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Autore: AminaMartinelli    04/05/2018    8 recensioni
“Eccole” – pensò mentre un brivido lo attraversava.
Succedeva sempre così quando Sherlock suonava il suo violino di notte: le note cominciavamo a tremare nell’aria e lui cominciava a tremare nel suo letto, rannicchiato su se stesso, nel vano tentativo di ignorare le ondate di sensazioni e di emozioni che quella musica gli provocava.
(Fanfiction scritta per la Secret Easter Bunny Challenge 2018 del gruppo Aspettando Sherlock)
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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“Eccole” – pensò mentre un brivido lo attraversava.
Succedeva sempre così quando Sherlock suonava il suo violino di notte: le note cominciavamo a tremare nell’aria e lui cominciava a tremare nel suo letto, rannicchiato su se stesso, nel vano tentativo di ignorare le ondate di sensazioni e di emozioni che quella musica gli provocava.
Si ripeteva “È solo un violino, John, piantala!”, ma sapeva di mentire. Aveva sentito altri violinisti suonare, prima di conoscere Sherlock, ma nessuna melodia, per quanto bella e ben eseguita, lo riduceva in quello stato. No. Niente era paragonabile a questo, perché questo era Sherlock. Era la sua anima, che vibrava in quelle note, il cuore che negava di avere, la solitudine, la sofferenza, le rare ma profonde gioie, il buio e la luce di quella splendida mente, così brillante ma così complessa e tormentata. Tutto questo raggiungeva il dottor Watson nella sua stanza e, senza bussare, senza chiederne il permesso entrava sotto la sua pelle, prima ancora che nelle orecchie, scorreva nelle sue vene, invadeva cuore e cervello, facendo vibrare ogni fibra, ogni cellula con la stessa intensità con cui le mani di Sherlock facevano vibrare le corde del violino. Lo rendevano parte di ogni crescendo, di ogni adagio, di ogni armonia che si sprigionava dallo strumento, annullando ogni sua resistenza, se mai avesse provato ad opporne, lasciandolo stremato, senza fiato e palpitante quando anche l’eco dell’ultima nota sfumava nell’aria, e un’apparente calma scendeva nella stanza restituita al silenzio.
Ma tutto questo poteva durare ore, perché Sherlock poteva suonare anche per tutta la notte e spesso lo faceva. John aveva sperato, le prime volte, che prima o poi si sarebbe abituato ai concerti notturni del suo coinquilino e magari la musica lo avrebbe cullato fino a farlo addormentare. Invece no: dopo quattro anni nulla era cambiato e lui si ritrovava ogni volta a fungere da cassa armonica per quelle note, che dentro di lui amplificavano la loro voce inondando il suo corpo, reclamandone il possesso. Non poteva andare avanti così, doveva assolutamente fare qualcosa. Se fosse rimasto a farsi sconvolgere da quelle note, notte dopo notte, sarebbe di certo impazzito. Così prese la decisione di alzarsi dal letto e scendere in salotto per affrontare da bravo soldato quell’onda di emozioni.
La determinazione con cui aveva sceso le scale sfumò non appena raggiunse la soglia del salotto e vide l’elegante figura di Sherlock stagliarsi in controluce nella cornice della finestra, debolmente illuminata dalle luci della strada. Si bloccò appoggiando una spalla allo stipite della porta, più che altro perché si sentiva improvvisamente senza forze, le gambe tremanti, mentre un leggero calore gli avvolgeva il viso, salendo dal suo petto.
Non essere ridicolo, da quando la musica ti spaventa? - continuava a rimproverare sé stesso, come se funzionasse…non ebbe neanche il tempo di terminare di formulare il pensiero: il silenzio cadde, improvviso e assordante, nella stanza, sostituito immediatamente dalla voce di Sherlock.
“Non è necessario che resti sulla soglia, non mi disturbi se ti siedi nella tua poltrona ad ascoltare”. Il detective non si era neanche voltato, aveva solo abbassato la mano che teneva l’archetto in attesa della reazione del suo coinquilino. John aprì e chiuse la bocca un paio di volte cercando disperatamente di replicare, ma nulla uscì dalle sue labbra.
“Stare lì a boccheggiare non migliora le cose, John, vorrei continuare a suonare se non ti dispiace e preferirei farlo sapendoti seduto tranquillo”
Quella frase lo riscosse
“C-certo. Ora mi siedo. Scusa”, nel silenzio totale raggiunse la sua poltrona e vi sprofondò dentro desiderando che l’inghiottisse per sempre. Le note ripresero a fluire e lui si stupì di quanto diverso fosse ascoltarlo da lì, vederlo suonare, dare corpo a quella magia che era la musica notturna di Sherlock. Quella notturna, sì, perché lo aveva ascoltato molte volte suonare di giorno, durante un caso, ed era meraviglioso, certo, ma niente di paragonabile a questo. Questo era qualcosa di veramente magico.
Non aveva mai pensato che un’anima potesse essere visibile. Era un romantico, Sherlock non faceva che ripeterlo, ma non era mai arrivato al punto di pensare di poter ammirare lo splendore di un’anima. Eppure lo stava facendo. Davanti a lui, per l’ennesima volta, quel miracolo si stava compiendo proprio in quel momento, ed ogni volta era più stupefacente della prima.
La ricordava bene, quella prima volta. “Suono il violino, mentre penso” – Sherlock aveva buttato lì quell’affermazione, durante quel breve ma intenso primo incontro al St. Bart’s, sotto gli occhi di Mike Stamford. Intenso…ogni aggettivo sembrava inadeguato quando riferito a Sherlock. Lui lo aveva stravolto con le sue deduzioni fin da subito, per poi chiedergli se gli piacesse il violino…il turbine da cui si era sentito avvolgere e portare via non lo aveva più lasciato con i piedi per terra. Nemmeno quando si era inginocchiato accanto a quello che era convinto fosse il cadavere del suo migliore amico volato giù dal tetto di quello stesso ospedale dove tutto era cominciato. Nemmeno quando si era inginocchiato, non sapeva più quante volte, davanti a quella lapide.
Un crescendo lo sorprese immerso nei ricordi e lo rapì, con suo grande sollievo, portandolo con sé ad aleggiare per la stanza, poi le pareti si dissolsero e John si ritrovò a volare in spazi ben più ampi. Vide distese brulle rinverdire, laghi trasformarsi in oceani, scintille esplodere in fuochi d’artificio, la fiamma di una candela assumere le sembianze di un poderoso drago che lo accolse sul suo dorso per fargli esplorare la vastità di quello che stava vedendo. Poi, d’improvviso, si sentì piccolo e vulnerabile, era in un giardino sconosciuto ma incredibilmente familiare. Rincorreva un bellissimo setter inglese dal pelo fulvo e lucente, si sentiva libero ma con un incomprensibile vuoto nel petto che lentamente lo incatenò ad un dolore bruciante. Per un attimo temette che il suo cuore non avrebbe retto, ma di colpo tutto scomparve. Era di nuovo avvolto dal silenzio, sentì le guance bagnate, vi accostò una mano tremante poi aprì gli occhi per osservarla (quando li aveva chiusi?) e sentì su di sé il fuoco di due iridi che lo fissavano. Da quanto Sherlock era lì davanti a lui? Da quanto aveva smesso di suonare? Fantastico: doveva essere proprio un bello spettacolo per il detective, che disprezzava tanto i sentimenti! Voleva dire qualcosa di arguto per spezzare l’imbarazzante silenzio e recuperare un po’ di dignità, ma Sherlock non gliene diede il tempo apostrofandolo con apparente indifferenza.
“Questa è la più anomala forma di Sindrome di Stendhal che io abbia mai visto”
John si sentiva attraversare da quello sguardo, temeva che incrociandolo vi avrebbe letto derisione, invece c’erano solo curiosità e sincero interesse.
Si schiarì la voce:
“Non so di cosa stai parlando”
Il detective si sedette sulla sua poltrona senza distogliere il suo sguardo dall’amico:
“La tua reazione alla musica. Quando mi sono voltato pensavo ti stessi sentendo male, invece eri in una specie di…estasi”
Le gote del dottore avvamparono e lui abbassò di nuovo lo sguardo sulle sue mani che finalmente avevano smesso di tremare. Senza replicare si alzò e si diresse verso le scale lasciando un attonito Sherlock a seguirlo con lo sguardo. Avrebbe voluto proseguire senza fermarsi per completare la sua uscita drammatica ma la sua attitudine da Drama Queen era subordinata alla volontà di mantenere un contegno dignitoso, quindi si voltò per un attimo:
“La tua musica, il tuo modo di suonare, sono la cosa più bella e coinvolgente a cui io abbia mai assistito. Qualcosa che io non sarei mai in grado di fare. Tutto qui.”
Si avviò di nuovo verso la sua stanza senza accorgersi della replica sussurrata di Sherlock “Grazie…”.

La mattina successiva John scese in cucina per preparare la colazione come sempre, ma fu sorpreso dal profumo di cibo apparentemente squisito. Sherlock era nella sua poltrona col violino tra le mani e l’espressione distratta. Mentre si sedeva John gli lanciò un vago saluto, sicuro che l’amico non l’avrebbe sentito, invece Sherlock rispose.
“Buongiorno John, riposato bene?”
La risposta sorprese il dottore ancor più del trovare la colazione pronta.
“Uhm sì, decisamente, ma dimmi: abbiamo ricevuto la visita dei folletti o della signora Hudson?”
“Non vedo la differenza”
John sghignazzò afferrando una fetta di pane tostato, intenzionato ad imburrarla per bene prima di sferrarle un morso deciso.
Stava per imburrarne una seconda, quando la voce di Sherlock lo raggiunse alle spalle.
“Comunque sono convinto che suoneresti molto bene”
Con il coltello a mezz’aria John si voltò appena verso il suo amico, abbastanza da notare l’espressione seria del suo volto.
“Allora insegnami” - rispose.
“Ok” - lo aveva veramente sentito o lo aveva solo immaginato? Non ebbe modo di scoprirlo perché Sherlock era già sparito.
La giornata passò tranquilla: la solita routine dell’ospedale, una sosta da Tesco per un po’ di provviste, la telefonata di Lestrade che cercava Sherlock per aggiornamenti sull’ultimo caso, a cui rispose mentre sistemava la spesa, reggendo il telefono tra la spalla e la guancia. L’unica nota inquietante era l’assenza Sherlock. Non aveva previsto di non trovarlo a casa: avevano da poco risolto un caso e quello su cui stavano indagando stava giungendo alla risoluzione senza richiedere un grosso impegno, tanto che il detective lo aveva definito “insopportabilmente noioso”. Appena chiuso la conversazione con Greg, John compose il numero di Sherlock che però risultò irraggiungibile. L'inquietudine nella mente del dottore lasciò rapidamente il posto ad un sottile senso di panico che lui cercò di mettere a tacere ricordando che quella era una situazione già verificatasi molte volte e comunque riuscire a comunicare con Sherlock non garantiva che non fosse in pericolo. Lo schermo del telefono si illuminò, accendendo per un istante le speranze di John, ma la scritta diceva “Lestrade”.
“John…”
“Greg, lo sto chiamando ma non mi risponde”
“John”
“Non preoccuparti, appena lo sento gli dico…”
“John, sono con lui”
Non ne fu sorpreso: Sherlock era solito non avvisarlo dei suoi spostamenti.
“Va bene, salutamelo”
“No John, sono con lui qui, al Royal Hospital”
Il mondo si fermò, per John, insieme al suo cuore.
“…cosa…”
“Una sparatoria. Puoi raggiungerci?”
“Come sta?”
“Non lo so, i medici non sono ancora usciti”
“Arrivo”
Si costrinse a mantenere la calma, doveva correre lì e accertarsi della situazione, era inutile farsi prendere dal panico.
Nonostante le sue buone intenzioni irruppe nel Pronto Soccorso dell’ospedale col cuore in tumulto, il respiro affannoso e la testa che gli girava. Prima che potesse avventarsi sul primo medico che passava fu raggiunto da Greg.
“È ancora dentro con i medici”
“Ma che è successo? Perché diamine si è trovato in mezzo ad una sparatoria?”
Non riusciva a controllare il tremito delle mani né il tono della voce.
“Era andato a cercare uno dei suoi informatori, una squadra di Scotland Yard si trovava lì per un appostamento. Si è trattato di uno sfortunato incidente”
“Maledizione!”
In quel momento uscì un medico e si diresse verso di loro. Il cuore di John mancò un battito.
“Il Dottor Watson, presumo”
“Sì, mi dica”
“Mr. Holmes non è ferito gravemente, ma purtroppo ha perso molto sangue perché i soccorsi non sono stati chiamati subito”
“Capisco”
“Comunque è stato sottoposto ad una trasfusione. Ne effettueremo altre due entro domani e se si riprenderà come prevediamo potrà essere dimesso dopodomani” “Grazie”
Il medico si allontanò e John crollò su una sedia, esausto. Greg gli si avvicinò con cautela.
“John, non sai quanto mi dispiace che sia colpa di uno Yarder”
Watson riuscì a malapena a sentirlo.
“Non pensarci, Greg”
“Ti accompagno a casa?”
“No grazie, preferisco restare qui”
“Va bene. Mi tieni aggiornato?”
“Naturalmente”
Il giorno dopo passò avvolto in una specie di nebbia per John. Sherlock era nervoso e rispondeva con sarcasmo a tutti, questo almeno significava che stava bene. Finalmente poterono tornare a casa e John tentò inutilmente di prendersi cura del suo amico che rifiutava ogni tipo di attenzioni, protestando e dichiarandosi perfettamente in grado di fare tutto da solo.

Una sera John era seduto sulla sua poltrona rileggendo per l'ennesima volta un vecchio libro, Sherlock era in cucina, o almeno lui era convinto che fosse così finché un violino non entrò nel suo campo visivo da sopra la sua testa.
“Cominciamo”
“Cosa”
“Le lezioni”
“Sherlock... “
“Non fare storie, me lo hai chiesto tu”
John si alzò, rassegnato, ben sapendo di non avere speranze di fargli cambiare idea.
Con poche, semplici istruzioni gli insegnò la postura corretta, la posizione della mano sulle corde, l’angolazione dell’archetto. John lo ascoltava e lo seguiva affascinato, quasi ipnotizzato dai suoi movimenti sinuosi ed eleganti, come il più bel felino che avesse mai visto. Incantato dal tono vibrante della sua voce, dal rapimento con cui parlava del violino e delle sensazioni che provava suonando.
Poi accadde.
Per correggere la sua postura ed accompagnarlo nei primi tentativi di produrre un suono, Sherlock si posizionò le sue spalle, avvolgendolo con le lunghe braccia, tenendo le mani sulle sue, sfiorandogli l'orecchio con le labbra…John si senti svanire fra quelle braccia, gli sembrava di dissolversi nel soffio leggero del fiato di Sherlock sulla sua guancia. Le prime note che uscirono gli sembrò che si trasformassero in piccole luci danzanti che li circondavano. Un brivido li percorse entrambi. In un attimo sospeso nel tempo ogni suono cessò. Lentamente John girò su se stesso, sempre avvolto da quell’abbraccio magico, fino a trovarsi con lo sguardo incatenato a quello di Sherlock. Il respiro di entrambi si fece più veloce, prendendo il ritmo dei loro cuori, che sentivano rimbombare nel silenzio assoluto di quella stanza. Sherlock abbassò piano il viso fino a fare incontrare le loro labbra, John chiuse istintivamente gli occhi e sollevò le mani a circondare quel collo sfiorato da riccioli corvini, facendo scivolare le dita sulla nuca. Approfondì il contatto, sfiorando con la lingua il labbro superiore di Sherlock che trasalì schiudendo appena le labbra, concedendogli l’accesso nella sua bocca con un piccolo gemito. Non suonarono più, quella sera, ma entrambi impararono un’altra melodia, un’altra magia: quella del loro amore, delle loro anime e dei loro corpi uniti in una danza perfetta.
   
 
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