Anime & Manga > Axis Powers Hetalia
Segui la storia  |       
Autore: _Frame_    29/04/2018    7 recensioni
[Primo spin-off di “Siberian Cub”. Contiene spoiler!]
[DenNor Human!AU]
---
Dopo quello che è successo a Mathias, Lukas crede che la sua vita si sia definitivamente staccata dai Siberian Cubs e dall’ambiente a cui appartengono. Un incontro inaspettato gli farà capire che il suo ruolo in quel mondo da cui Mathias aveva sempre voluto proteggerlo non è ancora finito, e che la possibilità di salvare gli altri ragazzi potrebbe dipendere solo da lui.
---
Estratto da “Siberian Cub”:
Mi rendo davvero conto del legame in cui sto incatenando Alfred, mi rendo davvero conto di cosa significhi vederlo stretto fra le braccia bucate di un tossico che vorrebbe solo proteggerlo ma che non è nemmeno in grado di proteggere se stesso. E lo capisco. Forse ora davvero comprendo e riconosco la paura che ha spinto Mathias a togliersi di mezzo piuttosto che finire per imprigionare Lukas a quelle braccia ferite che non gli avrebbero causato altro che dolori. D’un tratto, Mathias mi sembra un po’ meno stupido di come l’ho sempre guardato.
Genere: Angst, Drammatico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Danimarca, Finlandia/ Tino Väinämöinen, Islanda, Norvegia, Svezia/Berwald Oxenstierna
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
 <<  
- Questa storia fa parte della serie 'London Cubs'
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

4. La lotta del cucciolo

 

 

Mi ero pentito di essere venuto al funerale già dopo aver messo piede nella chiesa. Ora proprio non vorrei nemmeno essere partito da Londra, sarei dovuto restarmene a casa.

Capisco che la messa è finita solo quando tutti gli altri si alzano dalle panche e iniziano a svuotare le due piccole navate della cappella, si riuniscono a gruppi, sagome indistinte vestite di nero che si spostano sotto i riflessi colorati dei mosaici attraverso cui passa la luce grigia del pomeriggio, e si dirigono verso l’uscita principale. Ho capito pochissimo di quello che diceva il prete, la messa è stata recitata tutta in danese. Mathias con me parlava poco in danese, solo quando si agitava nel sonno, o insultava qualcuno, o fra un ansito e l’altro quando facevamo sesso.

Scivolo via dalla panca occupata solo da me ed Emil e mi porto verso le navate laterali, evito quella centrale che dà sull’altare rialzato dove si stanno accalcando i gruppetti di persone. Emil mi segue. Mi alzo sulle punte dei piedi, sollevo il mento, getto la vista oltre le teste di quelli che si sono messi attorno ai genitori di Mathias. Sbircio verso l’altare ornato di gigli bianchi e riesco solo a vedere il prete e l’altro sacerdote che scendono dalla gradinata, immersi nella nebbia di vapori d’incenso azzurrino, e che prendono l’uscita sul retro, quella che dà direttamente al cimitero.

I bisbigli delle persone rimbombano fra le pareti della cappella, si uniscono ai passi schioccanti di quelli che stanno già uscendo. Qualcuno spalanca le due ante di legno, un fascio di luce grigia e fredda penetra la chiesetta e percorre il pavimento, l’odore degli alberi fradici e della pioggia che è caduta tutta la mattina spazza via quello pungente dell’incenso, dell’olio santo, delle candele sciolte e dei fiori impacchettati nella plastica. La luce attraversa l’aria polverosa e avvolge le persone che sono rimaste nella chiesetta, sbiadisce il colore dei vestiti neri e stende le loro ombre lungo le pareti e le colonne.

Stringo la manica di Emil e lo tiro dietro di me, sgusciamo in mezzo a due tizi che non guardo nemmeno in faccia, e guido mio fratello verso l’uscita. Lancio un’occhiata al gruppetto di persone davanti all’altare, dove i genitori di Mathias sono ancora fermi, nascosti dal resto della gente. I brusii si intensificano attorno a loro.

Ingoio un aspro conato d’odio che fa tremare le dita strette attorno alla manica di Emil, le mani prudono di calore nonostante il freddo.

Nessuno di loro ha pianto. Hanno tenuto le facce grigie e rigide come maschere di pietra durante tutta la cerimonia, non hanno nemmeno detto una parola, lasciando recitare tutto il teatrino solo al prete. A nessuno di loro è mai importato qualcosa di Mathias quando era ancora in vita, e nessuno si preoccuperà per lui anche adesso che è morto, ed è inutile che adesso si facciano compatire mettendosi in mostra davanti a tutti durante il funerale. Troppo comodo preoccuparsi di un figlio che ormai non è più un tuo problema.

Tengo lo sguardo basso, le dita chiuse sulla manica di Emil, e passo sotto le scaglie di luce dei mosaici multicolori per imboccare l’uscita della chiesa. Emil mi viene più vicino, mi tocca la spalla con la sua, lancia un’occhiata dietro di sé, gli occhi socchiusi e intimoriti, e un brivido di disagio attraversa anche i suoi nervi, lo percepisco attraverso il tocco della manica.

Una figura più piccola, un ragazzino biondo vestito di nero come gli altri, sgattaiola fuori dalla fila di panche, resta a spalle chine, il capo basso, e si dirige anche lui verso l’uscita. Scioglie una mano dal grembo, quella che impugna un fazzoletto di stoffa, e si asciuga gli occhi rossi e gonfi di pianto. Singhiozza, le sue labbra tremano, e il ragazzo più alto che lo accompagna gli posa la mano sulla spalla, gli strofina una piccola carezza lungo l’avambraccio. Il ragazzino tocca la mano che lo ha confortato e la tiene stretta, singhiozza ancora, due sgorghi di lacrime stillano dagli occhi strizzati e scivolano lungo le guance arrossate. Si copre il viso con il fazzoletto e si appoggia al braccio del ragazzo più alto, lasciandosi stringere. Lui gli massaggia la schiena in un gesto di conforto.

Una scintilla di realizzazione mi pizzica il petto.

Ecco di chi erano i singhiozzi che ho sentito durante tutta la messa. Quel ragazzino è stato l’unico a piangere con la sua vocina sottile e singhiozzante, soffocata dal fazzoletto. Ha aggiunto almeno una briciola di pietà in mezzo a tutto questo squallore.

Tengo stretta la manica di Emil e lo porto verso la navata centrale che sgorga fuori dalla cappella. Cammino accanto al ragazzino che sta ancora piangendo. Lui alza la fronte che ha appoggiato sulla spalla dell’altro ragazzo, si sfila il fazzoletto dal viso svelando due grandi occhioni lucidi, gonfi e rossi, e mi rivolge lo sguardo.

La polvere che galleggia dentro i fasci di luce che ci separano si fossilizza, i brusii delle voci zittiscono, i passi che schioccano sul pavimento di marmo si fermano, il mio sguardo raggela.

Gli occhi del ragazzino vacillano, acquosi, le sopracciglia si sollevano in un guizzo e lui socchiude le labbra, come se stesse per dirmi qualcosa. Uno sguardo che mi trafigge, raggiunge il cuore e lo penetra in una sensazione malinconica, addolorata e speranzosa allo stesso tempo. Mi scarica un groppo di brividi che si ammucchia fra le costole come un boccone andato di traverso.

Continuo a camminare, e il ragazzino mi segue con gli occhi. Anche io giro lo sguardo e continuo a fissarlo da sopra la spalla mentre sto uscendo. Il ragazzino sposta un piede in avanti, lo tiene sollevato, ci ripensa, una piega di dubbio gli attraversa il viso, e torna indietro, sempre aggrappato al braccio dell’altro che gli cinge la schiena.

Mi giro. Mi porto dietro Emil e usciamo dalla cappella, ma addosso mi è rimasta l’impronta degli occhi di quel ragazzino, come un marchio fosforescente.

Non mi ha guardato per caso. Mi stava cercando.   

 

.

 

La pala affonda in uno dei due mucchi di terra raccolti attorno alla fossa, taglia una zolla con un secco zac! e si riempie di terriccio soffice e umido puntellato da radici e sassolini. L’uomo fa leva sui muscoli delle braccia, solleva la pala dal mucchio, grani di terra e sassi piovono dagli orli consumati dalla ruggine, e rovescia una prima gettata nella fossa.

Il prete farfuglia ancora qualcosa in danese, la Bibbia foderata di cuoio aperta davanti al viso, la tunica che sventola sotto la brezza d’aria che ha riempito il boschetto immerso nell’odore di pioggia e di erba bagnata. Volta una pagina e continua. Gli altri stanno immobili attorno a lui, le mani giunte sul grembo, gli sguardi rigidi rivolti al suolo, lontano dalla fossa che sta venendo riempita, le bocche mute.

Alzo lo sguardo al cielo, oltre le spalle delle persone che mi stanno attorno, oltre le chiome nere degli alberi che frusciano contro il cielo grigio e carico di nubi.

Il cimitero tace, si riempie solo della parlata danese e borbottante del prete, delle spalate che continuano a tagliare la terra – zac! – e a gettarla nella fossa – frush! Il leggero ma pungente vento che fischia fra gli alberi trascina via i suoni, mi pizzica le guance, agita i capelli contro la fronte. Li porto in disparte, passo le dita fra le ciocche e ne sistemo una dietro l’orecchio.

Un uomo esce dal gruppetto di persone, mi passa affianco strusciando sulla mia spalla, si china a raccogliere una zolla di terra dai mucchietti che si sono già dimezzati, la regge per un ciuffo d’erba e la getta nel buco.

Il suono secco della zolla dura che tocca il fondo mi fa sussultare. È lo stesso tonfo sordo del pesante del mio battito che pulsa nel petto e che grava sullo stomaco. Mi tremano le ginocchia, sento i muscoli deboli anche se rigidi. Stringo i pugni, trattengo il respiro e un calore rovente risale il viso, brucia in mezzo agli occhi appannati. Stupido vento.

Emil mi si avvicina, la spalla contro la mia, e si strofina le braccia, rabbrividendo. Abbassa il viso e nasconde il naso dentro il colletto della giacca, emettendo un sospiro tremante. Un’ondata di freddo aggredisce anche me, si mescola al gelo sollevato dai sensi di colpa che si sono induriti nel petto come un macigno. Non avrei dovuto portarlo qua con me, non avrei dovuto coinvolgerlo in tutto questo.

Mi infilo le mani in tasca, al caldo, e le dita sbattono su un oggetto metallico che tintinna contro le unghie, trasmettendomi una piccola scossa. Inarco le falangi, le infilo nell’anello di ferro e tiro fuori il portachiavi dalla tasca scuotendo anche il pacchetto di sigarette che è rimasto sul fondo. Dalle mie dita dondolano le due chiavi, quella dell’appartamento e quella del cancello, appese al ciondolo a forma di bandiera norvegese. Le chiavi di Mathias, quelle che l’altro giorno non sono riuscito a gettare giù dal Waterloo Bridge.

Abbasso il braccio, la mia vista sorvola le spalle delle persone ferme davanti a me, cade al suolo, sui mucchietti di terra ormai quasi piatti a cui il tizio sta togliendo palate su palate per poi rovesciarle nella fossa che si è inghiottita la sua bara.

Stringo la mano, i denti di metallo delle chiavi e gli angoli aguzzi del ciondolo mi pizzicano il palmo, le dita grigie e screpolate dal freddo hanno un fremito.

Compio due passi davanti, mi apro la strada in mezzo alle altre persone che si scansano, e mi chino a raccogliere una delle ultime zolle di terra raccolte a mucchi. Ne ribalto una da cui sbuca un sasso grande e liscio come un uovo e ne afferro una seconda a cui è ancora appiccicato un quadratino di erba folta e alta. Radici scure e crespe come capelli emergono dal fondo, si intrecciano ai sassolini rimasti incollati al terriccio. Ribalto la zolla rivolgendo la parte di terra verso l’alto, vi indirizzo contro la parte corta della bandiera e ficco dentro l’intero ciondolo, fino all’anello che si unisce alle due chiavi, spezzettando il terriccio nero e umido che emette un suono scricchiolante e denso, simile a quello di una lama che affetta un limone. Stringo delicatamente la mano attorno alla zolla, la accosto al viso tenendo le labbra a uno sfioro dalla terra, e soffio il mio ultimo bacio d’addio.

Mi spingo di un altro passo in avanti e getto la terra con dentro le chiavi all’interno della fossa. Tunf! Il becchino rovescia un’altra palata di terra, sommerge la bandiera, e le chiavi svaniscono per sempre, restano con Mathias.

Arretro, mi spolvero le mani dai grani di terriccio, dalle briciole di ghiaia che sono rimaste incollate alla pelle inumidita, e dai filamenti di radice incastrati sotto le unghie. Abbasso lo sguardo, lo allontano dalla fossa, torno indietro da Emil.

Ora ha le chiavi. Se Mathias vorrà tornare, la porta sarà aperta.

Torno accanto a Emil. Torno a infilare le mani nelle tasche, stringo i pugni sul fondo dove giacciono ancora le mie chiavi e il pacchetto di HB, e resto a fronte china. Il vento mi scuote i capelli contro gli occhi, brucia sulle guance, sulla punta del naso e fra le palpebre. Increspo le labbra che si sono seccate assumendo un sapore di ferro. Un brivido di freddo mi stringe il petto, risale la schiena mordendomi il collo, e una sgradevole sensazione di nostalgia preme contro le costole, all’altezza del cuore, dove il peso del rimorso è ancora vivo e doloroso.

Emil china lo sguardo in avanti, mi cerca, stringe la mia manica fra pollice e indice all’altezza del gomito e dà una piccola tirata. «Tutto okay?» mormora. La voce trascinata via dal vento e nascosta dal frusciare delle foglie sopra di noi.

Volto lo sguardo, incontro i suoi occhi preoccupati, un po’ impauriti, e annuisco. «Sì» mento.

Emil sfila le dita dalla mia manica e lancia un’occhiata bassa e circospetta alle sue spalle. Storce un angolo della bocca, la punta del naso si arriccia in un’espressione di disagio, di quelle che faceva sempre da piccolo, e lui scivola di un passetto più vicino a me, incollando la spalla alla mia. Piega il braccio e mi dà una soffice gomitata sul fianco. «Senti», solleva il mento, indica qualcuno, «ma quei due li conosci?»

Giro anche io la coda dell’occhio, assottiglio le palpebre che stanno aperte a fatica dopo tre giorni passati senza dormire, e la vista si appanna di stanchezza.

Lo sguardo del ragazzino che ho incrociato prima in chiesa preme ancora su di me. Riconosco i suoi occhi rossi e lacrimanti, la mano stretta al fazzoletto accostato alle labbra, le spalle fasciate dal braccio dell’altro tizio che lo accompagna.

Torno a voltarmi, faccio finta di niente. «Quali?» Mi strofino la spalla. Avere il suo sguardo incollato alla mia schiena mi dà la sensazione che la spalla sia ricoperta di bava scintillante che tutti vedono brillare sul nero della giacca.

«Quelli là» ripete Emil, il viso ancora girato. «Quello piccolo e quello alto con gli occhiali.» Scivola ancora di un passo vicino a me, stringe di nuovo le dita sulla mia manica, e mi bisbiglia accanto all’orecchio. «È da quando eravamo in chiesa che il piccoletto non ha fatto altro che fissarti, e – guarda, guarda, lo sta facendo anche adesso.»

Faccio roteare lo sguardo, lo sposto di nuovo dietro la mia spalla.

Il piccoletto si soffia il naso, singhiozza, le sue spalle sobbalzano sotto l’abbraccio dell’altro tizio, gli occhi lacrimanti si increspano e altre righe di pianto rotolano lungo le guance rosse, finiscono assorbite dal fazzoletto. L’altro tizio gli tiene il braccio cinto attorno alle spalle anche quando il piccoletto gira il viso e lo rintana contro la sua spalla, finendo di piangere contro di lui, le dita tremanti contratte sulla sua giacca nera. Lo sguardo del ragazzo più alto vola verso di me, ci incrociamo. Sottili occhi freddi e azzurri come ghiaccio mi scrutano da dietro le lenti degli occhiali, mi lanciano uno sguardo piatto ma austero allo stesso tempo, il cielo scuro crea attorno alla sua figura un’aura cupa e inquietante che mi scarica un brivido di malessere lungo la spina dorsale, come se mi avessero infilato una mano umida e gelida sotto il colletto. È la prima volta che sento su di me l’effetto che di solito io faccio alla gente.

Torno a girarmi. «Io mi preoccuperei più di quello alto.»

Emil inarca un sopracciglio, mi lancia l’occhiata di chi non ha voglia di scherzare. «Lukas.»

Sospiro, levo gli occhi al cielo. «Non li ho mai visti» lo liquido.

Il becchino che ha riempito la fossa livella il suolo con la parte piatta della pala, dà due colpetti alla terra, spalma per bene le ultime dune e le rende lisce come la superficie di una tavola. Il prete dice ancora qualcosa, sputacchia due parole in latino, e chiude il tomo davanti a sé. Alcune persone chinano il capo, rispondono in coro, altre si girano, sistemano i baveri contro le guance arrossate, reggono i cappelli sulle teste, si tengono al riparo dal vento, e si avviano lontano dalla tomba.

Chino lo sguardo in mezzo ai piedi, sull’erba fredda e scura, mi concentro solo sul tocco di Emil sulla mia giacca, sul soffice tepore che sciacqua via il groppo di freddo incastrato in fondo alla gola. Tengo gli occhi bassi, le labbra piatte, la voce ghiacciata come il vento che ci soffia in faccia. «Andiamocene.» Sfilo una mano dalla tasca e stringo anche io la manica di Emil. Lo faccio girare, allungo un primo passo infilandomi fra due tizi, e usciamo dal gruppetto. «Non ne posso più.»

Emil annuisce. Accelera il passo e mi viene dietro, usciamo dal prato indurito dal freddo e pestiamo i piedi nella stradina di ghiaia che scivola in mezzo agli alberi piantati per fare ombra sulle lapidi. I nostri passi scricchiolano, foglie secche si sbriciolano sotto le scarpe, i sassolini emettono lo stesso suono cristallino del ghiaccio che si spezza.

Ci lasciamo alle spalle il brusio di voci, il profumo di fiori freschi e dell’incenso, però la sensazione di disagio mi è rimasta addosso, mi segue come un’ombra, raggela la pelle, e mi aggroviglia lo stomaco.

Piccoli passetti insicuri, come spinti sulle punte dei piedi, scricchiolano dietro di noi, si avvicinano attraversando la stradina di ghiaia, mentre il vento tace e i rami degli alberi smettono di frusciare.

Sbircio con la coda dell’occhio, guardo fra la mia spalla e quella di Emil. Due sagome ci stanno seguendo.

Il piccoletto incrocia lo sguardo con il mio, esita, i suoi occhi umidi e rossi di pianto luccicano, e si ferma in mezzo alla stradina emettendo un piccolo sussulto intimorito fra le labbra schiuse. Stringe il braccio del tizio alto, gli dà un piccolo strattone, solleva lo sguardo come in cerca di approvazione e gli mormora qualcosa tenendo il fazzoletto accostato alle labbra, a raccogliere l’ultima perla di lacrima che gli è rotolata giù dallo zigomo. L’aria trascina via le sue parole, da qui non riesco a sentirle. L’altro annuisce, gli posa una mano sulla spalla, le sue labbra gli dicono qualcosa, un movimento brevissimo, quasi impercettibile, e lo spinge delicatamente a fare un passetto in avanti, come se lo stesse incoraggiando a raggiungerci. Il piccoletto torna a incrociare gli occhi con i miei, il velo di dolore scivola giù dal suo viso, lo sguardo si increspa, assume una luce più forte e determinata. Si asciuga gli occhi con il fianco della mano e affretta il passo, saltella verso di noi con la ghiaia che scricchiola sotto le suole.

Mi giro e accelero anche io prima che...

«Ehm, scusa.»

... ci raggiunga.

Mi fermo. Emil si gira per primo e lancia un’occhiata perplessa al piccoletto che è corso alle nostre spalle.

Mi volto anche io, lo squadro a occhi ristretti, la voce fredda e distaccata. «Sì?» Gli rispondo anche io in inglese.

Il piccoletto compie gli ultimi passi attraverso la stradina ghiaiosa, giunge le mani sul grembo, intreccia le dita che stanno ancora stropicciando il fazzoletto umido di lacrime, e accenna un piccolo ma sincero e dolce sorriso che gli dona un’aria da bambino. «Perdonami se ti disturbo, ma ho visto che te ne stavi andando e...»

«Ci conosciamo?» lo interrompo, un sopracciglio inarcato e un braccio a tenere riparato il fianco di Emil. È un gesto inconscio da parte mia, anche se il ragazzino sembra tutto meno che un individuo pericoloso.

Anche il tizio alto si avvicina, silenzioso e buio come un’ombra. Resta alle spalle del piccoletto e mi squadra con gli stessi occhi freddi e protettivi che ho mostrato io nei riguardi di Emil. Aggrotto le sopracciglia, quasi sfidandolo, ma la voce del piccoletto attira di nuovo la mia attenzione verso il basso.

«Tu sei Lukas, vero?» domanda con tono amichevole, il viso aperto e luminoso, anche se rosso di pianto e ombreggiato dal cielo nuvoloso. «L’amico di Mathias, quello di Londra.»

Il boschetto del cimitero si pietrifica in un insieme di sagome nere e piatte stese contro le nuvole congelate, le cime degli alberi smettono di scuotersi e di gonfiarsi sotto il soffio del vento che è calato, lasciandomi un’impronta di gelo sulla pelle.

Resto immobile, lo sguardo paralizzato sugli occhi annacquati del piccoletto, e trattengo il fiato, il cuore fermo nel petto. Lancio uno sguardo a Emil e lui sgrana gli occhi di rimando, le labbra cadono socchiuse, senza dire una parola. Il viso impallidisce e gli occhi si fanno grigi come pietra.

Torno sul piccoletto, inarco le estremità delle sopracciglia in un’espressione di nuovo ostile e sulla difensiva. «Come fai a...»

Il piccoletto legge la mia diffidenza, ma il suo sorriso si ammorbidisce, si fa più naturale, meno sforzato, e gli occhi brillano di comprensione. Si posa la mano sul petto. «Io mi chiamo Tino.» Rivolge la mano dietro di sé, indica lo spilungone con gli occhiali. «Lui invece è Berwald. Siamo...» Si stringe nelle spalle, torna a unire le mani sul grembo. I suoi occhi guardano a terra e si intristiscono, nonostante la piega delle labbra verso l’alto. «Eravamo due amici di Mathias, di quando viveva ancora qui a Copenaghen.» Il piccolo sorriso si tinge di nostalgia.

Abbasso la guardia, i nervi si distendono, rilasso i muscoli, e sciolgo lo sguardo ostile che mi bolliva in mezzo agli occhi. Dopotutto, lui mi è davvero sembrato il più addolorato in tutta questa farsa che hanno organizzato.

Indico Emil. «Lui è mio fratello Emil. Mi ha accompagnato.»

Emil fa un passetto in avanti restando però riparato dal mio fianco e porge la mano a Tino. «P-piacere.»

Tino gli sorride cordialmente e gliela stringe. «Piacere di conoscerti.»

Emil annuisce e la porge anche a Berwald mostrando uno sguardo più basso e intimorito mentre vede inghiottire la sua mano in quella presa granitica. Scioglie la stretta e torna dietro la mia spalla.

Tino torna a rivolgermi quello sguardo amichevole. «Scusami, so che ti sono comparso così all’improvviso e in un momento così indelicato.» Scuote il capo. «Non volevo essere sgarbato.»

Sollevo un sopracciglio. «Non fa niente.» Dove vuole arrivare?

Tino solleva gli occhi verso Berwald, inarca le sopracciglia nella stessa triste espressione che aveva la prima volta che ci siamo incrociati nella chiesetta, quando si è fatto stringere le spalle da lui per finire di piangere sulla sua spalla. Berwald annuisce, Tino riacquista quel piccolo e gentile sorriso da bambino.

Si rivolge a me, indica l’uscita del cimitero con la punta dell’indice. «Qui vicino c’è un piccolo bar molto grazioso. Sono solo dieci minuti a piedi.» Stringe le mani sul grembo e stropiccia le dita, china il capo di lato. «Possiamo offrirvi qualcosa? Mi piacerebbe davvero scambiare una chiacchierata assieme a te.» Un luccichio caldo gli brilla negli occhi, mi trasmette un tiepido senso di sicurezza e fiducia. Si stringe attorno al cuore assieme al senso di pietà che mi assale davanti al suo sguardo ancora sciupato dalle lacrime, scavato nel dolce e latteo viso da bambino.

Io ed Emil ci guardiamo. Emil inarca un sopracciglio, piega un’espressione scettica, arriccia un angolo del labbro inferiore.

Torno con gli occhi su Tino, sulla sua espressione di aspettativa che scintilla fra le perle di lacrime ancora incastrate fra le ciglia.

Sospiro, annuisco. «Certo.» Cedo per la prima volta.

 

.

 

Il cameriere arriva al nostro tavolo reggendo un vassoio argentato, lo accompagna l’aroma intenso dei tre caffè che abbiamo ordinato assieme al bicchiere di succo di mela per Emil. Raccoglie la prima tazzina, la posa davanti a me, e serve anche gli altri due caffè, uno lo mette davanti a Berwald e tiene l’altro in mano scoccando un’occhiata interrogativa che si sposta da Emil a Tino. Tino sorride cordialmente e solleva la mano, gli fa cenno che è per lui. Il cameriere annuisce, bisbiglia qualcosa in danese, e sistema la tazzina davanti a lui.  

Tino annuisce e stende il sorriso. «Mange tak

Sul vassoio è rimasto solo il bicchiere di succo alla mela infilzato da una cannuccia che ho fatto prendere a Emil. Non voglio che beva caffè prima di prendere l’aereo, rischierebbe di agitarsi troppo e di scombussolare il suo ritmo di sonno.

Il cameriere raccoglie il bicchiere e lo mette davanti a Emil. Emil lo porta più vicino a sé, increspa le sopracciglia, e prova a balbettare quello che ha detto Tino. «Uhm, ta-tak. Mange

Il cameriere accenna una riverenza, sistema il vassoio sottobraccio, e ci lascia da soli.

Lo sguardo di Tino torna a intristirsi, il sorriso sbiadisce. Tino pesca tre bustine di zucchero dalla vaschetta di plastica messa accanto al contenitore di salviette di carta, ne strappa una e rovescia la cascata di cristalli nel caffè. Non mescola, ne strappa un’altra e tuffa tutto contenuto. Gli occhi bassi e malinconici, ancora lucidi, riflettono la macchia bianca che sprofonda nella superficie nera e cremosa. «Mathias aveva già avuto qualche piccolo guaio con la giustizia ancora quando viveva qua in Danimarca.» Strappa la terza bustina, rovescia anche quella, e il volume del caffè cresce. Una piccola goccia stilla dalla tazzina e piove sul piattino. Tino si stringe nelle spalle. «Piccoli furti, vandalismo, possesso di droghe leggere.» Prende il cucchiaino fra quelle dita bianche e sottili come quelle di una ragazzina e mescola facendo tintinnare la porcellana. «In realtà non è che rubasse per necessità, la sua famiglia è sempre stata a posto in questo senso, e aveva anche ricevuto una buona educazione da piccolo. Per questo la sua ribellione è stata così difficile da accettare per i suoi genitori.» Sfila il cucchiaino dal caffè, lo sgocciola sull’orlo, e lo posa sul piattino. Stringe il manico della tazzina, soffia sulla superficie, e prende un primo brevissimo sorso. La sua fronte si increspa. «Tutto quello che Mathias faceva non sembrava spaventarlo, non era mai soddisfatto dei rischi che correva, e si spingeva sempre più lontano.» Torna a posare la tazzina, sospira. Le unghie strofinano il marchio del bar tatuato sulla superficie di porcellana. «Per lui era tutto come un...» Si rosicchia il labbro inferiore, stropiccia una smorfia d’incertezza, e non conclude la frase.

Raccolgo anche io la tazzina, assaggio un sorso di caffè a cui non ho aggiunto zucchero – come Berwald – e tengo lo sguardo fisso sul mio riflesso che si specchia sulla superficie lucida del tavolino. «Come un gioco.» Il caffè è disgustoso. Mi lascia la bocca impastata, come se avessi ingoiato una sorsata di fango.

Tino annuisce, gli occhi brillano di realizzazione anche se restano bassi. «Sì, esatto.» Sorseggia dell’altro caffè e il suo viso si rilassa toccato dal vapore caldo e profumato. Riappoggia la tazzina, incrocia le caviglie sotto il tavolino sfiorandomi un piede con il suo. Un piccolo e tenero sorriso dal sapore nostalgico gli tocca nuovamente le labbra. «Sapete, lui e Berwald sono stati compagni di classe a scuola fin da piccoli.»

Berwald si limita ad annuire, a prendere un sorso dalla sua tazzina e a stare seduto con le spalle leggermente girate verso Tino, come per sorvegliarlo tramite quello sguardo duro e protettivo che mi ha mostrato al cimitero. Non ha spiccicato parola da quando ci siamo incontrati. Forse non parla inglese.

Tino fa tamburellare le dita di entrambe le mani sulla superficie della tazzina, e i suoi occhi tornano a rabbuiare. «Ovviamente Berwald ha sempre cercato di aiutarlo e di stargli vicino in qualsiasi guaio Mathias si cacciasse» spiega. «Litigavano sempre su questo. Berwald era molto in pena per lui, lo faceva per il suo bene, ma Mathias si è sempre rifiutato di ascoltarlo, e la situazione peggiorava man mano che il tempo passava. In realtà si è sempre rifiutato di ascoltare chiunque.» Raccoglie una delle tre bustine di zucchero svuotate e la stropiccia fra le dita, ne arrotola gli angoli e li srotola più volte, spiaccica la carta fra i polpastrelli. Scuote il capo in un gesto sconsolato. «Diceva sempre che se ne sarebbe andato per non tornare mai più, che non avrebbe mai più rimesso piede qui in Danimarca, che non avrebbe mai più mostrato la faccia ai suoi genitori. Ma era ancora minorenne e ovviamente non poteva andare lontano.»

Chino lo sguardo, faccio ondeggiare la superficie di caffè dentro la mia tazzina, lasciandomi pizzicare dal vapore bollente e profumato di chicchi tostati che risale l’aria umida del bar e che intiepidisce le guance. Effettivamente, sembrano proprio discorsi usciti dalla bocca di Mathias.

Emil sfila la cannuccia dal succo di mela e prende due sorsi direttamente dal bicchiere. Gli occhi attenti e un po’ smarriti restano fissi su Tino, la mano rigida attorno al vetro, e le spalle ancora avvolte nella giacca che si è tenuto sulla schiena nonostante il bar sia riscaldato. Anche lui non ha ancora parlato, e probabilmente non si aspettava di finire coinvolto in una storia simile quando gli ho telefonato qualche giorno fa. Forse è vero che non avrei dovuto portarmelo dietro.

Tino riaccenna il sorriso e volge lo sguardo su Berwald. «Poi io e Berwald ci siamo, ehm...» Scosta gli occhi, il sorrisino tremola di imbarazzo, le guance avvampano diventando ancora più rosse, le dita fanno scricchiolare la bustina di carta con movimenti più rapidi e nervosi. Tino si strofina i capelli dietro la nuca e stringe le spalle dondolanti, trattenendo una sottilissima risata. «Conosciuti» dice, con un po’ troppa enfasi.

Berwald gira lo sguardo, anche le sue guance si imporporano, nonostante il viso sembri intagliato nel ghiaccio. Prende un sorso di caffè e l’orlo della tazzina nasconde il sottilissimo tremolio delle sue labbra.

Tino lascia stare le bustine di zucchero stropicciate, prende un sorso del suo caffè e il risolino sbiadisce. Resta comunque il rossore e la luce malinconica a scintillare fra le ciglia. «E allora anche io ho fatto amicizia con Mathias.» Raccoglie il cucchiaino e scava sul fondo, pesca i residui di zucchero che non si sono sciolti. Succhia la poltiglia marrognola e tiene il cucchiaino fra le labbra ancora piegate in quel tiepido sorriso nostalgico. «Credo sarebbe stato davvero bello restare amici come lo eravamo allora, e a volte sentivo che prima o poi avremmo potuto davvero aiutarlo a uscire da questa sorta di circolo vizioso, a mettere le cose a posto, standogli vicino. Noi due eravamo le uniche persone di cui Mathias continuava a fidarsi.» Sfila il cucchiaino dalle labbra. Abbassa le palpebre e sospira, il fiato ancora trema per il forte pianto di prima che gli è rimasto incastrato in gola. «Ma se n’è andato appena diventato maggiorenne» mormora.

Lo sguardo di Berwald rabbuia. Il vapore che sale dalla sua tazzina gli annebbia lo sguardo, ma una sottilissima crepa di dolore attraversa quel viso di pietra, incrina il ghiaccio che prima ha raggelato persino me. 

Tino fa scivolare le mani giù dal tavolino e stringe i pugni sulle cosce. Dondola avanti e indietro con le spalle, come un bambino che è stufo di stare seduto. «Con i suoi genitori non ha mai più voluto parlare, li aveva completamente tagliati fuori dalla sua vita, ma con noi scambiava ancora qualche lettera, e ogni tanto riuscivamo anche a telefonarci.» Si fa piccolo nelle spalle, come nascondendosi. «Sapevamo cos’era andato a fare a Londra, ma ci sembrava che stesse tutto sommato bene e...» Le sue spalle smettono di oscillare. Tino si mordicchia il labbro, gli occhi ancora annacquati luccicano di rimorso, il viso addolorato si piega in un’espressione colpevole. «Fino a quando abbiamo perso completamente i contatti perché lui era...» La voce cede in un mormorio incomprensibile. Tino abbassa la fronte di lato e non riesce a continuare.

Berwald fa scivolare una mano sotto il tavolino e gli avvolge il pugno che ha serrato sulle cosce. Tino gli rivolge un sorriso rassicurante e gli strofina soffici colpetti sul braccio, tranquillizzandolo. L’espressione che dice: “Sto bene, non ti preoccupare”.

Stringo le dita attorno al manico della mia tazzina, allontano anch’io lo sguardo concentrandomi sulle parole di Tino che mi frullano nella testa, assemblandosi come i tasselli di un puzzle.

Hanno perso i contatti con lui dopo che è entrato nei Siberian Cubs, ovvio.

Emil si stringe nelle spalle, avvolge entrambe le mani al bicchiere di succo di mela, e fa dondolare il piede accavallato sulla gamba. «E non avete mai pensato di...» Guarda in disparte, fa tamburellare le unghie sul vetro. Gli occhi incrociano quelli di Tino e lo squadrano con aria interrogativa. «Di andare a Londra di persona per cercarlo?»

Tino sospira e scuote la testa. «Non si trattava semplicemente di cercarlo», sfila la mano dal braccio di Berwald, torna a serrarla contro la coscia sotto il tavolo, «ma anche di convincerlo a ritornare a casa e di fargli seguire una terapia per uscire dalla dipendenza. Quando viveva qua a Copenaghen era impossibile, perché per i minorenni non esistono veri e propri programmi di riabilitazione, e non tutti i centri Narconon sono disposti ad accettarli per le loro terapie. Mathias se n’è andato proprio per sfuggire alla possibilità che i suoi lo portassero in una clinica o in centro di recupero una volta raggiunti i diciotto anni, e...» Tiene dentro il fiato, le parole incastrate fra le labbra, gli occhi indecisi che si specchiano sulla superficie del tavolino. Tino si strofina i capelli dietro la nuca, una piega di afflizione gli attraversa il viso. «Sapevamo tutti che sarebbe stato impossibile fare qualcosa di concreto per lui dopo che...» Un’ombra di timore cala sul suo volto, lo rende buio e freddo. Un fremito gli scuote le spalle e Tino si porta il mignolo fra le labbra, rosicchia la punta dell’unghia in un piccolo tic di nervosismo.

Tino lancia un’occhiata alle sue spalle, il viso basso e l’espressione più buia e rigida, prudente. Piega un gomito sul tavolino, accanto alla sua tazza di caffè, e si gira lentamente a inviare un’occhiata d’intesa a Berwald da sotto l’ombra della frangia. Solleva le punte delle sopracciglia con un guizzo, una scintilla di paura freme nei suoi occhi, le dita premute sulle tempie si stringono leggermente, e le guance prima rosse di pianto sbiancano di colpo.

Berwald mi lancia un’occhiata appuntita e rapidissima da dietro il profilo delle lenti. Il suo sguardo si abbassa, incrocia di nuovo quello di Tino, e lui annuisce con un breve cenno del capo.

Tino rilassa i tratti del viso, prende un respiro profondo, a palpebre chiuse, e si volta verso di me. «Lukas.» Mi chiama con voce ferma, con un tono che non sembra più quello del tenero ragazzino che non ha fatto altro che sorridermi anche mentre stava affogando nelle sue stesse lacrime.

Un brivido mi accappona la pelle, il sangue raggela, le dita stringono l’orlo del tavolino che scricchiola sotto la pressione delle unghie, e i muscoli delle spalle irrigidiscono. I nervi scattano sulla difensiva.

Tino avvicina la sedia al tavolo, spinge le spalle più in avanti, si sporge verso di me, e tiene la mano posata sulla guancia, a coprire metà del volto dagli sguardi degli altri clienti del bar. Gli occhi lucidi brillano nell’ombra, la sua voce diventa un sussurro. «Mathias ti ha mai parlato di...» Prende un respiro più breve, gli occhi si spostano, indecisi, le labbra balbettano e la voce torna a squittire. «Di una, uh, congrega chiamata “Siberian Cubs”?»

Mi scava un vuoto nel petto. Le pareti si tingono di nero, il brusio di voci e passi e tintinnii di posate tace, svanisce il profumo dei caffè, l’aria diventa fredda e mi aggredisce la schiena tramite un’artigliata di ghiaccio che scava fin dentro le ossa. I brividi penetrano i muscoli, chiudono il petto in una morsa che mi arresta il respiro in gola, come un cubetto di ghiaccio andato di traverso.

I ricordi mi risucchiano.

Rivedo la mia mano scorrere fra i capelli biondi di Mathias, le mie labbra posarsi dietro il suo orecchio, scendere lungo la curva del collo e scivolare sopra il tatuaggio bagnato dalla luce rossa del sole. Rivedo anche il mio ultimo tocco che gli ha sfiorato la pelle bianca e fredda come pietra, su cui non splendeva più il sole del tramonto ma le fredde lampade dell’obitorio.

Abbasso la fronte, i capelli ricadono davanti agli occhi, il nero mi riempie la vista. Nero come quel maledetto tatuaggio.

Il rilievo dell’inchiostro spingeva contro la sottile pelle del collo diventato marmoreo, si faceva spazio fra le vene bluastre che serpeggiavano attorno alla giugulare, il filo spinato si intrecciava piantando i suoi spuntoni nel quadrante dell’orologio senza lancette. La scritta “Siberian Cubs” riempiva l’interno dell’orologio, le lettere così gonfie da finire graffiate dai nodi aguzzi del filo spinato. Il filo spinato che ormai ha ferito anche me senza però tenermi intrappolato nella sua morsa.    

Rilasso la tensione dei pugni, distendo le dita ritirando le unghie dalla carne dei palmi, ma il mio viso resta basso. La voce grave. «Emil.»

Emil sussulta, gira lo sguardo su di me.

Gli indico la porta del bar con un cenno del capo. «Esci, lasciaci soli.» Se anche lui venisse coinvolto in questa storia non potrei mai perdonarmelo.

Emil restringe le sopracciglia, indurisce lo sguardo. «No, voglio ascoltare.»

Mi giro con le spalle verso di lui. Assottiglio le palpebre, creo un’ombra attorno agli occhi che diventano freddi come lame di ghiaccio. Incupisco la voce. «Non farmi discutere.» Serro il pugno sul tavolo accanto alla tazzina e le falangi scricchiolano.

Gli occhi di Emil non demordono, non una piega, il viso duro e senza una ruga di paura ricambia lo sguardo di ghiaccio, sostenendo il mio. «Ho detto di no.»

Tino interviene prima che possa farlo io. «Emil.» Stende un braccio lungo il tavolo, sfiora il bicchiere di succo di mela e tocca il polso di Emil. Gli parla con tono morbido e paterno. «Forse dovresti ascoltare tuo fratello.» Scuote il capo. «Non sono bei discorsi.»

Emil mostra uno sguardo più umile, gli occhi perdono la scintilla di testardaggine che mi aveva scagliato contro, ma restano rigidi e determinati. «No.» Scuote anche lui la testa. «Ormai sono qui con voi, e non ha più senso nascondermi queste cose.» Restringe le palpebre in un’espressione offesa e annoda le braccia al petto. «Non sono un bambino.»

Faccio roteare lo sguardo, lo distolgo dal suo. Raccolgo la mia tazzina che ormai non fuma più e la accosto alle labbra. Prendo un sorso minuscolo di caffè, arriccio la punta del naso in una smorfia di disgusto, ma mi costringo a ingoiarlo. La punta di amaro sulla lingua mi rilassa i nervi. «Sì, sapevo dei Siberian Cubs.» Sollevo la mano libera, reclino il capo di lato, e mi tocco con due dita la parte sinistra del collo. «Aveva il tatuaggio sul collo, non me l’ha mai tenuto nascosto.»

Tino annuisce, intreccia le dita davanti a sé e tamburella le unghie sulle nocche. «Ecco, tu...» Una smorfia di disagio gli scivola fra le labbra, il respiro vibra e la voce si abbassa. «Tu sai quello che Mathias faceva, vero? Intendo», torna a coprirsi il volto posando le dita sulla tempia e fa roteare la mano, «non solo il giro di droga, ma anche...» Le guance arrossiscono. Mi lancia un’occhiata che mi implora di capire al volo e di non farlo continuare.

Annuisco. Capisco al volo e non lo faccio continuare. «Sì.» Prendo un altro sorso di caffè.

Tino riprende a respirare, le guance sbiadiscono, gli occhi s’ingrigiscono tornando avvolti dall’ombra. «E sai anche chi c’è in cima a tutto questo?»

Lo sguardo glaciale di Berwald attira il mio. Ci lanciamo un’occhiata sottecchi, e lui mi squadra come se sapesse già il fatto che io so tutto. Questo tizio mette i brividi.

Torno su Tino. «Sì, ma...» Stringo le mani alla tazzina, esito.

Ma non so se dovrei dirlo a te e non so se dovrei pronunciare quel nome davanti a mio fratello, rischiando di metterlo in pericolo.

Tino solleva un sopracciglio, recepisce l’ondata di scetticismo che gli ho lanciato come una fiammata rovente. Mi mostra un piccolo e sincero sorriso, un sorriso di comprensione, e torna a giocherellare con le bustine vuote dello zucchero, le spiegazza fra le unghie. «Tu sei uno studente, vero?» mi domanda con il solito e dolce tono amichevole.

Annuisco, abbasso la fiamma di astio dagli occhi che tornano freddi e distaccati. «Sì» confermo. «Sia io che Emil.» Lo indico piegando il capo verso di lui. «Lui studia biologia marina a Reykjavik, io psicologia a Londra.»

Tino si posa la mano sul petto, come ha fatto quando si è presentato davanti a me sulla stradina del cimitero. «Io e Berwald siamo nelle forze dell’ordine» spiega. «Nella Narcotici.»

Sbarro le palpebre, un lampo di realizzazione mi trapassa la testa, schiocca come un fulmine da tempia a tempia.

Nella Narcotici.

Stringo i pugni, il petto brucia, le dita schiacciate contro i palmi tremano di nervosismo.

Ora comincio sul serio a capire dove vogliono arrivare e perché hanno voluto incontrarmi e parlare con me.

«Davvero?» chiede Emil, strabuzzando lo sguardo. «Sembri molto, insomma», gesticola rimestando l’aria, mima uno sguardo vago e tossicchia, «più giovane.»

Gli do un calcetto al piede.

Emil si stringe nelle spalle, volta il viso e chiude i pugni sulle cosce. «Scusami» borbotta.

Tino ridacchia, per niente offeso. «Il mio aspetto inganna molto, è vero.» Schiude le dita lasciando cadere le cartine stropicciate e poggia le spalle allo schienale della sedia, raccoglie di nuovo le mani in grembo. «In realtà sono dentro solo da un anno, mentre Berwald lavora già da un po’ di anni. Lui e Mathias avevano la stessa età.» Torna con il palmo sul petto e il sorriso assume una sbavatura nostalgica che fa luccicare gli occhi come se si fossero di nuovo velati di lacrime. «Il motivo per il quale sia io che lui siamo entrati nella Narcotici era proprio la speranza di riavvicinarci a Mathias, e di aiutare tutti quelli che avevano i suoi stessi problemi.» Lancia un’altra occhiata di complicità a Berwald, lui annuisce, Tino annuisce a sua volta e prende un lungo respiro, come per incoraggiarsi. Stropiccia le mani che tornano a chiudersi contro le cosce, le nocche sbiancano e le unghie lasciano segni rossi sui dorsi. «In questi anni abbiamo avuto modo molte volte di avvicinarci al territorio di quelli che chiamano “Siberian Cubs”, ma senza mai riuscire a mettere fine all’organizzazione.» I suoi occhi seri e profondi, ancora lucidi e rossi attorno alle palpebre gonfie delle tracce di pianto, mi danno per la prima volta l’idea di appartenere a un adulto. «In questi casi, l’unico modo di porre fine a questo circolo vizioso è estirpare l’origine, la mente a capo, ed è praticamente impossibile considerando chi sia l’uomo con cui abbiamo a che fare.»

Abbasso lo sguardo, spingo una guancia contro le nocche, poggiandomi sul gomito, e rigiro fra le dita il cucchiaino che non ho usato. Mormoro quel nome senza paura, il suono esce liscio, freddo e tagliente come una bava di vento invernale. «Braginski.» Ormai non ha più senso nasconderlo.

Tino annuisce. «Ivan Braginski è attualmente ricercato in Unione Sovietica, Turchia, Inghilterra e in Germania Ovest. E nessuno è mai riuscito a catturarlo, pur essendo sulla lista da anni.»

Emil inarca un sopracciglio, si porta più vicino con la sedia facendo strusciare le gambe sul pavimento, e abbassa la voce che serba un tono sorpreso. «Ha davvero un traffico così espanso?»

«Purtroppo sì.»

Emil tiene le labbra socchiuse e non spiccica parola, sembra che gli si sia fossilizzata la lingua. China lo sguardo, sbatacchia le palpebre in un’espressione stupita. «Non pensavo che le droghe sintetiche avessero già preso un piede così ampio in Europa.»

Aggrotto la fronte e lo fulmino. Cosa significa “non pensavo”? Lui non dovrebbe nemmeno sapere dell’esistenza di queste cose.

«Infatti il suo traffico è iniziato con l’oppio» gli risponde Tino. «Non con l’eroina.» Si rilassa contro lo schienale della sedia e si strofina il braccio. Sospira. «È ricercato dal Sessantadue.»

La stessa occhiata che ho storto verso Emil la rivolgo a Tino. Sollevo un sopracciglio. «Oppio?» chiedo, sentendo una punta di curiosità pizzicare attraverso la voce.

Tino annuisce. «Non da solo, però, e nemmeno di sua iniziativa. Lui e un trafficante cinese trasportavano dall’Est fino in Inghilterra e in altri paesi dell’Ovest.» Guarda a destra e a sinistra, si gira poggiando il braccio sullo schienale della sedia e squadra l’ambiente del bar con occhi cauti. Torna a girarsi, tira in avanti le spalle verso me ed Emil e apre il fianco di una mano sulla guancia, riparando i movimenti delle labbra. Bisbiglia pianissimo. «Si diceva...» Si pizzica il labbro, arrossisce fino alle orecchie, gli occhi tremolano di imbarazzo. «Si diceva che fossero, ehm, amanti o qualcosa del genere.»

Anche Emil diventa paonazzo e si volta, chiude a pugno davanti alla bocca e tossicchia.

Spingo un gomito sul tavolo e premo le dita sulla fronte, mi massaggio le tempie, dove la pressione batte e martella contro il cranio, i polpastrelli scivolano verso il basso e disegnano piccoli cerchi fra le palpebre stropicciate.

Sia maledetta la volta in cui ho deciso di portarlo qua con me.

Tino tira indietro le spalle e si rimette composto. «Circolano un sacco di storie un po’ bizzarre dietro a queste situazioni. Sono immigrati illegalmente a Londra dalla Siberia quando erano ancora giovanissimi. Braginski aveva appena diciassette anni, Wang diciannove. Successivamente siamo riusciti a risalire al periodo in cui lui era vissuto a Hong Kong, e abbiamo scoperto che aveva lavorato in un Opium-Den, cominciando anche a produrre e a trafficare, oltre che a consumare, ovviamente. Poi è vissuto in Siberia, continuando sempre a gestire dall’estero il traffico di oppio. Nessuno ha mai comunque capito perché avesse deciso di trasferirsi in Unione Sovietica. Lì comunque ha conosciuto Braginski e...» Rigira una bustina di zucchero fra le dita e torna a stropicciarne gli angoli. Si stringe nelle spalle e piega le labbra in un piccolo sorriso triste. «Non si può dire che non sapessero come cavarsela anche qua in Occidente. Quando erano appena ventenni, controllavano più di tre quarti del traffico di oppiacei di tutto il Regno Unito, più altre nazioni dell’Ovest. Solo dopo Braginski è passato a raffinare e commercializzare eroina, dopo che lui e Wang si sono, uhm», tamburella un indice sul labbro inferiore, solleva le sopracciglia, «come dire, separati.»

Berwald socchiude le palpebre e allontana lo sguardo, lo rivolge alla finestrella tappata da una tendina che dà sulla strada da cui non passa un filo di luce. Emette anche lui un brevissimo sospiro, ma l’espressione resta immutata, le labbra piatte, la luce negli occhi fredda e indecifrabile, solo assottigliata da una lieve increspatura delle sopracciglia.

«In Oriente ne raffinano a tonnellate, proprio perché si ricava dall’oppio» continua Tino. «Proprio in Turchia è un commercio che si sta diffondendo sempre di più, per la vicinanza con i paesi arabi. È là che crescono le più ampie piantagioni di papavero. All’inizio per loro si trattava solo di rivendere l’oppio grezzo che producevano in Oriente. Wang possedeva alcune piantagioni. Poi, quando Wang è sparito dalla circolazione e l’attività è passata solo nelle mani di Braginski, lui ha anche iniziato a rivendere l’oppio grezzo ai laboratori e alle raffinerie, e successivamente ha anche cominciato a fare da mediatore con i grossisti di eroina pura, per poi rivendere l’eroina tagliata agli spacciatori e ovviamente a farla circolare lui stesso. Questa è stata la sua fortuna, e il traffico di narcotici lo ha fatto diventare ancora più potente di quanto non lo fosse già prima con il commercio di semplice oppio grezzo.» Sospira. Un’aria sconsolata ingrigisce il suo volto già segnato di tristezza e sciupato dai segni del pianto. «È davvero una situazione fuori controllo.»

Io ed Emil ci scambiamo un’occhiata bassa, Emil stropiccia le dita che ha chiuso a pugno sulle cosce, mi lancia uno sguardo preoccupato, triste e confuso allo stesso tempo. Si rivolge a Tino. «E che fine ha fatto il cinese?» gli chiede.

Tino si stringe nelle spalle, abbassa lo sguardo e riprende a giocherellare con le cartine di zucchero che arrotola fra le dita. «C’è chi dice che lo abbiano arrestato, rimpatriato in Cina, e che sia morto lì. Anche se ha vissuto per la maggior parte dei suoi anni a Hong Kong, aveva comunque la cittadinanza cinese. E laggiù c’è la pena di morte per il traffico e il consumo di oppiacei, a causa delle guerre che ci hanno girato attorno.» Scuote la testa, soffia un sospiro sconsolato. «Ma è comunque improbabile che lo abbiano giustiziato. Se cammini di fianco a Braginski, l’unica cosa che può ucciderti è Braginski stesso.» Rilascia le bustine di zucchero, poggia il capo sulla mano aperta, reggendosi sul gomito, e guarda un angolo del soffitto da cui proviene il riverbero delle lampade. Le dita tamburellano sulla guancia. «Girano voci che Braginski lo stia nascondendo ad Amsterdam» continua. «O che lo abbia fatto tornare a Hong Kong. Nessuno lo vede da anni ma non si sta nemmeno scavando a fondo. Molti mettono la coda fra le gambe quando si tratta di Braginski, preferiscono lasciar perdere.»

Già, lasciar perdere come quando un povero tossico scompare e nessuno ha voglia di alzarsi e andare a cercarlo prima che lo trovino accasciato in un bagno pubblico con la siringa ancora piantata nella vena del braccio.

Aggrotto la fronte e stringo i denti. Un nodo di rabbia torna a chiudermi la gola. «Che razza di...»

Tino annuisce senza lasciarmi finire. «Sì», gli occhi da bambino tornano a luccicare di sconforto, «sono situazioni molto tristi.»

Emil china le spalle in avanti per avvicinarsi a Tino e urta il bicchiere di succo alla mela con il gomito piegato sul tavolino. «E il russo?» domanda. «Perché lui non riescono a prenderlo?»

«Perché si muove nell’ombra.» Tino intreccia le dita, tamburella i polpastrelli sulle nocche sbiancate, e gli occhi tristi ma vigili si abbassano sul tavolino. «Non lo hanno mai colto in flagrante, non hanno mai saputo rintracciare il trasporto della, ehm», tossicchia stringendo un pugno davanti alle labbra, «merce» specifica, e il suo viso torna rilassato. «È riuscito a creare attorno a sé una rete di contatti talmente fitta che diventa impossibile arrivare al centro partendo dall’esterno. È un individuo molto astuto.»

Dall’esterno.

La stessa sensazione di frustrazione e rabbia che si era aggrappata ai miei nervi quando Tino mi ha rivelato di essere nella Narcotici torna ad aggredirmi, mi fa salire la pelle d’oca, brividi roventi discendono le braccia e mi fanno strizzare i pugni sul tavolo. Mantengo il viso freddo. La voce gelida e distante. «Quindi...» Lancio a Tino un’occhiata di ghiaccio, arida. «Cosa mi state chiedendo esattamente?»

Tino solleva le sopracciglia di scatto, le guance impallidiscono come se gli avessi premuto una canna di pistola in mezzo alle scapole e lo avessi spinto contro un angolo della parete. Lancia uno sguardo a Berwald – anche i suoi occhi hanno un guizzo di vita – e getta il viso a terra, storce un sorrisino di chi fa finta di non capire e sventola la mano verso di me. «N-niente» balbetta. «Perché do...»

«È ovvio che volevate parlare con me» lo interrompo, «perché io sono la persona che si trovava più vicina a Mathias quando era a Londra e quando era ancora uno dei Siberian Cubs, e lui è un testimone che ormai non può più parlare.»

Tino ingoia un sospiro e si morde il labbro, non emette fiato. Berwald mi scocca un’occhiata ostile in sua difesa ma non dice nulla.

Io ricambio, incupisco la voce che diventa ruvida e profonda. «Non girateci attorno», stringo i pugni facendo sentire lo scricchiolio della pelle, «non mi piace essere trattato da stupido.»

Gli occhi di Tino si macchiano di un’ombra di colpevolezza. Tino si fa piccolo nelle spalle, si strofina il braccio, rimane rigido contro la seggiola e un fremito gli attraversa le labbra. Berwald gli posa una mano sulla spalla, Tino gliela stringe e gli rivolge un’occhiata mite e insicura di chi sta cercando un consenso. Berwald annuisce.

Tino guadagna un profondo respiro di incoraggiamento che riporta un po’ di colorito sulle sue guance. «Hai ragione» mormora. Torna a girare le spalle verso di me ma tiene la fronte bassa. «Ti chiedo scusa.» Fa scivolare la mano di Berwald giù dalla spalla, le dita di entrambi si districano, Tino intreccia le braccia sul tavolo e il suo sguardo ancora afflitto assume una vena di determinazione. La voce che prima tremava torna ferma e sicura. «Ultimamente, siamo riusciti a tracciare i percorsi di alcuni carichi di droga che potrebbero arrivare direttamente a Braginski, ma non possiamo procedere con l’archiviazione delle informazioni, e quindi ogni genere di operazione nei suoi riguardi risulterà sempre impossibile da mettere in atto concreto.» Scuote il capo. «Abbiamo le mani legate.»

Emil solleva un sopracciglio, storce un’aria scettica. «E perché non potete archiviare le informazioni? Avete un indizio, non è già un passo avanti?»

«Verremmo subito scoperti da lui» risponde Tino. «Una volta che la polizia prende possesso delle informazioni», stringe un palmo, lo fa diventare un pugno e acchiappa una manciata d’aria, «è come se cadessero automaticamente nelle mani di Braginski.»

Emil trattiene il respiro, incredulo. «Come può essere?»

Tino rabbrividisce, il suo sospiro trema assieme a lui. Gli occhi si riempiono di un dolore più fitto e intenso che si infossa nel suo sguardo come quando si stava sciogliendo in lacrime durante la cerimonia del funerale. «Un suo collaboratore sa infiltrarsi in ogni archivio» mormora. «Pubblico, privato, cartaceo o elettronico.» Scuote il capo e una lama di afflizione sembra trafiggergli la gola, gli occhi umidi brillano di tristezza e nostalgia. «Non gli sfugge nulla. Forse da quel punto di vista è quasi più pericoloso di Braginski stesso.» Si asciuga una palpebra passandoci sopra il fianco della mano. «C’è stato un periodo in cui era ricercato persino dalla Stasi, proprio perché è in grado di evadere addirittura i loro sistemi di sicurezza e spionaggio, ed è irraggiungibile persino per i loro agenti. E questo ovviamente lo hanno capito mentre le autorità cercavano di arrestare i loro traffici che dovevano per forza passare attraverso la Germania Est.»

Il suo sguardo distrutto mi stringe un nodo allo stomaco. Uno sguardo che riconosco e che sento appartenere anche a me, uno sguardo che ha la stessa ombra di rimorso che mi tengo incollata addosso da tre giorni. Quasi come se Tino...

«Come fai a saperlo?» gli chiedo, secco.

Tino chiude gli occhi, stringe le punte delle sopracciglia per contenere il dolore. «Perché lui è...» Si interrompe, stringe i pugni, le spalle impietriscono, un brivido gli scuote la schiena. Schiude le palpebre, rivela di nuovo quegli occhi afflitti e lucidi come grosse biglie di vetro in cui si riflette la luce del bar. «Era il mio migliore amico» sussurra. Berwald gli posa un soffice massaggio alla spalla, per confortarlo, e Tino torna a stringergli la mano nella sua, contiene un singhiozzo che soffoca in fondo alla gola.

Una botta allo stomaco fa risalire il saporaccio amaro del caffè che ho appena bevuto. Criminali sovietici, trafficanti di eroina, di oppio, Stasi. In che razza di guai mi sono andato a ficcare? Se solo avessi davvero lasciato perdere Mathias dopo avergli stampato Kierkegaard in faccia...

Sospiro, allontano lo sguardo spingendo le nocche contro la guancia. «E io che pensavo che ormai non avrei mai più avuto a che fare con i Siberian Cubs.» Apro le dita contro le tempie, massaggio la fronte, e l’ombra del braccio tiene nascosto il mio mezzo sorriso sbilenco, un sorriso di amarezza. «Deve essere per forza rimasta in piedi qualche fune del ponte.»

Tino mi rivolge un’occhiata interrogativa. «Ponte?»

Sventolo una mano per sviare l’argomento. «Lascia perdere.»

Emil però capisce e si stringe nelle spalle guardandosi le mani chiuse sulle ginocchia, non aggiunge altro.

Tino scioglie la stretta dalla mano di Berwald e intreccia le dita sul tavolo. «Ecco, capite da soli che con Edua – cioè, con quel collaboratore sempre a portata di mano nulla può rimanere segreto a Braginski. Sarà sempre in vantaggio su di noi, ma potrebbe esserci un modo per incastrarlo definitivamente.»

Berwald si gira verso la giacca che ha posato sullo schienale della seggiola e controlla dentro una delle tasche interne, vi affonda la mano, scuote qualcosa che produce uno scricchiolio cartaceo, ed estrae un biglietto ripiegato. Lo porge a Tino che lo prende fra pollice e indice, tende il braccio verso di me, sopra le tazze di caffè vuote, e mi guarda dritto negli occhi. «Queste sono le informazioni necessarie per compiere il primo passo verso la cattura di Braginski.»

Abbasso lo sguardo e anche gli occhi di Emil si posano sul foglietto che mi sta porgendo Tino.

Le luci del bar calano, le pareti diventano buie, i suoni si congelano e le sagome delle persone attorno a noi si trasformano in ombre senza profondità. Il riverbero di una delle lampade si concentra solo sulla mano di Tino, si specchia sul bianco abbagliante del foglietto ripiegato, e infossa delle piccole ombre attorno al pollice che preme al centro della carta.

Trattengo il fiato, sopprimo un brivido di esitazione che penetra fino alle ossa.

Lo sguardo di Tino si fa più profondo, le punte delle sopracciglia si increspano, accendono il colore degli occhi ancora gonfi e rossi di pianto. «Non possiamo partire dalla polizia, ossia dall’esterno, ma partendo dall’interno di questa fitta rete la cosa sarebbe diversa. Certo, avendo due o anche un solo poliziotto dalla parte dei diretti interessati sarebbe tutto più facile e immediato.» Scrolla le spalle, di nuovo quel sorriso triste e speranzoso gli tocca le labbra. «Ma chi prenderebbe mai a cuore uno di loro?» Abbassa la mano, preme il foglietto sul tavolo tenendolo schiacciato con indice e medio, e lo fa strisciare affianco al piattino della sua tazza di caffè. Un angolino di carta mi punge la mano. «Mi rendo conto che è chiedere troppo, ma...»

Ritiro la mano di scatto. Lancio a Tino un’occhiata fulminea. «Che cosa dovrei fare con questo?»

Le pareti del bar tornano chiare, le ombre ridiventano sagome che si spostano fra i tavoli, l’aria riacquista il profumo di caffè, di biscotti, di bibite appena stappate, e del legno laccato delle seggiole.

Tino ritira la mano, fa scivolare all’indietro il foglietto ripiegato, e vi chiude entrambe le mani sopra. Abbassa il capo, tiene lo sguardo chino. «Lukas.»

Tengo un sopracciglio storto, gli occhi ristretti che ghiacciano dentro le palpebre assottigliate in un’espressione diffidente e ostile.

Tino sospira. «Mathias era...» Incontra di nuovo i miei occhi, mi rivolge un sorriso dolce e gentile, le labbra si incurvano verso l’alto con naturalezza, e il suo sguardo torna caldo e luminoso, anche se triste. Mi fa provare un soffio al cuore, leggero e morbido come una piuma. «Era più di un amico per te, vero?»

Sussulto. Le palpebre irrigidiscono e bruciano perché non riesco a sbatterle, mi devo mordere l’interno del labbro per costringere la bocca a restare piatta e immobile. Lancio un’occhiata bassa allo sguardo cupo e freddo di Berwald, poi di nuovo a quello più dolce e tiepido di Tino, e anche a Emil. Emil inarca un sopracciglio, arriccia un angolo della bocca e i suoi occhi indicano con uno scatto sia Berwald che Tino.

Sospiro.

Ha ragione. Di certo non ho bisogno di fingere davanti a loro due.

«Sì.»

Il peso fossilizzato sul cuore si scioglie come un cubetto di ghiaccio che torna acqua, e mi scalda il petto.

Il sorriso di Tino vacilla, e lui si sforza di tenere le labbra nella sottile forma ad arco. «E non...» Gli occhi si annacquano di nuovo, la loro luce vacilla sotto il riflesso delle lampade, le palpebre e le guance si infiammano, la voce cede in un tremore singhiozzante. «Non sarebbe bello se riuscissimo a non far succedere più...» Il labbro inferiore vibra. Tino spinge una mano sulla bocca, china gli occhi per non far vedere che si sono di nuovo riempiti di lacrime. Singhiozza. La voce suona sottile e strozzata. «Succedere più una cosa così...» Gira la mano, preme il dorso sulla bocca, strizza gli occhi, due righe di pianto sgorgano fra le ciglia, si sciolgono lungo le guance, e gli rotolano in mezzo alle dita. Tino singhiozza ancora, si nasconde il viso. «Scusate» sussurra. Tira su col naso e si china verso la sua giacca adagiata sullo schienale, forse in cerca dei fazzoletti.

Sia Berwald che Emil fanno lo stesso, infilano le mani nelle loro tasche e tastano pantaloni e giacca.

Emil trova per primo il pacchetto di fazzoletti di carta, strappa la linguetta e ne sfila uno. Lo porge a Tino.

Tino si strofina gli occhi con la mano e tende le dita tremanti verso il fazzoletto che gli sta allungando Emil. Ha il viso rosso e gonfio di pianto, due occhi umidi e traballanti fra le palpebre sciupate di stanchezza, ma riesce comunque a sorridere. «Grazie.» Raccoglie il fazzoletto e si tampona gli occhi, sopprime un ultimo singhiozzo. Berwald gli stringe la spalla, gli strofina piccole carezze all’altezza della scapola. Tino singhiozza un’altra volta e ingoia un grumo di lacrime, il fazzoletto ancora schiacciato contro gli occhi. «Scusatemi, vi prego.»

Emil torna indietro con le spalle e scuote il capo. Anche il suo viso si intristisce. «Fa niente.» Richiude il pacchetto di fazzoletti e lo rinfila in tasca.

Tino si strofina le guance, si soffia il naso, tampona un’ultima volta gli occhi che spremono fuori le ultime lacrime, e appallottola il fazzoletto fra le dita umide e ancora tremanti, lo stropiccia come aveva fatto con le bustine di zucchero. Mi rivolge lo stesso sorriso di prima, ma le labbra non vibrano più. «Non sarebbe bello se riuscissimo a impedire che accada di nuovo qualcosa del genere e a salvare i ragazzi come Mathias?»

Aggrotto leggermente la fronte. «Salvarli?» Getto lo sguardo in disparte, la guancia premuta alle nocche, il gomito piegato sul tavolo, e stringo la mano libera fino a sentire le unghie spingere sul palmo. «Io non sono stato in grado di salvarne nemmeno uno.» Gli scaglio un’occhiataccia raggelante. «Come puoi chiedermi di salvarli tutti?»

Il viso di Tino si distende. «So che non sarà mai possibile» confessa. «Ma io vorrei...» Si posa sul petto la mano che non regge il fazzoletto. «Soprattutto tenerli al sicuro dagli uomini come Braginski, e fare in modo che tornino liberi se non altro da...» Si chiude nelle spalle. «Da quel punto di vista. So che è difficile, e non voglio assolutamente caricarti di un peso così grande obbligandoti a farlo.» La mano torna a scivolare sul tavolo, mi porge una seconda volta il foglietto di carta ripiegato, ma senza toccarmi. Tino solleva gli occhi mostrando uno sguardo deciso e implorante. «Ma vorrei che tu dessi queste informazioni a qualcuno di cui ti fidi. A uno...» Guadagna un respiro profondo. «A uno dei Siberian Cubs, per tenerle dove Eduar – cioè, dove Braginski non si aspetterebbe mai di trovarle.» Preme indice e medio sul foglietto, lo spinge ancora un po’ in avanti, il foglio stride contro il legno lucidato del tavolino, e un angolino di carta torna a sfiorarmi i polpastrelli. Questa volta non mi sottraggo. Resto con lo sguardo su quello di Tino, sui suoi occhi che si animano di speranza. «Se vorranno davvero salvarsi, sono sicuro che loro troveranno un modo per usare bene queste informazioni.»

Guardo il foglietto. Ne raccolgo un angolino fra le punte delle dita, lo sollevo dal tavolo e lo rigiro fra pollice e indice, sfrego i polpastrelli sulla carta.

Io dovrei salvarli.

Il pacchetto di HB che ho lasciato nella tasca della giacca pulsa, la scritta con il nome di Gilbert sembra animarsi e tatuarsi sulla mia pelle, scava nella mia carne come un marchio a fuoco, ricordandomi l’esistenza dell’astuccio pieno e delle dieci sterline arrotolate che si confondono fra le sigarette.

Sollevo il foglietto davanti agli occhi, lo rigiro altre due volte.

Sento come se fosse Mathias stesso a darmi questo biglietto. Un ultimo sguardo, il suo braccio teso verso il mio, le dita si intrecciano, il palmo si schiude e lascia cadere il foglietto nella mia mano. Mathias solleva l’altra mano e le chiude entrambe come un guscio attorno alla mia. Il suo tocco è caldo, più caldo delle sue mani ghiacciate che ho sfiorato all’obitorio, e ancora più caldo dell’ultima notte in cui mi ha tenuto stretto a sé. Ci guardiamo negli occhi e i suoi sono più limpidi, di un azzurro fresco e pulito, come la prima volta in cui mi ha sorriso, toccato dai raggi del primo sole primaverile. La sua voce suona bassa come un sussurro, “Non abbandonarli”, ma arriva forte al cuore, fa vibrare il battito stringendomi il petto in una intensa ma piacevole sensazione di calore. Le mani di Mathias si schiudono dalla mia, lasciano l’impronta di calore sulla pelle e il peso del biglietto che grava nel palmo a forma di coppa. La sua immagine svanisce, si allontana lentamente, avvolta da una nebbiolina opaca che la inghiotte facendola scomparire come la condensa sui vetri.

Stringo la mano. Il foglietto scricchiola, gli angoli del quadrato pungono sulla pelle. Mathias se n’è andato. Questo però è rimasto.

Emil si sporge in avanti con le spalle, mi scocca uno sguardo obliquo ombreggiato di apprensione. «Lukas...»

Anche gli sguardi di Tino e Berwald premono su di me, gli occhi di Tino si colmano di aspettativa, di speranza.

Stringo il pugno senza schiacciare la carta, lo avvicino al petto e tengo la fronte bassa. Lo sguardo fisso sulle mie nocche flesse, bianche per lo sforzo, attraversate da sottili crepe rosse che il freddo ha tagliato sulla pelle. Il foglietto pesa. Pesa come la responsabilità di cui sto per farmi carico. Inspiro. «D’accordo.» Sollevo gli occhi e incrocio quelli di Tino, larghi e immobili, lucidi di attesa. Annuisco. «D’accordo, lo farò.»

Il viso di Tino si distende, un senso di sollievo gli fa brillare le iridi, il sorriso si solleva, sereno e felice per la prima volta. «Davvero?»

Infilo il foglietto nella tasca della giacca, accanto al pacchetto delle sigarette. «Ma lo faccio solo perché ho un debito con Mathias. Non per gli altri.» Raccolgo la giacca dallo schienale della seggiola, la spiego e me la butto sulle spalle senza infilare le maniche.

Tino solleva un sopracciglio. «Debito?» Sbatacchia le palpebre. Una nota di confusione gli incrina lo sguardo fiducioso.

Mi alzo per primo ed Emil mi segue, infilo le maniche della giacca e sistemo il bavero attorno al collo senza abbottonarlo. Il mio sguardo punta già verso la porta del locale, un piede scivola in avanti, stende il primo passo. «Mi dispiace avervelo riportato in questa maniera.»

«Aspetta, Lukas.» Tino si alza di scatto e mi stringe la mano fra le sue, ancora tremanti e umide di lacrime.

Mi volto a guardarlo. Anche Berwald si è alzato e guarda Tino con i miei stessi occhi interrogativi.

Tino abbassa la fronte, le dita avvolgono delicatamente le mie e mi trasmettono una scossa di dolore e nostalgia che mi punge il cuore. «Sai, Mathias forse poteva sembrare un ragazzo un po’...» Scrolla le spalle. «Un po’ superficiale da fuori, e proprio per questo non si legava così facilmente alle persone tenendole vicino a sé così a lungo. Io però credo...» Solleva la mia mano davanti al petto come se stesse custodendo un tesoro. I suoi occhi mi guardano dentro, mi toccano il cuore sciogliendo la crosta di ghiaccio. Il calore si propaga. «Credo che debba averti amato molto quando era ancora fra noi.»

La mia mano irrigidisce fra le sue dita ma non mi sottraggo, non voglio sottrarmi.

«Ti prego di non prendere il suo come un atto di abbandono nei tuoi confronti.» Tino sorride e piega il capo di lato, come fanno i bambini. «Ma come un gesto d’amore.»

Restringo il labbro inferiore, trattengo un breve fremito, e torno con la mente a ieri sera, disteso sul materasso traballante dell’ostello, a inspirare il tanfo di naftalina incollato alle lenzuola, a sentire l’orecchio prudere contro il cuscino ruvido, a rannicchiare le ginocchia alla pancia e a rigirare il pacchetto di HB fra le dita. “Mathias si era aggrappato a me perché sperava che io riuscissi a salvarlo. Inconsciamente mi stava chiedendo aiuto, e io non l’ho mai realizzato fino ad adesso.”

“Credo che debba averti amato molto quando era ancora fra noi. Ti prego di non prendere il suo come un atto di abbandono nei tuoi confronti.”

“Si è ucciso perché ha smesso di vedermi come la sua unica speranza di uscire e perché la sua fiducia nei miei confronti se n’era ormai andata.”

“Ma come un gesto d’amore.”

Tino china il capo, una piccola riverenza di gratitudine con le spalle che tremano, e sussurra piano. «Grazie per essere rimasto assieme a lui fino alla fine e...» Solleva il viso sorridente, la luce delle lampade gli imporpora le guance, le ciglia brillano e una singola lacrima si scioglie, riga il viso e tocca le labbra inarcate verso l’alto. «Grazie per averlo riaccompagnato a casa.»

Il calore si espande fra le nostre mani. Sciolgo la tensione che tiene rigida la mia, distendo le dita, volto il palmo, stringo quello di Tino, e lui chiude la presa con un gesto delicato. Sosteniamo insieme il nostro dolore.

 

.

 

Richiudiamo la porta d’ingresso del bar facendo trillare la campanella che squilla a ogni movimento dell’anta, i piedi scricchiolano sulla stradina di ghiaia che si immerge nel piccolo giardino scuro e addormentato, sepolto sotto un sottile strato luminoso di ghiaccio che sembra zucchero a velo. Il vento ci soffia addosso. Allaccio gli ultimi bottoni della giacca e stringo il bavero attorno alla gola, batto i denti tenendo le labbra sigillate, e quell’ondata di gelo mi invade il viso, brucia contro le guance. Emil mi cammina affianco e si strofina le braccia conserte, i suoi denti che battono fanno il rumore di una manciata di sassolini di vetro gettati contro una finestra.

Anche Tino e Berwald si abbottonano i cappotti, ma nessuno di loro due trema. Tino si liscia la stoffa lungo i fianchi, unisce le mani sul grembo, e mi rivolge un ultimo e tenero sorriso. «Mi raccomando, tornate a trovarci presto. Ci ha fatto davvero piacere incontrarvi, tutti e due.» Si posa una mano sulla guancia rossa e la sua voce guizza in una sfumatura divertita. «Sapete, penso saremmo stati davvero bene tutti e cinque assieme.»

Faccio roteare lo sguardo. Lascio che un brivido di freddo si porti via la visione di un quadretto del genere. Non oso nemmeno immaginarlo. «Sì.» Infilo le mani nelle tasche, chiudo i pugni. Annuisco. «Immagino di sì.» Volgo lo sguardo oltre le nuvole basse, dove il profilo lontano del boschetto in cui è custodito il cimitero si frastaglia contro il cielo. Non ricordo di aver visto cabine telefoniche. Forse dovrei tornare al bar e chiedere di usare il loro telefono per chiamare un taxi e farci riportare all’ostello.

«Lukas.»

La voce di Tino mi fa voltare.

Tino si stringe nelle spalle, stropiccia le dita sull’orlo di una manica e la sua espressione vacilla, non sorride più. Gli occhi timidi, velati dalla stessa luce di colpevolezza che li rivestiva quando lui parlava di Mathias. «Non...» Scuote il capo. «Non sentirti in obbligo riguardo a quello che ti ho detto, ma promettimi di pensarci.» Inspira. Lo sguardo si accende, nonostante gli occhi riflettano il cielo color ferro che brulica di nubi viola. «E di considerare l’idea che tu potresti fare davvero la differenza per salvare la vita a questi ragazzi.»

Una soffiata di vento gelido che odora di neve e ghiaccio ci passa attraverso, ulula e scuote i capelli e i lembi dei cappotti che si agitano all’aria.

Stringo i pugni dentro le tasche. Le nocche sfregano contro le mie chiavi a cui è ancora agganciato il ciondolo a forma di bandiera danese, contro il pacchetto di sigarette HB e contro il foglietto che mi ha affidato Tino.

Una tasca che pesa più di qualsiasi carico che mi sia mai buttato sulle spalle.

Annuisco. «Te lo prometto.»

Il sorriso di Tino si rasserena, mi rivolge uno sguardo sincero e china il capo. «Grazie.» Si gira verso Berwald, dalla parte opposta alla nostra, e sventola un braccio in aria prima di separarci. «Fate buon viaggio.» Anche Berwald mi guarda. Fa un cenno col mento, un piccolo gesto di approvazione, e anche il suo viso di ghiaccio si intiepidisce, un alone di tepore si trasmette persino dal suo sguardo.

Le mie mani restano sepolte nel fondo delle tasche. Emil solleva la sua, la sventola davanti alla spalla e ricambia il saluto di Tino.

Mi giro. I passi di Berwald e Tino si allontanano, gli scricchiolii della ghiaia si fanno più lontani e deboli. Rimaniamo soli.

Emil sospira e abbassa la mano. «E io che mi preoccupavo tanto di un’eventuale scenata di papà nel caso avesse scoperto di questa cosa del viaggio in Danimarca.»

Non gli rispondo.

Stringo un angolino del foglietto di carta e lo tiro fuori dalla tasca. Lo porto davanti al viso. Il vento lo agita, le mie dita si stringono premendoci sopra con le unghie per evitare che voli via.

Quindi dovrei davvero darlo a qualcuno dei Siberian Cubs.

Emil si gira verso di me. «Si può sapere in che razza di guai ti sei andato a...» La sua voce si blocca, la bocca resta socchiusa, il suo sguardo mi fissa come se mi vedesse per la prima volta. «L-Lukas?» Un brivido di timore e insicurezza gli fa vacillare la voce. Forse nemmeno lui crede che io sia in grado di fare una cosa simile.

Abbasso il foglietto, torno a infilare la mano nella tasca, cerco qualcos’altro. «Forse sto per fare la più grande pazzia della mia vita.» Urto le chiavi e trovo il pacchetto di sigarette, estraggo anche quello. Infilo l’unghia sotto il coperchio dell’astuccio e lo apro, spando l’aroma di tabacco che mi pizzica il naso. Le dieci sterline sono ancora infilate fra le sigarette e la parete di cartoncino. «Ma Mathias l’ha già fatta quando ha deciso di stare con me e di uccidersi per mettermi al sicuro.» Schiaccio le dita contro il foglietto di Tino e lo arrotolo, ci passo sopra con i polpastrelli più volte, gli do una forma a sigaretta. «Ora è il mio turno di essere pazzo.» Ficco il foglietto accanto alle dieci sterline, gli do due colpetti, lo pareggio con le estremità delle sigarette.

Chiudo l’astuccio.

 

 

 

 

- Fine -

   
 
Leggi le 7 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Axis Powers Hetalia / Vai alla pagina dell'autore: _Frame_