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Autore: ArtenKowska    02/05/2018    3 recensioni
La sua mano calda raggiunge la mia guancia interrompendo i miei pensieri, le sue dita si muovono delicate sulla mia pelle arrossata e spostano una ciocca di capelli ribelli dietro l'orecchio. Mi sorprendo quando non si scosta da me, la sua mano è ancora a contatto con la mia faccia che, ne sono sicura, sta diventando sempre più rossa sotto il suo sguardo.
《Hai bevuto?》 mi chiede avvicinandosi ancora un po', il suo alito che sa da alcol mi dà la conferma che qui non sono l'unica che si è concessa un bicchiere.
Annuisco, incapace di far uscire la voce. Perché non riesco a parlare? Lo vedo accennare un sorriso prima che le sue labbra rosse si posino delicate sulla mia fronte a lasciare un semplice bacio.
Genere: Angst, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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II.

 

Sono in piedi ormai da mezz'ora ma questa fastidiosa sensazione di stanchezza non accenna a diminuire. Non ho dormito bene questa notte, i miei pensieri continuavano a correre alla festa e a quello che era successo con James; mentre mi trascinava a casa avevo provato a chiedergli perché si fosse comportato così ma le uniche risposte che avevo ottenuto erano stati dei mugolii, un «Alis» sussurrato con tono minaccioso alla “non fare domande” e un'occhiataccia quando stavo quasi per cadere rovinosamente a terra mentre cercavo di mantenere il suo passo affrettato.

Che cosa è successo?

Dopo essermi preparata una tazza di caffè mi siedo a tavola, i gomiti appoggiati al legno duro e le mani a massaggiare le tempie, sto cercando di non pensare a ieri sera, agli sguardi di James e dei suoi amici e a quello che è successo. In realtà dovrei proprio evitare di pensare, oggi è un'attività che mi porta via troppe forze e, sinceramente, sono già stremata.

«Buongiorno.»

Quando sento la voce impastata dal sonno di James sposto lentamente le mani dagli occhi, con calma punto lo sguardo verso di lui che si sta preparando del tè caldo.

«'Giorno» rispondo iniziando a sorseggiare dalla tazza. È la mia preferita, me l'aveva regalata proprio lui, parecchi anni prima, come souvenir da una gita.

Accarezzo con il pollice i due piccoli gattini disegnati sulla ceramica azzurra mentre mando giù la sostanza calda addolcita da una grande quantità di zucchero. Ho un problema con le cose dolci, sono come una droga per me.

«Mamma?» chiede sedendosi difronte a me.

Alzo la testa e mi ritrovo scrutata dai suoi occhi, ha i capelli scompigliati, come se ci avesse passato più e più volte le mani dal nervoso, e delle occhiaie rendono più evidente la stanchezza sul suo volto, «Ha chiamato?»

«No, non ha ancora chiamato» rispondo finendo il caffè ormai freddo.

Sposto le gambe di lato per alzarmi senza spostare la sedia, appena i piedi entrano a contatto con il pavimento freddo un brivido percorre tutto il mio corpo. “È decisamente arrivato il momento di indossare i pile e di accendere il caminetto” penso tra me e me.

Appoggio la tazza vuota nel lavandino e mi avvio verso le scale per salire in camera, oggi fa sul serio freddo ed ho intenzione di tirare fuori le prime felpe dell'anno.

«Scusa,» è solo un sussurro, le lettere biascicate, non sono neanche sicura di aver sentito bene, «scusa per ieri sera.»

Quando mi volto verso di lui ha la testa bassa, le mani giocherellano nervosamente con la tazza bianca e rossa. Sembra quasi che il liquido scuro e amaro al suo interno sia diventato tutto ad un tratto interessante.

Mi blocco sul posto, un piede già appoggiato al primo scalino, sono combattuta: da un lato vorrei mostrarmi indifferente e tornarmene in camera mia facendolo sentire così in colpa, dall'altro vorrei correre subito e sedermi difronte a lui per cogliere l'occasione al volo e cercare di capire qualcosa di tutta questa situazione assurda.

Dopo qualche secondo decido di dargli un'opportunità per spiegarsi, mi avvio con calma verso di lui e mi appoggio al bancone, vicino a dov'è seduto. Ci sono un'infinità di domande che vorrei fargli in questo momento.

«James, perché non hai detto loro che sono tua sorella?» mi lascio sfuggire d'impulso, la voce esce come un sussurro, quasi avessi paura della possibile risposta.

Si passa stancamente una mano sul viso e sospira, allunga le braccia sul tavolo e inizia a giocherellare con la tazza.

«Non ho detto niente perché avevo paura che ci provassero con te e che ti facessero stare male.» non so perché, ma ho l'impressione che sia una scusa inventata su due piedi, giusto per farmi stare buona, al momento però non mi va di insistere.

«Non sono più una bambina, sono in grado di cavarmela da sola, non credi?» cerco di mantenere un tono il più possibile pacato, non voglio certo finire a litigare come al solito.

«Lo so, Alis, lo so» si gratta la testa mentre si gira un po' verso la mia direzione, gli occhi corrono subito a cercare i miei, sembra parecchio teso, «solo che non riesco a non vederti ancora come la mia piccola sorellina che devo proteggere.» conclude infine distogliendo lo sguardo dal mio.

Ho la conferma ai miei dubbi: sta mentendo. È una cosa che ha sempre fatto quella di distogliere lo sguardo quando dice una bugia; mi ricordo ancora quando mamma ci richiamò in casa e iniziò a chiederci, con tono indispettito, chi fosse stato a mangiare tutta la cioccolata che c'era in tavola e un piccolo James era riuscito, con un discorso alquanto convincente -anche se non aveva guardato nemmeno per un secondo negli occhi nostra madre-, a scampare ad una punizione assicurata dando la colpa allo zio Mike, quella stessa sera mi aveva confessato che in realtà il colpevole del misfatto era proprio lui.

Sono ancora intenta a rievocare quei momenti passati che non mi accorgo nemmeno del telefono che squilla.

«Pronto?» sento dire ad James, «Ciao mamma, qui tutto bene, te come te la passi?»

Scendo dal marmo e mi avvicino, le nostre spalle si sfiorano.

«Ah» la sua faccia passa dall'essere perplessa all'essere felice in un attimo, «Quindi fino a lunedì non tornerai a casa?», la voce piena di speranza.

Capisco che nostra mamma non tornerà sul serio fino alla prossima settimana quando lo vedo esultare silenziosamente, facendo un gesto di felicità con la mano.

«Sì mamma, no mamma, stai tranquilla, non ti distruggeremo casa, promesso!» scoppio a ridere immaginandomi la possibile conversazione tra i due, le mille raccomandazioni di nostra madre e le suppliche a fare i bravi.

«Alis sta bene, è in gran forma direi» dice sogghignando.

«Sì è qui, ora te la passo» si volta verso di me, le nostre facce sono ad appena una spanna di distanza, «Non si fida di me, vuole accertarsi che tu stia bene» afferma roteando gli occhi in un'espressione infastidita dalla mancanza di fiducia nelle sue parole, mi passa il telefono e si alza appoggiandosi al bancone proprio dietro di me.

«Ciao ma!» esclamo sorridendo, «Tutto bene, sì, non preoccuparti» mi volto a guardare mio fratello come per chiedergli scusa da parte di nostra madre per la mancata fede.

«Sì… È andata bene, ci siamo divertiti e non abbiamo fatto tardi.» continuo a fissarlo e noto subito che, non appena ha capito di cosa stessimo parlando, il suo sguardo si è rabbuiato.

«Va bene, ti voglio bene anch'io! Ciao!» chiudo la chiamata e poso il telefono sul tavolo.

È calato un silenzio imbarazzato nella stanza.

«Beh» provo a rompere il ghiaccio che sembra essersi creato tra di noi in meno di cinque minuti, «non mi sono sembrati così male i tuoi amici» dico alzando i piedi e poggiandoli sulla sedia, abbraccio le ginocchia e ci poso la testa.

«Non sono male, sì» risponde atono.

«Perché ti sei arrabbiato tanto?» aspetto due secondi prima di riformulare meglio la domanda, «cioè, perché te la sei presa quando ti hanno chiesto di darmi un bacio?»

Non faccio in tempo a finire la frase che si è già staccato dal bancone e, con passo svelto, è uscito di casa lasciando dietro a sé dubbi non chiariti e il rumore assordante, amplificato dal silenzio dell'abitazione, della porta d'ingresso sbattuta.

Sospiro afflitta, ogni volta cercare di parlare con mio fratello è un terno al lotto.

«Frost!» chiamo il nostro cane che subito arriva scodinzolando dal salotto dove c'è la sua cuccia, «Vieni bello, andiamo a farci una passeggiata.»

Indosso in fretta una giacca e, dopo aver messo il guinzaglio al nostro adorato ammasso di peli e aver controllato di avere con me il telefono e le chiavi di casa, esco avviandomi verso il vicino parco.

Cammino lentamente, seguendo il passo calmo di Frost; mentre lui è intento ad annusare ogni minimo oggetto alla sua portata, io mi perdo ad osservarmi intorno, la luce del sole è tenue, offuscata da un leggero velo di foschia che ne smorza anche il tiepido calore, gli alberi stanno iniziando a seccarsi e a perdere le foglie, dalla vetrina del piccolo bar, il Dolcemente Amici, vedo alcune persone sedute davanti ad una tazza fumante chiacchierare in allegria. Spesso e volentieri io e Gil ci ritroviamo proprio in quel locale accogliente per scambiarci le ultime novità o qualche scoop, è l'ambiente ideale, piccolo ma accogliente.

L'unico autobus che passa in queste zone si è appena fermato dall'altra parte della strada, scendono alcune signore anziane, con le loro borsette ricolme di nuovi acquisti, e un giovane che si incammina nella mia stessa direzione. Ha un paio di cuffie alle orecchie, lo zaino sospeso malamente su una spalla sola. Riconosco subito chi è il giovane, solo lui ha una giacca di quell'inusuale color zucca.

Richiamo all'attenzione Frost e, dopo aver controllato che non ci siano macchine in arrivo, attraverso la strada. Subito mi porto alle spalle del ragazzo, che continua a procedere a testa bassa, e non appena lo raggiungo gli porto le braccia al collo.

«Alis! Porca vacca mi hai fatto prendere un infarto!» quasi urla saltando dallo spavento, gli occhi leggermente spalancati a causa del colpo.

«Scusa Matt!» dico ridendo, gli lascio un bacio sulla guancia prima di staccarmi da lui, «Ti ho visto scendere dal bus e ho pensato di salutarti.»

Ho conosciuto Matt ad una festa di compleanno, quando avevo undici anni. Ero stata costretta ad andarci, avevo provato in tutti i modi a convincere mamma a portarmi con lei e James, ma non ero riuscita a persuaderla: mentre io ero ad annoiarmi alla festa di una bambina che non mi stava nemmeno simpatica lei e mio fratello erano andati a divertirsi allo zoo. Ero seduta su una panchina, rigirandomi una piccola margherita tra le dita quando un bambino vispo e paffutello mi si era seduto accanto, un palloncino rosso legato ad un filo gli volteggiava intorno; in un primo momento non aveva detto una sola parola ma poi, quando stavo per alzarmi per cambiare panchina, se n'era uscito con un timido “Ciao, io mi chiamo Matt. Tu come ti chiami?”. Non so bene perché, forse sarà stato a causa della sua vocina fievole o dei suoi grandi occhioni verdi, ma fui subito attratta da lui, mi stava simpatico. “Mi chiamo Alis Ferguson,” risposi tornando a sedermi vicino a lui, “è tuo quel palloncino? È molto molto bellissimo” dissi fissando estasiata l'oggetto fluttuante. “Se ti piace te lo regalo” fu la sua semplice risposta, una sorta di accordo che sancì l'inizio della nostra amicizia.

Da quel giorno siamo sempre rimasti in contatto, giocavamo sempre insieme, il nostro punto di ritrovo era il piccolo parco giochi che si trovava esattamente a metà strada tra le nostre case. Con il passare degli anni, l'accumularsi di impegni scolastici e non abbiamo iniziato a vederci un po' più di rado ma, almeno una volta a settimana, avevamo un appuntamento fisso: pizza, film, pop-corn e pettegolezzi a casa mia o sua, in base a chi ce l'avesse avuta libera.

«Magari la prossima volta fai come tutte le persone normali e fatti sentire prima di piombarmi addosso…» ora che si è calmato anche lui sorride, «Dimenticavo, tu non sei normale!»

Scoppiamo entrambi a ridere alla sua affermazione, non del tutto sbagliata.

«Dove stavi andando di bello?» mi chiede infilando le cuffie in una delle tante tasche della giacca.

«Stavo portando a fare un giro al parco questa piccola peste» dico indicando con un cenno della testa il piccolo cagnolino che, continuando a procedere con calma al nostro fianco, punta il suo sguardo verso di noi non appena mi sente pronunciare il suo nome.

«Stavo andando proprio là anch'io!» esclama sorridendo.

Era da quasi un mese che non lo vedevo, ora che si è trasferito passiamo molto meno tempo insieme rispetto ad una volta.

«Allora, che mi racconti di nuovo?» mi chiede mentre varchiamo il cancello del parchetto.

Il prato, che normalmente si presenta come una distesa verde puntellata qua e là da fiorellini bianchi, gialli e azzurri, ha perso i suoi colori brillanti, testimone dell'imminente arrivo dell'autunno.

«Non ho molto da dire, sai che la mia vita non è così entusiasmante,» rispondo ridacchiando, «però ho uno scoop!»

Non appena sente le mie parole si concentra completamente su di me; libero dal guinzaglio Frost e mi siedo sotto ad una quercia nodosa, lui mi imita posizionandosi al mio fianco e incitandomi ad iniziare a raccontare la novità che tanto lo incuriosisce.

«Te lo ricordi Mark Collins?»

   
 
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