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Autore: Nina Ninetta    26/04/2018    6 recensioni
Primo Classificato al contest "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" indetto da Little_Rock_Angel5 sul forum di EFP
Maria Caterina Di Vece è una delle donne magistrato più conosciute della Campania, ma un male incurabile la costringerà a fare i conti con la propria coscienza. Sarà la sola e unica figlia Chiara a scoprire i segreti più intimi di sua madre (grazie a dei vecchi diari), tra cui l’identità mai conosciuta del padre.
Seconda classificata al contest "Sette colori per sette peccati" indetto da missredlights sul forum di EFP.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Capitolo 3
 
 
Salerno,
mercoledì 5 luglio 1995
ore 0:25
 
Caro diario,
io e Guido abbiamo fatto l’amore.
 

Spalanco gli occhi. Non posso credere a quello che ho appena letto, perciò lo rileggo. Una, due, tre volte. Il concetto è semplice, niente giri di parole, nessuna frase fuorviante. Volto velocemente la pagina e noto una nuova pagina di diario scritta nella stessa notte, a distanza di poche ore. Tremo al solo pensiero di leggere e scoprire quello che c’è scritto. Un’idea inizia a farsi largo nella mia mente.
E se Guido fosse…?
Impossibile. Lui e Annarita sono troppo uniti per una verità simile, non credo lei avesse resistito tutto questo tempo a fingere che non fosse accaduto nulla. Che non lo sappia? Che mia madre e suo marito non gli abbiano mai detto niente della notte trascorsa insieme?
Tiro un bel respiro e mi costringo a scoprire attraverso la grafia tondeggiante e gradevole del fu magistrato Di Vece quello che ne seguì dopo quell’evento, intanto che il mio stomaco si rivolta manco fosse sulle montagne russe.
 
 
Salerno,
mercoledì 5 luglio 1995,
ore 2:35
 
Caro diario,
non riesco a dormire. Se chiudo gli occhi mi tornano in mente gli istanti trascorsi, come flash riaffiorano davanti ai miei occhi. Mi chiedo se sta succedendo anche a lui, mentre si trova sdraiato nel letto nuziale al canto di sua moglie Annarita: la mia migliore amica.
Non avremmo dovuto, è vero; probabilmente Annarita non merita due persone come noi nella sua vita, però è successo e non possiamo cancellare ciò che è stato. Anche perché onestamente non lo farei, per nessuna ragione al mondo rinuncerei alla nostra prima volta.
Ho trovato Guido accasciato sul pavimento del pianerottolo di casa, con le spalle contro la porta d’ingresso. All’inizio ho creduto che fosse ubriaco – il che sarebbe già stato strano -, poi mi sono accorta che invece era solo disperato, come non lo avevo mai visto. Mi vergogno ad ammettere di aver pensato che fosse lì perché aveva litigato con Annarita o perché magari voleva chiedere il divorzio da lei. Ho provato una sorta di sollievo al pensiero, ma mi sbagliavo. Guido non aveva nessuna intenzione di lasciare sua moglie, sebbene lei c’entrasse qualcosa. L’ho invitato a entrare, aveva davvero l’aria di uomo distrutto, gli ho offerto un bicchierino di whiskey e gli ho chiesto cosa fosse successo.
Lui mi ha rivelato che non riuscivano ad avere un figlio, che erano ormai sposati da un paio di anni e nonostante tutti gli escamotage per propiziare una gravidanza, Annarita proprio non riusciva a restare incinta. Ciò che lo fa più infuriare è il fatto che lei non voglia fare esami approfonditi per comprendere la vera natura del problema, affrontarlo e fare le eventuali cure.
Ha pianto come un bambino e qualcosa dentro di me si è rotto, mandandomi in frantumi ogni inibizione. Gli ho preso il viso fra le mani alzandolo verso il mio, i suoi splendidi occhi azzurri erano ancora più meravigliosi, diamanti così puri che mi sembrava di potervi leggere attraverso e capire quello che chiedeva la sua anima. L’ho guardato e ho compreso.
Voleva me.
Mi sono chinata in avanti, fino a lasciare che le mie labbra sfiorassero le sue. Guido non si è tirato indietro, non mi ha rifiutata, tutt’altro. Un attimo dopo eravamo avvinghiati l’uno all’altra; mi ha afferrato per la vita e messa a sedere sul bordo di marmo della cucina, iniziando a tirar via la maglia intanto che gli slacciavo la cintura appena sotto il ventre. Un attimo dopo eravamo entrambi senza vestiti, distesi sul pavimento della stanza. Da qui in poi ho solo vaghi ricordi più simili a dei fermo immagine, sono le sensazioni il vero problema, quelle che riaffiorano quando meno me lo aspetto facendomi andare letteralmente a fuoco la parte bassa del ventre.
Ricordo il freddo delle mattonelle contro la mia pelle; i suoi baci sul collo, lungo le braccia, tra i seni, giù verso l’addome e oltre. Ricordo l’esatto momento in cui i nostri sguardi si sono incontrati, attratti come due calamite mentre mi entrava dentro, piano ma deciso; dolce ma risoluto. Poi il buio totale.
Quando ho riaperto gli occhi Guido era riverso su di me, ansimante. L’ho abbracciato a lungo, sentendo le sue lacrime calde bagnarmi il seno nudo.
Se avessi potuto avrei fermato lo scorrere del tempo. Per sempre.
 

Rimango sbigottita. Apprendere questa notizia mi ha sconvolto più di quando mia madre ha ricevuto la sentenza di morte. Mi alzo dal divano lasciando cadere l’agenda che rimane aperta sulla pagina che ho appena letto. Inspiro profondamente, come se non l’avessi fatto finora, come se avessi corso le mille miglia.
Annarita.
Non riesco a smettere di pensare a questa donnina buona e gentile che una volta mi disse di essere in debito con mamma per averle fatto conoscere l’uomo della sua vita. È stata tradita non una volta, ma due volte, dalle persone che lei ritiene le più importanti della sua esistenza.
Come hanno potuto?
Adesso che ci penso credo che il bene di Annarita fosse a senso unico, non ricambiato dal magistrato Di Vece (almeno dopo il fidanzamento con Guido). Non so se l’obiettivo di mia madre fosse appunto quello di intromettersi nella vita matrimoniale dei suoi amici, se l’amore verso Guido fosse reale o un semplice capriccio dettato dalla rabbia e dalla frustrazione.
Era una donna complicata mia mamma, negli anni ho sempre creduto di conoscerla, di sapere ogni piccolo pensiero che le attraversava la mente, neanche tanto difficile a dire il vero. Il suo unico pregio era uno spiccato senso di giustizia, mi sembra ancora di vederla riversa sulle scartoffie in piena notte, con una tazza fumante di caffè sul tavolo della cucina e l’odore pungente che si diffondeva per la casa, fino a raggiungere la mia camera da letto. I suoi difetti infiniti: superba; prepotente; troppo sicura di sé; fredda nelle emozioni; caparbia. Tuttavia, leggendo i suoi diari ho scoperto una donna diversa, soprattutto negli anni della giovinezza, fino alla notizia del fidanzamento dei suoi migliori amici. Che sia stato questo evento a plasmarla? A renderla ciò che poi è diventata? La grande magistrato donna dal cuore di ghiaccio del Tribunale di Salerno, nota in tutta la penisola per la sua arringa.
Mi chino a raccogliere il diario sul pavimento. Nonostante siano state scritte solo le prime pagine il resto dell’agenda è praticamente in bianco. Strano, c’è ancora un altro quaderno da leggere. Rimane però ancora un’ultima pagina di questo secondo diario. Ho il cuore che mi batte forte, un presentimento mi si insinua piano nella testa, strisciando come una biscia, ma devo sapere, devo conoscere la verità che probabilmente mia madre – l’imponente magistrato Maria Caterina Di Vece – non è stata in grado di rivelarmi, terrorizzata dall’idea di mostrare per una volta il suo punto debole: Guido.
Volto la pagina e quello che mi trovo di fronte mi lascia senza parole e senza forze. Questa volta non c’è nessuna dicitura all’angolo destro della pagina, nessun riferimento alla città di Salerno, né date, né ora. Nessuna formula classica – caro diario - incontrata nelle precedenti pagine. All’inizio del foglio ci sono solo ed esclusivamente due parole: Sono incinta.
Mi accascio sulle mattonelle fresche, aggrappandomi al divano. Un solo pensiero più o meno coerente mi attraversa la testa, fra mille altri confusi e scoordinati, come un mantra.
Guido è mio padre.
Guido è mio padre.
Guido è mio padre.
All’improvviso mi tornano in mente alcuni particolari del mio passato completamente dimenticati perché non ritenuti importanti, non così tanto perlomeno. Le decine e decine di foto che mia mamma conserva nei mobili del soggiorno che ritraggono solo me e Guido davanti a un tavolo imbandito, al centro una torta con su una sola candelina: il mio primo compleanno. Le foto dei festeggiamenti successivi non sono diverse: sempre io, sempre sola con Guido; ogni anno si aggiungeva una candelina, ma il risultato non cambia. Ovviamente esistono anche foto in cui sono con Annarita e Guido insieme; con mia madre. Foto di me, mamma e Guido.
Altre istantanee ci vedono felici sulle giostre o a passeggio sul lungomare Colombo, perlopiù si tratta di scatti rubati che è evidente il grande magistrato Di Vece voleva tenere solo per sé, conservati nel cuore e soprattutto in un angolo remoto del mobile.
Che le abbia conservate per svelarmi la verità a modo suo quando lei non ci sarebbe stata più?
Me lo avrebbe mai detto?
Lo specchio dinnanzi a me mostra i segni inequivocabili di questa verità che è stata sotto al mio naso per 22 anni, mi chiedo come sia possibile che non li abbia mai notati prima. Gli occhi, accidenti! I miei occhi sono identici a quelli di Guido.
Mio padre?
La stessa tonalità di azzurro ghiaccio, freddi e un po’ schivi proprio come i suoi. Davvero non mi è mai passato neanche per l’anticamera del cervello che lui potesse essere il mio papà? E Annarita? Lo saprà? L’avrà capito? Gliel’avranno detto?
Decine di domande si accavallano nella mia mente e mi sembra di non riuscire a tenerle a bada, non posso arrestarle o riordinarle. Distolgo lo sguardo dalla mia stessa immagine riflessa, provo un certo fastidio a perdermi nel celeste delle iridi. È come se fossi occhi negli occhi con Guido.
Mio padre.
 
Le seguenti pagine dell’agenda sono completamente bianche. L’ultima cosa che ha scritto è stata appunto la notizia della gravidanza. Torno a sedermi sul divano e prendo il terzo e ultimo quaderno. Anche questo, come il secondo, non è stato concluso e le pagine scritte sembrano ancora di meno.
Il salto temporale è bello ampio. Stando alla prima data che ho sotto il naso pare che mia mamma abbia smesso di scrivere alla certezza della gravidanza per ricominciare dopo circa 23 anni, alla notizia della sua condanna a morte.  

 
Salerno,
14 marzo 2017
Ore 0:46
 
Caro diario,
probabilmente queste sono le ultime pagine che riuscirò a scrivere.
Mi è stato diagnosticato un glioblastoma multiforme al IV stadio.
Prima di oggi credevo che i tumori fossero tutti uguali: il male del XXI secolo spesso impossibile da battere. Invece ho scoperto che ognuno ha un proprio nome impronunciabile, una propria cura e soprattutto una diversa percentuale di sopravvivenza. Vuoi conoscere la mia? Meno del 3% dei pazienti affetti da questo male non supera l’anno di vita (nel migliore dei casi). In verità l’oncologo mi ha spiegato che la prospettiva di vita si allunga solo grazie alle cure – radio e chemio –, altrimenti si passa a miglior vita entro tre mesi. Mi è stato chiesto cosa intendessi fare: procedere con la terapia consigliata per recuperare qualche giorno da passare con i miei cari (quali? avrei voluto chiedere), oppure lasciare che la malattia faccia il suo corso.
«La avverto,» ha aggiunto poi il dottorone «non sottoporsi alle cure significa soffrire fino all’ultimo giorno di vita. Parliamo di dolori così forti che neanche la morfina può alleviare. Inoltre potrebbe diventare una persona davvero difficile. Il tumore si trova nel lobo frontale e altera il suo vero Io.»
Sì, come se non fossi una persona di merda già adesso!
Che sia stato sempre lì questo bastardo di glioblastoma e perciò sono quel che sono?
Ho accettato la terapia. Un ciclo di radio prima e di chemio poi, poiché il mio bel amichetto lì annidato nel cervello non può essere operato, troppo pericoloso.
Certo, nessuno vorrebbe che il buon nome del neurochirurgo D’Ambrosio venisse infangato da un’emorragia cerebrale fatale durante l’operazione al magistrato Maria Caterina Di Vece che un tempo lo condannò per frode fiscale. Si potrebbe pensare che lo abbia fatto per ripicca.
Ho accettato la terapia, dicevo, solo per passare un po’ di tempo in più con mia figlia Chiara. Adesso che la morte non mi sembra più una cosa che colpisce solamente gli altri, ho fatto mea culpa riconoscendo di aver sbagliato con lei.
Vorrei chiederle perdono per tutto quello che avrei potuto darle e non l’ho fatto. Per tutte le volte che da bambina correva nel mio letto in lacrime perché aveva fatto un brutto sogno, ma io la cacciavo via avendo da lavorare e lavorare ancora.
Cosa ho fatto nella mia vita?
Mi sono dedicata solo ed esclusivamente al lavoro, completamente assorbita dai mille impegni e dimentica di ciò che mi circondava. Chiara è cresciuta così in fretta che un giorno mi sono ritrovata in casa una sconosciuta: una bella ragazza che somiglia a Guido.
Prima che muoia devo dirle la verità, ho il dovere di farle sapere che quando non ci sarò più non resterà sola, perché suo padre le vuole un bene immenso.
 

Resto a bocca aperta. Se non conoscessi la grafia di mia madre oserei dire che non è stata lei a scrivere queste pagine.
Ricordo ancora ora tutte le sere che da bambina mi trascinavo a piedi nudi nella sua camera da letto o in cucina – dipendeva da dove si trovasse in quel momento – stringendo al petto il peluche preferito del periodo. Di solito lo facevo nelle notti di tempesta, quando i tuoni sembravano spaccare la casa in due e i fulmini illuminavano la mia stanza proiettando ombre inquietanti sulle pareti e sul soffitto. Lei era così presa dalle sue carte che non aveva neanche il tempo di alzare il capo per guardarmi: un piccolo fagotto in camicia da notte rosa, con i capelli scompigliati e le lacrime agli occhi che faceva del suo animaletto di pezza uno scudo infrangibile. Senza degnarmi di un po’ di attenzione mi diceva di non cominciare, che un temporale non ha mai ucciso nessuno e soprattutto che di paura non è mai crepato alcuno. Poi concludeva il monologo con due espressioni tipiche del suo repertorio:
«Pensa ai bambini in Africa» e «Sono un magistrato, non posso perdere tempo con te.»
Una mammina d’oro, insomma.
 

 
Salerno,
giovedì 3 agosto,
ore 14:25
 
Caro diario,
il caldo di questa estate potrebbe uccidermi se non ci stesse già pensando il tumore che ho al posto del cervello.
Chiara è corsa dalla guardia medica per chiedere se qualcuno possa venire a reinserirmi l’ago della flebo nelle vene. Prima ho fatto il diavolo a quattro e me lo sono tirato via, spillando sangue sulle lenzuola pulite (cambiate questa mattina) e sul pavimento. Adesso mia figlia dovrà rifare il letto mentre io la osservo dalla poltrona davanti alla finestra senza smettere di ordinarle come fare la piega lì e come sistemare l’angolo là.
Non so come faccia a sopportarmi, a non schiacciarmi un cuscino in faccia e tenerlo bello premuto fin quando non smetto di dimenarmi.
È forte mia figlia, non lo avrei mai detto.
Mi dico che è il glioblastoma a parlare per me, ma ho dei seri dubbi. Sono perfettamente cosciente di ciò che faccio e di ciò che dico, delle offese che le rivolgo. Allora mi chiedo: se avessi avuto un altro tipo di tumore, in un’altra parte del corpo, mi sarei comportata diversamente?
La risposta a questa domanda riflette perfettamente la dimensione della persona cattiva e meschina che sono.
Sono passati cinque mesi dalla pena di morte e non è cambiato nulla, sono solo peggiorata perché la terapia mi sfinisce. Ho chiesto al dottore di smetterla, non ce la faccio più, ma lui mi ha risposto che non possiamo interrompere la chemio all’improvviso, farebbe solo precipitare la situazione.
Il cancro mi ha resa più odiabile, ma di sicuro non mi ha resa più coraggiosa. Infatti non sono ancora riuscita a dire a Chiara la verità su suo padre.
Guido è venuto a trovarmi questa mattina, senza quella sciacquetta di Annarita.
«Come hai fatto a innamorarti di me e poi di lei?» Gli ho domandato, senza ottenere risposta. Mi ha chiesto come mi sentivo, se potesse essermi utile, se desiderassi qualcosa da mangiare.
«Magari un bel gelato» ha tentato di sorridere.
«Vorrei solo perdermi nell’azzurro profondo dei tuoi occhi» gli ho controbattuto nascondendomi dietro al fatto che sia il tumore a parlare al posto mio. «Magari dove andrò ci sarà un mare dello stesso colore.»
Guido ha sorriso e carezzandomi la testa calva, nascosta da un foulard a fioi, ha detto che non cambierò mai. Prima che Chiara tornasse con il caffè per lui gli ho confessato che le avrei rivelato tutto.
«Tutto cosa?» Era improvvisamente preoccupato.
«Che lei è nostra figlia.»
Guido è sbiancato, temendo che anche sua moglie potesse così scoprire quel segreto taciuto per 22 lunghi anni.
Il loro splendido matrimonio basato su una bugia, che schifo la vita, eh?!
 

Quindi Annarita non lo sa. Non sa niente.
Come si fa a non dichiarare una verità così grande alla persona che ami e alla quale hai giurato davanti a Dio di “onorarla e rispettarla finché morte non vi separi”? Come si può vivere e convivere con una donna per tutta la vita e non cedere alla coscienza di dirle una verità simile, così grande, così importante, così fondamentale.
Torno con l’attenzione sull’agenda che ho in grembo; volto pagina e mi accorgo che quella che sto per leggere è l’ultima, oltre di essa ci sono solo fogli immacolati. La data risale alla fine di ottobre, qualche giorno dopo mia madre si allettò completamente e la memoria cominciò a oscurarsi sempre più spesso.
Adesso mi chiedo come abbia fatto a nascondermi queste agende, che le mettesse sotto le coperte accanto a sé? Probabilmente è così. Poi approfittava dei momenti in cui non ero in casa per trascinarsi nella sua ex camera da letto e prendere o posare il diario. Deve aver fatto degli sforzi enormi portandosi dietro il palo della flebo o semplicemente per scendere e salire sul letto.
È evidente che la necessità di veicolare le sue emozioni su un foglio bianco sia stata più forte di tutto, anche del dolore e del rischio di inciampare e cadere.
Non so cosa aspettarmi da questa ultima pagina, perciò decido di leggerla tutta d’un fiato per tagliare la testa al toro, quando l’avrò finita sarà come se mia madre sia morta sul serio. Finora tenere tra le mani queste agende e leggere i suoi pensieri con la sua calligrafia sottile e angolosa è stato un po’ come avere un’ultimissima conversazione, più intensa ed esaustiva di tutte quelle avute in 22 anni di vita.
 

 
Salerno,
fine ottobre
ore ??
 
Caro diario,
scusami ma non ricordo più che giorno sia. So che siamo a fine ottobre perché oggi Chiara mi ha detto che lunedì riprende il secondo ciclo di chemio, perciò saremo già a novembre. Non chiedermi come faccio a saperlo, ma in qualche modo a me estraneo sento che è così. Ci sono giorni in cui non ricordo neanche più in che anno siamo, oggi è uno di quelli.
Sono stanca. Sono così stanca.
Fare qualsiasi cosa per me è diventato uno sforzo enorme, anche solo respirare mi sembra un lavoro troppo faticoso e allora penso: se smettessi di farlo, ce la farei a morire? Ci ho provato, ma il respiro poi mi esce dai polmoni contro la mia volontà. Se c’è una cosa che ho imparato in questi mesi è il fatto che morire è difficile. Spesso si crede che sia facile, che anche un piccolo incidente possa ammazzarci, ma non è vero. Il corpo lotta, combatte, si aggrappa a tutto quello può, alla speranza, ai ricordi, alla vita degli altri pur di restare in vita e non importa quanto sofferente sia diventata. La morte fa paura. Punto.
Non sono riuscita a rivelare a Chiara l’identità di suo padre, mi sono riscoperta più codarda di quanto mi piacesse credere. Guido viene a trovarmi solo in compagnia di Annarita, quindi non abbiamo avuto occasione di parlarne. Ancora oggi mi chiedo come possa quella donna non capire che suo marito e Chiara sono padre e figlia, i loro occhi hanno praticamente la stessa tonalità di azzurro, le loro espressioni si somigliano, i loro modi di fare, di parlare, di gesticolare sono praticamente identici.
Deve essere davvero rimbambita.
Prima era innamorato di me, poi di lei: incredibile!
La chemio mi sta uccidendo più velocemente del glioblastoma; presto le mie gambe smetteranno di reggermi e le braccia di muoversi; non riuscirò più a trattenere la vescica e chissà cos’altro ancora. E pensare che mesi fa ho scelto questa strada per avere a disposizione più tempo da trascorrere con mia figlia, per dirle che Guido è suo padre, l’unico uomo che abbia mai amato, sposato con l’unica amica vera che abbia mai avuto.
La vita fa davvero schifo, è fragile, solo un volo di passero: finirà un giorno e questo vale per chiunque, perché in fondo siamo nati tutti dalla stessa pioggia e dalla medesima polvere.
Caro diario lascio a te il compito di confessarle l’unica verità che non ho mai avuto la forza di affrontare: mia adorata Chiara, Guido è il tuo papà e ti ama così tanto che anche quando io non ci sarò più si prenderà cura di te. Me lo ha promesso.
A te Chiara lascio la mia collana dalla pietra a forma di mela color viola che tanta fortuna mi ha portato nella vita, facendomi incontrare persone fidate e soprattutto mettendo te sul mio cammino. È tua adesso, so che il viola non è il tuo colore preferito, ma in fondo non era neanche il mio prima che la ricevessi in regalo da tuo padre. Tienila sempre vicino al cuore, perché il viola del mistero e il rosso del cuore vanno sempre a braccetto; perché non c’è amore senza un po’ di magia.
Buona vita figlia.
 

La vista si è oramai offuscata a causa delle lacrime che scendono a goccioloni, bagnando l’intera pagina dell’agenda. Accidenti, così rischio di cancellare l’inchiostro, perciò mi affretto ad asciugarle con il polsino della maglia.
Incastonata in una specie di quadrato scavato nella copertina alla fine del quaderno c’è la pietra da lei citata. È proprio come l’ha descritta nei primi ricordi universitari: la catenina da quattro soldi color oro è agganciata ad una pietra che ricorda una mela, ma dello stesso colore della malva. La stringo forte al petto e chiudendo gli occhi recito in mente un “Eterno riposo”.
Verso la fine le parole sono state scritte con una grafia altalenante, quasi a zig-zag, come se fosse stata su un vecchio treno in corsa. Doveva essere esausta di scrivere e di stare fuori dal letto. Leggendo queste pagine ho scoperto non solo il nome di mio padre, ma anche un lato del carattere del magistrato Di Vece a me sconosciuto e nonostante spesso sia saltato fuori da queste righe la sua vera natura da predatrice, ho capito diverse sfaccettature del suo essere che mi sono sempre sfuggite. Non deve essere stato facile assistere alla felicità dell’uomo che ha amato con la sua migliore amica, né tantomeno allevare una figlia tutta sola, senza il supporto di nessuno. Eppure ha difeso la vita matrimoniale – apparentemente perfetta – di Annarita, perché sapeva che una notizia del genere l’avrebbe distrutta, annientata come moglie e amica tradita. No, Annarita non sarebbe mai stata in grado di rialzarsi dopo una cosa simile. Mia madre si dedicava anima e corpo al lavoro perché aveva bisogno di quei soldi, di costruire un futuro migliore per me senza la necessità di dover chiedere aiuto economico a mio padre. Adesso vedo tante cose che prima non riuscivo a scorgere, sebbene le avessi tutti i giorni sotto al naso.
Dovrei essere triste, provare un profondo senso di impotenza e solitudine dopo aver fatto un tuffo nel passato e nel presente di mia madre, invece mi sento alleggerita, come se un grosso macigno mi fosse stato tolto dal petto. Che dipenda dal fatto di sapere di non essere più sola al mondo? Sicuramente, ma non è tutto. Sembrerà egoista e meschino, eppure non riesco a smettere di pensare a mia mamma e al grande peso che si è tolta passando a miglior vita. Quando un nostro caro si ammala vorremmo tenerlo con noi per sempre, pur vedendolo soffrire e patire ogni giorno, poiché dire addio a qualcuno non è mai piacevole. Tuttavia, se ci soffermiamo un attimo a pensare alle pene e alle umiliazioni cui sono costretti, se provassimo a metterci nei loro panni anche solo per un attimo, non desidereremmo anche noi la morte?
Lo smartphone alla mia destra si illumina, qualcuno mi ha appena inviato un messaggio su WhatsApp. Mi chiedo chi possa essere alle due di notte – non mi ero neanche resa conto di quanto fosse tardi! – e provo una gioia recondita quando il nome di Guido spunta all’inizio della conversazione. È il primo messaggio che ci scambiamo, di solito è Annarita a contattarmi. Sul display scorgo quattro semplici parole che mi sembrano grandi quanto il mondo: “Hai bisogno di qualcosa?
Di nulla, ma grazie” digito e resto immobile qualche secondo a contemplare lo schermo, le dita a mezz’aria dalla tastiera virtuale, indecisa se aggiungere anche il sostantivo “papà”; poi decido che per adesso va bene così.
Un passo alla volta.
 
fine
 
  
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