie per affrontare il processo.
«Se non ha già un avvocato a cui rivolgersi, potremmo assegnargliene uno privato» disse poi, congiungendo le mani e sporgendosi verso Quinn «o pubblico, nel caso in cui non se lo potesse permettere»
«Ce lo possiamo permettere» replicò Santana con tono dispregiativo, portandosi avanti anch’ella.
«Allora non mi resta che congedarvi» esclamò l’agente, sfoderando un sorriso di finta cordialità alle ragazze, e si alzò quasi come se le stesse espellendo «Buona fortuna per giovedì»
 
La sera precedente, 00.30
Brittany si precipitò fuori dall’automobile senza dire una parola, poi aprì lo sportello del lato del passeggero ed afferrò Santana per una mano, trascinandola dietro di sé senza dare alcuna spiegazione.
«Cosa stai facendo?» le domandò quest’ultima, confusa e ignara delle intenzioni della ragazza, che dal canto suo ignorò la domanda e la condusse all’interno dell’abitazione.
«Ho bisogno che tu faccia una cosa per me» le confessò Brittany, aveva gli occhi arrossati e le palpebre gonfie a causa delle lacrime versate poc’anzi, il respiro era irregolare, le mani tremolanti e la voce rotta dall’agitazione. Prima che se ne potesse rendere conto, Santana si ritrovò il corpo di Brittany avvinghiato al proprio; le mani le avvolgevano le guance mentre sentiva la pressione delle sue labbra contro le proprie. Si ritrasse di scatto, posandole le mani sulle spalle per allontanarla.
«Brittany, non sei nelle condizioni…» farfugliò inutilmente, dal momento che la ragazza sembrò non tener conto delle sue parole, e fu costretta ad allontanarla nuovamente «Dico sul serio!»
«Tu non capisci» mugolò Brittany, sul punto di scoppiare nuovamente in lacrime «Devi aiutarmi»
«Sono sicura che ci sia un altro modo» insisté Santana, incrociando le braccia sul petto e spostando lo sguardo altrove per evitare l'espressione sofferente di Brittany.
«Non c’è» ribatté quest'ultima, inginocchiandosi ai piedi dell'altra come segno di supplica «Ti prego…»
Santana la scrutò a lungo, sbigottita, rilevando la sofferenza che traboccava dai suoi occhi imploranti, come se invocassero disperatamente il suo aiuto. Sembrava un cucciolo smarrito, stanco di essere vittima di una costante sofferenza ed in cerca di un calore che probabilmente non aveva mai sperimentato; in quel preciso istante appariva spoglia di qualsiasi difesa, talmente fragile al punto che Santana temeva che, se l’avesse sfiorata, si sarebbe rotta in mille pezzi tra le sue mani. Le posò delicatamente una mano sulla guancia, spazzando via un’ennesima lacrima che le correva lungo lo zigomo. Brittany chiuse gli occhi al contatto con la sua mano e gliela racchiuse tra le proprie, stringendo la presa. Santana sospirò profondamente, poi anche lei si mise in ginocchio e la baciò dolcemente sulla guancia, assaporando una lacrima che le scorreva lungo il viso. Emise poi un lungo sospiro di rassegnazione ed annuì con il capo, facendole intendere di essere disposta ad aiutarla. Non poteva prevedere se il giorno si fosse pentita di quella determinata decisione, ma in quell’esatto istante scelse di accantonare qualsiasi esitazione ed abbandonarsi finalmente alle proprie emozioni.
 
1 Novembre, ore 12.45
Riusciva ancora a percepire quel gomito premuto saldamente contro i reni, le mani che le stringevano i polsi in una presa da cui era impossibile divincolarsi, il suo fiato costantemente sul proprio collo. Ripercorse mentalmente le sensazioni che l’avevano investita come un treno in corsa nel momento in cui aveva sentito il metallo freddo delle manette a contatto con la sua pelle, come se le fosse stata strappata via la libertà in una manciata di secondi. Percepiva ancora sopra di sé la vergogna dell’attimo in cui dovette spogliarsi dei suoi vestiti, della sua dignità; era un’umiliazione mai provata prima d’ora, quella che aveva percepito nel percorrere i corridoi gelidi costeggiati di celle anguste, bombardata di occhiatacce e appellativi irridenti, frasi provocatorie ed espressioni derisorie da parte di individui che si erano sentiti autorizzati a giudicarla per il puro fatto che indossava una tuta arancione ed un paio di manette ai polsi. La sua mente raffigurò la stanza umida e spoglia in cui fu costretta a trascorrere una notte insonne, abbandonata alla sua solitudine; le avevano tenuto compagnia solamente i lamenti rimbombanti ed i pianti strozzati dei prigionieri ammassati come topi in spazi piccoli e disumani con muri alti per separarli da qualsiasi contatto col mondo esterno, costretti a pagare le conseguenze dei loro sbagli, a volte bravate, altre invece azioni ben più gravi, forse imperdonabili, altri ancora addirittura probabili innocenti, portati lì con l’inganno. Tra il futuro rubato a giovani e l’esperienza di uomini che non hanno più nulla da perdere, in quel luogo diventavano tutti uguali, etichettati e identificati come semplici numeri, a cui è stato strappato via l’ultimo brandello di umanità. Costretta a mangiare nello stesso luogo in cui avrebbe dovuto fare i suoi bisogni, era come se il tempo non trascorresse mai e fosse congelato, bloccati in una sottospecie di limbo, in cui si riusciva a captare la differenza tra giorno e notte solamente dai raggi che filtravano tramite piccole finestre. Non esistono emozioni: ci sono solo il bianco ed il nero e l'aria che si respira è impregnata di sofferenza, abbandono e sconforto. Rimanendo rinchiusi, senza alcuna attività con cui tenersi occupati, da soli con sé stessi e privati della propria libertà personale, non si può fare altro che pensare e ritrovarsi intrappolati in un flusso di coscienza senza fine: ci si rende conto di tutte le occasioni perse nella vita, quindi ogni cosa, anche ciò che sarebbe potuto risultare più semplice nel mondo esterno, acquista valore all'interno di quelle quattro mura. Si viene divorati dalla nostalgia delle persone e della libertà negata, dal rimpianto di un’azione commessa e che potrebbe essere stata evitata, dalla rassegnazione ad un destino che probabilmente era stato già scritto. Non si può far altro che pensare al futuro e ad una possibilità di rivalsa con l’indipendenza riacquisita, ma ciò è accompagnato dall’inevitabile difficoltà di reinserimento nella società e sensazione di aver ormai gettato via la possibilità di un’esistenza dignitosa. Mentre percorreva la strada di ritorno verso casa, all'interno di un comune taxi e seduta accanto all'unica persona presente nella sua vita, Quinn era certa del fatto che per nessun motivo al mondo avrebbe mai voluto rimetter piede in quell'inferno.


Angolo dell'autrice
Ed eccoci finalmente col terzo capitolo! Mi scuso nuovamente per l'attesa, ma sono stata travolta da esami e prove in itinere. Inoltre ho trascorso molto tempo per informarmi sui sistemi carcerari, spero si noti lo sforzo che ho impiegato in queste ricerche! Voglio ringraziare le recensioni, così come le persone che seguono e gradiscono, anche silenziosamente, la mia storia. Vi mando un grande abbraccio e spero abbiate apprezzato questo terzo capitolo; che siano giudizi positivi, neutri o negativi, fatemelo sapere! Alla prossima xx
Alis
  
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