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Autore: roro    03/07/2009    10 recensioni
Uno, due, tre. Quanti respiri aveva fatto, prima di ricominciare ad osservarlo? Quante volte aveva deglutito, osservando la sua camicia leggermente sbottonata? Quante volte si era data della sciocca, quando quella bocca era divenuta troppo invitante?
“Dove ti ho già visto?”, chiese all’improvviso, sovrappensiero, socchiudendo gli occhi per guardarlo meglio. “Dove? Non ci siamo incontrati solo come padrona di casa e giardiniere, vero? Noi ci siamo già visti”, insisté, nervosa. “Dove?”.
Lui curvò leggermente le labbra –
ruvide – in un sorriso che sapeva di scherno. “Chissà”, le soffiò nell’orecchio. “Forse in un sogno”.
Seguito di The White Mask, dedicata a Niobe aka Onigiri.
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Inuyasha, Kagome
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Mask.

“Una rosa, anche con altro nome, avrebbe lo stesso profumo”.

 

 

 

 

 

 

 

 

*\* Non so da dove mi sia uscita, premettiamolo.

Dovevo scrivere una specie di Seguito della Shot di Niobe – The White Mask –, ma più che una Shot normale, a me questa sembra una specie di PWP idiota e scritta male.

Ma tant’è: ho fatto del mio meglio per usare uno stile simil-Nio. Cioè, più che simil-Nio, abbastanza puccio, ecco.

Il sottotitolo, come forse i più svegli avranno capito, è ispirato a Romeo e Giulietta, indi ha a che fare con Shakespeare. Io mi sono limitata a trascrivere la frase così come la ricordavo: e, per chi non lo sapesse, ho una memoria che definire pessima è di poco.

Comunque: spero non faccia troppo schifo. No, davvero.

Perché, nell’ultimo periodo, non riesco a scrivere: lo sanno bene quelli che aspettano il capitolo di BL, vero? XD Anche perché, beh, quella fic procede. Nel senso che il capitolo lo sto scrivendo, ma è accidentalmente rimasto nel mio portatile. Portatile ora in riparazione, perché il tasto C ha deciso di saltare: se non si riesce a metterlo a posto, una tastiera nuova mi verrà a costare sessanta euro. ._. Vabbe’.

‘Sta roba non mi convince, ve lo dico subito. Ma a Nio-chan – aka Onigiri – piace, indi gliela regalo (?) e la posto per farla contenta. XD Speriamo bene!

Non morite durante la lettura, mi raccomando. >.>*/*

 

 

 

 

 

 

 

 

“Sei un piccolo ladro bastardo”.

“E tu una mogliettina fedifraga”.

“Quando tornerai?”.

“Alla prossima luna nuova, Kagome”.

 

 

 

Koga non era un gran marito, né un grand’uomo. Suo padre, anni prima, aveva investito in una piccola ditta che produceva videogiochi: piano – forse troppo – i guadagni avevano iniziato a quadruplicarsi e lui, che possedeva la maggior parte delle quote della minuscola società, si era ritrovato tra le mani più denaro di quanto ne avesse precedentemente speso.

Era stato viziato, e abituato ad ottenere tutto, Koga.

La playstation. Quando aveva sette anni, aveva voluto una playstation, e sua madre – premurosa come solo una donna dal cuore puro può essere – gliel’aveva comprata, facendogliela trovare tra le coperte la sera del suo compleanno.

Poi era venuto il turno del motorino, della moto, della macchina.

E poi quello di Kagome.

L’aveva vista camminare a passo spedito fuori dalla sua scuola – un liceo privato nel quale solo i figli di papà erano i benvenuti –, zaino in spalla e sorriso dolce come il miele. E non aveva resistito: una settimana, due, poi suo padre si era trovato costretto ad andare dagli Higurashi, e a questi chiedere la mano della ragazzina.

Ma andava tutto bene, anche se lei non aveva ancora sedici anni e lui era poco più di un bambino. Andava tutto bene.

Si erano sposati quando lei aveva finito la scuola, lui aveva avviato una società con sedi all’estero, sembravano – apparivano – la coppia dei sogni. Lei era bella come una principessa e lui era premuroso come un principe.

Eppure.

Tutte le fiabe hanno un lieto fine. In tutte le fiabe il giovane sposa la sua amata, e poi c’è il vissero felici e contenti. Ci sono i baci, gli abbraccia, i figli, la vita che è un sogno ad occhi aperti.

Ma dopo il lieto fine, cos’altro c’è?

Koga non era un gran marito, né un grand’uomo, ma amava Kagome con tutto il suo cuore.

Koga era il genere di persona che, pur vedendo dei succhiotti – che non sono suoi – sul tuo corpo, finge che non ci siano. Koga era il genere di persona che, pur facendo sesso con te una volta ogni tre mesi – perché il resto del tempo è in viaggio –, cerca sul tuo ventre le tracce di una possibile gravidanza, sperando ogni giorno in un erede.

Koga era una brava persona, tutto sommato, e la viziava come solo un uomo innamorato e molto ricco può fare.

Le sarebbe mancato, questo sì.

“Morto?”.

Sussultò. “Sì, Holden. Morto. Era… Era in Cina, o in quella che credo fosse la Cina. E… E l’autista era ubriaco, e c’era un camion e…”. Scosse il capo, mentre un singhiozzo le impediva di continuare: aveva pianto.

Forse non come doveva. Forse non quanto ci si aspetta da una sposa devota. Forse non abbastanza per tenere a freno le malelingue.

Ma aveva pianto, e i suoi occhi gonfi ne erano l’inconfutabile prova.

“Signora”, esordì il vecchio cameriere, posando goffamente una mano sul suo braccio, nel più intimo dei contatti consentitegli. “Signora Kagome, se ha bisogno di qualcosa, sappia che noi siamo con lei”. Si ritrasse, imbarazzato, un lieve rossore che gli copriva le gote. “Mi dispiace”, aggiunse appena.

La donna si sforzò di sorridergli. “Grazie. Davvero”. Prese fiato. “Grazie a tutti. Io… Beh. Grazie”.

 Non riusciva a trovare parole migliori, e sperò che quelle bastassero.

“Grazie”, ripeté, abbassando lo sguardo verso le mani giunte sul ventre. Era seduta sulla poltroncina di pelle che un tempo Koga aveva comprato appositamente per lei, indecisa se liberarsene o spostarla in un’altra stanza: avrebbe chiesto ad InuYasha di occuparsene in seguito, quella specie di troglodita era abbastanza forte da trascinarla via. “Se volete, oggi potete prendervi la giornata libera”, proferì in tono solenne, guardando di sfuggita Holden – era il suo modo per dichiarare che quello non era un invito, ma bensì un ordine. Voleva restare sola.

Il vecchio si voltò verso i presenti, facendo cenno di uscire. “Come vuole lei”.

Kagome sorrise accondiscendente, aspettando che lasciassero la stanza: le cameriere, tutte in lacrime, i giardinieri, rigidi come statue, e gli autisti, rattristati. E poi Holden, con passo marziale, e Yumi, indecisa se dire qualcosa o costringersi a tacere.

Li vide uscire tutti, uno per uno, più o meno lenti, chi dispiaciuto e chi indifferente.

Riservò ad ognuno lo stesso sguardo amareggiato, limitandosi solo di rado a qualche occhiata più accondiscendente.

Uscirono tutti.

Tutti.

Tutti, ma non lui.

“InuYasha”, sbottò, quando si rese conto – con rammarico – di non essersene liberata. “Mi spieghi perché sei ancora qui?”.

Lui le riservò un’occhiataccia. “Non mi va di lasciarvi sola”, sbuffò, posando le cesoie – che sino a quel momento aveva stretto tra le dita – sul tavolo in legno ed avvicinandosi alla donna. “Vostro marito è morto da neppure un giorno, eppure voi evitate di sfogarvi: non si fa così, signora”.

La pronuncia era diversa.

Kagome notò subito il lessico dell’hanyou, ora più ricercato del passato, e la strana luce che gli illuminava lo sguardo. Notò il taglio che ancora gli solcava la mano destra, e le labbra, rosse, apparentemente ruvide.

Scosse il capo, per evitare quel tipo di pensieri. “Il dolore è un qualcosa di soggettivo”, ruggì, irritata. “E credo mi sia concesso soffrire come meglio credo, InuYasha. Nessuno ha chiesto il tuo parere, grazie”, aggiunse infine, sarcastica.

Lui, d’altro canto, non si mosse di un millimetro.

“Sei forse sordo?”, domandò.

I capelli d’InuYasha erano argento, i suoi occhi oro

Deglutì, abbassando gli occhi, decisa a giocherellare con un lembo della camicetta bianca. “Allora?”.

“No, signora. Non sono sordo”, biascicò il mezzo demone. “Ma neppure ho voglia di eseguire quest’ordine, indi resterò con voi, se non vi spiac-”.

“Mi spiace”, lo interruppe all’improvviso, attorcigliandosi distratta una ciocca di capelli intorno alle dita. “Quindi, credo che dovresti andare”.

InuYasha inarcò un sopracciglio – e lei deglutì ancora, a vuoto, cercando una ragione abbastanza forte che le imponesse di scacciarlo. Era sempre stato così bello? I suoi occhi erano sempre stati così vivi?

La sua bocca l’aveva sempre attratta così tanto? E i suoi capelli? Erano sempre stati così setosi, e lisci, e perfetti?

L’aveva mai attratta così tanto, quello sciocco giardiniere?

“Non vi lascerò sola”, ripeté lui: poggiò le mani sui braccioli della poltrona, impedendole di alzarsi. Volto contro volto, occhi che osservano occhi. “Siete ancora triste, no?”, soffiò sulle sue labbra, ironico. “Avete pianto così tanto, i vostri occhi lo dimostrano”.

No, non era ironico, no. Era serio.

“Il signore era il vostro primo marito, vero?”, chiese, quasi con interesse.

Kagome si costrinse a non baciarlo – perché non avrebbe ricavato nulla, da quell’insulso sfioramento – e a rispondergli. “Sì”.

“La vostra prima volt-”.

“Non sono fatti tuoi”, rantolò, indispettita. Poi arrossì appena, affondando ancor di più nella poltroncina. “E comunque, no. Non è stata con lui”. Portò una mano a sistemarsi una ciocca di capelli che le era scivolata sul volto, ma InuYasha la prese, stringendole leggermente tra le dita. “Perché sei rimasto con me?”, domandò d’un tratto.

Lui la guardò con evidente divertimento. “Mi sembrava di averlo detto: non voglio lasciarvi sola. Non in questo stato”.

“In questo periodo, mi lasciano sola tutti, sai?”, mugugnò lei.

Tutti?”.

“Sì”.

“Vostro marito non desiderava di certo lasciarvi sola”.

“Lo so”, brontolò Kagome, dimenandosi appena per farsi lasciare la mano. Tuttavia, lui fece finta di nulla, serrando maggiormente la presa, immobile nel suo equilibrio precario. “Neppure i miei genitori volevano lasciarmi sposare così giovane, ma io non li ho ascoltati”.

“Beh, eravate accecata dall’amore”, ribatté lui piatto, mentre si chinava verso il suo volto: sembrava indeciso, incerto. Sembrava chiedersi se baciarla avrebbe compromesso qualcosa. “Lo volevate a tutti i costi, e logicamente non avete resistito”.

“No”.

“No cosa?”.

Kagome sollevò il capo, irritata – troppo vicino, quel maledetto giardiniere era troppo, troppo vicino – e infastidita. Perché, pur non dovendo spiegazioni a nessuno per quanto faceva, sapere che lui la credeva follemente innamorata di Koga la irritava non poco. Si morse il labbro inferiore.

“No cosa?”, ripeté l’hanyou, con una voce quasi troppo dolce per essere sua. Un brivido corse lungo la schiena della donna, ma si limitò a scuotere il capo, cercando di calmarsi. “No cosa, signora?”.

“Non ero accecata dall’amore”, gemette, voltandosi di lato e osservando la sua mano destra – la cicatrice rossastra, la pelle abbronzata, le dita lunghe.

Lo ricordava.

Sfiorò la mano dell’uomo con aria incerta, curiosa: era ruvida, ma non fastidiosa. Grande, ma non spaventosa.

La conosceva.

Un battito, due. Tre battiti, quattro.

Il suo cuore accelerò d’improvviso, e si scoprì a fissare gli occhi di InuYasha, quasi implorando una risposta che temeva – ed agognava. Sbatté più volte le palpebre, troppo sconvolta per fare altro, poi prese un profondo respiro.

Uno, due, tre. Quanti respiri aveva fatto, prima di ricominciare ad osservarlo? Quante volte aveva deglutito, osservando la sua camicia leggermente sbottonata? Quante volte si era data della sciocca, quando quella bocca era divenuta troppo invitante?

“Dove ti ho già visto?”, chiese all’improvviso, sovrappensiero, socchiudendo gli occhi per guardarlo meglio. “Dove? Non ci siamo incontrati solo come padrona di casa e giardiniere, vero? Noi ci siamo già visti”, insisté, nervosa. “Dove?”.

Lui curvò leggermente le labbra – ruvide – in un sorriso che sapeva di scherno. “Chissà”, le soffiò nell’orecchio. “Forse in un sogno”.

“In un sogno?”. Perplessa, Kagome si sporse maggiormente verso di lui. Sospirò, indecisa, confusa. Scosse il capo. “Che genere di sogno?”.

InuYasha ghignò, piegandosi verso di lei. “Nel sogno di una notte senza luna, principessa”.

Un attimo, e il suo mondo era cambiato.

“Tu…”, esordì, sbarrando appena gli occhi. “Tu…!”.

“Io cosa, mia signora?”, domandò l’hanyou divertito, dandole un rapido bacio sul collo – e lasciando che la lingua scivolasse sino alla scollatura. E lasciando che le labbra accarezzassero la pelle morbida. E lasciando che i denti sfiorassero i bottoni, strappandoli.

E lasciando che la camicia s’aprisse, scoprendo ventre e reggiseno.

“Sei un idiota”, sospirò lei, costringendosi a non urlargli contro. Lo allontanò senza voglia, irata, desiderosa di dargli una lezione di un qualsivoglia genere. “Un idiota”, ripeté, afferrando il suo volto tra le dita, per costringerlo a guardarla. “Un idiota”, disse ancora una volta, avvicinandosi alle sue labbra, mentre la rabbia svaniva. “Davvero, davvero un idiota”.

InuYasha ridacchiò. “Dovevo forse dirvelo, signora?”. Scandì l’ultima parola quasi con comico sdegno, per poi ricominciare ad accarezzare la pelle morbida della donna. La spinse contro la poltrona, bloccandola, impedendole ogni movimento.

Non poteva opporsi, non poteva scappare.

“Dovevo afferrarvi un braccio, signora, e spingervi in un anfratto del giardino, signora? Dovevo baciarvi, e costringervi a capire, signora?”.

Kagome lo sbuffò. Beh, non aveva tutti i torti: gli avrebbe creduto, se lui le avesse detto la verità?

Forse no.

“Non sapete”, esordì, strappandole via la camicetta, per poi gettarla al suolo. “Non sapete quante volte, in pieno giorno, ho sognato di afferrarvi per la vita e stringervi a me. Non ne avete idea”, ringhiò, baciandola. “Non avete idea di quanto abbia desiderato gettarvi su questo stesso divano, e farvi mia. Una volta al mese era poco, per me”.

“Anche per me”, sussurrò Kagome, sospirando. “Ogni mio sogno ti ha come protagonista”.

“Ogni sogno? Tutti?”, rise lui, carezzandole la guancia con il dorso della mano. “Devono essere sogni molto noiosi”, affermò infine, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio e mordicchiando il lobo – ingordo, eccitato, esuberante. Non c’era più quello sciocco lupo, era sua. Nessuno si sarebbe messo in mezzo, era sua.

Kagome era sua.

Guardò il reggiseno con fastidio, inarcando un sopracciglio. “Questo non serve”, commentò acido, passandole una mano dietro la schiena e cercando di slacciarlo: più facile di quel che credesse. Un clic, e l’oggetto che tanto lo infastidiva scivolò al suolo, affiancando i resti della camicia della ningen.

E della sua, che lei si era tanto prodigata a togliergli. “Sei uno sciocco”, mormorò di nuovo lei, senza fiato. “Credevi che non ti avrei amat-”.

“Siete viziata, Kagome, e non conoscete né il rischio né la paura”, la canzonò lui, sfiorandole il seno con le labbra. “Se vi avessi detto che ero un mezzo demone – il vostro sciocco giardiniere, per di più – di certo avreste smesso di frequentarmi, perché infastidita. Voi volete quello che già non possedete, e io lavoro per voi: vi appartengo”.

“Oh, no”.

“Presto vi annoierò”, continuò, sfilandole la gonna. “Non vi piacerò più, vi stancherete di questo piccolo ladruncolo da quattro soldi, e cercherete un divertimento migliore. Ma non riuscivo più a resistervi”, mugugnò quindi, baciandola. “Non ne ero più capace: siete solo una sciocca, frivola donna, ma non riesco a resistervi, amore”.

Kagome gemette, costringendolo ad allontanarsi, seppur leggermente. “Non mi stancherò mai di te, perché ti amo”. Arrossì. “Sono una stronza, vero? Mio marito è morto da… Quanto? Ventiquattro ore e dodici minuti? Sì? Forse sì. Un giorno, eppure già prometto amore ad un altro”.

“Sì”, confermò lui, passandosi una mano tra i capelli d’argento. “Sì, siete una stronza. Però, se è vero che non l’avete mai amato…”.

“Non l’ho mai amato”.

“Allora non sentitevi in colpa, signora”.

Scosse il capo. “Non sono i sensi di colpa a rodermi. Più che altro, è l’aver promesso amore eterno ad una persona che ho continuamente tradito con voi. L’ho tradito con le mente, sognandovi, e con il corpo, baciandovi. L’ho tradito con lo spirito, quando ho capito di amarvi. Mi fa male. E mi fa male anche la consapevolezza di averlo privato della possibilità di trovare una donna davvero innamorata di lui: gli ho rovinato la vita”.

“Sono sensi di colpa, questi”, sottolineò InuYasha, serio. “E, beh, se vi dicessi che non dovete provarli, mentirei, perché sono i sensi di colpa a darci la forza di vivere. Mi sarei lasciato morire tempo fa, se i sensi di colpa non mi avessero spinto ad infilarmi nel vostro letto”.

“I sensi di colpa ti hanno spinto ad infilarti nel mio letto?”, chiese lei perplessa, guardandolo – bello, bello, fottutamente bello. Si leccò le labbra, irritata: era troppo, troppo bello.

Perché non se n’era mai accorta?

“Vi desideravo”, ammise lui, non senza un po’ di fastidio nella voce. “Troppo. Eppure, quello sciocco di vostro marito mi aveva accolto in casa, mi aveva dato un lavoro. Non avrei dovuto desiderare la donna di chi mi aveva dato di quanto necessitavo: ma vi volevo. La maschera bianca è nata per cercare una forma di sostentamento alternativo al lavoro di giardiniere”.

Deglutì. “Non vuoi più lavorare nella villa?”, si costrinse a chiedergli, spaurita.

Lui sorrise, storcendo appena il naso. Dare quel genere di spiegazioni lo irritava.

Così come detestava pronunciare quei nomignoli così teneri – principessa, mia signora –, perché quando li sussurrava non poteva baciarla. E così come detestava osservarla passeggiare per il giardino, perché quando passeggiava tutti i camerieri – e gli autisti, e i valletti, e i servitori – la guardavano, eccitati.

Ma lei era sua.

Nessuno aveva il diritto di fissarla in quel modo.

Nessuno.

“Mi sentivo in colpa, perché vi volevo. Ma poi, trovato un nuovo lavoro”. Kagome inarcò, scettica, un sopracciglio, e lui la freddò con un’occhiataccia. “Dicevo: mi sentivo in colpa perché vi desideravo, ma, trovato un nuovo lavoro, beh, ho pensato di poter provare a conquistarvi. Me lo meritavo, del resto”.

“Oh”.

“Già”, sussurrò, senza tuttavia smettere di guardarla con desiderio malcelato. “Oh. Non avete idea di quante notti – quando vostro marito era in viaggio – mi sia appostato fuori dalla vostra finestra, osservandovi dormire beatamente tra quelle lenzuola puzzolenti”.

“Puzzolenti?”.

“Hanno l’odore di vostro marito”, spiegò InuYasha pazientemente, afferrando una ciocca di capelli della donna tra le dita e carezzandola – era morbida, e odorava di fragole. Doveva essersi da poco fatta una doccia. “Non sopporto”, rantolò, sbuffando sonoramente. “Non sopporto l’idea che lui abbia passato anche solo una notte accanto a voi”.

Kagome ridacchiò, divertita. Non era una risata di scherno, né di orgoglio. Era una risata compiaciuta – la risata di chi ha troppe colpe. “Sei gelosissimo”. La voce era leggiadra – la voce di una peccatrice. “La cosa non mi dispiace”, aggiunse, piano – la lentezza del desiderio che cresce.

Lo guardò, avvampando appena, poi si sporse: le labbra di InuYasha odoravano di alberi, di montagne, di boschi innevati. Sapevano di noci, di bacche, di mirtilli. La sua stessa esistenza sembrava selvaggia, il suo stesso nome richiamava un qualcosa di profondamente misterioso.

La sua stessa natura non era umana.

Affondò la lingua nella sua bocca, impaziente: non era nel giusto, no.

Era una peccatrice, lei.

Una moglie fedifraga. Una traditrice.

Non aveva mai amato Koga, non come doveva. Aveva desiderato un buon matrimonio, una famiglia felice.

L’uno l’aveva ottenuto, l’altra no.

Aveva incontrato InuYasha troppo, troppo tardi. L’aveva incontrato quando lei era solo una sposa depressa, e lui un ladro di fama nazionale. L’aveva incontrato nel momento meno perfetto.

Eppure, non se ne pentiva.

Aveva tanti difetti, lei. Era gelosa, possessiva, infantile, irritante, cocciuta e viziata, sì.

Sua madre gliel’aveva sempre ripetuto, ridendo, e suo padre non aveva mai pensato di farglielo presente se non attraverso battute scherzose. Lo stesso Koga non aveva mai badato a quelle pecche, rendendole anzi quasi dei pregi.

Nessuno l’aveva mai vista per quello che era. Nessuno le aveva mai dato della viziata.

Solo La maschera bianca aveva osato tanto.

Era entrato nella sua vita – nella sua camera da letto – in una notte in cui la luna aveva deciso di non essere necessaria, ed aveva oscurato il cielo, privandolo del suo tanto amato splendore. Era penetrato tra le quattro mura che componevano la sua camera da letto con straordinaria agilità, e s’era avvicinato, mentre lei, ancora intontita dal sonno, non era riuscita neppure ad urlare: l’aveva osservato.

E quando lui l’aveva baciata, carezzandole il volto con una dolcezza disarmante, non era riuscita a resistere: aveva accettato – per la prima volta! – i suoi mille difetti, stringendolo a sé. Aveva – finalmente! – capito che l’illusione in cui viveva non era amore. Che Koga, pur essendo dolce e premuroso, non era quello che faceva al caso suo.

Aveva tradito.

Non riusciva a pentirsi.

Male, un altro difetto.

Non era neppure capace di provare del rimorso nei confronti di un morto.

“Sono proprio una stronza”, ripeté, afferrando con le dita i capelli di InuYasha per costringerlo ad avvicinare le sue labbra alle sue. Se doveva essere una peccatrice, voleva farlo con classe.

Se doveva andare all’inferno, doveva sprofondare nel luogo più buio.

“Proprio una stronza”.

“Io sono un idiota”, la consolò lui, sarcastico, spingendola sotto di sé e carezzandole le gambe. “Siamo una bella coppia, no?”.

Kagome gli sorrise, annuendo a malapena. Poi lo baciò: “Proprio una bella coppia, ”.

 

   
 
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