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Autore: Arepo Pantagrifus    01/05/2018    0 recensioni
Un incontro per un'intervista che si trasforma in pretesto per riflessioni storiche, filosofiche, poetiche. Una grande metafora: così è anche definita l'allegoria.
Genere: Satirico, Sentimentale, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Dialogo veneziano


Oggi avevo un appuntamento con questo illustre personaggio, una diva d’altri tempi che ha accettato di farsi intervistare – dopo tanti anni, a quanto bisbigliato dai miei colleghi – per i rotocalchi de La Storia. Per questo mi sono alzato con un po’ di nervosismo, ho cercato di fare più attenzione ai vestiti, curando l’aspetto un po’ più del solito, e mangiando più frugalmente. Non avevo particolare appetito e ci tenevo arrivare anche un po’ in anticipo all’appuntamento.

Di fronte al palazzo, un nobile edificio bianco riccamente decorato e circondato da un parco di cipressi, notai già una lunga fila che usciva dal portone. Abitanti di ogni paese erano rappresentati in quel cordone colorato, e a volte schiamazzante, di volgari T-shirt e pantaloni color kaki. Un odore di crema solare mi colpì tanto che mi sembrò di essere improvvisamente in spiaggia, con tutti i volti coperti da cappellini e occhiali da sole. Dovetti tagliare la fila e avvicinarmi al portiere – già esausto – per chiedere dell’appuntamento con la Signora. «Dovrà aspettare un po’, vede? Sono tutti per Lei.» «Non c’è modo di accelerare un po’?» Ma il portiere non fece tempo a capire, che era già sommerso da altre assurde richieste in una babele di lingue. Mi rassegnai in silenzio, composto nella fila, mentre bambini piangevano rumorosamente, e radioline sparavano musica dozzinale nelle cuffiette tutt’attorno.

Passò la mattina ed arrivò mezzogiorno, nel frattempo ero arrivato all’altezza della rampa di scale per salire ai piani superiori. Mi pentii di non aver mangiato di più la mattina: la fame si fece sentire violentemente, e mentre davanti a me una famiglia tirava fuori dagli zaini sacchetti di panini e bibite, io mi tenevo la pancia gorgogliante. Dovetti aspettare fino al primo pianerottolo, dove un banchetto di pakistani serviva gentilmente cibo a chi si trovava nella mia stessa condizione. Peccato che lo facevano pagare caro! Mangiai lo stesso, di malumore, e in piedi, in mezzo alle scale. Intanto notavo la quantità inverosimile di rifiuti e di cartacce, bottiglie, fazzoletti, avanzi, sacchetti maleodoranti che stipavano ai lati dei muri. Un senso di ribrezzo mi attraversò tutto il corpo e naturalmente si scaricò in occhiate d’odio verso tutta la coda, avanti e indietro. Quanta inciviltà e mancanza di rispetto! Si avanzò calpestando quei rifiuti fino ad arrivare finalmente – ed era già tardo pomeriggio – all’ultimo pianerottolo. Avevo già dato numerosi segni di impazienza, e si era già alzata la voce un paio di volte per richiamare all’ordine la folla chiassosa. Tante persone di tante culture diverse non potevano stare tutte insieme per così a lungo… I livelli di cultura si misuravano dal comportamento, di certo, e dal rispetto. Mi sconfortò molto valutarne la bassezza e a volte la volgarità.

Verso sera entrai in quella che era l’attesa destinazione: l’abitazione della Signora. Era un appartamento molto curato, datato per l’arredamento e per lo stile, ma tutto molto scelto e ordinato secondo un innegabile buongusto. La proprietaria, mi ero informato a dovere, era stata una diva un tempo: una famosa attrice di film storici che hanno segnato un’epoca, la protagonista di pagine di giornali nonché attivista politica e grande amministratrice di beni, un grosso incidente purtroppo la costrinse a ritirarsi dalle scene, e da allora iniziò – per così dire – la sua decadenza. Il salottino era in uno stile settecentesco: poltrone imbottite di velluto con braccioli rococò. Appesi alle pareti c’erano riproduzioni del Canaletto, e dal soffitto pendeva un lussuoso lampadario in vetro. Ci separava dall’ambiente solo un cordone rosso, come in un museo, anche se non impediva che la gente lo superasse a volte. Manacce entravano vuote ed uscivano piene dal vassoio del tavolino per rubare caramelle e confetti, così ingenuamente lasciati incustoditi. Frugava dappertutto, aprendo cassetti e buttandosi sopra i cuscini di seta, insozzando i preziosi tappeti orientali e curiosando impunita dove non doveva. La rabbia però giunse al suo culmine quando si arrivò nelle stanze private. Lì attendeva alla fine della fila, seduta placidamente su una sedia a dondolo la Signora. Dietro di lei un vecchio tubo catodico con merletti e sopra – testimonianza del kitsch italiano – la statuina di una gondola con gondoliere. L’anziana Signora era contraddistinta da una certa classe nel portamento, nobile dal contegno e da piccole tracce di un lusso che un tempo doveva essere sfarzoso e opulento. Nel suo raccoglimento così modesto, quelle piccole tracce urlavano la loro assenza come una denuncia di un crimine. Come se il loro ricordo fosse tutt’ora visibile e riconoscibile pubblicamente. Il brutto, però, fu proprio vedere quella povera Signora prestarsi al gioco dei volgari visitatori. Non ospiti, ma usurpatori, che la usavano per farsi foto, selfie, in pose ridicole, o la strattonavano per contendersela in ricordi da esporre su mensole e comodini. La maschera della Signora era imperturbabile, eppure mi piangeva il cuore vederla soggetta a quel vergognoso carnevale. Molti e molti si alternarono nelle pagliacciate intorno a lei, che pure manteneva alto il suo mento patrizio. Dovetti assistere tremante allo spettacolo, poi, via via che l’ora si faceva tarda, la gente spariva, la folla si allontanava, ed io potei rimanere solo, finalmente, con la Signora.

«Ho dovuto aspettare un po’ perché Lei si liberasse dagli impegni» incominciai. Mi squadrò inquieta: «Non è qui anche lei per un souvenir?» «Non sopporterei mai farle questa mancanza.» Visibilmente sollevata si tranquillizzò: «Allora è qui per l’intervista? C’è ancora qualche anima pia disposta ad interessarsi di una vecchia signora?» «C’è ancora chi si ricorda della sua bellezza.» Lei sorrise ironicamente: «La bellezza passa. Chi vorrebbe vedere ancora una donna al suo tramonto?» «Chi trova la bellezza anche nei tramonti…» Impressionata e leggermente compiaciuta mi invitò a sedere con un elegante gesto della mano. «Questa è l’ora in cui posso riposarmi davvero. Smettere di essere una donna da vetrina e una vecchia gloria del passato, e ritornare a vivere della pace che il giorno mi sottrae.» Dalla finestra aperta entrava una brezza notturna, e il silenzio dei cipressi che per tutto il giorno aveva fatto sentire la sua mancanza. Avevo le mie domande pronte nel taccuino che tenevo in mano, davanti a me. Poi però chiesi: «Cosa significa essere Lei?» Sembrò pensarci su, per nulla turbata dalla domanda, indugiando con lo sguardo sulle pareti, sui mobili, sulle stanze. «Vede» cominciò come se stesse per narrare una lunga storia: «chi ha costruito sulla sua immagine lo sfarzo e la bellezza è in qualche modo destinato ad essere preso continuamente come un riferimento. Se non fossi stata indicata come un’eccezione, una straordinaria eccezione nel mondo del cinema, sarei rimasta una comune attrice.» «Che cosa la rende diversa da tutte le altre? Cos’è eccezionale in lei?» «Cos’era, forse. Come per tante altre, credo sia stata una storia difficile: so che è un copione noto, ma le tue origini davvero ti rendono quello che sei, e non te lo puoi cambiare, ti rimarranno dentro per sempre ricordandoti continuamente da dove sei venuta. Per me non è stato diverso.» «Poi però è arrivata in alto.» «Ho preso vantaggio dall’ambiente in cui sono cresciuta e l’ho sfruttato a mio favore. Non si impara a scuola quello che ti insegna la strada. I miei punti di forza sono stati sicuramente la capacità di adattarmi ad ogni situazione, e non ho mai dimenticato chi mi ha dato una mano; così come ho protetto chi mi ha chiesto aiuto.» «Cosa le manca di più di quel periodo della sua vita?» Sospirò: «Come può vedere, la vecchiaia si porta via gran parte di ciò che si ha accumulato pazientemente in una vita: ricchezze, famiglia, amori, amicizie…» In quel momento mi apparve incredibilmente vecchia e stanca: le mani ossute incrociate davanti, i gomiti appoggiati alla sedia, mentre pelle floscia pendeva dalle braccia scoperte. Il vestito blu, che prima sembrava un abito prezioso, ora ricordava più un grembiule da casalinga. I capelli grigi e bianchi raccolti a crocchia sormontavano un volto rugoso, emaciato e vissuto. Tutto tranne gli occhi, vivissimi e brillanti, esprimeva sofferenza e fragilità.

Parlammo a lungo, nel cuore della notte, della sua vita, delle sue storie, dell’incidente che la obbligò ad allontanarsi per sempre e a non farsi più vedere. Da allora si rintanò in questa casa, dove raccolse il poco che le restava, e tuttavia, dove una marea di gente continuò lo stesso a visitarla, continuamente. «Queste persone» disse: «non vengono per vedere me, ma per vedere il resto di ciò che rappresento, o meglio, di ciò che rappresentai. Sono una figura mitologica, un resto archeologico di un’era passata. Osservano le mie rovine, quello che rimane della mia gloria.» Intervenni: «Ma non si oppone a quello che le fanno? Non vede come la trattano? Con tutto il rispetto, ma non si vergogna di quello che la costringono a fare?» Temetti di aver detto troppo. «No. Lei ha perfettamente ragione. Eppure, in qualche modo devo ancora sopravvivere. Nonostante molto abbia perduto, tutto il resto che ho – ed è ancora molto! – devo mantenerlo a mie spese. Non si può mantenere la bellezza eternamente, ma se ne può almeno tardare la caduta.» Un velo di tristezza le oscurò lo sguardo. Mi resi conto del peso che doveva gravarle, e delle difficoltà a volte insormontabili che era costretta ad affrontare. Sinceramente, mi salirono le lacrime agli occhi, ma mi costrinsi a contenerle. Avevamo quasi finito le domande, l’alba si stava avvicinando – avevamo parlato per tutta la notte – però mi rimaneva ancora un dubbio in sospeso. Mi arrischiai: «Lei è convinta ancora di rappresentare qualcosa per il futuro?» Uno strano sguardo mi colse: «A me sono venute generazioni e generazioni. Come ho rappresentato qualcosa per loro, così rappresenterò qualcosa per chi verrà. Non parlo solo di visitatori. Sono stata potente una volta, e sono rassegnata a non esserlo più: mi hanno tolto dal trono – come si potrebbe dire. Altre hanno preso il mio posto, è giusto così. Sarei stupida a non accettarlo: è La Storia.» «E il futuro?» chiesi io, trepidante. Sorrise ancora gentilmente: «Tu credi che avrò ancora un futuro?» Chiamò qualcuno nell’altra stanza. Un leone dalla maestosa criniera entrò solennemente dalla porta e andò a sedersi ai suoi piedi. Il volto della Signora sembrava trasfigurato: una giovane donna si intravedeva dietro gli occhi lucidi dai raggi dell’alba. «Io sono Venezia. Sono un’idea più che una città. Rappresento le sfide impossibili che mantengono vivi gli ideali degli uomini. Se sarò trascurata è perché i popoli hanno smesso di prendersi cura dei loro ideali, preferendoli nascondere dietro una vetrina piuttosto che animarli con le loro vite. Sarò destinata ad essere ricordata come una leggenda, se nessun altro decide di vivere la mia leggenda. Sono proprio le origini che ti rendono quella che sei... Quando sarò un corpo in romantica scomposizione, ancora indicheranno le pietre e ne loderanno la loro eterna bellezza. “Quelle” diranno “erano le pietre di un sogno impossibile!”»

 
26.IV.2018
   
 
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