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Autore: Jawn Dorian    07/05/2018    1 recensioni
Lui e i sui bislacchi problemi.
Lui e la sua situazione politica grave ma mai seria.
A volte era pronto ad accettare a braccia aperte il ruolo di giullare di quella immensa corte che era il mondo, altre volte si incaponiva a tentare di spiegare che la colpa non era la sua. In Italia la colpa è sempre degli altri.
{ Raccolta. Un vano tentativo di riscrivere il personaggio di Lovino in chiave realmente satirica.
E un po' di Spamano. Quella non guasta mai. }
Genere: Comico, Drammatico, Satirico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna, Shonen-ai | Personaggi: Sud Italia/Lovino Vargas
Note: Raccolta | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Non si ricordava neppure come era cominciato. Forse Feliciano gli aveva rubato il telecomando una volta di troppo, o forse era stato lui che la settimana prima gli aveva finito le pizzette. La scintilla che faceva partire l’innesco era sempre così insignificante che prevedere l’esplosione era diventato praticamente impossibile. Erano sempre così, le loro litigate. Erano specializzati nel cominciare discussioni sulle cazzate per poi farle diventare vere e proprie guerre civili. Ogni tanto partiva qualche insulto di troppo. O forse ‘di troppo’ era l’eufemismo più grande che Lovino avesse mai formulato nella sua mente, maledizione.
“Lovi, non è colpa mia se dalle tue parti c’è più disoccupazione che da me!”
“Beh, tu dovresti aiutarmi invece di stare lì a gongolare!”
“Sai una cosa?! Se sei tu che non riesci a stare al passo non vedo perché dovremmo essere tutti e due a venire sempre sgridati da Germania—“
“Ma chi se ne frega di Germania, adesso!”
“Io! Io me ne frego! E tu non fai che rallentarmi!”
Era calato un attimo di gelo totale. La televisione continuava ad emettere un brusio fastidioso. Dalla finestra aperta si sentirono un paio di auto che passavano. “Cosa…cosa stai cercando di dire?” il tono della voce di Lovino si abbassò drasticamente, mentre pronunciava quelle parole “stai dicendo…che ci preferiresti separati?”
“Lovino, non cominciare, non ho detto questo—“
“Vuoi che me ne vada?!” continuò il meridionale, improvvisamente paonazzo in viso “è questo che vuoi?!”
“Smettila di fare il cretino, non ho detto— okay, sì, forse l’ho pensato un paio di volte, ma—“
“Cosa? Tu…l’hai pensato sul serio?”
Feliciano si bloccò di colpo, sentendo un gemito soffocato venire da suo fratello. Notò con orrore che Lovino aveva gli occhi pericolosamente lucidi.
“Lovi, io non—“
“No. Ho capito.”
Romano camminò come una furia, senza voltarsi e senza mostrare la minima esitazione. Feliciano poté sentirlo solo spalancare la porta d’ingresso e urlare: “Vaffanculo!”
Gli corse dietro. Si lanciò al suo inseguimento lungo le scale, correndo sul pianerottolo, gridò il suo nome, lo supplicò di tornare dentro. Ma Lovino era già sparito.
 
 
 
La mafia uccide solo d'Estate
 


“Roma Ladrona”
 
 
Lovino ricordava che il giorno in cui lui e suo fratello diventarono una nazione unita era spaventatissimo. Era inutile prendersi in giro: se la stava facendo sotto. Tutto ad un tratto si sentiva cresciuto troppo in fretta, in un lampo, quasi. Garibaldi l’aveva portato via da casa di Spagna con un’irruenza che l’aveva quasi spaventato. Era quello che voleva, era lì: era una nazione, una nazione vera. Ma forse – si era ritrovato a pensare – quello per lui era tutto troppo. Forse non era pronto. Ma poi, lo avevano portato da Feliciano. Voci grosse, parole pompose, uomini giganti che erano rimasti dei giganti anche nei libri di storia li misero vicini. “Prendetevi per mano” li esortò uno. “Non lasciatevi mai andare” pianse di gioia un altro. “Viva Verdi! Viva l’Italia!”
Ricordava che Feliciano si era girato di scatto e gli aveva mozzato il fiato con un abbraccio. E lui invece era solo tanto confuso. Lo aveva stretto, e si era sentito completo, ma allo stesso tempo irrequieto, con l’urgenza di non mollarlo più. Quante cose erano cambiate.
 
***
 
“Stringiamci a coorte, siam pronti alla morte. Siam pronti alla morte, l'Italia chiam—“
“AH LI MORTACCI TUA!”
Lovino sobbalzò. Doveva ammettere che ubriacarsi a Trastevere non era stata un’idea brillante. Soprattutto non era brillante se finiva a cantare l’inno di Mameli alle due di notte sotto il balcone di un pover’uomo che sicuramente doveva lavorare l’indomani mattina.
“MA CHE TE CANTI?! IO ME SVEJO ALLE SEI DEL MATTINO, PORCO DEMONIO—“
“Scus— mi scusi!”
“Eh bravo ‘mi scusi’— anvedi ‘sto stronzo…ARIA, LEVATE DA QUA SOTTO!”
Lovino si alzò barcollando. Se doveva cantare in effetti sarebbe stata meglio un’altra postazione.
“Noi fummo da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi…”
“Ah Romà…”
L’interpellato si girò, e trovò un volto tondo, decorato da una barba incolta, gioviale e familiare come non mai. “Marcello…”
Marcello era il proprietario di un trattoria che Lovino, per inciso, frequentava da quando Marcello era solo il figlio del proprietario. Una delle poche gioie dell’essere nazione: assistere a generazioni di ristoratori che fanno sempre la stessa cacio e pepe da un secolo.
“Ma che stai a fa qua?” domandò il pover’uomo che – notò Lovi solo in quel preciso istante – aveva anche il volto stropicciato dal sonno. “Ma niente, Marcè…mi sono fatto una bevuta e—“
“Se, vabbè, una bevuta…viè un po’ qua, su, entra che ti do qualcosa da mangiare.”
Lovino avrebbe voluto tanto fare il difficile o rifiutare l’offerta, ma il suo stato da ubriaco disperato era così evidente che, mogio mogio, seguì l’uomo tenendo gli occhi bassi e trascinando i piedi.
Nemmeno venti minuti più tardi era seduto al tavolo del soggiorno di Marcello, con un piatto di gnocchi al sugo davanti e il padrone di casa seduto di fronte a lui che reggeva una tazza fumante in mano. Probabilmente era camomilla. Marcello odiava le tisane.
“Scusa per gli gnocchi un po’ improvvisati, eh.”
“Ma che scherzi?” rispose Lovi tra un boccone l’altro “sono buonissimi…e scusami tu per il disturbo."
A quel punto Marcello prese a sorseggiare la sua camomilla, e aspettò che Lovino concludesse il suo piatto di gnocchi, prima di prendere parola. “Allora, ne vuoi parlare?”
“Di cosa?”
“Di qualunque cosa ti abbia fatto girovagare alle tre di notte a Trastevere con nient’altro che Tavernello in corpo.”
 
 
***
 
Che Ludwig fosse metodico in tutto per tutto non era una novità per nessuno. Teneva il cellulare sempre acceso, anche di notte. Lo considerava doveroso in quanto nazione e in quanto lavoratore e bla bla bla e altre cose che solo chi non era pigro abbastanza da godersi una dormita estrema poteva capire. Il punto era, che quando alle cinque del mattino il suo cellulare squillò, Lud rispose con una prontezza decisamente fuori dal comune.
“Pron—“
“Germania!”
Avrebbe riconosciuto quel tono esagitato tra mille toni esagitati italiani, dannazione.
“…Italia?”
“Germania— è terribile! Ho combinato un casino più grande dell’Oceano Pacifico!”
Lud sospirò sonoramente, passandosi una mano tra ciocche bionde scompigliate.
“Questa sì che è una novità.”
Lud, ti prego, io—“
Germania si irrigidì immediatamente. Scattò a sedere sul letto con un’immediatezza che non usava neppure durante gli addestramenti militari decenni prima. Il suo nome pronunciato in quel modo supplichevole da Italia era sempre una stilettata nel cuore.
Feliciano, calma. Calma, bitte. Spiegami…che cosa è accaduto?”
“Lovino! Stavamo discutendo— io ho solo detto— ho detto—“
“Stavate litigando di nuovo?”
“…beh, sì. Ma il punto è che ho detto— cioè, è lui che è un deficiente ed ha capito—
E’ sparito! Ha lasciato il cellulare qua! E’ da ieri che non torna più a casa, e io-“
Ci fu un breve silenzio, poi un fruscio.
“Feliciano…stai piangendo?”
“N…No, io sto solo—“
A quel punto Germania fu subito in piedi.
“Sto arrivando.”
 
***
 
Lovino era stato in guerra. Così come quasi tutte le nazioni del mondo, Lovino aveva imbracciato armi e bagagli ed era andato al fronte a guardare le persone con cui aveva condiviso un barattolo di fagioli solo poche ore prima morire nel fango, con un’impotenza ormai insita nell’anima.
Per qualche motivo, però, i ricordi della guerra non lo rendevano così irrequieto come l’idea di separarsi da suo fratello. Un sottile eco nella sua testa, una musica canticchiata da un uomo con un sorriso ispirato in volto gli annebbiava sensi e mente ogni volta che qualcuno provava anche solo a parlare dell’argomento. ‘Secessione’ dicevano, e Romano si spezzava, quella voce che canticchiava si faceva più forte, l’immagine dell’uomo diventava più nitida, il sorriso più chiaro.
 
“Dimmi, Roma…ti piace? Ti piace come suona?”
“Tantissimo.”
Il sorriso si era fatto più dolce, lo ricordava come fosse ieri. Gli aveva posato una gentile carezza sulla testa. “Sarà la vostra canzone, Roma. Un giorno sarà la vostra canzone.”
Michele Novaro era morto povero, e non aveva ricevuto molti meriti per aver composto quella tanto sospirata melodia.
Ricordava fin troppo bene le prime notti che lui e Feliciano avevano passato insieme per la prima volta dopo tanto, tantissimo tempo, in casa, da soli. A Lovi mancava un po’ Spagna, ma doveva ammettere che l’idea di essere lì lo elettrizzava in ogni caso. Feliciano accusava un po’ l’assenza della musica di Austria e fu per questo che, accucciati vicini, così piccoli eppure così grandi, mormoravano insieme quella melodia, quella musica composta apposta per loro, solo e solamente loro nel mondo. Li aveva fatti sentire speciali, e importanti. Li aveva fatti sentire uniti.
 
I ricordi dolci si mischiavano in fretta con quelli del sorriso più ampio e ridanciano di un altro uomo, giovanissimo, un ragazzo, fuori di sé dalla gioia con un foglio in mano che metteva insieme parole senza senso e deliranti che diventarono piano piano uno straordinario poema patriottico e che gli esultava di fronte. “Non è meraviglioso, piccolo mio?”
Lovino era toppo intimorito per rispondere, in quel momento, per cui aveva solo annuito.
“Noi siamo da secoli calpesti, derisi—“
“Perché non siam popolo, perché siam divisi!”
“Proprio così, piccolo mio!”
Goffredo Mameli morì a solo ventun anni a seguito di una ferita infetta che si procurò durante la difesa della seconda Repubblica Romana.
Lovi ricordava ancora la copia del testo, l’odore della carta e dell’inchiostro, e come suo fratello – di nascosto – gliela sussurrasse nell’orecchio con aria furba e complice, quando si prendevano la mano per i ritratti a casa di Austria. Non si erano mai sentiti così vicini come in quei momenti. Il popolo lo voleva, loro lo volevano, volevano stare insieme. “Per sempre” gli aveva detto Feliciano, una sera d’Estate “voglio stare con te per sempre.” Ma suo fratello amava riempirsi la bocca di parole troppo grandi, più grandi di loro. Nemmeno le nazioni – che certamente vivevano gli anni come fossero mesi – duravano per sempre. Tanto meno i loro sciocchi sentimenti.
 
***
 
“Ah Romà, però me stai a mette n’angoscia.”
Marcello mescolò un po’ il ragù dentro l’enorme pentola sul fuoco per poi chiudere il coperchio e tornarsene seduto sul suo sgabello adibito a poltrona da psicologo, mentre il suo sventurato paziente sbuffava con un certo disappunto sul tavolo di mogano della cucina. “Non è ancora pronto?” chiese Roma, con le labbra leggermente sporte in avanti, non troppo dissimile da un bambino deluso. “Io lo lascio cuocere almeno cinque ore, ce lo sai” continuò Marcello, implacabile.
“E comunque te l’ho detto, mentre cucino qui non ti ci voglio.”
“Ma c’ho l’angoscia, Marcè.”
“Eh lo vedo che c’hai l’angoscia, me la stai attaccando tutta, però.”
“Scusa.”
Un po’ di silenzio intercorse tra i due uomini, mentre solo il ribollire debole e lento del sugo borbottava dall’interno della sua prigione di metallo. Poi il sospiro di Marcello sciolse la tensione, e tornò a guardare la nazione con aria preoccupata. “L’avrei pure io l’angoscia, se fossi in te. C’hai un bel peso, sulle spalle, Romà. Non ti invidia nessuno, te lo assicuro. Però almeno c’hai tuo fratello, non stai da solo. Perché dovete sempre litigare così?”
“Non ci vuole stare, con me.”
“E a te chi te l’ha detto?”
“Lui me l’ha detto!”
“Lui, o qualche politicante da strapazzo a cui vanno dietro i rincretiniti?”
Romano si zittì. A conti fatti, Feliciano non aveva mai espresso la reale volontà di separarsi da lui. Neppure nel pieno dell’ultima Guerra Mondiale, durante il quale avevano preso posizioni così diverse e distorte: lui era diventato un traditore dell’Asse e della patria, e Feliciano un traditore della giustizia umana. Non si capiva neanche chi dei due avesse tradito di più, eppure sembravano entrambi consapevoli che quell’incubo sarebbe finito e in fondo sarebbero sempre stati una cosa sola di nuovo, e al più presto. Che cosa era cambiato? Niente. Erano solo diventati più sciocchi e superficiali, ecco cosa. Avevano solo cominciato a dare per scontato il sangue versato dai loro fratelli perché loro potessero essere una nazione, perché potessero essere una cosa sola, perché potessero rimanere insieme. Avevano solo dimenticato i sorrisi buoni e quella canzone, quella canzone tutta per loro.
Marcello capì dallo sguardo pensoso del suo amico di aver centrato il punto in poche frasi e sorrise benevolo. “Tra un’ora te ne torni a casa.”
“Non ora?”
“No, ora no. Prima ceni. Il ragù è pronto.”
 
***
 
Quando Lovino aprì la porta d’ingresso il viso paonazzo e pieno di lacrime di suo fratello – seduto sul divano con la stessa camicia stropicciata del giorno prima – lo investì in pieno, e dovette fare uno sforzo sovraumano per non scoppiare a piangere anche lui. Non se la sentì proprio di dare sfogo alla tristezza in quel momento, soprattutto per via della presenza di Ludwig e Antonio, in piedi come sentinelle ai lati del sofà. Come al solito, Feliciano aveva chiamato i rinforzi. Ma in quel momento Roma non ci fece troppo caso, si concentrò solo sugli occhi del fratello che nel vederlo si inondarono di lacrime e di come, senza produrre il minimo suono, Feli saltò in piedi e corse per poi buttargli le braccia al collo. Germania sembrava avere qualcosa da dire, qualcosa che Romano aveva già sentito almeno cento volte da parte sua come ‘Devi delle scuse a tuo fratello’, ma tacque, bontà sua. Spagna sospirò e lasciò libero un sorriso sollevato.
“Fuori” sussurrò appena Lovino, circondando suo fratello per la vita con le braccia, e Antonio colse subito ciò che aveva detto, anche se era stato pronunciato così a bassa voce. “Lovi, yo—“
“Vi raggiungeremo” lo interruppe subito l’italiano, senza prestargli realmente attenzione “adesso andate fuori.”
Nessuno aveva mai eseguito con una velocità simile un suo ordine, doveva dire.
 
***
 
Non si erano staccati. Si erano messi sul divano ma Feliciano aveva ancora il viso affondato sulla sua spalla, e Romano lo stringeva a sé per i fianchi e non accennava a voler lasciare andare.
“Lovi, mi dispiace, mi dispiace tanto.”
“Ho esagerato anch’io. Lo so che non volevi dire quello che pensavo. Ho solo…ho paura.”
“Lo so.”
Il minore si strinse ancora più vicino. Era una pratica che adottavano spesso da bambini e con il tempo avevano un po’ perso. Ritornava quando qualcosa di molto brutto accadeva, e allora regredivano allo stadio di simbiosi che per lunghi anni li aveva accompagnati prima delle Guerre Mondiali. Non era successo niente di grave, eppure in quel momento non riuscivano a staccarsi.
Il vecchio pendolo sopra la televisione scoccò la mezzanotte.
“Lovi?”
“Mh?”
“Buon compleanno.”
“Buon compleanno, Feli.”
 
 
17 Marzo 1861-2018
 
 
All'inizio quel tizio che s'attizza al comizio
Pare un alcolista alla festa di San Patrizio
Parla da un orifizio sporco di pregiudizio
Pubblico in prestito dal museo egizio
Ora capisco quanto aveva ragione
Ora che sono soldato di stato senza meridione
Ora che è finita la carta del cesso ma fa lo stesso
Tanto ci ho messo la costituzione
{ Caparezza – Inno Verdano }
 
 
 
 




Note dell’autore (IMPORTANTI)
Guardate chi è tornato a farvi visita: questa persona completamente fuori dal tempo che cerca di fare della satira con l’anime più cazzone del mondo. Avete sentito la mia mancanza? Nulla mi vieta di assumere di no.
Dunque. Per capire perché ho deciso di riprendere in mano questa raccolta bisogna innanzi tutto comprendere che non sto passando un bel periodo. Già. Ma può capitare, e non è niente di irreversibile. Ma non è per niente per niente un bel periodo. Diciamo dunque che sto facendo l’eremita e al momento sono in ritiro spirituale dove solo poche persone possono cercarmi. Mi sta bene così, innanzi tutto perché un po’ di solitudine e riservatezza mi stanno inaspettatamente giovando, ma soprattutto perché scrivo a tutto andare e concludo cose lasciate in sospeso da molto, moltissimo tempo. Una delle cose che volevo assolutamente continuare era questa raccolta, che ha fatto la sua comparsa su questo sito DUE. ANNI. FA.
Faccio veramente schifo. E dire che avevo progettato una miriade di capitoli per proseguire. Ma niente, in quest’ultimo anno soprattutto moltissime cose sono andate davvero ma davvero storte e nessun climax di ispirazione, nessuna onta di nostalgia è riuscita a smuovermi comunque. Ma adesso eccomi qui.
Su questo capitolo ci sarebbe molto da dire, ma prima di tutto mi scuso per aver utilizzato un tema politico così serio per scrivere questa mini puntata di Occhi del Cuore (ogni riferimento a Boris non è puramente casuale). Devo dire che questo capitolo non mi fa impazzire, mi sono giocato più drammi e cose fighe nei capitoli precedenti, ma per me era d’obbligo un capitolo sui fratelli Vargas e sul il proclamato “secessionismo” da parte di alcuni partiti bifolchi negli anni novanta di cui non farò il nome COFFCOFFCOFF. Ho cercato di giocarmela senza fare nomi o riferimenti troppo pesanti alla così detta ‘Padania’. Avendo parenti sparpagliati per tutta Italia e un padre nel Nord e una madre del Sud posso affermare di aver sempre considerato il cianciare di codesti politicanti la maggior parte delle volte una marea di boiate. Ma – si sa – ognuno ha la sua visuale di veder la cosa, politica o non, e non ho intenzione di discutere su questo. Ma vabbè dai, e anche oggi ci portiamo a casa un bel capitolo smielato e romanzatissimo sui drammi inesplicabili di questo paese. Ah, se ho scritto qualcosa di storicamente inaccurato sentitevi liberi di fare delle rimostranze, sono aperto ad imparare un altro po' di storia, che non fa mai male. Comunque giuro che ce l'ho messa tutte per scrivere robe non così diverse dalla realtà. Ah, e un pochino di GerIta. Oh, qualcuno queste schifezze deve pur farle.
Buon anniversario dell'Unità a tutti. In un ritardo barbino.

 
  
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