Titolo: You won't find a way to
escape
Personaggi: Armie Hammer, Timothée Chalamet
Pairing: ArmiexTimothée
Rating: Giallo
Genere: Slice of life, Introspettivo, Sentimentale
Avviso: One-shot, Slash (Real Person Slash), What
if?
Quello
probabilmente era il momento in cui si trovava più vulnerabile, il momento in
cui non avrebbe potuto proteggersi e provvedere completamente a se stesso. Essere colpito a tradimento dalla sua entrata in
scena.
Stava mettendo
tutto se stesso in quel progetto, nel non deludere chi
l’aveva scelto nel tentare in ogni modo possibile di riuscire a suonare quel
pianoforte – e la chitarra – nell’esecuzione migliore che poteva permettersi;
che doveva permettersi. Aveva tergiversato un po’ troppo e procrastinato
all’inverosimile, finché non era sceso a patti con se
stesso ed aveva deciso di riuscire in quella missione così ardua quanto
indesiderata.
Suonare il
pianoforte non era mai stato qualcosa che l’allettava, per quanto apprezzasse
lo strumento, e in passato aveva provato a suonarlo, benché quasi con
costrizione. Era una costrizione anche in quel contesto, ma faceva parte del
gioco, del suo lavoro ed era abbastanza serio da sapere come essere
professionale.
Era in Italia già
da qualche settimana, da solo e con il suo insegnante di piano; le interazioni
con il prossimo erano quasi assenti per via della differenza linguistica e
passava il suo tempo a parlare praticamente con la sua stessa persona,
ripetendo e ripetendo quelle battute in italiano che figuravano nel copione. Il
suono della sua voce e dello strumento che tentava in tutti i modi di domare erano tutto ciò che rimbombava nelle sue orecchie.
Ma quel giorno,
quasi fosse inaspettato ed avesse completamente perso la nozione del tempo, con
l’impegno totale che dava nell’eseguire a menadito gli spartiti del suo
personaggio, entrò quasi con prepotenza e senza annunciarsi la rappresentazione
del canone stereotipato americano – di lui non si poteva dire lo stesso, ogni
centimetro del suo corpo gridava i geni dominanti che l’avevano reso in tutto e
per tutto esteriormente francese, senza che potesse in qualche modo simularlo;
dai geni americani non aveva ereditato nulla, totalmente recessivi –, la sua
altezza sorprendente che lo faceva impallidire al suo fianco, insieme a quella
stazza senza confini; i capelli chiari composti da ciocche lunghe e gli occhi
azzurri. Blu. Erano blu come l’oceano
più profondo ed illuminato dal sole che circondava la loro terra.
Incredibili occhi blu era tutto quello che la sua mente riusciva a
partorire in quell’istante, nell’istante in cui con fare prepotente e di chi
non si cura completamente del prossimo aveva spalancato la porta che divideva
Timothée dal resto del mondo, con le sue note da imparare e le dita che
scivolavano sui tasti bianchi e neri. Non poteva distrarsi. Non poteva essere
distratto. E non poteva essere distratto da quello che appariva un rozzo
americano con maniere brutali in tutta la sua essenza. Ma era il suo sangue
francese a parlare? A giudicare? Era il suo patrimonio genetico che apparteneva
alla civiltà dai modi perfettini e dall’eleganza estrema a prendere il
sopravvento, a non apprezzare quell’incursione che aveva soltanto il pretesto
di deconcentrarlo e richiamare tutta l’attenzione della stanza?
Armie Hammer, la sua co-star, il
suo collega, la persona con cui avrebbe interagito di più sul set e con cui
sarebbe stato costretto a creare un’intimità senza precedenti. Il solo
americano in tutta Crema con cui avrebbe dovuto passare il tempo per non
diventare sordo e nauseato dalla sua stessa voce. L’uomo che avrebbe dovuto
toccare e baciare, cancellando ogni traccia riconducibile al platonico,
sostituita da un intenso, incredibile ed indescrivibile desiderio carnale.
Elio era completamente
calamitato dalla figura di Oliver, ma Timothée storceva il naso alla presenza
di Armie.
Timothée avrebbe
voluto non chiederselo, non soffermarsi mai su ciò che le sue azioni mettevano
in moto, fino a dove riuscisse a spingersi senza davvero proteggere se stesso.
L’aveva toccato
per caso mentre ripassavano il copione insieme, chiusi in ordine di rotazione
nella camera di Armie, imitando ed esplicitando quei
modi che caratterizzavano il personaggio di Elio, quei gesti che portavano il
diciasettenne a cercare a tutti i costi il contatto fisico con Oliver.
Stavano recitando,
era il loro lavoro, era il motivo per cui erano lì e venivano pagati, ad una
settimana dall’inizio delle riprese. Non c’era nessun secondo fine, nessuna
intenzione o speranza di arrivare da qualche parte.
Stavano recitando.
Ma Armie lo baciò sulla bocca all’improvviso, senza
annunciarsi proprio com’era accaduto quando si era presentato a lui la prima
volta.
Era stato
inaspettato, inatteso e completamente fuori contesto, Timothée non ci aveva
pensato un solo attimo. Ma Armie l’aveva baciato, in
un momento troppo precipitoso per un evento che doveva presentarsi molte pagine
dopo. Armie l’aveva baciato due settimane dopo il suo
arrivo.
Era rimasto
sgomento, sconvolto, con il fiato bloccato nella trachea e lo sconcerto
dell’imprevedibilità che faceva a pugni con la sua meticolosità. Ciò che lo
rendeva reale e non un sogno erano i graffi che la barba dei tre giorni gli
avevano recato nella morsa, arrossandogli la pelle sensibile e procurandogli un
prurito fantasma – come Oliver avrebbe dovuto radersi, ma come Armie aveva ancora il privilegio di rimandare. «Non eravamo
ancora arrivati a quella parte» fu tutto ciò che riuscì a strascicare.
Le labbra di Armie si curvarono verso l’alto in quella piega
boriosamente americana che tanto lo contraddistingueva, ma era solo apparenza.
Era davvero la sua parte perfettina e totalmente francese a prendere il
sopravvento. A giudicarlo e ad esserne indispettito.
Armie gli sorrideva con calore, quasi intenerito da quella
reazione che in tutta onestà si era aspettato, così tipica di quella figura
eterea e delicata da non sembrare nemmeno vera. Quell’innocenza che ancora lo
rappresentava e quell’atteggiamento infantile che lo esaltava, colorando quelle
giornate così monotone ed i possibili pensieri cupi che minacciavano di
tormentarlo. Aveva vent’anni e tutto il diritto di essere esattamente in quel
modo.
Timothée Chalamet
aveva soltanto vent’anni ed era l’essenza vera della vita.
Lo baciò di nuovo,
chinato su di lui, con più intenzione, con più desiderio ed il chiaro messaggio
delle sue intenzioni.
Timothée lo guardò
per un lungo ed eterno secondo, riflettendosi nei suoi occhi quasi a cercare
una spiegazione, una risposta, la concretezza che quello che stava accadendo
fosse reale e non radicato nei suoi pensieri inespressi.
Indugiò per un
altro istante e con il raccoglimento di quel coraggio che non sapeva nemmeno di
avere, certo che mai si sarebbe manifestato in quell’occasione così precaria.
Così disastrosa.
Le bocche
tornarono in collisione con quella fame fremente che poteva essere toccata
concretamente, quasi da essere tagliata a fette per dimostrare quanto corpo in
verità avesse.
Dio, Timothée stava
baciando la sua co-star, il suo collega, l’uomo interprete di quel personaggio
controverso che mandava in confusione il protagonista della loro pellicola.
Timothée stava
baciando un uomo. Un uomo sposato. Un uomo che era già padre. Un uomo che aveva
una famiglia ed un anello al dito che non smetteva mai di sfoggiare.
Era in un guaio
enorme. Era nella peggior tana delle serpi in cui sarebbe mai potuto
inciampare. Era così che si sentiva il suo personaggio, Elio? Quel buttarsi a
capofitto in quell’infatuazione carnale che non riusciva a trattenere,
imprudente e cieco davanti a quelle avversità che in un futuro non tanto
lontano lo avrebbero condannato.
Con le mani che si
intricavano tra le ciocche chiare dell’altro, scompigliandogli la perfetta
chioma che richiedeva la fisionomia di Oliver, strattonando, tirandolo a sé, la
passione crescente che divampava e quel bisogno disperato di averlo più vicino,
sempre più vicino, da non notare più la distanza tra le loro epidermidi
bollenti che esigevano di essere nutrite, si ritrovarono con forza sul letto di
Armie, stropicciando le lenzuola del materasso
perfettamente ordinato e sistemato soltanto alcune ore prima dalle donne di
servizio dell’hotel in cui alloggiavano.
Come c’erano
arrivati? Perché erano lì? Che cosa si stava perdendo? Perché non riusciva a
smettere di baciarlo? Come potevano essere passati dal ripassare insieme le
loro battute a ritrovarsi le mani del suo partner armeggiare con i suoi
pantaloni? «Cosa sta succedendo?».
«Stiamo provando»
enunciò in tutta tranquillità il suo collega, l’imperturbabile sorriso marpione
che esprimeva quell’ilarità spensierata davanti alle reazioni del ragazzo
dinnanzi a sé.
«Stiamo provando?»
domandò Timothée in un eco ridondante, così al di là della comprensione
distorta che quelle parole lasciavano risuonare dentro di lui.
Armie gli chioccò un nuovo bacio sulle labbra, una carezza
vellutata che appariva come un sogno. «Siamo Oliver ed Elio».
Le perle di
smeraldo chiaro si spalancarono e tutto si azzerò di qualche senso logico.
«Oliver ed Elio» lo proferì in un soffio raffermo, l’incredulità unita a
quell’incomprensione fin troppo evidente, con le intenzioni nascoste dietro ad
un gioco di ruolo.
Le mani del
ventinovenne scesero a privarlo dei pantaloni comodi che entrambi preferivano
quando erano lontani da occhi indiscreti, nella familiarità più estrema e senza
dimostrazioni di apparenza perfetta. Legò nuovamente le loro bocche in qualcosa
di più fisico e dominante, che richiamasse la sua totale attenzione, e fin dove
tutto quello li avrebbe condotti.
La pelle delle
cosce magre fu venerata dalle dita più adulte delle sue, assaporandone e
testandone la compattezza, mentre veniva distratto ed accompagnato da quelle
morse che non demordevano, minimamente motivate dal separarli.
«Armie» borbottò nell’offuscamento dei sensi, i movimenti
che divenivano più frenetici e chiari; la parte inferiore dei suoi abiti
completamente sparita e le falangi dell’altro che lo sfioravano nella parte più
intima del suo corpo, lì dove tutto era celato.
«Oliver» lo
corresse l’uomo, ammiccandogli grave e baciandogli un angolo della bocca
colorata di scarlatto.
Timothée annaspò
per quel lieve terrore che disturbava le sue sinapsi, quasi inorridite da
quella fermezza che imponeva di interpretare persone diverse, anche se erano
lì, anche se erano esattamente loro due. E se fosse stato semplicemente quello?
Il nascondersi dietro ad un palcoscenico per avere quello che si voleva? Per
giocare. «Non arriveremo così lontano con le riprese».
«Loro sì» obiettò
con conoscenza il più grande, infilando il primo dito dentro l’intimità il
ragazzo, portandolo a boccheggiare preso alla sprovvista. «Loro proveranno
tutto questo e noi dovremo esternarlo».
«È così sbagliato»
lo era davvero, ne era pienamente cosciente, non poteva negarlo in alcun modo,
ma il suo corpo era un tale traditore, assetato del calore che Armie poteva infondergli e di cui già ne tesseva le lodi
soltanto da uno sfioramento accidentale. Era così patetico. Era un tale
ragazzino patetico.
Le dita non impegnate
dentro di lui ad allargarlo, a prepararlo, gli accarezzavano l’interno coscia
con gentilezza, quell’affetto caritatevole e rassicurante che aveva solo
l’intenzione di proteggerlo e farlo stare bene. «Se è ciò che desideri, non
sarà uno sbaglio».
Le gemme verdi si
specchiarono in quelle del mare, così vive, così autentiche da farlo star male.
Ne era rimasto incantato fin dalla prima volta, a dispetto del suo disprezzo
inziale, preso in contropiede in un momento di totale esposizione. Ma non era
esposto anche in quel momento? Mezzo nudo, un’erezione già evidente ed il suo
intero organismo che rispondeva alle movenze dell’altro, chiedendo e quasi
pretendendo di più. «Desiderio?».
«Sì» confermò
l’interprete del primo amore di Elio – ti
prego, ti prego, non farlo diventare anche il mio.
«Anche tu? Lo
provi anche tu?» che risposta doveva aspettarsi? Come poteva farsi ancora più
male?
«Sì» la mano
libera andò a circondargli il volto niveo e candido, incredibilmente pulito,
pretendendo la sua attenzione e la cadenza che tutto quello aveva. «Ti
desidero».
Forse erano
davvero come Elio e Oliver. Forse erano davvero Elio e Oliver. Si muovevano
perfino nel medesimo modo senza rendersene conto; parlavano alla stessa
maniera, eppure mantenevano se stessi. Ma il ventenne
sperava che non fosse solo quello, che non fossero guidati ed ammaliati dai
loro personaggi, confusi e plagiati dalle figure del ragazzo per metà italiano
e dell’americano spaccone. Sperava che vi fossero anche Armie
e Timothée.
Le labbra di
Timothée si distesero nel più glorioso ed entusiasta dei sorrisi ed eccola, quella piega autentica e
splendente che era impossibile imitare ed estendere contro la sua volontà in
una recitazione scadente. Era inequivocabilmente quello, il sorriso che
illuminava l’intero universo e di cui Armie era
infatuato.
Non era vero che
Timothée sembrasse non sopportarlo – alla fine era stata davvero la sua parte
francese a prendere il sopravvento e ad esserne infastidita –; erano gli unici
americani in tutta Crema fino a quel momento, potevano parlare soltanto tra di
loro, si proteggevano sempre e l’uno era costantemente
a disposizione dell’altro. Armie era il suo mentore,
l’uomo che gli dispensava consigli sul loro lavoro di attori e sulla vita
stessa.
Armie era l’uomo per cui provava un’attrazione spaventosa,
miscelato a quel sentimento d’affetto così primordiale da inorridirlo.
Armie era l’uomo sposato a cui non smetteva un attimo di
pensare, che lo pressava contro quel letto disfatto, muovendosi dentro di lui,
riempiendo le quattro pareti del loro alloggio privato di gemiti incontrollati,
focosi ed indecenti, che non potevano essere scambiati per altro se non per
quello che in verità rappresentavano.
Armie era l’essere meraviglioso che stringeva tra le braccia,
accogliendolo in sé, su cui troneggiava minacciosa e con beffarda ironia la
fede nuziale che mai si toglieva e che dichiarava il suo stato di appartenenza,
eppure egoisticamente lo voleva soltanto per se
stesso. E quella sarebbe stata la sua disfatta.
Cominciava a
crederlo davvero, non poteva quasi più ignorarlo, quando girava le sue scene ed
interpretava Elio, spesso non stava nemmeno recitando.
Il modo in cui
guardava Oliver, così struggente, così trasparente, completamente devoto a lui;
il modo in cui lo toccava e lo lambiva con attenzione accurata, gli sguardi non
visti, ma studiati, il pensarlo lontano da lui e il tormento che non gli dava
pace, quella gelosia latente che lo logorava, le risate vere che gli scatenava
e quei sorrisi un po’ timidi, quasi si vergognassero di essere lì, ma che
contenevano tutto quello che provava per lui, con quella leggera malizia
complice che sfociava senza alcun controllo, ma con pura naturalezza. E i baci.
Al primo ciack,
nell’istante in cui era stato deciso di affrontare il primo bacio tra Elio e
Oliver, in mezzo ad un vasto prato di campo zampillante di fili d’erba, gli si
era gelato il sangue.
Era quasi
impallidito, il fiato gli era rimasto intrappolato dentro la trachea e temeva
davvero di soffocare e sfociare in un attacco di panico.
Ma doveva
aspettarselo, giusto? Era lì per quello. Era lì per baciare, desiderare e amare
un uomo per cui in realtà provava effettivamente tutto quello – lo amava? Non
era troppo presto? Troppo trasportato dagli eventi? –; accidenti, veniva perfino pagato per far esattamente ciò che faceva
nascosto dietro ad una porta, all’interno di una camera d’hotel innominabile.
Nel primo giro di
telecamera, con il silenzio religioso che avvolgeva tutto il set per ottenere
un lavoro impeccabile, Elio e Oliver si baciarono, ma erano trattenuti,
titubanti, quasi non sapessero cosa stessero facendo; quasi non si
sbilanciassero di proposito per non far capire esattamente che Timothée e Armie sapessero eseguirlo alla perfezione quel bacio, senza
sbavature e con tutta la passione del mondo che scorreva nei vasi sanguigni.
Senza far capire che passavano ore a mangiarsi l’un l’altro, con il terrore che
venissero scoperti e che trapelasse perfino quante volte si erano uniti quella
stessa mattina, prima di separarsi ed affrontare il lavoro.
Ma era quella
passione che il regista cercava, era quella fame disperata che non sapevano
contenere che voleva immortalare, renderla eterna sulla pellicola e
sbandierarla all’intero pianeta.
Ci provarono
diverse volte, si attorcigliarono nel modo più controllato che riuscivano ad
escogitare per non cedere, per non renderlo evidente, eppure per trasmettere
con esattezza ciò che provavano; ciò che Oliver ed Elio dovevano palesare e
rendere chiaro una volta per tutte.
Ma non andava mai
bene, non era quello che Luca Guadagnino voleva vedere; non era quello che Elio
ed Oliver avrebbero dovuto esternare. «Non ci starete prendendo troppo gusto?».
Era una battuta,
Timothée lo sapeva, soprattutto perché era quel lasciarsi completamente andare
che evinceva mancare in quell’interpretazione. Ma non poté che sentirsi male,
perché in effetti ci stava prendendo gusto; dopotutto poteva baciare l’uomo che
gli scombussolava gli ormoni alla luce del sole, senza nascondersi, senza
celarlo, senza doversi vergognare di quello. Poteva quasi prendersi la scusa di
sbagliare e non dare ciò che la regia cercava per continuare a baciarlo tutte
le volte che voleva.
Armie curvò appena le labbra, quasi fosse stato beccato, ma
era più rassegnazione divertita, quasi lo trovasse buffo. Gli schioccò un bacio
appena percepibile in un angolo della bocca, quello più protetto e lontano da
occhi indiscreti, benché fossero circondati da fin troppi esseri viventi muniti
di telecamere e microfoni.
Timothée impallidì
nell’immediato, gli occhi che si sgranarono al tocco e che si voltarono verso
il suo partner
con allarme, con
quel punto interrogativo che svettava tra di loro. Era forse impazzito?
«È okay» disse il
ventinovenne senza alcuna preoccupazione, con quel sorriso dipinto di una
complicità palpabile soltanto alle due figure che si specchiavano nelle iridi
chiare. Va tutto bene, siamo Oliver ed
Elio.
Siamo Elio ed Oliver. Sulla bocca di Timothée si manifestò quel sorriso
enorme che gli prendeva tutto il viso, colorando ed illuminando i dintorni,
quel peso eccessivo sulle spalle che evaporava via e che poteva permettersi di
esternare la complessità di ciò che provava senza preoccuparsi delle
conseguenze.
Quasi lo assaltò,
divorandogli le labbra, leccandogli il palato ed intrecciando animatamente la
lingua alla sua, con le grandi mani di Armie che gli
circondavano il volto, tirandolo verso di lui e rispondendo in egual misura,
senza contenersi, senza eclissarsi, senza segregare la passione infuocata che
li infiammava.
«Ecco, perfetto.
Però evitate di saltarvi subito addosso» Timothée scoppio a ridere
fragorosamente all’uscita onesta del registra che non aveva smesso di tenerli
d’occhio anche se spariva dalla loro vista ed Armie
gli massaggiò un fianco al di sopra della stoffa, quasi a completare il momento
di totale liberazione e l’oppressione che mitigava via.
Timothée avrebbe
voluto baciarlo in risposta, per chiudere lui stesso quel cerchio sempre un po’
aperto, ma era cosciente di non poterlo fare, di non poter azzardare così
tanto. Gli dedicò quell’espressione a metà bocca, i denti candidi che
figuravano e quel leggero affetto, intriso di amore – no, era infatuazione,
pura infatuazione – e la consapevolezza che Armie
quella notte gli avrebbe fatto qualsiasi cosa volesse.
Poteva affermare
di aver trascorso quasi lo stesso identico arco temporale con Armie di quanto Elio lo avesse passato con Oliver. Per il
suo personaggio erano state sei settimane, a quelle di Timothée invece potevano
aggiungersene altre due.
Ma a totale
contatto con Armie, sotto il suo corpo, riempito dai
suoi baci e da tutte le attenzioni con cui poteva ricoprirlo, i gemiti e i
sussulti nel cuore della notte ed ogni volta che ne avevano l’occasione, ne
aveva beneficiato per quarantadue giorni esatti, a differenza dei circa ventuno
giorni che erano toccati ad Elio – ma forse erano meno, forse Elio e Oliver
avevano perso molto più tempo.
Poteva dire che
gli fosse andata meglio? Come poteva, Elio non sapeva in cosa si stesse
imbarcando, con chi avrebbe condiviso quelle intense esperienze, Timothée
invece era ben consapevole di quanto Armie fosse
inviolabile, eppure non si era affatto trattenuto. Ma giunti alla fine delle
riprese, gli applausi finali per l’ottimo lavoro, la pazienza, i sacrifici e tutto
il resto, che cosa rimaneva?
Armie era andato via il giorno dopo la loro conclusione,
cosa che in realtà toccava anche a Timothée, ma con un orario e una
destinazione completamente diversi. Non si erano nemmeno salutati, non si erano
detti nulla, era semplicemente evaporato e si era portato via tutte le sue
cose, senza un ultimo bacio o l’accenno di un abbraccio sotto le coperte. Non
avevano parlato di niente nemmeno nella loro notte dell’arrivederci, quando
tutti si erano congedati ed i riflettori erano stati spenti. Erano finiti tra
le lenzuola ed avevano goduto l’uno dell’altro per un tempo lodevole, come se
fossero certi che fosse l’ultima volta. Lo era? Era la loro conclusione? Non si
meritava altro? L’avrebbe più rivisto o tutto sarebbe stato rinviato nel
momento in cui avrebbero dovuto promuovere il film?
E dopo di quello?
Dopo che cosa sarebbe successo? Come sarebbe riuscito ad andare avanti senza
che ogni pezzo di lui si perdesse per strada e non ci fosse più niente da
salvare?
Ma aveva sbagliato,
aveva dato per scontato che Armie non avrebbe più
voluto avere a che fare con lui, se non negli eventi a cui erano costretti.
La realtà
consisteva nell’evidenza di loro due che non sapevano resistersi, benché
fossero entrambi nel peccato e nell’adulterio.
C’era stata
riluttanza al loro primo casuale incontro, quegli occhi dell’oceano che
esternavano la certezza di ti ho visto
nudo e tu hai visto me, so che inclinazione prende la tua voce quando raggiungi
il piacere massimo e come curvi la testa nell’impossibilità di controllarti e
non poteva affatto essere equivocato con nient’altro.
Quando uno dei due
era nelle vicinanze dell’altro finivano sempre chiusi dentro quattro mura, che
fosse nella camera d’hotel in cui qualcuno di loro alloggiava o nei dintorni
della casa di Timothée.
Finì perfino per
conoscere la moglie del suo amante, Elizabeth, e la primogenita; il pancione
della donna già evidente e che annunciava il futuro nascituro. Un altro figlio,
altro amore.
Doveva essere
disgustato? Doveva esserlo? Sapere che in ogni occasione possibile Armie affondasse dentro di lui, raggiungendo l’orgasmo
insieme, dimenticando di avere una coniuge da qualche parte, gravida di un
nuovo bambino.
No, Timothée se lo
sarebbe tenuto così com’era, finché non sarebbe stato rinnegato, finché il suo
partner non si sarebbe stancato di lui e sarebbe tornato tranquillamente a
dedicarsi esclusivamente alla moglie, dimenticando la grandezza della relazione
che loro due avevano.
C’era soltanto un
dettaglio a fargli contorcere le budella ed il grottesco che la vita aveva in
serbo per lui.
Voleva ridere di se stesso, prendersi in giro e gettarsi in faccia il suo
essere ridicolo, talmente evidente da sogghignare malvagiamente.
Ne era sempre più
consapevole, aveva le prove da tutte le parti, quando giungeva alla fine di
un’intervista, di un evento importante, perfino al ritiro di un premio, le
parole prendevano vita da sé e lui non le conteneva in alcun modo, nemmeno ci
faceva caso e dava fiato a tutto quello che gli passava per la testa ed era
così messo male che accadeva persino quando i discorsi se li scriveva
anticipatamente. Quando smetteva di parlare, quando era lontano dalle luci
della ribalta, dalle domande, dai commenti scomodi, dalle insinuazioni velate e
non, si rendeva conto di come parlasse di Armie. Un
adolescente completamente innamorato del suo primo amore.
Che amarezza, che
vita burlesca.
Aveva cominciato a
parare il tiro, a mettere altri titoli tra loro, definizioni, un ruolo che
descrivesse il rapporto armonico che avevano, così amato dalle voci fuoricampo,
ma condannato dal resto del mondo.
Aveva cominciato
ad usare parole come fratello, mentore,
il mio migliore amico; il mio re.
Dio, quanto era bravo a scavarsi la
fossa da solo.
Armie poteva essere definito in ogni modo possibile, era
sicuramente il suo mentore, era assolutissimamente il suo re e poteva anche
definire che fosse il suo migliore amico, con una certa inclinazione e
cambiando prospettiva di visione, ma fratello,
fratello proprio no.
Inseriva quelle
definizioni ovunque potesse, tranne quella riferita al re, che a volte gli
scappava con infamia. Le colorava, le arricchiva, gli dava uno scenario,
contornava tutto di tante e tante parole che prendevano vita autonomamente, con
il pregio ed il difetto della sua logorrea; ubriacava il telespettatore e chi
lo intervistava di chiacchere su chiacchere, finché non perdeva il sentiero
delineato e andava a parare da un’altra parte, come a voler intelligentemente
cambiare argomento, andare dove fosse meno spinoso; peccato che la sua vita
fosse la manifestazione di una rosa cosparsa di spine ed ovunque volesse andare
a parare, finiva sempre per pungersi – era bravo a compromettere se stesso.
Armie non lo correggeva mai, non si intrometteva e non
cambiava discorso, non lo rimproverava nemmeno a programma concluso; a volte
stava al gioco, a volte non proferiva alcuna parola e rimaneva statuario e
perfetto com’era, un uomo fatto e finito che non si lasciava trascinare da
nulla e non si sentiva toccato in alcuna maniera, eppure c’erano quelle volte
in cui sembrava imbarazzato, infastidito, disturbato, quasi non fosse nei panni
giusti, sudasse quasi freddo e si distaccasse totalmente, estraneo ad un
Timothée che parlava come un fiume in piena senza che qualcosa potesse rallentare
il suo flusso. Ma in linea di massima era la figura da uomo a tutti gli effetti
a primeggiare e Timothée era soltanto un ragazzino affacciato appena all’età
adulta; era quasi comprensibile, poteva permettergli quegli errori così
grossolani che il pubblico si beveva, quasi fosse una continua vendita del
prodotto che avevano creato insieme, una promozione senza termine per il loro
film. Da qualsiasi parte la si vedeva, che fossero Elio ed Oliver o stessero
vendendo ciò che era accaduto nell’estate di Oliver ed Elio, era una perfetta
copertura. Ma Armie ne era cosciente? Sapeva capire
cosa provasse in realtà per lui?
«Timmy» non era l’unico al mondo a chiamarlo con quel
diminutivo e di certo non era il primo, ma l’impatto e l’effetto che aveva su
di lui, sul suo essere, la voce roca e forte da maschio vero che si tendeva a
quella carineria, a quella dolcezza così innaturale sulla figura gigantesca del
trentunenne, lo disarmavano ogni volta e gli contorcevano lo stomaco,
rendendogli le gambe di gelatina.
Ennesima
intervista conclusa, ennesimi convenevoli per concludere la serata e non
defilarsi come se fossero fantasmi ed ennesima notte passata a rotolarsi tra le
lenzuola, tra respiri pesanti e nomi sussurrati sottovoce, soffocati ognuno
nella bocca dell’altro, sfregando nella barba colta dell’uomo che gli arrossava
la carnagione nivea in ogni parte. Era quella l’unica routine che potevano
permettersi, quando agli eventi mancava la figura della consorte che seguiva il
suo amante. «Voglio bene ad Elizabeth».
Armie lo guardò senza capire, contraendo appena la fronte,
osservandolo seduto sul letto, con la schiena nuda poggiata alla testata del
letto, le ginocchia strette al petto e tenute saldamente dalle braccia
incrociate, mentre osservava la mattina che si era affacciata da qualche ora e
che filtrava attraverso le porte-finestre della
camera d’hotel. «Anche lei te ne vuole».
Timothée curvò le
labbra ilare, sofferto e con quella burla premente per se
stesso. «Odio la situazione in cui mi hai messo».
«Quale situazione?»
domandò l’uomo con interesse e con quello smarrimento perpetuo che non riusciva
a cacciare.
«Tu, me,
Elizabeth» elencò in un quadro ben chiaro, in una comunicazione che rendesse
tutto visibile e non ci fosse bisogno di esternare nient’altro. «Come ti è
venuto in mente di presentarmela?».
«Non potevo agire
diversamente. Sei un mio collega, andiamo agli stessi ricevimenti, cosa pensi
avrei dovuto fare? Far finta di non conoscerti?» non c’erano mai state
alternative, una via di scampo. Presentare Timothée a sua moglie faceva parte
del gioco, del campo lavorativo di cui faceva parte. Non poteva ignorarlo, non
dargli peso, negare che in qualche modo non si trovassero a loro agio insieme,
far finta che fosse tutta scena per i riflettori e vendersi per pubblicizzare
la pellicola; sua moglie avrebbe saputo la verità su quell’aspetto.
«No, ma…» si voltò
verso di lui, avvolto ancora dalle lenzuola bianche che coprivano le sue
nudità, il corpo perfetto che Timothée bramava e quegli occhi zaffiro che gli
scavavano dentro. Era così perso per lui, così inabissato, sepolto, senza una
via che gli indicasse l’uscita di quel labirinto tortuoso, come non lo era mai
stato per nessuno. Come mai avrebbe pensato potesse accadergli. «Potevi evitare
che mi trascinasse nelle vostre vite».
Armie gli afferrò il viso tra le mani, tirandolo verso di
sé e cozzando le bocche che non mancarono di rispondere l’una all’altra, quasi
non fossero capaci e trattenersi fosse un peccato capitale, che li avrebbe
condannati e portati negli inferi. Chi erano loro per tirarsi indietro?
Timothée gli
respirò pesantemente sulle labbra schiuse, la fronte poggiata interamente alla
sua, gli occhi del mare fissi sulle palpebre serrate delicatamente del ragazzo
che si abbandonava e godeva del contatto tra i loro corpi, della benedizione
unita alla maledizione che comportava. «Mi ha preso sotto la sua ala. Mi fa
sentire costantemente parte della famiglia, come se fosse anche la mia».
«È così infatti»
confermò il trentunenne senza titubanze, credendovi ciecamente.
Timothée scosse la
testa, le perle di smeraldo che si mostravano acquose e devastate. «Vado a
letto con suo marito» è orribile. In
tutto quello aveva la costante sensazione che lei sapesse o che quanto meno
avesse capito che dalla parte di Timothée ci fosse qualcosa, benché magari non
riuscisse ad identificare come vi si relazionasse il suo coniuge. Che fosse
anche un modo per tenerlo d’occhio, per tenerli entrambi? La mossa del se non puoi batterlo, allora unisciti a lui.
Ma credeva davvero che uno sciocco, logorroico ragazzino pelle ed ossa e che
all’occhio saltassero nell’immediato i tratti francesi che lo identificavano,
potesse mai batterla? Portargli via l’uomo che aveva sposato ed il padre dei
suoi figli? Probabilmente Timothée sarebbe stato il primo ad impedirglielo,
andando contro se stesso. «Ma sai
cos’è la cosa peggiore? La cosa veramente orribile? Non voglio separarmi da te,
non voglio lasciarti andare».
In un attimo il
ventiduenne si sentì prendere di peso dai fianchi, portare sulle gambe nude del
partner ricoperte dalle lenzuola intrise dei loro umori, in cui non era affatto
nascosto il tipo di relazione che consumavano da un anno e mezzo. «Nemmeno io».
Timothée voleva
piangere, spassionatamente, ma non poteva farlo, non poteva permetterselo, non
poteva caricare entrambi di quel peso e men che meno poteva gravare così tanto
sul suo amante. «E cosa faremo? Cosa ne sarà di noi?».
«Sei ancora così
giovane, Timmy» disse con un tono che Timothée non
riuscì ad interpretare, quasi Armie fosse intriso di
una vecchiaia e saggezza a cui lui non poteva arrivare, ma era troppo, troppo
esagerato, troppo fuori posto, così ingiusto ed amaro; Timothée avrebbe lottato
in ogni modo possibile per rendere Armie spensierato
e felice per un tempo sempre più dilatato. «Sei nel fiore dei tuoi anni, hai
ancora tutta una vita davanti a te. Nuovi progetti, nuovi orizzonti da
raggiungere, posti da vedere e visitare, amare ed odiare. Nuovi obiettivi e
battaglie che dovrai affrontare, nuove persone da conoscere e far entrare nella
tua sfera privata. Non sei giunto al capolinea, la tua vita non finisce qui;
non per una persona. Non per un solo uomo».
Timothée si
sbracciò senza controllo, senza averlo programmato e aver ponderato le
conseguenze, ma stava troppo male, si sentiva morire dentro e non gli piacevano
le cose che Armie gli stava comunicando come un
vecchio saggio che aveva già visto tutto. Gli gettò le braccia al collo e
basta. Lo strinse talmente tanto forte a sé con quell’impressione che fosse
impossibile poterlo rompere. «Sei l’unico uomo che io voglia».
Ebbe il sentore
che il trentunenne sorridesse sulla sua epidermide, un pio e minuscolo sorriso
quasi fosse confortato, divertito, da quell’immaturità egoistica che ogni tanto
Timothée faceva emergere. Glielo baciò anche quel lembo di pelle, tra la
mandibola ed il collo, stringendolo delicatamente dalla vita per ricambiare la
presa e chiudere l’abbraccio. «Hai tutta la vita, Timmy».
«E tu?» chiese di
rimando, con quel fastidio ed il pericolo che quel discorso da grande uomo
fatto e finito gli incuteva. Non gli piaceva, lo percepiva distorto. «Perché
sembra che insinui che la tua vita sia giunta al capolinea?» c’erano solo nove
anni di differenza tra loro, non erano chissà quale immensa montagna
impossibile da scalare. Appartenevano a due generazioni diverse, la loro
differenza fisica era lampante, rappresentavano l’uno l’opposto dell’altro, ed
anche quella mentale spesso saltava fuori, ma erano sottigliezze che con
l’avanzare dei giorni, degli anni non avrebbero inciso più di quanto già non
accadesse e che al contrario, nel momento propizio, non avrebbero nemmeno più
notato, ma avrebbero sempre fatto parte di loro, del motivo per cui si
attraessero tanto, piacendosi per quello che erano. Non si sarebbero rinnegati
mai.
«Perché è così»
dichiarò nell’assolutezza il trentunenne, consapevole delle proprie parole. «Ho
un lavoro, in cui non devo mai abbassare la guardia se non voglio essere
dimenticato. Ho una moglie e dei figli, sono un marito e un padre. Ho già
raggiunto tutti gli obiettivi che una persona può avere, devo solo mantenerli.
Combattere per tenerli stabili, non devo più cercare, guardarmi attorno e
chiedermi chi vorrei diventare».
«Non mi piace
quello che dici» si indispettì il ventiduenne, separandosi lievemente da lui e
guardandolo dritto sul viso, imbronciandosi con intenzione.
Armie soffocò una risata leggera, strofinando il naso
contro il suo. «Però è vero» Timothée appariva giornalmente più giovane di
quanto in realtà non fosse. Tutto il suo corpo appariva in quella fase infinita
di sviluppo completo che caratterizzava tutta l’adolescenza, una figura
prettamente longilinea e slanciata, ma in linea con il suo essere ed il suo
andamento; quella delicatezza e portamento così tipicamente francesi da non
poter far finta di non notarlo. Era elegante, era leggiadro e di una
raffinatezza impeccabile; gli arti erano lunghi e la pelle era candida come
neve, ma non sapeva stare dritto per più di una manciata di minuti,
automaticamente si incurvava, era scomposto e sgraziato nelle occasioni più
variegate; non riusciva a rimanere comodamente seduto per un tempo superiore a
due minuti e spesso, quasi ogni cinque secondi nelle situazioni che lo
mettevano a disagio o cercava la risposta giusta, si muoveva come un’anguilla
sui cuscini delle poltrone, dando la sensazione che volesse prenderli e
lanciarli da qualche parte, probabilmente beccando qualcuno in studio – il suo
portamento pubblico non aveva proprio nulla di francese, era così
spassionatamente americano da riderne non tanto amorevolmente. Ma il suo
sorriso era il più bello del mondo, contornandogli tutto il viso, ed aveva la
risata più meravigliosa dell’intero creato, così sincera e musicale da
contorcergli lo stomaco, riempiendo l’intero spazio aereo in cui si trovavano
ed i suoi occhi verdi si illuminavano di conseguenza, in un’unica risposta
autentica. Avrebbe voluto che quel suono gli rimbombasse per sempre nel nervo
acustico, come se non dovesse esistere nient’altro sull’immensità del pianeta.
«Sei cupo» ribatté
con rimprovero smorzato, quello tipico di un bambino che allentava la tensione
e ripristinava il corretto funzionamento di tutte le cose.
Armie gli schioccò un bacio sulla punta del naso, sulla fronte,
su una palpebra che si chiuse al suo passaggio e sulla bocca, su cui si
soffermò per una notevole e significativa quantità di tempo. «Forse hai
ragione. Forse è per questo che ho bisogno di te, di averti intorno. Sei
un’esplosione di entusiasmo, di energie da vendere e sei la rappresentazione
dalla vita. Sei il sole che non tramonta mai».
Timothée arrossì
colto del tutto impreparato, lo sguardo che si distoglieva da quello
dell’altro, ma che fu riacchiappato, legandolo ad una nuova morsa di fuoco, catturandogli
totalmente le labbra e la cavità orale. «Questo vuol dire che non ti libererai
di me?».
«Non avremo un
lieto fine, Timmy. Non staremo insieme per sempre»
non pensava nemmeno che Timothée ci credesse davvero, che la vedesse così rosea
per loro.
«Però staremo
insieme finché riusciremo a sopportarlo, finché sapremo ancora gestirlo»
c’erano ancora tanti progetti per loro, una seconda fase che forse avrebbe
riportato Elio ed Oliver a rincontrarsi, a confrontarsi con le scelte che
avevano fatto o che Oliver aveva fatto per entrambi. C’erano occasioni, eventi,
luoghi comuni, luoghi forzati, incontri organizzati e pianificati a tavolino.
C’era ancora tanto per loro, rintanati dentro camere d’hotel, soffocati sotto
lenzuola che bevevano i loro richiami e gemiti.
«Finché non ti
stancherai di me» parò il tiro Armie, distogliendolo
con abilità dal suo fantasticare, ma era ancora un tono leggero, un po’
sarcastico e carico di infinite possibilità.
«No, te l’ho
detto» ribatté il ventiduenne, sistemandosi meglio sulle cosce piene del suo
mentore, del suo migliore amico e del suo amante. «Sei l’unico uomo che io
voglia, mio re».
Uomo, ma c’erano
donne, un’infinità di ragazzi e ragazze, un intero mondo che Timothée Chalamet
teneva sul palmo della sua mano e di cui prima o poi si sarebbe reso conto.
L’avrebbe perso a quel punto e ad Armie sarebbe stato
concesso di tornare dalla sua famiglia con la coda tra le gambe, senza aver
perduto nulla, se non il suo astro solare personale, che lo scaldava in ogni
dove.
Timothée lo baciò
con ingordigia, quella frenesia incessante e fresca dei suoi vent’anni,
tenendolo forte, con la sola intenzione di amare e farsi amare dall’unico uomo,
persona, essere pensante, di cui gli importasse veramente sull’intero pianeta
terra.
Timothée non
avrebbe mai amato nessun altro come amava Armie Hammer, il suo mentore, il suo migliore amico, suo fratello
ed il suo re. Avrebbe dato qualsiasi cosa per lui ed avrebbe escogitato ogni
macchinazione per rimanere nella sua orbita.
Ti
prego, fai in modo che sia per sempre.
È stata una necessità
scriverla, quel martellare pressane nella testa che non va via finché non si
mette tutto su carta; a volte gli si da ascolto e altre no. Non ho nemmeno
quale grande attrattiva di trascrivere su persone reali, però loro due hanno
fatto tutto da soli e quindi chi mai poteva trattenersi?
Ho anche lasciato
passare due mesetti da quando questa storiella ha visto la luce ed era bella e
pronta, poi ho procrastinato.
Ringrazio la mia Beta
(EarthquakeMG) per aver trovato cinque minuti per
questa storia.
Ringrazio chiunque
passerà di qui, dedicandole il suo tempo e chiunque lascerà qualche parola.
Alla prossima,
Antys