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Autore: Malveria92    12/05/2018    0 recensioni
La scena che ci trovammo davanti era una delle più disgustose che avevo mai visto: al centro dello spiazzo c’era un mucchio di cadaveri in decomposizione, ricoperti di bava appiccicosa. La pelle rimasta sui loro corpi si staccava e scivolava a terra facendo suoni disgustosi e gli occhi, per chi ne aveva ancora, erano bianchi e vitrei oppure vuoti e pieni di piccoli vermi rosei.
Tutti morti con il volto sfigurato dalla paura.
Ne contammo quindici, almeno di quelli che riuscivamo a vedere e due probabilmente facevano parte dell’ultima squadra entrata...
Il destino di un ragazzo che nasce dal fuoco, un Vecchio che vuole dare speranza a chi non ne ha più, l'inizio di un'avventura che porterà Liam in tutte le terre di Avelod per cercare il modo di spezzare la maledizione che rischia di farlo scomparire per sempre. Nella sua strada intrisa di odio e vendetta, incontrerà un'altro destino che è strettamente legato al suo...
Genere: Avventura, Fantasy, Fluff | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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CAP 1: Liam, la nascita del vuoto

Immagini di fuoco, volti segnati dal terrore, le urla e le grida che sovrastavano il rumore sordo delle case divorate dalle fiamme.
Grandi ali rosse oscuravano il cielo mentre dalla gola della bestia continuava a uscire morte.
La mano calda che stringeva la mia mi lasciò.
Mia madre mi spinse forte di lato - Fuggi! - urlò con gli occhi rossi dal fumo. La casa del fornaio crollò  - Mamma! - era distesa sotto le macerie, le gambe piegate in una strana angolazione ma era ancora viva.
- Mamma dimmi cosa devo fare! Cosa devo fare! - urlai con la voce spezzata.
- Vai... via da qui... - mi ripose mentre il sangue le macchiava le labbra.
L'ultima parete dell'edificio cedette e io mi sporsi in avanti per proteggere il viso di mia madre, quel viso così bello, dolce e sempre sorridente che ora era ricoperto di fuliggine e sangue. Una trave mi colpì forte alla spalla, credevo di morire, il dolore che sentii era così acuto da farmi quasi svenire, ma la paura che provavo era più forte e mi permise di rimanere lucido. Mia madre era ancora lì, ero riuscito a proteggerla con il mio corpo e dovevo portarla via da quell'inferno.
-Tranquilla mamma, ci penso io a te, devo solo...
Ma era troppo tardi.
Ormai Lumia mi guardava senza riuscire più a vedermi. I suoi occhi chiari, di solito verdi come le foglie appena nate e brillanti come la rugiada, erano ormai spenti. La scintilla della vita non li illuminava più. 
Il fuoco riuscì a bruciarmi i vestiti e la carne prima che io riuscissi con fatica a spostarmi. I polmoni mi bruciavano mentre superavo di corsa quella che era stata la via del forno.
Avevo lasciavo il corpo di mia madre alle fiamme.
Con le lacrime agli occhi scappai sempre più veloce nel buio della notte, corsi finché avevo fiato in corpo mentre nella testa rimbombavano parole sconosciute...
Aprii gli occhi e mi ritrovai a fissare un soffitto di legno, ero sotto le coperte in un comodo letto.
Che sogno orribile avevo fatto!
Feci per alzarmi ma il mio corpo non rispose, la testa iniziò a girarmi e mi si annebbiò la vista. Una grande mano mi spinse sui cuscini e dopo un po' riuscii a rimettere a fuoco.
Seduto vicino al letto c'era un uomo di mezza età che io non avevo mai visto. Mi fissava con i suoi grandi occhi scuri, come si fissano i poveri moribondi. Era pietà quella che notavo in quello sguardo o era solo la mia immaginazione?
- Chi sei? Dove sono? - avevo una voce orrenda, la gola secca e gli occhi mi bruciavano, provai a strofinarli ma non ci riuscii, non ero stato in grado di sollevare il braccio, fu così che mi resi conto che avevo quasi tutto il corpo coperto di bende.
Ci mise un po', come se il tempo si fosse fermato per gustarsi la scena, ma quando ricordai, la consapevolezza di quello che mi era accaduto mi schiacciò con tutto il suo peso, giù, sempre più giù fino ad arrivare in un luogo buio, senza luce.
Un urlo ruppe il silenzio, straziato, lugubre e il tempo ricominciò a scorrere.  Le lacrime lasciavano dei solchi sulle guance ancora piene di cenere mentre, con tutto l'odio che avevo in corpo avrei voluto prendere a pugni ogni parte di quel maledetto vecchio che se ne stava lì davanti a me continuando a fissarmi.
Ero solo adesso.
Nei giorni che seguirono le mie condizioni fisiche furono strettamente sorvegliate.
Ogni mattina  quel vecchio mi cambiava le bende e mi strofinava qualche unguento puzzolente con le sue mani ruvide. Non so quanto tempo passò prima che riuscissi di nuovo a muovere le braccia, forse pochi giorni o interi mesi, ma Lui era sempre lì per aiutare il mio corpo a fare progressi. Per quanto riguarda le mie condizioni mentali, non saprei, avevo la testa vuota come se il fuoco avesse bruciato tutto anche lì e non ci fosse rimasto più niente a parte l'odio.
Non piansi più, credo che quelle fossero state le mie ultime lacrime e non parlai per molto tempo.
Quando ero sveglio passavo la mia giornata a fissare il soffitto, mentre quando dormivo speravo di svegliarmi per continuare a fissarlo. Il mio mondo iniziava e finiva con quelle assi di legno, non volevo vedere altro, non volevo provare nulla se non il vuoto della perdita.
Il sole sorgeva e tramontava come se nulla fosse cambiato, come se non fosse scomparso un intero villaggio dalla faccia del continente, come se tutti i miei amici, la mia famiglia e tutte le persone che conoscevo non avessero importanza agli occhi degli Dei.
Un odio nero e profondo verso il mondo iniziò ad aggrapparsi al mio corpo, al mio cuore e alla mia anima.
Mi portò con se in una pozza  scura di disperazione dove non penetrava la luce e non vi era alcun suono.
Ero lì su quel letto ma allo stesso tempo non c’ero, ero vuoto, fuori dal mondo, ero in un posto dove non vedevo e non sentivo nulla, come morto.
Così i mesi passarono e il mio corpo guarì. Come ricordo dell'incendio, mi rimase una grande cicatrice sulla spalla sinistra che mi si aggrappava alla scapola, come un artiglio.
Quel vecchio si prese cura di me tutto quel tempo. Giorno dopo giorno cercava di non farmi morire, mi imboccava con pazienza, mi lavava e cercava di parlarmi. Tutto questo lo scoprii solo in seguito; in quel brutto periodo della mia vita, non che poi sia migliorata di molto, ero insensibile a ciò che mi circondava.
Esistevo, niente di più.
Arrivò Settembre e l’aria divenne più fresca, me lo ricordo perché fu una di quelle mattine che iniziai a riprendermi. Mi resi conto di ricominciare a sentire quando degli strani rumori mi rimbombarono in testa come un sottofondo. Erano fastidiosi perché si ripetevano uguali, con la stessa sequenza e la stessa cadenza: passo, sibilo, colpo e ancora passo, sibilo, colpo e poi ancora. Entravano in quella pozza scura dove mi ero nascosto, dove non volevo vedere e sentire nulla, volevano farmi impazzire.
Mi arrabbiai. Come si permetteva quella “qualunque cosa fosse” ad entrare nel mio spazio! Come si permetteva a distrarmi dal mio odio e dal mio dolore!
Esistevo! E quanto era vero che gli dei erano, e sono tuttora, un gruppo di scansafatiche, quel “qualunque cosa fosse” non sarebbe esistito più!
Il mio corpo si mise a sedere, così capii che potevo vedere e muovermi, anche se non con poche difficoltà. I muscoli erano diventati inesistenti e faticavo anche ad alzare un dito.
Per la prima volta mi guardai in torno; era una capanna tutta di legno.  Probabilmente mi trovavo nella stanza principale, quella in cui c'era anche una piccola dispensa e il focolare. Nel muro a destra e in quello di fronte a me si aprivano due porte, dietro le mie spalle invece faceva luce una grande finestra.
Dopo essere stato tutto quel tempo in un luogo buio, la luce faceva uno strano effetto, ma invece di affievolire quell'odio che avevo dentro, sembrava farlo straripare, come se volesse affogarla, seppellirla.
Provai ad alzarmi e con grande fatica e lentezza ci riuscii, la voglia di far smettere quel baccano riusciva a farmi fare qualsiasi cosa.
Raggiunsi così quell'unica finestra e mi ci aggrappai come farebbe un naufrago con l’ultimo pezzo di legno rimasto della sua imbarcazione.
Rimasi di sasso, sbigottito, sia del fatto che io potessi ancora avere una qualche sorta di altra emozione, sia del fatto che un vecchio in mezzo al bosco si stesse allenando con una spada.
Era lo stesso uomo che mi aveva salvato?
Bisognava ammettere che era ancora veloce per la sua età e i suoi affondi così precisi che sarei potuto rimanere a guardare quella danza per ore. Più lo fissavo e più la rabbia sgorgava dal profondo della mia anima.
Volevo vendetta. Volevo trovare quel mostro e ucciderlo con le mie mani!
- Voglio imparare!- furono le prime parole che dissi e le prime parole di quel Vecchiaccio furono:
- Puoi scordartelo! - passai ogni giorno a chiedere di insegnarmi a combattere. 
Lo stavo assillando dalla mattina alla sera ma tutte le volte ricevevo la stessa risposta: No!
- Perché non vuoi?- gli gridai con la mia voce ancora roca, se potevo muovermi come lui forse avrei potuto avere una possibilità per uccidere quella bestia.
- Ti vedo quando mi osservi la mattina ragazzino - si ammutolì un attimo, forse perso nei suoi pensieri, per poi guardandomi con occhi tristi e continuare - Quel tuo sguardo non mi piace affatto!
- Se non vuoi insegnarmi allora sei inutile! Ed è inutile che io rimanga qui senza far niente! - non gli chiesi cosa aveva visto di così strano nei miei occhi, e non mi domandai sul significato delle sue parole.
Semplicemente non me ne importava.
-  Sì, mi sembra giusto. Ecco, quella è l'uscita - e la indicò - Non sbattere la porta quando te ne vai, non mi serve un'altra bocca da sfamare.
Mi avviai verso la porta calpestando il pavimento con la rabbia che mi bolliva sottopelle, ma il tremolio alle gambe mi ricordò che non avevo ancora ripreso le forze.
Arrivato sull'uscio guardai fuori, dove potevo andare? Non avevo più nessuno, ero ancora convalescente e sembravo più uno scheletro che cammina che un ragazzo.
Forse se stavo al suo gioco ne potevo ricavare qualcosa? Quell'uomo mi serviva, avrei potuto ingannarlo?
-  Che cosa devo fare? - quella domanda fu l'inizio di tutto.
Scoprii che il nome del vecchio era Catus e faceva il mercante, anche se non ne avevo mai conosciuto uno che sapeva muoversi come faceva lui.
I giorni successivi mi aiutò, come diceva lui, a “rimettere su un po' di sostanza”. Per le prime settimane fu gentile, mi faceva camminare per riattivare i muscoli e strigliare il cavallo per rinforzare le braccia, tutto sotto la sua attenta supervisione. Mi aiutava a mangiare e a lavarmi, almeno finché non mi ripresi a sufficienza da poter fare da solo.
Due mesi dopo mi faceva già sgobbare come un asino da soma.
La notte sognavo mia madre e rivivevo la sua morte per poi svegliarmi e vedere lo stesso soffitto di quel giorno. Quando accadeva mi chiedevo dove fosse mio padre e se fosse ancora vivo, in quei momenti venivo sopraffatto da quell'odio profondo per il mondo, che avevo imparato a conoscere.
Durante il giorno impiegavo tutto il tempo che il sole dava a disposizione per fare i lavori di casa. Zappavo l'orto, davo da mangiare agli animali, strigliavo il cavallo, spaccavo la legna... Catus mi faceva fare di tutto.
Il lavoro mi permetteva di non pensare troppo.
Due anni passarono velocemente ma il Vecchio ancora non accennava a insegnarmi nulla.
Una sera di fine febbraio, terminati tutti i miei compiti rientrai in casa, grato che il fuoco scoppiettante scacciasse l’umidità che invece aleggiava all’esterno. L’aria era impregnata dal profumo dello stufato di cervo, la specialità di Catus. Il vecchio era davanti al focolare mescolando la zuppa con un grosso cucchiaio di legno.
  • Parto tra due giorni – mi disse con quel suo tono burbero.
  • Vai già via? – chiesi io mentre prendevo delle scodelle e il pane dalla credenza.
  • Sì, il tempo è buono e non sarà così tra due settimane – Il Vecchio aveva sempre avuto questa capacità di previsione, secondo lui era solo avere buon occhio per il clima.
  • Quanto tempo starai via?
Il fuoco sotto il pentolone scoppiettò mentre Catus riempiva le ciotole con il denso stufato, il suo aroma mi metteva l’acquolina in bocca e mentre spezzavo il pane croccante pronto ad assalire la cena mi rispose:
  • Credo non più i due settimane.
  • Nof stfai viaf molfto – provai a dire con la bocca piena.
Fu in quel momento che presi la decisione di iniziare i miei allenamenti da solo.
  • No, non devo andare lontano. Tu cerca di non combinare disastri come l’ultima volta mentre io sono via! – mi rimproverò con sguardo rassegnato.
  • Quella volta il cavallo l’ho ripreso e ho anche aggiustato la stalla! – feci sventolando il mio cucchiaio sotto il suo naso.
Non era stata colpa mia se un temporale aveva spaventato Nerone, anche se certamente avrei potuto chiudere meglio il cancello…
Due giorni passarono in fretta e Catus partì, portando Nerone e la nostra puledra Bianca con se.
Da quella primavera in poi, quando partiva con il carretto pieno di mercanzia che avevamo prodotto durante l inverno, ma in generale tutte le volte che si allontanava da casa e accadeva spesso, mi allenavo con un lungo bastone, che lanciavo prontamente dietro i cespugli appena sentivo passi pesanti.
Sicuramente sospettava qualcosa, ma per qualche motivo mi lasciò fare.
Lo stesso anno però, quando iniziarono a cadere le foglie e l’autunno era alle porte, Catus mi sorprese mentre colpivo con forza, con il mio bastone, il mio compagno d'allenamento: l’albero dietro casa.  Il Vecchio spuntò fuori dalla foresta all’improvviso, proprio come un fungo.
- Sei...sei tornato presto... - riuscii a balbettare colto sul fatto.
- Già, ho trovato facilmente tutto quello può servirci quest'inverno e a buon prezzo... -  mentre guardavo qualunque cosa meno quello che avevo in mano, Catus scoppiò in una grossa risata - Tieniti pronto ragazzino, da domani avremo molto da fare.
Non seppi mai perché il Vecchiaccio decise di insegnarmi l' Arte della Spada, forse non vedeva più qualcosa di strano nei miei occhi, probabilmente nascosto dall'affetto che iniziavo a provare per lui, o forse pensava che se avessi continuato a fare da solo mi sarei fatto brutalmente male,  prima o poi.
Dal giorno seguente, oltre ai lavori soliti, erano state aggiunte due ore di addestramento con i bastoni. Avrei voluto dimostrargli che avevo imparato molto anche da solo, se non fosse che i miei attacchi andavano sempre a vuoto e che ogni volta ci prendevo così tante bastonate che sembravo essere stato assalito da un orso. Dopo la prima settimana non ero ancora riuscito a sfiorarlo, neanche con il vento della mia arma, ma io in compenso ero pieno di lividi nerastri.
-  Accidenti!- Urlai, tirando l'arma a terra - Com'è possibile! Non ti ho colpito neanche una volta! Una! Non chiedo tanto!  Dimmi dove sbaglio perché proprio non lo capisco!- sentivo una vena pulsare dolorosamente sulla tempia.
-  Bravo ragazzino, hai capito che sbagliavi dopo solo una settimana, ma mi sorprende che tu non abbia visto dov'è l'errore. Liam, attacchi con troppa rabbia e questo mi permette di prevedere le tue mosse, è così che riesco a schivarti e a colpirti. Devi mantenere la concentrazione sul tuo avversario, renderti conto di ciò che ti circonda e soprattutto avere pazienza! - sospirò, per poi continuare - Rallenta il respiro e calcola ogni tuo movimento in base ai mei e allo spazio che hai intorno.
- E come diavolo faccio a fare tutte queste cose insieme!?-
-Inizia con una alla volta- la barba ingrigita del vecchio vibrava mentre Catus rideva divertito.
Così feci. Il risultato fu un disastro: O mi concentravo sull'avversario o guardavo dove mettevo i piedi o cercavo di rallentare il respiro. Sembravo un ubriaco che si era perso e che aveva un bastone in mano per riuscire a tenersi in piedi.
Solo quando mi avvicinai ai miei quindici anni d'età, riuscì a schivare quasi tutti i suoi attacchi ma i miei non andavano ancora a segno. I suoi movimenti erano fluidi come l'acqua e proprio non capivo come poteva essere possibile, però m'impegnavo e giorno dopo giorno diventavo più forte, imparavo nuove tecniche e nuovi trucchi e soprattutto compresi l'importanza della respirazione. Essa infatti mi permetteva di restare calmo e di riuscire a studiare con freddezza e lucidità ogni situazione.
- Sei migliorato molto, ma quello che ancora ti manca è la velocità - Mi disse Catus una mattina d'inverno – Per riuscire a colpirmi, devi diventare più svelto di me o non riuscirai nemmeno a sfiorarmi!
Così iniziai a portare delle zavorre ai polsi e alle caviglie. Correvo e mi arrampicavo con quei pesi mentre andavo a caccia, ci nuotavo mentre facevo il bagno anche se avevo rischiato di affogare una o due volte, li tenevo quando facevo i soliti lavori di casa e continuavo ad allenarmi con i bastoni senza mai toglierle. Con il passare del tempo aggiungevo chili e la mia velocità e forza aumentarono notevolmente, tanto che un giorno riuscii finalmente a colpire il mio istruttore, ma la mia sorpresa fu tale che lui con un colpo netto mi mandò a gambe all'aria.
- Ottimo ragazzino, ma mai distrarsi! – i suoi occhi scuri brillarono, ma non capii se era  per orgoglio o per paura. Ma paura di cosa?
Dopo quasi un anno provai a togliere i pesi, il mio fisico era diventato asciutto e i muscoli ben delineati guizzavano ad ogni movimento. Ero così veloce che Catus faticava a starmi dietro. Non riusciva più a schivare tutti i miei affondi e quelli che andavano a segno, avevano una forza spaventosa.
Quella sera iniziai i miei studi. Il Vecchio aveva insistito nel darmi lezioni in modo tale che io sapessi scrivere, leggere e far di conto.
- Più cose sai e meglio è – diceva sempre.
Come dargli torto? Sapere riconoscere le impronte ti portava alla preda, ma senza conoscere il luogo in cui stavi cacciando potevi diventare preda tu stesso.
Mi raccontava la storia di Avelod, il nostro continente, e me ne spiegava la geografia. Insistette a farmi entrare in testa anche la politica, le casate più importanti e l'utilizzo del denaro.
Studiai i vari territori, ognuno dei quali aveva casate, città, villaggi, storie, leggende e animali pericolosi da tenere a mente. Ogni giorno, mi faceva domande specifiche su questa o quella regione.
Durante tutti questi anni, la macchia di odio nel mio spirito però non era scomparsa, era rimasta lì ad osservare e aspettare il momento opportuno per tornare a galla. La mia rabbia non si era dissipata come fumo al vento ma era ben nascosta, pronta a balzare fuori come un puma sulla sua preda.
Continuai così fino a un mese dal mio compleanno.
Il tredici Marzo, avrei compiuto sedici anni. Tornai con la mente a Blez, il mio paese, e alle feste che si facevano quando uno di noi diventava finalmente adulto. La cosa però non mi divertì ma mi preoccupò.
- Vecchio, devo dirti una cosa - l'avevo raggiunto alla stalla, l’odore dolciastro del fieno mi fece prudere il naso.
-  Anche io devo parlarti - rispose lui mentre strigliava Nerone e senza aspettare oltre continuò - Tutti gli anni vado a fare un viaggio d’affari, come ben sai. Quest'anno vieni con me.  Delle difficoltà che si possono incontrare lungo le strade non ne sai molto e voglio che fai esperienza.  Con i bastoni non te la cavi male ma credo che queste ti saranno più utili, tieni- e mi allungò un paio di lame curve, sembravano delle daghe anche se più lunghe - Prenditene cura.
– Dove andiamo? – domandai osservandole, erano semplici, senza incisioni inutili e l’impugnatura era fatta di strisce di cuoio scuro.
-  Prenderemo la Via del Mercato per raggiungere Alisia, dovrebbe essere una strada sicura, ma se incontriamo qualche ostacolo te ne occuperai tu - disse guardandomi per un attimo in faccia con un sorriso provocatorio.
-  Ah, grazie tante…- risposi poco convinto.
- Volevo avvisarti in oltre, che se non ci sono intoppi, al nostro ritorno passeremo al tuo villaggio - mi disse il Vecchio tornando ad occuparsi del cavallo – L’ho attraversato un paio di volte in questi ultimi anni e visto tu non hai mai voluto raccontarmi niente di quella notte – mi oscurai in volto al ricordo - io sono andato a fare qualche ricerca per conto mio. Volevo portarti da un po’ di tempo a far visita ai morti del tuo paese ma l'ultima volta che ci sono stato mi sentivo osservato, così ho deciso di aspettare un po’ prima di tornarci con te.
Quanti anni erano passati da quel giorno? Che cosa era rimasto del mio villaggio? Polvere, cenere e legna bruciata? Catus sosteneva di avere l'impressione che un presunto visitatore si aggirasse tra le macerie.
-  Possiamo andare prima a Blez? - la voglia di vedere casa mia, toccare i suoi muri e passeggiare tra le vie era immensa.
- No, ho una questione importante da risolvere ad Alisia e ho rimandato per troppo tempo - sembrava essere molto preoccupato per la faccenda, quindi non insistetti oltre.
Così due giorni dopo, zaino in spalla e armi in fodero partimmo con tanto di carretto e mercanzia.
   
 
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