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Autore: La Koaletta    05/05/2018    2 recensioni
Perché, Rose, voi due eravate strani, quasi atipici: non potevate stare insieme, ma non potevate nemmeno lasciarvi. E anche se sulla carta non eravate più una coppia, avreste continuato a cercarvi per sempre, in bilico tra restare e andarsene. Quella storia morbosa non sarebbe finita mai – e a te andava bene così, perché non avevi alternative e non avevi nemmeno la forza di crearle.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: James Sirius Potter, Rose Weasley | Coppie: James Sirius/Rose
Note: Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Nuova generazione
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L’illusione dei gelsomini

 

“Poi si erano lasciati,

 ma in quel modo che non è un lasciarsi veramente:

 lui era un po’ matto, lei troppo bella, ma si volevano da morire.

 Non potevano stare insieme, non potevano stare lontani:

 non ci esci, da quelle storie.”¹

 

 

 

 

 

Cozzasti contro il muro fatiscente, tempestato dall’edera, e rivolgesti stizzita uno sguardo irritato a chi ti stava di fronte. “Delicato come sempre.”

Sorrise e prese il tuo mento tra due dita, frettoloso e sbrigativo. “Dai, muoviamoci.”

Avevate dieci minuti per amarvi, tu e James. Il tempo vi correva dietro, e voi vi allontanavate in una fuga che non sapevi come altro definire se non disperata – ma era inutile scappare e tu lo sapevi: quella corsa era segnata da una fine sempre più prossima, acquattata dietro l’angolo.

Non era mai delicato, James, soprattutto nei baci. E forse era la furia, forse era la paura, forse l’amore, ma quella volta ti baciò con un trasporto che non aveva usato mai. E strinse, accartocciò, artigliò i tuoi fianchi, il suo corpo che ti faceva scontrare contro la parete, quasi cancellando la tua figura diafana, esile quanto il gambo di un fiore. Gli eri mancata, Rose, te lo disse in un sussurro contro il tuo collo scoperto. La sciarpa rossa e oro era stata abbandonata poco più in là dall’irruenza di quell’amore tutto vostro. Con le gote in fiamme, arretrasti. “Non possiamo.”

“Ancora con questa storia, Rosie?”

“James... non ce la faccio più.”

Ogni volta si ripeteva, a cadenza settimanale, la stessa storia. Tu impaurita, sul ciglio di una strada, lui impavido, in mezzo. Ma James Sirius sapeva di avere la vittoria in tasca: tu, Rose, non dicevi mai sul serio. Ci provavi, a crederci in quelle parole, ma non ci riuscivi mai. Ti avvinghiò, posando la fronte sulla tua. Sospirasti, in attesa della frase che oramai usava sempre più spesso. “Non mi ami più?”

Di nuovo, non fosti capace di dare un taglio a tutto quello. Di nuovo, non sapesti dire addio a James Sirius Potter, amante e cugino. “Lo sai che ti amo.”

Non glielo dicevi quasi mai, come a voler negare l’evidenza. Le parole, Rose, hanno un peso particolare: una volta pronunciate, non si torna più indietro. Per i fatti ci sono dei rimedi, qualcosa uno s’inventa, ma le parole fregano sempre.

Non se l’aspettava, James. Glielo leggesti nello sguardo caramello che invidiavi tanto, particolare rispetto alla monotonia del pallido e slavato celeste dei tuoi occhi stanchi. Sorrideva, di quel bel sorriso malandrino che gli spuntava spesso nel volto, a differenza tua, che non sorridevi mai. Così diversi, così legati.

I dieci minuti erano scaduti. Tirò una ciocca dei tuoi capelli ribelli e infuocati, promettendoti, come al solito, di rivedervi il prossimo sabato – e ti sentisti lacerata dentro, com’era ormai abitudine. Se ne andò prima lui, dandoti le spalle per non guardare il tuo animo ferito – lo sapeva James, lo sapevi tu: appena cominciava a camminare, te lo figuravi come un addio, e un dolore intenso t’irrigidiva. Avevi provato, l’avevi supplicato, di lascarti andare via per prima. Ma James si rifiutava sempre, ché vederti andare via gli avrebbe rotto qualcosa dentro, e nessuno l’avrebbe riaggiustato mai più.

Come di routine, rincorse i suoi amici a Mielandia, poi tu raccogliesti la sciarpa, la borsa, il cappotto e lasciasti scorrere le dita sull’intonaco scrostato, malinconica, e strappasti una foglia d’edera velenosa, facendola volteggiare nell'aria fredda di gennaio.

Era il vostro nascondiglio segreto, l’angolo più banale e sporco che potesse mai esistere, un rifugio pacifico in cui il silenzio veniva interrotto solo dallo schioccare delle vostre labbra che cozzavano l’una contro l’altra. Si trovava subito dietro alla Testa di Porco – era nato per caso, in una frizzante serata natalizia, e se chiudevi gli occhi potevi ancora sentire le vostre risate, le sue facezie, i tuoi timidi sorrisi. Quel luogo era un po’ banale, forse, ma così vostro. Inspirando, avresti potuto riconoscere il profumo di gelsomino che associavi a voi – quei fiori piccoli, candidi, innocui: com’erano abili a mentire, a fingere.

Ti riscuotesti e corresti celere verso Albus, inventandoti una scusa – ma non ce n’era bisogno: lui aveva capito da molto tempo, probabilmente prima di te. Non parlava, tuo cugino, perché vederti felice era il suo unico obiettivo: solo, a volte si sentiva un po’ messo da parte, e nella sua mente s’affollavano talmente tante domande che, se l’avessi saputo, ti saresti sicuramente spaventata.

Osservasti il profilo fuggente di James, che fedelmente aveva raggiunto la cricca di Grifondoro, e sorridesti tuo malgrado – era talmente bello, con il vento sbarazzino che gli scompigliava i capelli e la risata cristallina che gli fuoriusciva perennemente dalle labbra che bramavi con un’intensità tale da scatenare terremoti. Lo trovavi ineffabile, lui e il suo potere d’averti impugno. T’eri domandata più volte, perché proprio James – e la risposta era arrivata, paziente: nessuno ti faceva sentire come se fossi così maledettamente umana, una ragazza qualsiasi, con le proprie colpe e vergogne, con le proprie spensieratezze e le proprie preoccupazioni, con ambizioni, disobbedienze. Non pretendeva niente, davvero niente, da te: solo, che fossi te stessa. Gli piacevi in quel modo che non ti sapevi spiegare, perché ti pareva impossibile che qualcuno t’amasse – tu eri troppo distante e diversa per essere amata da qualcuno.

Com’è curioso e strano, il destino: t’affida la persona che non potrai avere mai. Ed è scoraggiante constatare che, nonostante le tue promesse, i tuoi “giuro, questa volta è l'ultima”, e i pianti isterici, fossi rimasta. Era inutile, provare a dirgli addio: era come scambiare un gelsomino per un fiore cattivo, malsano, bugiardo – stesso livello d’impossibile.

 

*

 

“Prefetto-perfetto Weasley?”.

“Magari lo fossi” mormorasti, stupita dall’attenzione che ti aveva rivolto in Sala Comune, dove tutti potevano capire.

“Ma lo sei! A meno che tu non abbia rubato quella Spilla, certo” ammiccò, “in quel caso, avresti imparato da tuo cugino l'arte dell’astuzia, e...”.

Bloccasti il suo discorso, agghiacciata. Odiavi quando si definiva “tuo cugino”, anche se lo era. Aveva la morbosa abitudine di calcare su quella parola – cugino – quando vi trovavate tra le persone, accrescendo ancor di più i sospetti dei pochi, pochissimi, che ci vedevano giusto. Quella parola sapeva di amaro schifoso, ripugnante, alle tue orecchie: mai l’avresti pronunciata, per definire James, perché era quella la parola che ti separava da lui.

“Intendevo perfetta. Magari fossi perfetta.

Era il tuo tormento – ti schiacciava il peso di una vita che non avresti voluto mai: ci s’aspettava il meglio, dalla figlia di Ronald e Hermione Weasley. E dovevi essere perfetta – non bastavano le nottate passate a studiare, la cortesia nel tono della tua voce, gli atteggiamenti pacati ch’eri costretta a mantenere; volevano e volevi di più, aspiravi al massimo senza poterlo raggiungere mai.

C’era una sola persona a cui piacevi piena d’imperfezioni, e questa si guardò attorno, assicurandosi che nessuno avesse gli occhi puntati su di voi. T’accarezzò il palmo della mano, bisbigliò una frase rassicurante e ti sciogliesti, succube di James. “Di che hai bisogno?” dicesti, a voce più alta.

“Permesso di allenamento di Quidditch. La McGrannitt è arrabbiata con me. Se glielo chiedi tu, probabilmente...”.

“Ti accompagno. Capirà.”

Si stupì della tua audacia – eri tutta da scoprire, Rose. Avevi capito le sue intenzioni fin da subito e avevi agito di conseguenza, perché anche a te era mancato struggentemente durante quei giorni amari, che sembrarono durare attimi infiniti. Qualcosa ti suggerì di essere nella soglia del sbagliato – saresti potuta tornare indietro, ma non volesti.

Procedeste un po’ distaccati fino ad uno sgabuzzino sconosciuto, dove finalmente potevate essere due ragazzi qualsiasi, che s’amavano – nessuna paura, nessun timore, nessun grado di parentela in agguato. Solo tu e James, stretti l’uno all’altra, avvolti dalla speranza.

Era vuoto, non molto spazioso, un posto un po’ angusto. Ma tu lo amasti, Rose, sentivi già il profumo di gelsomino farsi strada; restavi romantica, nonostante una come te dovrebbe odiarlo, l’amore – nonostante tutto.

Una sensazione s’alimentò in te e assomigliava alla felicità, ma non volevi illuderti. James sorrise e confermò ciò a cui stavi pensando, ciò che t’aveva smosso qualcosa dentro: avevate tempo a disposizione. E, finalmente, invece dei soliti baci profondi e sconnessi, iniziaste a parlare. Tu, incastrata tra le sue gambe; lui, che t’avvolgeva con le braccia. Stretti in quel modo, sembravate quasi una persona sola.

T’accorgesti di provare qualcosa per lui una mattinata d’estate del tuo quinto anno. Il caldo rendeva qualsiasi cosa insopportabile, a partire dalla voce strillante di nonna Molly che popolava in continuazione i muri della Tana. T’annoiavi, leggevi svogliatamente un libro, seduta sotto l’ombra di un albero in giardino. Davanti a te, i tuoi cugini giocavano a Quidditch. All’improvviso, una figura sfuggente ti carpì di mano il libro, girandoti attorno con scherno e lanciandoti poi una scopa. Lo guardasti male, James, perché dei cugini era quello più diverso da te, scostante e incorreggibile, era quello che non saresti riuscita a capire mai e questo ti irritava terribilmente. Ti convinse a giocare come Cacciatrice – era già a conoscenza delle sue carte vincenti, dei tuoi punti deboli, prima ancora che iniziaste ad amarvi –, insegnandoti l’arte del mestiere e facendoti scoprire un mondo nuovo.

Andò a finire che passaste tutta la giornata insieme, a Diagon Alley, perché “voleva comprarti una scopa decente” – rammendi ancora le sue parole serie, convinto di aver trovato una nuova infallibile giocatrice per la sua squadra. E, semplicemente, smettesti di considerarlo come un cugino.

La prima volta che v’eravate baciati, invece, risaliva a Natale dello stesso anno. L’avevate passato entrambi a Hogwarts, tutti i parenti sperduti da qualche parte, e t’aveva portato a Hogsmeade, dietro la Testa Di Porco, dove sbocciavano dei gelsomini – e comprendesti perché l’amavi: ti faceva sentire viva. James ti rendeva capace di sbagliare – non potevi stare con lui, non potevi fare tutto quello di nascosto, l'amore tra cugini era malsano –, e ti convinceva di essere nel giusto – mai una volta, al suo fianco, ti sentisti in errore.

“Secondo te” proferisti, appoggiando contro il petto di James la tua schiena e allungando le braccia all'indietro. “I nostri figli avranno i capelli rossi o neri?”

Non s’irrigidì, come t’eri aspettata. Rimase solo un attimo perplesso, poi appoggiò le labbra contro il tuo orecchio: “Spero neri.”

Scuotesti ripetutamente la testa. “Devono averli rossi!”

Lo sentisti sorridere. “C’è già stata un’unione Weasley-Potter. E solo una ha ottenuto i capelli rossi, e parecchio scuri.

Alzasti gli occhi al cielo. “Secondo me li avranno rossi.”

“Neri” ribatté. “Ma con i tuoi occhi celesti.”

Nella tua mente apparirono dei bambini che corrispondevano alla descrizione, e arrossisti tuo malgrado. “Mi piacciono, anche se li avrei preferiti rossi con i tuoi occhi scuri.”

“L’importante è che siano nostri.”

Forse eravate davvero perfetti, insieme. Forse avrebbero capito. Forse i vostri parenti non si sarebbero arrabbiati, e al vostro matrimonio – alla Tana, adornata di fiori bianchi, gelsomini – si sarebbe presentato un fiume di gente, colmo di gioia – e Albus avrebbe fatto da testimone, e avrebbe detto a gran voce che l’aveva sempre saputo, che vi nascondevate ogni sabato a Hogsmeade come due ragazzini.

Continuaste a parlare, e parlare, e parlare. Per una volta, non temevate il tempo – eri stanca di fingere.

 

*

 

Il chiasso era solo un rumore di sottofondo, nel groviglio dei tuoi pensieri. Le chiacchiere, le battute, i pettegolezzi dei ragazzi di Hogwarts, già pimpanti di prima mattina, ti lambivano appena: continuavi a passare la punta dell’indice sul bordo del tavolo, immersa in un altro mondo. E se avessi alzato lo sguardo, avresti notato una figura imitare le tue stesse fantasie, persa a sognare le sfumature dei tuoi capelli, a ricordare i momenti appena vissuti.

“Dove hai passato la notte?”

Trasalisti al suono della voce di Lily Luna, che s’era seduta con irruenza accanto a te, in Sala Grande. La nota stonante, che in un attimo rese tutto quel rumoreggiare reale e insopportabile. Ti sforzasti di non alzare lo sguardo verso James, che aveva letto l’allarme nella ruga che solcava la tua fronte.

“Dove vuoi che l'abbia passata?” ribattesti, con tono ironico, bugiarda – ormai c’eri abituata.

“Ti ho sentita rientrare alle sei di mattina” sibilò. “Cosa mi nascondi?”

Ignorasti il tuo stomaco, che aveva iniziato a provare il dolore di una morsa soffocante, e incrociasti le braccia, stringendoti su te stessa. “Niente. Stavo solo... finendo di studiare Pozioni. Ho un compito difficile, dopo.”

Alzò, scettica, un sopracciglio. “Mio fratello fa schifo in Pozioni.”

“Cosa c’entra James?” volevi mostrarti indifferente, ma capisti che le bugie si erano sovraccaricate, che ormai eri schiacciata dal loro peso.

“Come mai hai pensato subito a lui e non ad Al?”

“Piantala con le tue insinuazioni!” gridasti e qualcuno si voltò, incuriosito – tu non alzavi mai il tono della voce, eri sempre così controllata e posata.

Lily sapeva. L’avevi percepito da un po’, ma non l’avresti voluto ammettere nemmeno a te stessa. Lily era l’ultima persona che avresti voluto sapesse, perché tua cugina provava per te un odio puro, atto a cercare i tuoi punti deboli e ritorceteli contro. La gelosia accecava la Potter, una gelosia che si acuiva ogni volta che tu ottenevi un risultato migliore: una O in Difesa Contro le Arti Oscure, un abbraccio di zio Harry che lei non riceveva quasi mai, uno sguardo da parte dei ragazzi. Era invidiosa come una serpe, Lily Luna, e passava la sua vita a cercare qualcosa di sbagliato in te.

Ed ecco che lo trovò, qualcosa di malsano e deleterio. Qualcosa che ti stava danneggiando e sfibrando pian piano. Un amore proibito.

Scappasti, ma la tua fuga era finita.

E corresti via, uscendo dalla Sala Grande, verso l’ingresso, e via verso la Torre dei Grifondoro. Ti buttasti a terra, disperata, lacrime copiose ti solcavano il viso.

Eri stanca. Terribilmente stanca. Non sembravi una ragazza di sedici anni, ma una vecchia che nella sua vita aveva subito fin troppo e voleva giungere a una conclusione.

Povera, piccola Rose, oppressa dai tuoi stessi sentimenti ingiusti.

Ti saresti potuta innamorare di chiunque. Perché proprio lui?

Certo, aveva uno sguardo intenso che prometteva una vita migliore. Certo, il suo coraggio ti affascinava. E certo, ti capiva come nessuno mai. Ma era tuo cugino, sangue del tuo sangue, e questo annullava tutto il resto.

Continuavi a sognare un futuro, un lieto fine per voi due; una casa a Godric’s Hollow, degli gnomi da giardino, tante avventure da vivere insieme. Dei bambini. Ma sarebbe rimasto un sogno, per l'appunto.

“Rose!”

Non rispondesti, anzi ti rannicchiasti ancor di più. Ora basta, pensasti. Ora è finita per davvero.

La tua scelta era giunta. Vi avevano scoperti, ed era meglio dirgli addio prima che l’ineluttabile conseguenza si avventasse su di voi. “Rose, per favore, sta’ tranquilla, mi sono inventato qualcosa, non sa niente! Rose, guardami, ti prego.”

Non lo guardasti. Non potevi – sarebbe bastato un solo sguardo, un solo tuffo nei suoi occhi e ti saresti arresa, succube di lui come sempre. “È finita. Vattene, James.”

“Non puoi dire questo… Non mi ami più?

C’aveva provato, a sfoderare la sua carta vincente. E sussultasti. Per un attimo, ripensasti a voi, alla felicità dei sabato a Hogsmeade. Avresti tanto voluto dirgli che sì, lo amavi, e nessuno avrebbe messo un ostacolo ai tuoi sentimenti.

Ma non avreste ottenuto ciò che volevate, non più. “Addio” rispondesti, ignorando la sua domanda. Ti alzasti, Rose, gli voltasti le spalle. E James venne inghiottito dalla paura che lo spaventava di più, quella che lo perseguitava di notte, negli incubi: l’avevi lasciato solo.

Pensavi che, una volta finito quell’amore malsano, ti saresti sentita libera. In quell'esatto momento, però, il tuo cuore si spezzò – e, invece di ottenerla, la persi, la tua libertà.

 

 

*

 

 

 T’eri immaginata la vostra fine così tante volte che pensavi di conoscere esattamente cosa sarebbe successo: James Sirius, dopo alcuni giorni di rabbia repressa, si sarebbe stancato di te e sarebbe andato a letto con una ragazza diversa ogni sera; tu, invece, avresti passato mesi e mesi a struggerti, guardandolo da lontano, ma poi saresti resuscitata dalle tue stesse ceneri e avresti capito che era solo una stupida cotta, uno scherzo dell’adolescenza.

Ti sbagliavi, e di molto.

Ti cercava sempre, durante ogni attimo della giornata. La sua tristezza, seppur muta, era evidente nelle occhiaie bluastre e infossate, nei suoi sospiri accennati nei momenti di silenzio. Tu, stanca di tutto, avevi provato ad andare avanti con la vita di ogni giorno, senza però riuscirci. Stancamente, svolgevi ciò che era necessario per non sembrare un cadavere che cammina: seguivi le lezioni, mangiavi, uscivi con Albus. Ma non era abbastanza, e gli studenti di Hogwarts se n’erano accorti – si mormorava, nei corridoi, che fossi depressa, che non saresti più tornata indietro, che eri a pochi passi dalla morte. Era crudele, quell’accostamento, e tu pensasti che, mentre la tua famiglia aveva rischiato d’incontrarla per salvare il mondo, tu parevi morta per uno stupido amore deleterio.

Era strana, la vita senza di lui: mancava qualcosa, pareva incompleta, quasi insufficiente. Era colma di quella monotonia che una volta t’era familiare, e se n’erano accorti tutti: la McGrannitt, che aveva sospirato comprensiva quando eri giunta nel suo ufficio per chiedere di uscire dalla squadra, Hagrid, che s’era messo a piangere durante un vostro tè delle cinque, afferrando che c’era qualcosa che non andava, Albus, il quale, ovviamente preoccupato, t’aveva buttato addosso migliaia di domande – e, com’era usuale, aveva intuito senza bisogno di spiegazioni –, e tua madre, sospettosa a causa delle lettere che avevi smesso di spedirle.

Prima potevi essere morbosa, sbagliata, malsana, ma almeno eri felice. Felice davvero, non tanto per dire, perché uno sa cos’è la felicità solo se l’ha persa. E ora comprendevi cos’era, quel sentimento impetuoso, completo, vivo: era il viso di James ad un paio di millimetri dal tuo, talmente vicino che le sue ciglia erano incastrate tra le tue; erano quelle fughe a Hogsmeade, con cadenza occasionale, ma sempre di sabato, che forse avevano un sapore amaro, tuttavia così vostro; era la scopa da Quidditch che t’aveva regalato, ormai fuori moda, obsoleta; era la sua risata scoppiettante, esplosiva, che annunciava guai; era il Natale, quel Natale, dove ce l’avevi attorno tutto il tempo; e infine erano i gelsomini, pallidi e profumati, che sembravano prometterti qualcosa che non afferravi mai.

La tua vita triste ti stava consumando piano, e te n’accorgevi. L’unico attimo della giornata in cui mettevi da parte la tua apatia era quando James, distrutto ma pazientemente assiduo, ti spingeva contro la parete di un corridoio anonimo e ti pregava di tornare con lui. Lì, in quell’istante, l’amore ti scaldava, ti faceva divampare, e Dio solo sa quanto avresti voluto urlargli di sì. Mascheravi ogni cosa, invece, e scuotevi fermamente il capo, senza mai guardarlo negli occhi. Insisteva finché qualche ragazzino del primo anno non irrompeva ed era costretto a lasciarti crogiolare nel tuo dolore.

Non lo sapeva, James. Non sapeva che lo amavi, che avresti voluto dirgli di sì – al contrario del fratello, attento e onnisciente, lui non era capace di soffermarsi sui particolari, era semplicemente impulsivo, diretto.

Chissà cosa pensava, vedendoti rifiutarlo ogni volta. Forse si chiedeva dove avesse sbagliato, ma la risposta era sempre stata sotto i vostri occhi. Avevate sbagliato in tutto, dall’inizio alla fine.

Perché, Rose, voi due eravate strani, quasi atipici: non potevate stare insieme, ma non potevate nemmeno lasciarvi. E anche se sulla carta non eravate più una coppia, avreste continuato a cercarvi per sempre, in bilico tra restare e andarsene. Quella storia morbosa non sarebbe finita mai – e a te andava bene così, perché non avevi alternative e non avevi nemmeno la forza di crearle.

Voltasti la testa, ostinata, schiaffeggiandolo con i tuoi capelli furiosi, fiammanti. Lui t’afferrò per le spalle, senza violenza, delicato: “Rose. Per favore.”

Facesti finta di niente, guardando il soffitto affinché non uscissero lacrime dai tuoi occhi slavati.

“Rose... Non puoi farmi questo.”

“Non è colpa nostra, lo sai.”

Si riaccese, sorpreso. “Ti amo. Io ti amo maledettamente, Rose. Me ne frego di ciò che pensano gli altri, io voglio la nostra casa piena di bambini con i capelli rossi come dici tu, con i miei occhi scuri, sei contenta? Te lo immagini, Rose? Se non ci accetteranno scapperemo, troveremo una soluzione, mi metterò a lavorare... avremo i soldi e tutto il resto, Rose. Ci pensi? Io e te in un mondo a cui piacciamo, che non ci giudica. Spariremo lontano, cambieremo i nostri nomi... prendi la Francia, ad esempio. Ti piacerebbe una casa in Francia? A Parigi? Oppure in una pianura dimenticata da tutti, che so, qualsiasi cosa va bene, a me basti tu.”

“James” bloccasti il suo fiume in piena, arretrando, usando un tono dolce. “Non voglio.”

Non reagì subito. I suoi lineamenti rimasero rigidi, privi d’espressione. Aprì la bocca, senza sapere come ribattere: “Cosa?”

“Non voglio scappare. Non voglio un altro mondo, fingere di essere qualcun altro.”

“Ma...” accennò, facendosi buio, la consapevolezza che baluginava davanti a lui. “Tu vuoi me?”

Ti saresti potuta inventare di no. Avresti potuto spezzargli il cuore, lì sul posto, così avrebbe smesso di assillarti, così forse sarebbe finito quel vortice morboso. Forse, dicendogli di no, lui se la sarebbe messa via e tu ti saresti allontanata, ti saresti trovata un nuovo ragazzo... un Corvonero, magari. Potevi persino figurartelo: biondo, occhi verdi, fossette sulle guance e sorriso sincero. Ti avrebbe amata e tu avresti provato ad amare lui, riuscendoci quasi. E poi, finita Hogwarts, vi sareste sposati e avresti avuto un bambino. Avresti incontrato James solo a Natale e a Pasqua, oppure ai compleanni di Albus, e lui si sarebbe portato dietro una ragazza Babbana totalmente dissimile a te – piccolina, accondiscendente, tranquilla – e che tu avresti segretamente odiato senza svelarlo a nessuno. Avreste dimenticato gli errori del passato, e sareste tornati due cugini che s’inviavano cartoline di cortesia mentre erano in vacanza e che apparivano con la Metropolvere nella casa dell’altro per fare gli auguri. Ma non potevi sapere se sarebbe andata effettivamente così, visto che dicesti la verità, per una volta nella vita. “Non possiamo.”

“Mi stai facendo del male. Mi stai distruggendo, Rose” mormorò, accarezzandoti celere una guancia e ritirando la mano prima che potessi schiaffeggiargliela. “E dovrei odiarti per questo.”

“Io…”

“Sai quando ho smesso di vederti come una cugina e ho iniziato a vederti come una ragazza?” era una domanda retorica, la sua, ma scuotesti ugualmente la testa. “Quando ti ho visto volare su quella scopa, Rose. Eri in alto nel cielo, sopra il prato della Tana, con un unico obiettivo: la Pluffa. E vidi te. Vidi la libertà che sprigionavi, come se lì, nel cielo terso, fossi lontana da tutti i problemi, da tutti i pesi che ti schiacciano, dalla smania di essere sempre perfetta.”

“James…”

“E sai in quali altri momenti sei libera, Rose, lo sai?”

“Per favore, smettila.”

“Quando sei con me. È questa la risposta. Quando sei con me sei viva, senza catene, senza limiti, senza oppressioni. Sei semplicemente te stessa. E da te stessa non puoi scappare, Rose. E nemmeno da me: per quanto tu possa provarci, tra le mie mani stringo la tua libertà.”

Se ne andò.

Aspettasti il domani, conscia del fatto che sarebbe tornato, avrebbe ritentato.

Ma James non tornò.

E sprofondasti nel baratro più buio.

 

 

*

 

Qualche mese dopo

 

La maledizione del lago Nero. Così si chiamava, così le aveva dato nome James.

Si divertiva con poco il ragazzo, e spaventare gli alunni del primo anno con storie dell’orrore era uno dei suoi passatempi preferiti.

“A mezzanotte, puoi ancora sentire le urla scagliate da tutte quelle ragazze che sono annegate…”

Accompagnava il racconto da qualche incantesimo, da un sorriso che sembrava una cicatrice intagliata su quel volto liscio – e tu lo osservavi in silenzio, combattuta tra il tuo dovere di prefetto e il fascino di quella storia.

Quando eravate soli, bramavi più dettagli – eri sempre stata una tipa curiosa, Rose, ma la tua era una di quelle curiosità che portano solo guai –, e lui amava definirti morbosa, però alla fine se li inventava sempre, dei nuovi dettagli, per il puro scopo di accontentarti.

Cosa ha spinto quelle ragazze a buttarsi?

Eri ancora un po’ bambina, nei momenti in cui scrutavi il lago mentre calava la mezza luna, e la voce di James prendeva vita, facendo spuntare su quelle rive desolate delle figure diafane in preda all’angoscia. Potevi quasi vederlo, il grigiore abbattersi sulle loro anime, il sorriso spezzarsi in due e un gesto – l’ultimo, fatale –, un gesto che era l’emblema della disperazione: il salto.

E un po’ ne avevi paura, un po’ ti affascinava, un po’ ti era vicino, il dolore di quelle ragazze.

Continuavi a domandartelo, Rose: qual è l’ultima cosa che hanno visto? È stato un sorriso, un volto, un paio di occhi intensi come il colore dello zucchero bruciato? O l’acqua ha annullato qualsiasi ricordo, spingendole in un eterno oblio, nel quale il volto del ragazzo amato non esisteva più?

Quale risposta avresti voluto sentire, non ne eri sicura.

E allora avanti, un piede davanti all’altro, un passo alla volta, lungo le rive deserte, fino a toccare l’acqua con la punta delle dita – e il gelo ti assalì, ti sentisti lacerata dentro, quasi le acque fossero maledette e conducessero i visitatori a farla finita per sempre. Un passo e un altro ancora, senza paura, verso un posto in cui i gelsomini non mentono, in cui la notte non esiste più.

Qual è l’ultima cosa che vedrò?

Se avessi potuto scegliere, avresti sussurrato il suo nome in un bisbiglio talmente lieve che soltanto la persona a cui era indirizzato avrebbe compreso.

La luna si riflesse su di te, e finalmente lo trovasti, il coraggio di saltare.

La prima cosa è il nero, un nero che brilla mosso dal vortice continuo del lago, la seconda è il rosso sbiadito dei tuoi capelli, una volta pieni di vita come il tramonto di un giorno estivo, la terza sono un paio di occhi, quelli di tua madre, e il cipiglio che la caratterizzava, la quarta sono le serate invernali alla Tana, la quinta la delusione di tuo padre, la sesta l’addio muto dei tuoi amici, la settima sono bocca, fossette, occhi di caramello, sguardo sincero, risate represse, artigli contro i tuoi fianchi, un corpo che schiaccia il tuo, sono le sue parole che promettono speranza, il pallore dei gelsomini.²

L’ultima sono mani. Quelle mani le riconosceresti ovunque – è una presa salda che ti ha studiato talmente a lungo da conoscerti a memoria, una presa che rimette insieme i tuoi cocci e satura le tue ferite semplicemente afferrandoti per la vita.

Riaffiorasti, le labbra boccheggianti, respirasti con una forza estranea, non necessaria – eri stata sotto solo una manciata di secondi.

“Rose! Ma che diavolo ti è preso?!”

Era davanti a te James, fiammeggiante, irato, paonazzo. Ti prese per le spalle e ti trascinò via da quel vortice nero, da quell’apatia che ti stava consumando.

Appena toccaste terra, rinvigoristi. Lo spingesti via, quasi fosse lui nel torto e non ti avesse appena salvato la vita. “Stavo nuotando! Cosa pensi, che sia così stupida da morire come quelle ragazze?!” gridasti, offesa.

Aveva un’espressione smarrita, James, mentre cercava di afferrare chi erano quelle ragazze. Gli ci vollero meno di trenta secondi, per indovinare. E mormorò: “Lo sai, vero, che me la sono inventata io quella storia? Che non esistono quelle suicide?”

Usò lo stesso tono che si adotta quando si parla con i bambini piccoli e testardi. E questo ti irritò da morire, così iniziasti a colpirgli il petto più volte. “Non mi sarei mai suicidata per te, figurati. Cosa ci fai qui, James? Perché mi hai seguita?”

Ma quello che avresti voluto chiedergli era ben altro. Perché non sei tornato?

“E tu perché te ne sei andata?”

James indossava una camicia pulita che sua madre doveva avergli stirato accuratamente, una volta, mentre adesso era zuppa d’acqua grondante. Quella camicia da bravo ragazzo, che poco si addiceva alla sua temperanza. Quante volte ti eri aggrappata a quel colletto, stropicciandolo? Quante altre volte avresti voluto farlo?

Lo prendesti alla sprovvista. Ti stringesti a lui, smaniosa di essere salvata. Ancora e ancora.

Ne avesti la certezza: il tuo sorriso poteva esistere solo se sovrapposto a quello di James.

 

*

 

Non potevate sembrare più colpevoli. Tu, un’adolescente con le labbra gonfie di baci e i primi bottoni della camicetta saltati. Lui, i capelli scompigliati e tracce sbavate di rossetto sul mento.

Non siete stati attenti.

Ginevra singhiozzò, in cerca della mano del marito, che aveva lo sguardo vacuo, perso chissà dove, chissà in quali pensieri.

Hermione tacque, il volto teso, l’aria di chi aveva sempre sospettato tutto, l’aria di una madre che non si è mai fatta sfuggire nulla dei minuscoli dettagli che compongono la tua vita. Hermione non se ne rendeva conto, ma stava mentendo a se stessa.

Ron se n’era andato ormai da un quarto d’ora, e prima di uscire se n’era ricordato, di sbattere la porta della cucina il più forte possibile. Si era ricordato anche di dare una spallata a James, che era rimasto impassibile, o almeno dall’esterno – tu te n’eri resa conto, invece, che stava bruciando dentro.

Lily era l’unica a sorridere, la nota allegra stonante in quella tragedia. Un sorriso trionfante, il suo – il sorriso di un’eroina che finalmente ottiene giustizia.

E poi c’era Albus, ma era come se non ci fosse davvero, perché lui aveva già previsto tutto molto tempo fa.

James decise di rischiare e ti si fece più vicino, proprio lì, tra i presenti, tra i singhiozzi di sua madre. Percepisti la forza della sua mano schiacciata contro il tuo fianco e in mezzo a quella tragedia ti sentisti così terribilmente viva, così felicemente Rose.

“Non possiamo scappare l’uno dall’altra.”

Tua madre alzò la testa di scatto, quasi si fosse resa conto in quel esatto momento della realtà dei fatti – e vi vide, vide le tue gote arrossate e le labbra gonfie, labbra peccatrici, vide suo nipote avvinghiato a te e fu come non riconoscerti e riconoscerti davvero, tutto nella stessa volta.

Parlasti tu, Rose. Proprio tu, quando il fiume in piena era sempre stato James.

“Quando avrò finito anch’io il settimo anno, andremo a Parigi. Non… non vogliamo… non è necessario che approviate tutto questo.”

Contasti le dita del tuo ragazzo che facevano pressione, una alla volta e poi di nuovo, per tranquillizzarti.

“Per l’amor del cielo! James Sirius Potter, è un altro dei tuoi stupidi scherzi?!” affermò Ginny, riprendendosi dal pianto in un barlume di speranza.

Era stato preso in contropiede, ché lui una reazione così violenta non se l’era aspettata, eri sempre stata tu quella piena di preoccupazioni – preoccupazioni che bastavano per due.

James cercò tra le sue carte vincenti. Cercò, cercò, e cercò. Ma non trovò nulla, se non la verità. “Io la amo.”

E quella verità bastò a sciogliere tutte le catene che una volta ti avevano oppresso e non ti avrebbero oppresso mai più.

 

*

 

In cuor tuo ne eri sempre stata convinta, che tua figlia avrebbe avuto i capelli rossi e gli occhi caramello bruciato, intenso.

“Come l’avete chiamata?”

Un sorriso grondante gioia. “Jasmine.”³

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

¹ Citazione di Alessandro Baricco, tratta dal suo libro “Barnum 2”.

² Per scrivere questa parte, ho preso liberamente spunto dalla seguente citazione di Baricco, tratta dal suo libro “Oceano mare”: “La prima cosa è il mio nome, la seconda quegli occhi, la terza un pensiero, la quarta la notte che viene, la quinta quei corpi straziati, la sesta è fame, la settima orrore, l'ottava i fantasmi della follia, la nona è la carne e la decima è un uomo che mi guarda e non uccide. L'ultima è una vela. Bianca. All'orizzonte”.

³ In inglese, “Gelsomino”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Koaletta’s corner

 

Non credevo che questa storia avrebbe mai visto la luce, tantomeno che un giorno avrei deciso di pubblicarla. L’ho scritta chissà quanto tempo fa, non sono mai riuscita a completarla. Il finale, tutt’ora, non mi convince al cento per cento, forse perché non si sposa bene con il tono deprimente che occupa quasi tutta la narrazione. Comunque, non sono mai stata una in grado di scrivere qualcosa di diverso dagli happy endings, credo di non averne la forza.

Non so nemmeno come io abbia iniziato a shippare James e Rose, quando la mia OTP è – o dovrebbe essere – la Rose/Scorpius. Fatto sta che questi due mi piacciono da morire, soprattutto nella caratterizzazione che ho deciso di dare loro, lei con la sua assidua ricerca della perfezione, lui con il menefreghismo nel sangue.

Negli avvertimenti ho deciso di segnalare “Tematiche delicate” per lo sfioramento del tema del suicidio. In più, non ho messo “Incesto” perché l’amore tra i cugini su Efp non è considerato tale.

Spero questa storia vi piaccia quasi quanto è piaciuto a me scriverla :)

Giulia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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