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Autore: TheLastMidnight    02/05/2018    2 recensioni
Rivisitazione in chiave dark delle fiabe "Cappuccetto Rosso" e "La bella e la bestia".
Dornennest è un villaggio che sorge in mezzo a quella che viene chiamata semplicemente "la Foresta": un oceano di alberi oltre il quale nessuno degli abitanti ha mai voluto mettere piede. Chi vive a Dornennest ha accettato di vivere nella paura: paura di ciò che si cela nel profondo della Foresta, paura della Creatura, paura del Nuovo Principe giunto a sostituire il precedente, morto a causa di una inspiegabile pestilenza. Tutto ciò che è diverso o ignoto genera paura, e trattato come un nemico da allontanare o combattere.
Persone come Liesel Holzhacker - diciannove anni, non sposata, e con una mantella rossa con il cappuccio che l'accompagna ovunque vada, specialmente quando si reca dalla nonna, la "strega" del villaggio - sono stigmatizzate dalla società. Liesel è diversa dalle altre ragazze di Dornennest: sa leggere e scrivere, non si adatta alle convenzioni, e molti mormorano che sarà lei la prossima strega.
Quando la Creatura un tempo creduta sconfitta riemerge dalla Foresta e comincia a mietere vittime, Liesel è la prima a venire colpita dall'isteria collettiva: e per salvarsi, non le resta che accettare un pericoloso compromesso...
Genere: Dark, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Cross-over | Avvertimenti: Non-con, Tematiche delicate, Violenza
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Capitolo II
 
Bianco come la neve, rosso come il sangue
 
 
 
Eyes black, big big paws
And it's poison, and it's blood
Big fire, big burn
Into the ashes of no return.
 
We took you right
From your mother's womb
Our temple, your tomb
Give me your hand
 
Not pawned
The poison is blood
 
[Fever Ray, The Wolf]
 
 
 
       Ero nata a Dornennest, lì avevo vissuto per diciannove anni e vivevo con la quieta e rassegnata certezza che lì sarei morta, andando a riempire un altro spazio fra le lapidi del cimitero dietro la nostra chiesa, litigandomi la terra e i vermi con gli altri cadaveri.
E in diciannove anni non avevo mai visto il villaggio muoversi per davvero.
Dornennest sorgeva in mezzo alla Foresta. Così come la pestilenza, anche la Foresta aveva quel nome perché a nessuno era mai interessato davvero scoprire come si chiamasse in realtà. Per noi tutti quella era semplicemente un mare infinito di verde che si estendeva a perdita d'occhio.
Quando io e Helene eravamo bambine – ero tornata a casa da circa un anno o poco più – ci eravamo unite a Fred, a Stefan Jäger e a suo fratello minore, insieme a un'altra manciata di ragazzini del villaggio per giocare a nascondino: non ricordo esattamente come andò, ma in qualche modo io, Helene e Adalicia Schmied eravamo riuscite a eludere la sorveglianza di Padre Abel e della sua perpetua e a intrufolarci in chiesa per nasconderci fra le panche; a quanto pare la nostra era stata un'idea coi fiocchi, perché dopo un'ora ancora a nessuno era venuto in mente di venirci a cercare lì, tanto che ci stavamo annoiando. A quel punto, io avevo aperto la porticina sull'altare che conduceva al campanile, e avevamo deciso di salire in cima; ci era sembrata una bella avventura, sul momento: ma Adalicia e la sua coscienza si erano bloccate al terzo gradino della scala a chiocciola, ed Helene mi aveva seguita fino a metà percorso prima che la stanchezza e la paura della punizione che sarebbe arrivata da Padre Abel e dai suoi genitori la inducessero a chiedermi di tornare indietro.
Io però volevo vedere cosa c'era sulla cima del campanile, e non l'avevo ascoltata.
Giunta in cima, ciò che vidi fu la Foresta.
Aggrappata allo stipite di una delle pareti del campanile, in piedi sulla balaustra di legno, con la fronte imperlata di sudore e il vento che mi scompigliava i capelli e faceva ondeggiare l'orlo della mia mantella rossa, dimenticai in un istante di essere sospesa a chissà quanti metri da terra, che un singolo passo falso avrebbe potuto precipitare di sotto, e rimasi a guardare per chissà quanto tempo quell'immensa distesa di alberi.
Era estate. Il cielo era limpido e non c'erano nuvole a offuscare l'orizzonte, eppure non riuscii a vedere oltre quella distesa di verde: le chiome degli alberi si estendevano per chilometri interi, senza arrestarsi, senza diradarsi mai. Non riuscii nemmeno a scorgere altre radure come quella in cui era stata edificata Dornennest, tantomeno altri villaggi, e neppure vidi la strada che i mercanti percorrevano ogni due settimane.
La Foresta era immensa, e se non avessi saputo dai racconti della nonna e da quelli dei commercianti forestieri che c'era altro, oltre a essa, nei miei nove anni avrei pensato che fosse infinita, che il mondo intero si riducesse alla sola Dornennest e che la Foresta fosse il suo cielo.
Un solo elemento estraneo spezzava l'armonia delle fronde verdeggianti: in lontananza, che svettavano sopra le chiome degli alberi, c'erano le torri del castello del Principe.
 
       Dornennest non si era mai mossa, mai in diciannove anni. Il borgomastro coglieva ogni occasione buona – solitamente le feste del villaggio – per tenere un discorso solenne in cui, in una maniera o nell'altra, riusciva sempre a infilare dentro la storia di come, anni e anni orsono – tutte le volte mi domandavo se il borgomastro Adolph Edel conoscesse effettivamente il significato di quell'avverbio –, il suo trisavolo giunse guidato dal destino con una carovana di altri pellegrini in quella radura isolata e protetta dai pericoli e dalle creature maligne della Foresta, un Paradiso terreno, un luogo di pace e prosperità dove aveva piantato radici. Ed era stato così che il primo Edel della storia del villaggio aveva guidato i suoi compagni nella costruzione di quell'agglomerato di catapecchie, gli aveva dato come nome “Dornennest” – significava nido di spine, ma questo il padre di Albert si premurava sempre di ometterlo – ed era diventato il primo borgomastro della storia.
Era sempre lo stesso discorso, e tanto per rendere le cose ancora più patetiche il padre di Albert non cambiava mai le parole. O l'intonazione. O la gestualità. Quando eravamo piccole, quello era uno dei giochi preferiti di Helene e me: quando avevamo il sentore che il borgomastro stesse per attaccare il suo solito monologo, sgattaiolavamo via dalla festa e andavamo a nasconderci sotto al palco rialzato dove Adolph Edel saliva ogni volta per pronunciare i suoi discorsi. Lì nessuno badava a noi, tutti impegnati com'erano ad ascoltare le parole del borgomastro. Allora, a turno, prendevamo in giro la scenetta del borgomastro copiando i suoi movimenti, muovendo le labbra all'unisono mentre facevamo il verso delle parole che pronunciava, e poi tappandoci la bocca a vicenda per non che l'intero villaggio sentisse i nostri risolini.
Fino a sei mesi prima io ed Helene ridevamo ancora, ogni volta che ricordavamo quegli episodi; da quando era diventata la fidanzata di Albert, però, non voleva più sentirne parlare. Ogni volta che portavo a galla il discorso per scherzarci su, lei subito cambiava argomento o rispondeva solo con un sorriso forzato e distante. Credevo che si vergognasse di aver preso in giro il suo futuro suocero, o che temesse che questo fatto venisse alle orecchie di Albert e lui se la prendesse a male.
Io trovavo abbastanza idiota che qualcuno si facesse del sangue cattivo per uno scherzo innocuo perpetrato da due bambine più di dieci anni prima, ma lei evidentemente no.
Io ed Helene decidemmo di costeggiare la roggia per arrivare alla piazza del villaggio. Sembrava che alla mia amica fosse tornato il buon umore, perché aveva cominciato a chiacchierare del regalo che le aveva fatto la signora Richter quando il borgomastro aveva informato suo marito delle nozze: una collana con un pendaglio dorato a forma di conchiglia.
- Hilda era verde d'invidia.
- Ah! C'era anche lei?- domandai.
- Già. Lei e sua madre sono venute a casa mia ieri sera a congratularsi - la punta di soddisfazione che avevo intravisto nello sguardo di Helene quando mi aveva raccontato dello scoppio di bile di Hilda Richter scomparve così com'era arrivata.- Pensi che se la sia presa?
- Hilda? Perché avrebbe dovuto prendersela per un regalo fatto a te?- conoscendo il soggetto di cui stavamo parlando questo era più che possibile, ma volevo che Helene esternasse i suoi pensieri.
- Non saprei, è che...sai, non molto tempo prima che Albert si dichiarasse a me girava quella voce...
- Se anche fosse, cosa te ne importa che se la sia presa? Che si roda il fegato.
- E' che vorrei mantenere dei buoni rapporti con tutti, se possibile - Helene mi guardò.- Anche con Hilda. Sebbene non siamo mai state amiche, suo padre è una persona importante. E la moglie di un borgomastro deve essere cordiale con tutti, no?
- Tanto una volta a casa avrà pestato i piedi come al suo solito, e per la fine della settimana il giudice gliene avrà regalate sette uguali alla tua - scrollai le spalle.- Quella si attacca alla collana perché sa che di quelle ne potrà avere a centinaia, mentre di Albert Edel ce n'è uno solo e non se l'è preso lei.
- A volte sai essere veramente perfida.
Stavamo per lasciare la zona più a sud del villaggio. La radura in cui sorgeva Dornennest era piana, non c'erano salite o irregolarità del terreno molto evidenti, tranne un pendio di mezzo metro in cui era stato scavato per farne una pozza d'acqua artificiale. La roggia era scura, verdastra, con l'acqua stagnante mossa appena dalla ruota del mulino. Il mugnaio e sua moglie erano stati fra le prime vittime della pestilenza, e adesso erano i loro tre figli maschi a mandare avanti il mulino. Era una struttura fatta di mattoni giallognoli e un po' scrostati. Un grosso gatto dal pelo grigio sonnecchiava sullo scalino d'ingresso.
Martin, il figlio di mezzo del defunto mugnaio, stava uscendo in quel momento dalla porta con due grossi sacchi di farina fra le braccia. Ci salutò con un grugnito e un cenno del capo, poi distolse subito lo sguardo. Martin Meyer era stato uno dei corteggiatori più accaniti di Helene; lo sapevano tutti anche se non si era mai dichiarato. Martin era sempre stato un ragazzo timido, e il suo fare la corte alla mia amica si riduceva a sguardi furtivi in chiesa o a un cenno del capo con le guance in fiamme.
Era stato uno dei tanti che si era ritrovato con il cuore infranto quando Helene era diventata la fidanzata ufficiale di Albert Edel.
Alcune donne stavano cominciando a riunirsi intorno alla roggia, portando ceste di panni sporchi. Quello era l'unico luogo di Dornennest dove si potessero lavare gli indumenti senza fare su e giù dal pozzo fino a casa per riempire le tinozze d'acqua. Io e Gudrun ci andavamo una volta a settimana, e sapevo con certezza che quello era il momento in cui tutte sciorinavano tutto ciò che sapevano sull'uno o sull'altro. Il pettegolezzo scorreva veloce come la corrente con cui era alimentata la roggia, quindi non mi stupii che, in mezzo alle lamentele per la neve, più di una donna si voltasse verso Helene e ridacchiasse.
La notizia del suo matrimonio doveva già essersi diffusa. Fra le donne, non a caso, scorsi anche Mathild e Truda Blicze, due sorelle che lavoravano come domestiche in casa del borgomastro Edel.
- Perché sarei perfida?- domandai, e intanto esaminavo la roggia; essa era stata scavata artificialmente, ma veniva alimentata da un corso d'acqua che, per quanto ne sapevamo tutti, era già esistente prima della fondazione di Dornennest: un fiumiciattolo che dalla roggia risaliva fino a costeggiare il mulino sulla sua parete ovest, dove era posta la ruota, e poi proseguiva fino a entrare nella Foresta e a sparirci dentro. La corrente proveniva seguendo un corso da nord a sud, segno che la principale fonte di alimentazione del fiume dovesse essere alla sua fine, oltre la Foresta. Nessuno, però, aveva mai provato a risalire le sue sponde per vedere da dove cominciasse.
L'acqua della roggia era ancora allo stato liquido, ma presto la neve l'avrebbe trasformata in una lastra di ghiaccio: se fosse stato abbastanza solido, pensai, avremmo potuto andare a pattinare.
- Per via di Hilda - Helene sembrava a disagio.- Anche lei era innamorata di Albert, così dicono. Deve aver sofferto molto quando lui non l'ha ricambiata.
- A parte che credo tu sia l'unica donna sulla faccia della terra a provare compassione per quella che voleva rubarle il fidanzato...- feci una smorfia.- Conosci Hilda tanto quanto me. Non so tu, ma io non penso fosse realmente interessata ad Albert. Lo voleva solo perché è il futuro borgomastro e lei è la figlia del giudice. Per lei l'amore nasce in base alla classe sociale. I ricchi si sposano fra ricchi e i poveri fra poveri, ecco come funziona nella sua testa.
- Non credo comunque che tu debba dire certe cose ad alta voce...- Helene abbassò lo sguardo e si strinse nel proprio mantello.- E poi non è del tutto sbagliato il modo di ragionare di Hilda...
Su quel punto dovetti ammettere che non aveva torto.
Dornennest non si era mai mossa nemmeno su quel fattore: una tacita regola voleva che le famiglie benestanti si imparentassero solo con quelle del loro rango. Per decenni i Richter avevano combinato matrimoni solo con gli Edel, o alla peggio con gli Händler. Effettivamente, era raro che a Dornennest ci fossero famiglie che, per matrimonio o consanguineità – o entrambi –, non fossero imparentate con altre.
I ricchi non si mescolavano con i poveri, e ai poveri andava bene così. La politica matrimoniale era la medesima anche per chi non possedeva molto denaro, con la differenza che i genitori di questa o quell'altra ragazza cercavano di elevare la propria condizione sociale facendo sposare la propria figlia con un giovane appena più ricco di altri, senza però sperare di maritarla all'interno di una delle famiglie più potenti: Helene mi aveva raccontato che lo stesso Fred Kürschner aveva seriamente preso in considerazione Martin Meyer come cognato, prima che Albert Edel – rompendo anni e anni di tradizione – proponesse il fidanzamento a sua sorella, ed era cosa risaputa che Adalicia Schmied sarebe convolata a nozze con Tihalt Hermann, dopo che sua sorella maggiore Serhilda ne aveva sposato il padre.
Il matrimonio di Helene avrebbe rappresentato una novità ben più succosa di un normale pettegolezzo: era la prima volta da tempo immemore che un ricco sposava una popolana.
Ci allontanammo dalla roggia, lasciando la zona più a sud di Dornennest; quella era considerata l'area più povera del villaggio, dove sorgevano, oltre al mulino e alla casa del mugnaio, anche casa mia, la catapecchia che era stata degli Arbeiter, la dimora del boia e di sua moglie e altre casupole di legno e paglia, quasi tutte dotate di una stalla o di un pollaio. Salendo per l'unico sentiero che Dornennest possedeva – non c'erano strade, solo spazi fra le case e le botteghe larghi abbastanza da farci passare un carro trainato da un asino o da un mulo – si giungeva alla piazza del villaggio. Passammo accanto a Fritzi, appoggiata a una delle travi di legno che sostenevano il porticato della sua casa.
La catapecchia di Fritzi era l'ultima abitazione che sanciva – più per senso comune che per un confine vero e proprio – la fine dell'area sud del villaggio. Nel momento in cui ci avvicinammo a lei, mi accorsi che Helene si era irrigidita e aveva rallentato il passo, quasi volesse fermarsi o tornare indietro. Malauguratamente se ne accorse anche Fritzi.
Sogghignò, scoprendo due file di denti dritti e bianchissimi. Avevo sentito spesso Serhilda Schmied Hermann – che aveva una dentatura che sembrava quella di una vecchia, dal momento che i denti che non erano mancanti erano cariati o ingialliti – che era quasi un peccato mortale che il sorriso più bello del villaggio appartenesse a una prostituta.
Fritzi Baumgart era come il vecchio Huey: come quest'ultimo era sempre stato solo, vecchio e pazzo, lei era sempre stata una prostituta. Non era poi molto matura – di certo non superava i trentacinque anni –, ma aveva cominciato a esercitare quella professione da giovanissima. Quando io, Helene, Adalicia e tutte le altre ragazze della nostra età eravamo bambine, Fritzi già riceveva gli uomini di Dornennest in casa sua. A differenza del vecchio Huey, però, tutti conoscevano la sua storia: fino a diciassette anni Fritzi era stata la figlia del bottaio di Dornennest, e nonostante sua madre fosse morta di parto insieme al suo fratellino minore, il denaro e la buona reputazione del padre le avevano procurato un'infanzia e una giovinezza abbastanza felice e agiata, e non le mancava altro se non un buon partito come consorte. Poi però una notte la bottega e la casa di mastro Baumgart erano state distrutte da un incendio – ancora oggi correva voce che non si fosse trattato di un ciocco di legno sfuggito dal camino, ma di una vendetta architettata da Edmund Jäger, corteggiatore respinto da Fritzi. Il bottaio e sua figlia si erano salvati, ma avevano perso tutto; mastro Baumgart era noto per essere un uomo orgoglioso: Padre Abel cercò di aiutare lui e Fritzi con della minestra calda la sera e le elemosina che raccoglieva in chiesa la domenica, ma quegli atti di carità erano come delle ferite di pugnale nella carne del bottaio.
Così, una mattina, lo trovarono impiccato a un ramo della quercia secolare che dava accesso alla Foresta.
Da quel giorno, Padre Abel non aveva più potuto – o voluto – accogliere sotto la sua ala protettiva la figlia di un suicida, né nessun giovane del villaggio, nemmeno Edmund Jäger, aveva voluto sposare Fritzi per il medesimo motivo, né darle una casa o un lavoro. Così, era diventata una prostituta.
Era l'unica donna di Dornennest a fare quel mestiere. Non sapevo se ne fosse contenta o no, ma se non lo era, di certo non lo dava a vedere. Fritzi non era bella quanto Helene, ma era affascinante. La nonna, fra i tanti libri che possedeva, ne aveva anche uno in cui venivano raccontati i miti e le leggende dell'antica Grecia: da bambina avevo imparato a leggere proprio su quel volume, ma oltre alle parole stampate che si rincorrevano una dietro l'altra, ad affascinarmi erano le immagini. Acquerelli che ritraevano statue raffiguranti dei ed eroi dipingevano sulle pagine ingiallite storie di ninfe trasformatesi in alberi per sfuggire alla lussuria di un dio, di giovani divinità rapite dalla propria madre in nome dell'amore di un signore dei morti, di ragazze punite per la loro bellezza e magicamente salvate da un misterioso principe che si coricava accanto a loro nel buio della notte. Fritzi non aveva né un profilo greco né le forme procaci e morbide delle giovani dee raffigurate nelle immagini, ma a me aveva sempre ricordato Psiche o Persefone, o la fatale Elena di Troia, anche se non saprei dire un motivo preciso.
Fritzi aveva un volto magro e un leggermente allungato, pallido come si confaceva a tutte le donne – sì, anche a quelle che vendevano se stesse –, ma con uno spruzzo rosato sulle guance, le labbra sottili e rosee, gli occhi marroni forse un po' troppo grandi ma che non sfiguravano insieme ai suoi zigomi alti, le sopracciglia scure e curate e la curva del naso che ricordava un'onda morbida. Il viso era incorniciato da una cascata di riccioli castani che Fritzi portava sempre sciolti sulle spalle, e mai coperti da un foulard o da una cuffietta, nemmeno nei mesi più freddi. Era alta, con un fisico sinuoso che ricordava quello di una sirena: vita stretta e fianchi rotondi, seno piccolo ma sodo che Fritzi tendeva sempre a mettere in mostra con abiti scollati, caviglie sottili. Credevo che a renderla bella fosse anche il suo modo di comportarsi: Fritzi non camminava; lei ancheggiava a testa alta, sprezzante dei pregiudizi e con un sorriso superiore e beffardo sulla bocca. Non era bella quanto Helene, certo, ma nessuna donna di Dornennest era carismatica e tentatrice come lei: chiunque si voltava quando lei passeggiava per le strade del villaggio, chiunque, anche il borgomastro e Padre Leonhard, che pure di fronte a tutti condannavano Fritzi e il suo lavoro.
Era una moda molto seguita, quella di Dornennest di etichettare qualcuno come buono o cattivo solo basandosi sul lavoro che faceva, su come si vestiva o su chi aveva sposato. Mastro Scharfrichter, il boia del villaggio, nonostante si limitasse a eseguire una sentenza emanata dal giudice, dal parroco e dal borgomastro – e il fatto che si ubriacasse ogni sera prima di un'esecuzione mi aveva sempre indotto a pensare che non lo facesse volentieri –, era trattato dal villaggio alla stregua di un assassino che aveva scelto di uccidere di propria spontanea volontà; il suo matrimonio con Zelma Pohl non aveva fatto altro che aumentare il sentimento di ostilità da parte del resto degli abitanti, e ora mastro Scharfrichter a malapena poteva mettere piede in chiesa la domenica.
Fritzi aveva avuto la stessa sorte quando era diventata una meretrice: Padre Abel l'aveva esclusa dalla comunità dopo il suicidio di mastro Baumgart, e con l'arrivo di Padre Leonhard era caduta dalla padella alla brace. Ma a lei non interessava nulla. Era palese: conoscevo Fritzi molto meglio di chiunque potesse sospettare, e mai l'avevo sentita lamentarsi per il suo destino sfortunato.
- Congratulazioni per il tuo matrimonio, madama Edel...!- ridacchiò, rivolta a Helene; la mia amica arrossì violentemente, e piantò lo sguardo sulla poltiglia di fango e neve ai nostri piedi. Fritzi sollevò un angolo della bocca in una strana smorfia, quasi un sorrisetto; poi si rivolse a me.
- Salutami la strega, Liesel.
Le risposi con un cenno del capo. Fritzi aveva i boccoli castani sciolti come al suo solito, nei quali si erano impigliati diversi fiocchi di neve. Ai piedi indossava degli stivali di cuoio lisi che le arrivavano fino alla caviglia, lasciando scoperta la parte del polpaccio dal collo delle scarpe fino all'orlo della gonna, appena sotto il ginocchio. Vidi che indossava un abito stretto color blu scuro, che doveva essere molto scollato come la maggior parte dei suoi vestiti, ma quel giorno Fritzi per ripararsi dal freddo era stretta in uno scialle di lana marroncino. Mi accorsi che non portava né calze né guanti.
Ci scambiammo un rapido sguardo d'intesa, poi Fritzi salì gli scalini di casa sua e andò ad appollaiarsi su una sedia a dondolo posta sotto il suo porticato, le gambe accavallate e in attesa dei primi clienti. Provai pena per lei: vestita in quel modo, senza calze né guanti, doveva congelare.
Helene mi tirò per la mantella.
- Come faceva lei a saperlo?- sibilò, ancora rossa in volto.- Del matrimonio.
Alzai le spalle.
- A Dornennest non puoi neanche starnutire che lo sa già mezzo villaggio. L'avrà sentito dire...- cercai di modulare il mio tono di voce in modo che suonasse il più naturale e sincera possibile; in realtà speravo che quella che avevo raccontato a Helene fosse la versione veritiera della storia, e non ci fosse altro sotto. Ad esempio, che Fritzi avesse appreso del matrimonio fra Helene ed Albert da Albert stesso. Magari in via del tutto confidenziale durante una...sessione privata.
Mi sentii malissimo quando realizzai che poteva essere un'ipotesi del tutto plausibile.
Sapevo che per Helene una simile eventualità era inconcepibile. Per lei era impensabile che Albert, o il borgomastro, o Fred potessero pagare Fritzi per trascorrere un'ora o due con lei fra le lenzuola del suo letto.
Nelle rare occasioni in cui si parlava di lei, Helene non sembrava neanche avere ben chiaro che cosa facesse Fritzi e che nel suo lavoro la presenza di uomini paganti era indispensabile. Ero arrivata a pensare che la mia amica credesse, alla peggio, che la clientela della ex signorina Baumgart consistesse solo nei mercanti che giungevano a Dornennest, e che questi mercanti fossero tutti senza eccezione celibi e alla ricerca al massimo di qualche coccola o tenerezza.
Il suo commento in merito era sempre e solo un povera Fritzi!, riferendosi al come fosse arrivata a esercitare quella professione. Helene non concepiva che una donna potesse guadagnarsi da vivere vendendo il suo corpo, e che fra gli uomini disposti a pagare ci fossero anche mariti o fidanzati di altre.
Sperai con tutto il cuore che il punto di vista corretto fosse il suo e non il mio. Mi era capitato spesso di vedere Fred Kürschner sgattaiolare furtivo, di sera, in casa di Fritzi Baumgart; e avevo visto mio padre fare la stessa cosa, un anno prima, quando Gudrun era incinta di Kristin, e sospettavo che di tanto in tanto lo facesse ancora. Molti uomini di Dornennest lo facevano; ma sperai che Albert Edel non fosse fra quelli: se Helene l'avesse scoperto, ne sarebbe uscita distrutta.
La mia risposta doveva averla in parte tranquillizzata, ma era ancora corrucciata: cercai di distrarla cominciando a chiacchierare del suo abito da sposa, chiedendole se avesse già deciso se indossare quello che era stato di sua madre o farsene cucire uno dalla sarta del villaggio. Helene mi rispose che avrebbe voluto un vestito nuovo, ma che Albert e suo padre insistevano perché indossasse quello appartenuto alla compianta signora Edel.
Parlare di quell'argomento dovette rasserenarla, e chiacchierò fino a che non giungemmo alla piazza del villaggio.
 
       Quando dicevo che Dornennest non si era mai mossa, intendevo che le giornate si erano sempre ripetute l'una uguale all'altra per settimane, mesi e anni. La piazza del villaggio era l'emblema di questo movimento immobile.
Superando la casa di Fritzi Baumgart si accedeva a un passaggio sterrato due volte più largo della stradicciola precedente, costeggiato da altre abitazioni con le relative stalle e pollai, e alcune di esse avevano addirittura un cortiletto, sebbene non più grande del mio mantello e di quello di Helene stesi l'uno accanto all'altro. Salendo, l'erba e la terra lasciavano il posto all'acciottolato, e si accedeva al cuore di Dornennest, la sua piazza.
Quel giorno, l'intera pavimentazione era già stata ricoperta dalla neve. Faticammo non poco a farci strada fra le impronte lasciate dagli stivali degli abitanti e dalle ruote dei carri, mentre i fiocchi di ghiaccio accumulati sul terreno ci arrivavano fino alle caviglie.
- Comunque, mi piacerebbe un velo con lo strascico...- stava dicendo Helene un attimo prima che rischiassi di scivolare rovinosamente a causa del ghiaccio. Mi mantenni in equilibrio quasi per grazia ricevuta.
- Sono sicura che Albert avrà abbastanza denaro da potertelo regalare...- borbottai, mentre controllavo che le uova nel cestino non avessero riportato danni.
- Già. Sempre se non indosserò il vestito di sua madre...
- Perché? Non ti piace?
- Mi piace!- Helene rispose con una fretta tale che sembrava quasi le avessi domandato se avesse mai ucciso qualcuno, e volesse smentire al più presto.- E' che...preferirei indossare l'abito da sposa della mia mamma...
Gli occhi di Helene si velarono di tristezza.
I suoi genitori, Gerhard e Rudelle Kürschner, erano morti l'anno precedente a causa della pestilenza. Sebbene Rudelle fosse stata la balia a cui mio padre mi aveva affidato dopo essere rimasto vedovo, e sebbene fossi cresciuta attaccata alle sue gonne fino ai tre anni, non mi dispiacque per lei: l'avevo sempre considerata una donna cattiva e venale, che trattava tutti i bambini che le erano affidati – compresi i suoi figli – come bestioline pulciose buone solo a riempire le tasche del suo grembiule. Ma mi dispiacque per Gerhard, che era un pezzo di pane; e mi dispiacque che Helene e suo fratello Fred fossero rimasti da soli.
Fortunatamente, Fred Kürschner aveva preso in mano il mestiere da conciatore che prima svolgeva con suo padre, e lui ed Helene sembravano cavarsela abbastanza bene. Ma la mia amica soffriva ancora tantissimo per la perdita dei genitori, e il suo desiderio di indossare l'abito da sposa di Rudelle mi pareva più che legittimo.
Le sorrisi.
- Dillo ad Albert - suggerii.- Chiedigli di far rimettere a nuovo l'abito di tua madre, e di chiedere alla sarta di cucirti un velo con lo strascico...
- Ci penserò. Ma non vorrei che si offendesse...- Helene si mordicchiò il labbro inferiore.- Il vestito della signora Edel è molto più bello di...
Mi trattenni a stento dall'alzare gli occhi al cielo.
- Se non vuoi indossare l'abito da sposa di Petronilla Edel, nessuno ti punterà un pugnale alla gola per obbligarti - tagliai corto; non mi piaceva la piega che stava prendendo quel discorso: se Helene voleva mettersi l'abito di sua madre nel giorno più bello della sua vita, non dovevano essere le stupide convenzioni della famiglia del borgomastro a impedirglielo.
Le strinsi l'avambraccio.
- Hai da fare? Ti va di accompagnarmi a fare le consegne? Così poi ci compriamo quella focaccia all'olio e rosmarino che ti avevo promesso...
- Volentieri.
C'incamminammo insieme verso la casa della vedova Schreiner. Lei era una delle poche che potessero permettersi una dimora che desse sulla piazza, anziché al limitare della Foresta. Si riteneva, e non a torto, che costruire un'abitazione alle soglie della boscaglia fosse rischioso, perché non solo si sarebbe stati i primi a venire coinvolti in un incendio, nell'attacco di un branco di lupi o di qualche strano essere, ma anche perché qualora questa eventualità si fosse verificata, ci sarebbe voluto più tempo affinché qualcuno corresse in tuo aiuto. Purtroppo, erano in molti ad avere questa sfortuna: in parte perché Dornennest era circondata dalla Foresta, e in parte perché le case intorno alla piazza del villaggio erano già occupate dalle storiche famiglie che ci abitavano sin dalla notte dei tempi.
La piazza in sé non era grande: al centro vi era solo un pozzo in cui tutte le massaie e le loro figlie – e figliastre – attingevano più volte al giorno per procurarsi l'acqua con cui cucinare o riempire la tinozza per fare il bagno. Quella della roggia era troppo sudicia, e nessuno si sognava neanche di mettere piede oltre il muro di alberi per andarla a pescare nel fiume. Il pozzo andava più che bene...bisognava solo sperare che qualche bambino non ci finisse dentro giocando, o di non alzarci tutti la mattina e scoprire che dentro c'era il cadavere di un morto ammazzato, o che qualcuno aveva deciso di avvelenare l'acqua per farci fuori tutti.
L'area circostante al pozzo era totalmente sgombra, e l'acciottolato veniva lasciato libero per il passaggio delle bestie da soma, dei carri e delle donne che trasportavano cesti carichi di frutta, legna o pane. Nel pomeriggio i bambini di Dornennest – quelli che erano rimasti dopo la pestilenza – giocavano a pallone o a ruba bandiera, e dalle otto del mattino fino a mezzogiorno il piazzale era occupato dalle bancarelle dei commercianti. Una volta ogni due settimane, i mercanti provenienti dalla città ingombravano tutto lo spazio con i loro carri e le loro merci, ma durante gli altri giorni erano solo i bottegai di Dornennest a esporre i loro prodotti. Non tutti lo facevano, comunque; solo il verduraio e il fruttivendolo, e di tanto in tanto il fornaio, sfidavano la neve, coprendo la loro merce con un telo soprelevato al banco, retto da quattro bastoni piantati nella terra. Nella bella stagione anche mastro Blumenhändler e sua moglie esponevano i fiori e le piante del loro negozio, ma dopo quel che era accaduto l'anno precendente nessuno di noi sapeva quando e se avrebbe rivisto quei petali colorati.
Gli edifici che sorgevano intorno alla piazza erano per lo più negozi e botteghe: il porticato dove il fabbro batteva il ferro per tutto il giorno accanto a quello del vecchio mastro Alt, il falegname a cui avevo commissionato i cubetti con cui far giocare Kristin; la bottega del fioraio, quella della sarta, quella del conciatore di pelli che apparteneva al fratello di Helene, il negozio del macellaio e quello del fornaio, il fruttivendolo e il verduraio uno contro la parete dell'altro, l'orefice...tutti i proprietari di una bottega vivevano sopra la bottega stessa, spesso accedendo al piano superiore tramite una scala a pioli posta all'esterno.
Un po' nascosta, diversi metri più indietro rispetto ai negozi e munita di una scala in pietra, c'era la scuola, mentre a nord del pozzo sorgeva la taverna. Per il resto, solo tre famiglie potevano permettersi di possedere una dimora che si affacciasse sulla piazza, in pietra, comoda e sicura, senza avere per forza una bottega annessa: il giudice Richter, sua moglie e sua figlia, il medico e la sua consorte, e al centro, a sud del pozzo e proprio dirimpetto alla taverna, sorgeva la villa del borgomastro Edel.
Mi faceva specie pensare che presto Helene sarebbe andata ad abitare lì, e che un giorno l'avrei vista affacciarsi dal terrazzo in compagnia del futuro borgomastro. Provai a immaginarmela con addosso uno degli abiti della fu Petronilla Edel: quello blu scuro, con le maniche a sbuffo e i nastri neri annodati sull'orlo dell'ampia gonna.
Anche nella mia fantasia, faceva un effetto molto strano, un misto di contentezza e di ansia.
La casa della vedova Schreiner era in una dei viottoli laterali a cui la piazza dava accesso; la porta si trovava appena svoltato l'angolo, sulla destra. La Schreiner era una delle clienti più affezionate di Gudrun: mi comprò due uova e un fazzoletto con su ricamata un'ape. Prima di chiudere la porta non si dimenticò né di congratularsi con Helene per il suo matrimonio né di lanciare un'occhiata in tralice al mio mantello rosso.
- Lo sanno proprio tutti, eh?- pensai che se avesse continuato ad arrossire così, la mia amica sarebbe diventata un pollo arrosto entro la fine della mattinata.
Risposi con un grugnito incomprensibile.
Proseguimmo verso la seconda tappa, la villa dei Richter.
Quello era diventato il mio lavoro da quando avevo dieci anni. Non ero l'unica ragazza nubile di Dornennest, e non ero neanche l'unica ragazza nubile che lavorava. Ma ero l'unica che facesse un lavoro che di solito veniva relegato ai garzoni di bottega.
Facevo le consegne.
Gudrun aveva trovato quel lavoro per me quando si era stufata di dover pagare cinque monete al giorno al figlio maggiore degli Arbeiter, dal momento che lei aveva una casa da mandare avanti e non poteva starsene in giro tutto il giorno.
Mia madre era morta dandomi alla luce. Ero stata il frutto della sua prima gravidanza, e lei era stata la prima moglie di mio padre, la prima ad avergli dato la sua prima figlia. Spesso pensavo che se papà si fosse trovato nella medesima situazione con Kristin non avrebbe saputo ugualmente da che parte cominciare, ma che se ci fossi stata io, com'ero adesso, a diciannove anni e in grado di badare a me stessa, forse avrebbe preso un'altra decisione.
Non che io fossi chissà che tipo materno: non avevo mai avuto delle serie esperienze di cura con i bambini – la maggior parte dei ragazzini di Dornennest o mi schifava o mi prendeva in giro o mi stava alla larga a causa delle storie raccontate dai loro genitori, e nessuna madre mi avrebbe mai affidato il suo piccolo, sempre per via delle dicerie –, e non provavo neanche tanta tenerezza nell'osservare quegli atti che legano una madre a un figlio. Quando la mia sorellastra era appena nata, e Gudrun l'allattava al seno, io tendevo sempre a uscire di casa o a dedicarmi a qualcos'altro pur di non guardare; quella scena mi creava disagio, a tratti anche disgusto; immaginavo di trovarmi nella stessa situazione, e ogni volta rabbrividivo perché sapevo che, se mai mi fossi trovata ad allattare, avrei avuto la sensazione di trovarmi fra le braccia e attaccato al capezzolo un animaletto, un piccolo pipistrello che succhiava latte misto a sangue. A tutt'oggi prendevo in braccio Kristin, giocavo con lei con i cubetti e la pallina, la portavo con me nella stalla a trovare Elsie...ma in generale ci spendevo il minor tempo possibile, e in ogni caso era la mia matrigna che si occupava di lei, che le dava da mangiare, la lavava, si assicurava che non s'infilasse nel camino o che non prendesse i pidocchi.
Ma forse, pensavo, forse se mio padre avesse avuto un'altra figlia, prima di me, una figlia già grande che lo aiutasse a occuparsi della casa e di una neonata, allora non mi avrebbe mandata via.
Invece, così non era stato. Non ho mai creduto né volevo credere tutt'ora che per lui fosse stata una decisione semplice. In realtà, negli anni ero arrivata a capire che lui non aveva mai avuto una vera possibilità di scelta.
Mio padre aveva ventun anni quando era rimasto vedovo. Il suo matrimonio con mia madre aveva gettato scalpore a Dornennest, e non poteva né contare sull'appoggio dei suoi genitori – morti quando lui era solo un ragazzo – né sull'assistenza delle pie donne del villaggio o del prete, che avevano disapprovato fortemente le sue nozze e mai si sarebbero occupati di una neonata mezza zingara.
Così, dopo aver sepolto mia madre, mio padre decise di mandarmi da una balia. L'unica balia di Dornennest era Rudelle Kürschner, che non guardava in faccia nessuno, nemmeno a una mezza zingara, se la si pagava profumatamente, ed fu da lei che venni mandata.
Per gli anni successivi vidi mio padre solo di sfuggita. Veniva a casa Kürschner una volta al mese, per assicurarsi che fossi ancora viva e per consegnare a Rudelle il denaro necessario a mantenermi. Si fermava un'ora o poco più, e durante quel tempo mi prendeva in braccio e giocava con me, ma poi se ne andava di nuovo e lo rivedevo il mese successivo. Ricordavo chiaramente che a tre anni, nella mia mente, si alternavano le due etichette papà e quel signore gentile che viene a trovarmi.
La mia famiglia erano stati i coniugi Kürschner e i piccoli di cui Rudelle si occupava. E naturalmente Helene.
Eravamo sette bambini, compresi i due figli naturali di Gerhard, e con marito e moglie dividevamo uno spazio che era poco più grande della soffitta in cui dormivo. Rudelle era lurida, sia dentro che fuori: di lei ricordavo molto bene il volto grassoccio, il seno prorompente, gli unticci capelli biondi e la puzza di sudore che emanava. Non ho mai provato affetto nei suoi confronti, ed ero sicura che lei non ne provasse né per me né per gli altri bambini che le erano affidati. Ne accoglieva tanti perchè aveva molto latte e perché aveva fame di denaro, ma i soldi che avrebbe dovuto spendere per noi li spendeva in grembiuli, pentole, caffè e vino: quanto a noi, pranzo e cena prevedevano minestra di verdure per trecentossessantacinque giorni all'anno; dormivamo tutti nel letto di Fred ed Helene, ai piedi di quello dei padroni di casa, e l'unico bagno che avevamo era quello che ci procuravamo da noi sciacquandoci mani e faccia nell'acqua della roggia.
Fino ai tre anni tutti noi possedemmo solo un unico vestito – il mio e quello delle altre bambine consisteva in una casacca ricavata da dei sacchi di juta in cui Rudelle aveva tagliato tre fori per farci passare la testa e le braccia; non ricordavo granché la divisa dei maschietti, ma nella mia testa era stampata chiaramente l'immagine di Fred Kürschner con l'orlo dei pantaloni che gli lasciava scoperte le caviglie di un bel po' di centimetri –, niente scarpe, e braccia e gambe piene di geloni e lividi.
Rudelle era tanto sporca quanto manesca. Non sopportava i bambini; a quel tempo sia io che tutti gli altri eravamo troppo piccoli per capirlo, ma crescendo avevo collegato i puntini e avevo realizzato che il vero motivo per cui ci teneva in casa sua erano appunto solo i soldi, ma che se avesse potuto ci avrebbe gettati nel pozzo o affogati nella roggia come si faceva con i gattini neonati. Ci trovava fastidiosi da vedere, pesanti da accudire e insopportabili d'avere intorno, e ogni occasione era buona per rifilarci qualche castigo. Non si limitava solo a rimanere ferma nella sua posizione secondo cui i bambini andavano cresciuti ed educati a suon di pizzicotti, scapaccioni e tirate di capelli: le sue punizioni erano umilianti.
Più volte Henrik Pferd si era trovato a piedi scalzi nella neve per aver rovesciato l'acqua o il latte a terra; in un paio di occasioni, Rudelle aveva fatto mangiare a Bertha Arbeiter il suo stesso vomito dopo che aveva rigurgitato quella sbobba schifosa sul pavimento, e suo fratello Franz fino a cinque anni aveva fatto la pipì a letto per colpa di tutte le minacce di morte che riceveva.
Fred ed Helene erano esentati da questo tipo di trattamento, perché Rudelle era sì una donna cattiva, ma aveva un sacro timore di suo marito, e Gerhard non gliel'avrebbe fatta passare liscia se avesse scoperto dei lividi sulle braccia dei suoi figli.
Ero rimasta in quella casa fino ai tre anni. Poi la nonna era venuta a prendermi.
Infine, a otto anni, ero tornata a vivere nel luogo in cui ero nata, perché mio padre aveva deciso di risposarsi. Gudrun già allora faceva ciò che era il suo lavoro: raccoglieva le uova delle galline, preparava il burro, imbottigliava il latte delle mucche, cucinava biscotti e crostate e nel tempo che le avanzava dai doveri domestici lavorava a maglia cuffiette, guanti, scialli e camicette per neonati, ricamava fazzoletti e panciotti, rammendava la biancheria lisa e, se era fortunata, aiutava la sarta del paese nella preparazione di calze e sottovesti quando alla signora Näherin veniva commissionato un corredo da sposa.
Tutti i suoi lavori – sia quelli di cucito che quelli culinari – li vendeva agli altri cittadini di Dornennest.
Aveva un giro di clienti più che discreto, questo dovevo concederglielo. Gudrun era sempre stata benvoluta a Dornennest a causa della sua famiglia e della sua reputazione da santa, ma a parte quello era veramente brava a cucinare e a cucire – non avevo molto occhio per valutare criticamente un lavoro di ricamo, ma era dieci volte più abile di me, e per quanto riguardava il cibo...non avevo esperienza con il cucito, ma il palato ce l'avevo eccome –, e quasi tutti compravano volentieri da lei o le commissionavano qualche lavoro.
Inizialmente, per consegnare la merce a domicilio dei clienti si era affidata a Bertram Arbeiter, pagandogli cinque monete al giorno come compenso, e aveva continuato a farlo per i due anni successivi al mio ritorno.
Poi, una mattina – era novembre inoltrato, nevicava ininterrottamente da tre giorni e io avevo dieci anni – vedendomi bighellonare su e giù per la cucina, aveva abbandonato le stoviglie che stava lavando nella tinozza e si era alzata in piedi di scatto, guardando mio padre.
- Jakob, ditemi cosa ne pensate di questa mia idea - e mi aveva indicato con un dito; mio padre, seduto al tavolo e con l'aria un po' assonnata, aveva guardato prima lei e poi me.- Questa bambina non fa altro che ciondolare tutto il giorno. Sapete bene che non sono d'accordo sul fatto che visiti...quella e che impari certe cose, ma dal momento che è figlia vostra e voi non ci vedete nulla di male, non m'intrometto su questo punto. Ma direi che il tempo di giocare è finito. Non può starsene tutto il giorno a rincorrere un pallone o a nascondersi fra i cespugli con quella Kürschner e le figlie degli Schmied, non credete?
Aveva guardato papà in attesa che le chiedesse che cosa avesse intenzione di farmi fare, e lui non aveva tardato ad accontentarla. Gudrun si era rivolta verso di me con le mani piantate sui fianchi, ma aveva continuato a parlare con mio padre.
- Ci tocca dare cinque monete al giorno al discolo degli Arbeiter. I soldi non spuntano dalla terra come l'insalata, e io non posso consegnare la merce di persona. Ho troppo da fare qui in casa, e se avessi qualcuno che facesse le consegne al posto mio potrei risparmiare le cinque monete e accettare più commissioni. Le gambe le funzionano, e da quel che ho potuto vedere camminare non le pesa. Potremmo mandarci Liesel, a consegnare la merce. Non avremmo bisogno di pagarla e si renderebbe utile in casa.
Ebbi la sensazione che mio padre non l'avesse neanche ascoltata, ma le rispose comunque di sì, dandole carta bianca sull'intera faccenda.
E così, il giorno dopo, mi ero ritrovata ad arrancare in mezzo alla neve con un cestino ricolmo di roba fragile, e con la promessa di una doppia razione di zuppa se avessi svolto bene il mio lavoro, e la minaccia che prevedeva una dose di schiaffi da far svenire anche un cavallo se avessi fracassato anche un solo uovo.
Anch'io ero entrata a far parte di quel meccanismo claudicante: tutte le mattine uscivo per fare le consegne, tutti i giorni facevo sempre le stesse cose, vedevo le medesime persone, pronunciavo le solite frasi e udivo le ridondanti notizie e i noiosi pettegolezzi.
La ruota dell'immobilità di Dornennest non aveva smesso di girare.
 
       Non ne avevo mai capito niente di architettura, ma da qualunque cosa avesse preso ispirazione il giudice Richter – il primo – per costruire la sua casa, beh, dovevo complimentarmi con lui per l'ottimo gusto, anche se forse era un po' pretenzioso.
Quel primo giorno d'inverno non avrei neanche saputo spiegare che diamine fosse il palladianesimo, per me quella del giudice Richter e della sua famiglia era solo una bella casa, e fine di ogni eventuale elucubrazione. Tuttavia, diversi mesi più tardi, scoprii quasi per caso un libro di architettura nella biblioteca di mio marito, e lo lessi tutto nel giro di un paio di settimane. A seguito di ciò, fui in grado di comprendere che la dimora del giudice era in stile palladiano, come dimostravano la forma delle finestre, gli abbaini e le colonne che sorreggevano la veranda sopraelevata, a cui si accedeva tramite tre gradini di marmo candido. Le colonne erano bianche, ma l'intera struttura era di mattoni rossi – fatta eccezione per il tetto, bianco anch'esso – sorprendentemente spogli della muffa che si attaccava alle pareti di ogni casa di Dornennest. Evidentemente, pensai quel giorno, il giudice e gentil consorte dovevano aver trovato qualcun altro che si occupasse di tenere in ordine il porticato – prima della pestilenza erano Helmutt Arbeiter e i suoi figli Bertram e Franz a farlo.
Naturalmente era a due piani, così come lo erano le dimore del borgomastro e del medico, ma la casa di quest'ultimo era di gran lunga più modesta delle prime due.
Helene mi aspettò ai piedi degli scalini, mentre io salii in veranda e bussai con il batacchio per tre volte. Avevo tutta l'intenzione di consegnare la merce alla governante dei Richter e andarmene per proseguire il mio giro, ma già dal tempo che c'impiegarono per aprire la porta compresi che la faccenda sarebbe andata per le lunghe.
Madama Richter teneva molto alla professionalità dei suoi dipendenti, o almeno che dessero l'impressione che quella fosse una casa perbene. Questo lo sapevano tutti, perché il povero Helmutt Arbeiter era famoso alla taverna per le sue imitazioni degli isterismi della padrona di casa ogni volta che qualcosa nella conduzione della quotidianità domestica non era di suo gradimento.
Bussai un'altra volta, ma dopo ben cinque minuti la porta restava ancora chiusa. Dall'interno della casa provenivano dei rumori di passi e oggetti spostati, segno che qualcuno doveva essere presente.
Mi volsi verso Helene, che si stava attorcigliando una ciocca di capelli intorno all'indice della mano sinistra.
- Forse c'è qualcosa che non va...- mormorò, e in quell'istante sentii la porta spalancarsi.
Mi voltai di nuovo per ritrovarmi faccia a faccia con una trafelata Felisberta Tiedeman. Aveva le guance grassocce rosse e la fronte imperlata di sudore e con appiccicati alcuni capelli sfuggiti da sotto la cuffietta bianca, che era slacciata sotto il mento e storta sul capo. Sembrava quasi che avesse corso.
Mi sembrò molto strano che fosse lei ad aprirmi. Felisberta Tiedeman era la cuoca dei Richter, non sarebbe spettato a lei aprire la porta di casa.
Fino a un anno prima, questo compito era di Hugo Diener, il marito della defunta sorella di Mathild e Truda Blicze, che lavorava come maggiordomo e valletto personale del giudice Richter; poi anche lui era morto nella pestilenza, e Madama Richter aveva dovuto subire l'umiliazione di mandare una delle cameriere donne ad aprire la porta.
A Felisberta uscirono gli occhi dalle orbite non appena mi riconobbe, e si fece un rapido segno della croce. Mi trattenni dallo sbuffare.
- Non abbiate paura, signora Tiedeman - gracchiai, con un'espressione e un tono di voce che sottintendevano un ma vattene all'Inferno! che speravo con tutto il cuore Felisberta cogliesse.- Consegno la merce alla vostra padrona e mi levo di torno.
- Madama Richter è di sopra, a letto. Con l'emicrania - aggiunse; la cosa non mi sorprese più di tanto: Josefa Richter era famosa a Dornennest per tre cose, la sua forte religiosità – non perdeva una messa –, il suo guardaroba aggiornato secondo la moda di Parigi – nessuno all'infuori di Madama Richter e di Hilda sapeva come diamine fosse un vestito secondo la moda di Parigi, per non parlare di conoscere l'esatta ubicazione di Parigi, ma a tutti piaceva riempirsi la bocca di quei concetti –, e la sua ipocondria.
Che fosse malata per finta o per davvero era una cosa che poco interessava al dottor Händler, quello che gli interessava era continuare a somministrarle rimedi inutili perché non guarisse mai del tutto, in modo che restasse la sua paziente fissa più affezionata.
La nonna mi aveva sempre insegnato ad avere rispetto per la medicina. Diceva che se non fosse stato per gli antibiotici la metà del mondo a quest'ora sarebbe stata a fare due chiacchiere con il Baron Samedi. Ma il fatto che rispettassi la medicina non significava che provassi lo stesso sentimento nei confronti del dottor Händler, che a Dornennest mancava solo mettesse radici ma che non era mai stato in grado di curare una sola malattia, neanche la più banale.
Forse era per la sua incapacità, o forse per vera ipocondria, fatto stava che Josefa Richter era sempre malata.
- Quando le persone si ammalano, le possibilità sono tre - sosteneva la nonna.- La prima, guariscono; la seconda, guariscono ma restano storpie; la terza, tirano le cuoia. Non esiste che una donna o un uomo stiano malati per così tanto tempo per poi tornare in salute non appena si prospetta una cena a casa del borgomastro o la competizione della figlia per il titolo di Regina di Maggio, e che diamine...!
Josefa Richter accusava sempre ogni tipo di malanno, da inspiegabili dolori al fianco, a fastidiosi mal di schiena, a non meglio specificati problemi ai nervi, a influenze, mal di gola, mal di stomaco e di reni, debolezze varie, ma l'emicrania era il suo preferito. Usciva di casa solo per andare a messa o per partecipare alle frequenti cene a casa del borgomastro Edel, e ogni domenica sul sagrato si sentiva solo la sua voce che elencava i malori e i dolori dell'intera settimana, naturalmente descritti con dovizia di particolari e contornati da aneddoti di questa o quell'altra morte atroce a causa della medesima malattia, o dal racconto di come quella brutta influenza sterminò un intero reggimento dell'Imperatore.
Tutte le donne di Dornennest, dalle borghesi alle popolane, si affollavano come stormi di uccelli intorno a lei ascoltando le sue lamentele e, se avevano sposato un uomo mediamente ricco – nessuna era al livello della famiglia Richter dopo la morte di Petronilla Edel, ma non avendo di meglio erano le uniche persone che Madama Josefa degnava della sua attenzione –, dandole consigli su come alleviare i suoi malesseri.
- Sono venuta per consegnare la merce - spiegai, con Felisberta che si era ritratta e che ora teneva il volto grassoccio incastrato fra lo stipite e il battente della porta, era chiaro che non vedesse l'ora di sbattermela in faccia.- Tre uova, un fazzoletto ricamato e una crostata. Madama Richter l'ha commissionata alla mia matrigna, insieme a due pezzi di burro. Potete prenderla voi?- avevo mentito sul burro, ma ero sicura che Felisberta, ignorante e credulona com'era, non avrebbe discusso; d'altra parte, sarebbe stato straordinario che Madama Richter mettesse a parte la servitù delle sue compere.
Prima della pestilenza, l'unica a sapere certe cose era la signora Haushälterin, la governate – nonché, si mormorava, una lontana cugina caduta in disgrazia della padrona di casa –, ma dopo che anche lei era morta l'anno precedente a causa dell'epidemia nessuno l'aveva sostituita, e Madama Richter gestiva praticamente da sola l'economia domestica.
- Assolutamente no!- Felisberta fece un salto all'indietro quando le porsi il cestino, quasi avessi avuto in mano una vipera.- No, io le tue porcherie non le prendo, mezza zingara!
Helene aveva salito i gradini che conducevano alla veranda, e ora mi stava a fianco, appena dietro la mia spalla sinistra.
- Non dovreste parlarle così, signora Tiedeman...- protestò debolmente.
- Signorina Kürschner!- Felisberta guardò Helene e poi di nuovo me, e si fece per la seconda volta il segno della croce.- Adalicia mi aveva detto che vi accompagnavate ancora a questa mezza zingara! Pazienza per quella discolaccia, ma voi non dovreste...
- Signora Tiedeman, Madama Richter ha richiesto alla mia matrigna questa merce, e lei ci ha speso tempo e fatica - tagliai corto.- O la prendete voi e mi date il denaro, o fate scendere la vostra padrona...!
- La padrona ha detto che non riesce ad alzarsi dal letto!- Felisberta parlava e intanto chiudeva la porta sempre di più, ed ebbi la sensazione che non l'avesse ancora fatto solo per rispetto verso Helene.- Torna domani, o dopodomani...
- Il burro sarà sciolto, le uova marce e la crostata da buttare. Chi li pagherà?
- Non è affar mio!- sbottò Felisberta.- Non è affar mio. Io roba da te non ne prendo, mezza zingara, sia mai che mi peschi qualche malocchio...!
- Che succede qui?
Dall'interno di casa Richter giunse una voce femminile, acuta, stizzita e leziosa al tempo stesso. Un agglomerato simile non si dimenticava tanto facilmente.
Felisberta guardò alle sue spalle, poi si scostò e fece un breve inchino in direzione di quelle che intravedevo essere le scale, senza però tenere la mano avvinghiata allo stipite della porta.
Ne approfittai per alzare gli occhi al cielo e lasciare che il mio fastidio si sfogasse in una smorfia e uno sbuffo.
Non avrei mai finito di stupirmi del fatto che Hilda Richter non avesse subito sostanziali cambiamenti da quando aveva otto anni ad adesso, che di anni ne aveva diciassette.
Da bambine giocava spesso con me, Helene e Adalicia, e già allora sembrava una bambola di porcellana. Era bassa di statura, fra me e lei passava solo qualche centimetro di differenza, ma grazie anche alle scarpe con i tacchi che poteva permettersi a differenza mia e delle altre ragazze, aveva la dannata capacità di squadrarti dall'alto in basso come se fossi stato un ragno, un ragno il cui scopo nella vita era quello di venire schiacciato da quelle stesse scarpe parigine. Hilda era magrolina, minuta, con la pelle pallida spruzzata sulle guance da del fondotinta rosato, gli occhi piccoli e azzurri e seminascosti dalle ciglia finte, le sopracciglia bionde e dalla curva perfetta. Era una bella ragazza, ma il suo viso non aveva perso i tratti infantili di quando era una bambina: le guance erano piene e tonde, la boccuccia aveva le labbra carnose e una forma a cuore – quando metteva il broncio, e lo faceva spesso, era un disastro, quelle labbra cariche di rossetto avevano l'aria di un bignè alla fragola sfatto – e il naso sottile e all'insù che la faceva somigliare a una zanzara o, appunto, a una bella bambolina francese.
Quando fece capolino sulla soglia della porta, indossava un abito color oro, con le maniche a sbuffo, la gonna stretta che terminava in un breve e morbido strascico e il corsetto aderente. I capelli lisci e biondi erano acconciati alla moda francese.
Qualunque altra bionda sarebbe stata da cani, lei invece sembrava una regina pronta a fare il suo trionfale ingresso in una sala da ballo.
- Che succede?- cinguettò ancora, rivolgendosi a Felisberta. La cuoca biascicò una spiegazione confusa, ma Hilda non l'ascoltò neanche.
- Che piacere vederti, Helene!- esclamò, fingendo di non vedermi.
Helene rispose con un imbarazzato buongiorno, ma io avevo già esaurito la mia pazienza. Mi feci avanti di un passo, e Hilda inarcò un sopracciglio.
- Sì, Liesel?- gracidò, accigliata.- Cosa vuoi?
- Che ritiri questa dannata merce, Hilda - feci una smorfia.- La tua cuoca non vuole prenderla.
- E perché mai?
- Non dovreste farlo neanche voi, signorina Richter!- metà della domanda di Hilda venne coperta dalle preghiere accorate della signora Tiedeman.- Porta male.
Hilda scrollò le spalle.
- Ma che stupidaggini!- fu il commento con cui liquidò le preoccupazioni di Felisberta, ma il fatto che Hilda non si lanciasse in dissertazioni su quanto fosse irragionevole che io o chiunque altro potessimo lanciare qualche malocchio – e Hilda Richter era una che amava parlare, se questo la faceva stare al centro dell'attenzione – mi fece capire che aveva detto così solo per salvare la faccia.
Hilda non aveva mai avuto paura di me, ma della nonna sì, sin da quand'era piccola. Anche lei condivideva la preoccupazione di Felisberta e della maggior parte degli abitanti di Dornennest sul fatto che io o la strega potessimo scagliare su di loro qualche sortilegio, ma non voleva ammetterlo perché, nella sua testa, questo avrebbe significato abbassarsi al livello di una contandinotta qualsiasi, come l'avevo sentita dire qualche anno prima.
In realtà, Hilda temeva la Foresta, la magia, e in generale tutto ciò che non si conformava a come secondo lei il mondo doveva girare, come si teme la peste. Non l'avrebbe confessato neanche sotto tortura, ma era così. Aveva paura della nonna, ma nei miei confronti provava solo antipatia.
Personalmente non avevo nulla contro Hilda. Non la trovavo simpatica, di certo avevo sempre saputo che non saremmo mai potute diventare amiche, mal tolleravo la sua superbia e la sua invidia, ma non avevo mai impugnato l'ascia di guerra nei suoi confronti. Da bambine giocavamo anche insieme – il giudice e Madama Richter avrebbero preferito che la loro figlia non si mischiasse ai mocciosi degli artigiani e dei contadini, ma dal momento che a Dornennest non c'era di meglio avevano acconsentito, poiché in caso contrario Hilda sarebbe stata completamente sola.
Per quel che mi riguardava, avremmo anche potuto mantenere un rapporto di civile cortesia. Lei, però, non era del mio stesso parere.
- Sai bene che sono solo superstizioni, Felisberta - aggiunse, con sussiego. Poi, a me:- Il cibo è pulito?
La domanda mi fece salire il sangue alla testa, ma mi controllai.
- Quando mai l'hai trovato sporco, Hilda?
- La settimana scorsa - rispose, secca, arricciando il nasino.- C'era un capello nel burro della tua matrigna.
- Hai preso in considerazione l'ipotesi che forse era uno dei tuoi o della tua servitù?- Gudrun aveva tanti difetti, ma non potevo accusarla di essere sciatta, disordinata o sporca. Casa di mio padre risplendeva come uno specchio, e quando non era impegnata a prendersi cura di Kristin, a cucinare o a ricamare, la mia matrigna non faceva altro che spolverare e strofinare ogni singolo angolo di spazio.
- Impossibile.
- Sulla base di cosa, lo affermi?
- Lo so e basta.
- Ti ringrazio per questa puntuale dimostrazione di possedere una mentalità altamente scientifica. Allora, la vuoi questa roba o no?
- Se maman l'ha commissionata, va bene - Hilda scrollò le spalle.- Ma riporta pure indietro il tuo burro.
- Ha commissionato anche quello!- ringhiai.
- Non è affar mio. Io non la tocco più, quella schifezza. E di' alla tua matrigna che dalla settimana prossima il suo burro non ci servirà più.
Il tono di voce con cui aveva pronunciato l'ultima frase stava a significare che non aveva intenzione di proseguire oltre con la discussione. Mi morsi l'interno della guancia e strinsi il manico del cestino con entrambe le mani: se avessi aperto la bocca l'avrei insultata e se non mi fossi controllata le avrei spaccato il cesto sulla testa.
Hilda se ne accorse e fece un sorrisetto; poi, rivolse la sua attenzione a un bersaglio per lei molto più interessante di me e delle mie consegne.
- Non indossi il regalo di maman, Helene.
La mia amica si portò una mano all'altezza del collo, come se si fosse resa conto solo in quel momento di non indossare il pendaglio a forma di conchiglia, e volesse scusarsi. Infatti, il tono con cui rispose a Hilda era simile a quello che usano i bambini per chiedere perdono ai genitori dopo una marachella.
- E' molto prezioso e raffinato - disse.- Mi...mi sentirei in colpa se dovessi perderlo...
- E fai bene. Due settimane fa maman l'ha comprato dai mercanti dalla città, e le hanno assicurato che l'avevano acquistato direttamente da una nobildonna decaduta che un tempo era stata dama di corte al seguito dell'Imperatrice...- spiegò, ed ebbi come la sensazione che ingrassasse di mezzo chilo ad ogni parola, talmente tanto si riempiva la bocca di orgoglio riflesso. Quel racconto pomposo mi fece capire che il pendaglio che Madama Richter aveva regalato a Helene doveva essere un falso: conoscevo i mercanti che venivano dalla città, non erano furfanti ma facevano il loro mestiere, e la maggior parte dei gioielli che vendevano erano dei falsi. Alle donne di Dornennest andava bene così – per loro bastava che un monile fosse bello e costasse poco, e queste caratteristiche le merci dei mercanti le avevano entrambe –, e i venditori inventavano sempre qualche storiella succosa per intrattenere le compratrici.
Ora che ci pensavo bene, anche Gudrun a casa aveva un medaglione con un pendaglio d'oro con incastonato un rubino, acquistato anni prima dai mercanti: Kristin un giorno se l'era ficcato in bocca e l'aveva piegato a metà.
Helene arrossì.
- Ti...ti ringrazio molto per il regalo, Hilda - lei non doveva aver capito che si trattava di un falso; e se anche così non fosse stato, probabilmente l'avrebbe ringraziata lo stesso.- Sono...sono lusingata che tu...
- Oh, cara, è il caso che ti ci abitui!- ridacchiò Hilda.- Sei o non sei la promessa sposa del futuro borgomastro? E, se vuoi davvero ringraziarmi...- a quel punto fece una cosa che lasciò interdette entrambe: superò la soglia dell'ingresso e prese Helene sottobraccio.- ...vieni dentro e unisciti a me. Felisberta ha appena preparato il té.
Helene si voltò verso di me, poi guardò ancora Hilda.
- Io non so se...
- Insisto!- Hilda la tirò dentro casa.- Tu...- mi guardò.- Porta la tua roba nelle cucine. L'entrata è sul retro, vicino alle stalle. Dirò a Viheke di pagarti.
E mi chiuse la porta in faccia.
Helene non si voltò più a guardarmi.
 
       Feci il giro della casa sentendomi il cuore pesante e un groppo alla gola.
Tentai di scrollarmi quelle spiacevoli sensazioni di dosso; non volevo confessarlo nemmeno a me stessa, ma ci ero rimasta male per il comportamento di Helene. Avevo sperato fino all'ultimo che rifiutasse l'invito di Hilda, o che almeno mi dicesse qualcosa come ti dispiace, Liesel? o ci vediamo più tardi!, invece non era successo nulla di tutto ciò.
Una parte di me sapeva che sarebbe successo. Che Helene avrebbe dovuto trascorrere sempre più tempo con gli Edel, i Richter e gli Händler, e meno con me, ora che stava per sposare il futuro borgomastro. Ma l'altra, quella che la nonna avrebbe definito senza spina dorsale, sperava che quel comportamento fosse un caso isolato.
Ad aumentare il mio malumore ci pensò la neve, che aumentò a dismisura: ora i fiocchi che cadevano sulla mia mantella rossa erano grossi quanto un'unghia, e i miei stivali affondavano del tutto. Mi tirai il cappuccio sul capo.
La porta che dava accesso alle cucine di casa Richter era separata da terra da altri scalini; questi però erano di legno e mezzi marci. Ne saltai uno spezzato a metà e bussai alla porta. Poco distante da essa c'erano le stalle, anche se in realtà era una scuderia: i Richter non possedevano bestie da soma come quasi tutti a Dornennest, bensì solo cavalli.
Tutti al villaggio conoscevano i cavalli dei Richter e i loro nomi: i due Percheron bianchi che trainavano la carrozza della famiglia si chiamavano Bandito e Fulmine, il castrato arabo di Madama Richter era stato battezzato Impeto e Hilda possedeva un albino con l'ignobile nome di Camelia; quanto al giudice, cavalcava un murgese dal manto nero che rispondeva al nome di Colonnello.
A occuparsi di loro, fino a un anno prima, era stato Oskar Bräutigam, un giovane orfano e scapolo che era molto bravo con i cavalli. Poi era morto a causa della pestilenza, e Viheke Schmied aveva colto l'occasione per far assumere al suo posto suo figlio Waldo, che di cavalli non capiva un accidente e che più volte il giudice aveva scoperto ubriaco e addormentato sulla paglia.
Il puzzo di animali, di sterco e di fieno si confondeva ai vapori emanati dal camino e dal profumo del cibo proveniente dalla cucina. Fu Viheke Schmied ad aprirmi la porta: ritirò la merce e mi pagò senza dire una parola e senza nemmeno guardarmi, e per tutto il tempo si tenne un lembo del grembiule premuto contro il lato sinistro della faccia.
La guardai di sottecchi, e capii cosa stesse cercando di nascondere: lo zigomo era violaceo e la guancia gonfia, e c'era un livido all'angolo delle labbra. Compresi che suo marito dovesse essere uscito di prigione.
- Grazie...- mormorai, mentre riponevo le monete nella tasca del vestito.- Come sta Adalicia?
- Fila via, mezza zingara!- sibilò Viheke, per poi rientrare e richiudere la porta con la rapidità di un ghepardo.
Mi ritrovai con la seconda porta in faccia della giornata.
- Beh, è stato un piacere...- borbottai, e scesi i gradini. Ballai un po' spostando il peso del corpo da un piede all'altro, indecisa sul da farsi. Gudrun se la sarebbe presa con me per la mancata vendita del burro, dovevo ancora passare da Serhilda Schmied...e non sapevo se avrei dovuto aspettare Helene oppure no. Anche se in fondo sentivo che non ci sarebbe stato modo di continuare la nostra passeggiata...senza contare che il dispiacere si stava pericolosamente mischiando a una punta di rancore. La voglia di piantarla in asso era tanta, se per caso aveva compreso che mi ero offeso questo le avrebbe dato la certezza definitiva...ma ancora, non me la sentivo.
Mentre mi dedicavo alle mie elucubrazioni, vidi Waldo Schmied – un ragazzone con due spalle larghe quanto il diametro di una quercia, i capelli rasati sulla nuca e lo sguardo bovino –, cotto di birra e da una nottata di bagordi, farsi strada verso le scuderie reggendo due secchi d'acqua.
Fu un attimo.
Waldo entrò nelle scuderie, e fu allora che lo sentii bestemmiare ad alta voce accompagnando il suono dei secchi che si rovesciavano e dell'acqua che si spargeva al suolo. Un secondo dopo, Waldo corse fuori dalla stalla, camminando all'indietro, e incespicò per la foga, finendo dritto nella neve.
Annaspò, gli occhi bovini sgranati e puntati in direzione delle scuderie. La mandibola gli tremava; boccheggiò come se avesse voluto dire qualcosa, ma dalle sue labbra uscirono solo dei balbettii sconnessi.
Mi avvicinai.
- Va tutto bene?- domandai; non sembrava ubriaco, anzi, era palesemente sconvolto. Waldo mi guardò come se fossi stata uno spettro, poi puntò un dito in direzione della scuderia.
- Cosa c'è?- mossi qualche passo verso di lui e la stalla, cauta.
E la vidi: una scia di sangue rosso, puro e denso, si stava allargando sulla neve.
 
 
 
 
Angolo Autrice: Ciao a tutti! Mi rendo conto che questo capitolo possa risultare noioso, ma dal prossimo la storia prenderà finalmente avvio. Questi capitoli “introduttivi” mi servono per presentare al meglio la situazione, e ogni personaggio e ogni cosa citata avrà un suo senso.
Ringrazio i 242 lettori silenziosi e Phoebe Moon per aver recensito e aver aggiunto questa storia alle seguite.
A presto! Un bacio,
 
TheLastMidnight
   
 
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