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Autore: imperfectjosie    13/05/2018    2 recensioni
Quelli erano i tempi in cui il seme dell'invidia aveva cominciato a germogliare, piantando radici solide e velenose. Ironicamente, erano anche i tempi in cui aveva sinceramente amato suo fratello e Jerome, allo stesso tempo, aveva amato lui.
| Jerome/Jeremiah | no-slash, no-incest
Genere: Fluff, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Jerome Valeska, Nuovo personaggio
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Fandom: Gotham
Rating: Verde
Pairing: Jerome Valeska/Jeremiah Valeska - NO SLASH
Warnings: Contiene grossi spoilers delle ultime due puntate di Gotham.
Lettori avvisati, mezzi salvati!
Note: Jeremiah ricorda il periodo in cui suo fratello era perfettamente sano. Il periodo in cui erano insieme.
Josie's corner:
  Mia Immagine
D'accordo.
Si comincia con il dire che questa non è una storia a sfondo sessuale. Non si tratta di incesto e non è una slash. Semplicemente un possibile restroscena sul rapporto poco approfondito tra i due gemelli Valeska.
Tipo dei missing moments, ecco così.
Si può collocare verso la fine della quarta stagione, appena Jeremiah viene spruzzato con il gas delirante.
Il mio amore verso il personaggio di Jerome resta immutabile, ed è assolutamente il fratello che preferisco, allo stesso tempo, Jeremiah mi intriga.
Sono curiosa e spero che la serie TV Gotham verrà rinnovata per una quinta stagione! 
PS: Queste storie sono tutte frutto della mia immaginazione, se divulgate da qualche parte, citate la fonte e datemi i crediti.
PPS: Non sono ammessi commenti d'odio nei confronti del personaggio di Jeremiah.
Ognuno di noi ha le proprie preferenze (io per prima) ma cerchiamo di portare rispetto al lavoro di Cameron.
Grazie mille, divertitevi! (:

 

The science of selling yourself short

 
 

Jeremiah aveva sempre avuto una risposta logica ad ogni singola domanda.
Era una sorta di dono, qualcosa per cui, fin da bambino, le persone lo avevano sempre apprezzato.
Jeremiah non credeva alle coincidenze. Sapeva perfettamente che - per riuscire bene in qualcosa nella vita - ci voleva premeditazione, del tempo necessario e una mente fredda.
Quindi perché?
In un mondo dove la soffocante presenza del suo gemello non lo offuscava più, ancora non era in grado di attirare l'attenzione su di sé.
Era sempre stato così. Jeremiah ricordava bene la propria infanzia.
E ricordava, nello specifico, un'unica piccola stanza, spaccata a metà dal chaos e dalla organizzazione maniacale di cui era sempre andato piuttosto fiero.
Se si sforzava un po', poteva ancora vedere la figura di un piccolo Jerome allegro e ridacchiante, osservare rapita due dipendenti del circo litigare in mezzo alla Piazza.
Quelli erano i tempi in cui il seme dell'invidia aveva cominciato a germogliare, piantando radici solide e velenose. Ironicamente, erano anche i tempi in cui aveva sinceramente amato suo fratello e Jerome, allo stesso tempo, aveva amato lui.

«J, dovresti proprio smetterla»
Un ragazzino occhialuto di appena dieci anni se ne stava in mezzo alle scartoffie della sua piccola scrivania, impegnato a tenere le braccia saldamente incrociate al petto e a sollevare un sopracciglio ammonitore verso la sua copia sputata, libera dalle lenti e - sicuramente - dalla pettinata mattutina.
Jerome soffiò un'ultima risatina irriverente, spostando l'attenzione verso il gemello. Poi puntellò i piedi in avanti e sorrise divertito, roteando gli occhi con fare annoiato.
«Andiamo, Miah! Sei un guastafeste!» borbottò, avvicinandosi al viso spazientito del minore.
Si trattava di un solo quarto d'ora, ma per Jerome era abbastanza.
«Mamma si arrabbierà se continuerai con questo atteggiamento» continuò imperterrito, tornando ai suoi fogli.    
Jerome sbuffò sonoramente, raggiungendo la figura seduta di Jeremiah che, per tutta risposta, sollevò lo sguardo fino a incrociare i suoi stessi occhi.
«Comunque non è rientrata ieri notte, dubito le importi qualcosa di chi prendo in giro. Anzi, dubito le importi qualcosa di noi»
«Non dire così!»
«Ascolta-» cominciò, piegando le ginocchia e raggiungendo l'altezza del fratello, che ancora seduto non si era perso neppure un singolo movimento.
Jerome era imprevedibile.
«-Voglio scappare da qui.»
Appunto.        
Jeremiah sgranò gli occhi, aprendo la bocca in una O sorpresa e decisamente spaventata.
«Sei impazzito?»
«Fratellino, sei di una noia mortale!» rimbeccò, arricciando le labbra con finto disgusto.
Jeremiah aggrottò le sopracciglia sulla difensiva, lasciando la presa sulla matita e portando tutta l'attenzione verso il sorriso indisponente del gemello.
Avevano appena dieci anni e Jerome era già - involontariamente - diventato una delle attrazioni più gettonate del circo.
La sua personalità avrebbe potuto riempire un intero capannone. Jeremiah invidiava silenziosamente quel carisma, conscio del fatto che per quanto si sforzasse, sarebbe sempre stato diverso.
«Noi non andremo da nessuna parte» ribatté deciso. Sicuro del fatto che, senza la sua presenza, suo fratello non avrebbe mosso neppure un muscolo.             
Jerome si drizzò con un lamento, allargando le braccia con fare teatrale e tornando verso il proprio chaos, per poi lasciarsi andare a peso morto sul letto.
«Detesto questo posto» decretò, soffocando un'imprecazione poco consona per un bambino della sua età, direttamente contro la stoffa del cuscino malconcio.
Jeremiah abbozzò un leggero sorriso affettuoso. Comprendeva perfettamente il bisogno di evadere del fratello, ma a differenza sua, non avrebbe mai avuto abbastanza coraggio o pazzia, per uscire allo scoperto.
Analizzando i fatti, l'unica cosa a tenerlo bloccato in quel posto infernale, era proprio Jerome.
Avere un gemello, significava avere l'anima spaccata in due metà perfettamente identiche. Ogni cosa che quella testa calda provava, ogni dolore, ogni gioia, i sensi di Jeremiah la percepivano con sincera chiarezza. E reagivano di conseguenza.
Era solo parecchio bravo a mascherarlo. Teneva un sacco di cose per sé stesso.
«J?» azzardò, percependo un leggero senso di colpa farsi strada.
«Cosa?»             
Faceva fatica a capirlo, con la faccia fasciata da tutto quel cotone, ma ogni parola detta da Jerome, sarebbe stata la stessa che la sua mente avrebbe formulato se se ne fosse presentata l'occasione. Perciò ci riuscì.
«Ti voglio bene»
Glielo diceva spesso e non mentiva mai.
Amava suo fratello, nonostante le sue stranezze e il suo carattere implacabile.
Jerome si mosse mostrandogli parte del profilo, condito da un mezzo sorriso carico di inconsapevole, quanto acerbo, magnetismo.
«Lo so. Anche io te ne voglio, fratellino! Ma tieni le tue manacce pallide lontane dai miei pancakes domani mattina!» sentenziò, puntandogli un dito contro con fare minaccioso.
Jeremiah roteò gli occhi al soffitto, spazientito.
D'accordo, avevano appena dieci anni, ma a volte l'immaturità di Jerome rasentava gli anni dell'asilo. Era davvero imbarazzante!
«Piantala! Quei pancakes sono anche miei»
«Nei tuoi sogni, forse» borbottò ironico.             
Jerome possedeva il più raro dei doni. Riusciva a farlo ridere.

 

Ripiombare nel laboratorio sotterraneo che aveva costruito per nascondersi proprio da lui, causò a Jeremiah una forte fitta alla tempia destra.
Capiva bene dove e quando tutto si era trasformato in un incubo colmo di rancore e vendetta. Alla fine, la sua invidia lo aveva portato ad allontanarsi. Ad allontanarlo.
Lo aveva lasciato completamente solo, in mezzo alle bugie e alla desolazione.
Si era perso parte della vita di Jerome. Ironico come invece fosse stato presente durante la sua morte.
Jerome Valeska non c'era più.        
Niente più giochi, niente più sguardi uguali e diversi allo stesso tempo, ma stranamente complici. Niente più litigi, finiti in finte risse sul letto del maggiore, dove Jeremiah perdeva sempre e comunque. Niente più dispetti, pancakes caldi da rubare e nottate passate a consolarsi sotto un'unica coperta, raccontandosi di come la vita sarebbe andata meglio prima o poi, se solo fossero rimasti insieme.
Perché se un fratello era per sempre, un gemello arrivava addirittura oltre.
E da quell'ultima giornata passata insieme a l'altra metà della sua anima, Jeremiah non aveva più riso. Mai più.
«J...» rantolò, tenendosi la testa con entrambe le mani e strizzando gli occhi, mentre l'odore del gas cominciava a lasciare l'aria.
Jeremiah non era pazzo. Non lo era mai stato, riusciva a vedere con estrema chiarezza la differenza tra allucinazione e realtà. Jerome continuava a marcire sottoterra, questo era un fatto logico.
Ma allora, chi era la figura in piedi accanto al suo tavolo da lavoro?
Se ne stava ferma a guardarlo con un sorriso, incrociando i piedi e tenendo un palmo saldo sull'ultimo progetto cartaceo.
Dannatamente familiare.
«Ciao, fratellino»
La voce era diversa. Più adulta, più consapevole... più roca.
«Non può essere» balbettò, sbattendo le palpebre e sollevandosi in piedi con evidente fatica.
Jerome inarcò un sopracciglio, facendo vagare lo sguardo su tutta la stanza, con aria critica e vagamente annoiata.      
«Questo posto mi ricorda il buco in cui siamo cresciuti... beh, la tua parte di buco!» sentenziò, arricciando le labbra rovinate in una smorfia colma di disappunto.
«Dovresti essere morto!»
Ormai stava balbettando, il dito tremante indicava il petto ampio dell'ospite, che si indicò a propria volta.
«Io? Oh sì, lo sono!» annuì convinto «Ma ho chiesto a Crane un piccolo favore» gongolò infine, avvicinandosi con passo ciondolante. Allo stesso tempo, Jeremiah indietreggiava rapidamente, confuso e spaventato.             
Jerome si bloccò, sospirando spazientito e acchiappando una sedia, prima di calciarla nella direzione del fratello, che la agguantò al volo.
«Sta' calmo Miah, voglio solo chiacchierare un po' con te!» spiegò ironico, sistemando un'altra sedia proprio di fronte al corpo scettico dell'architetto, e prendendo posto a sedere con uno sbuffo di sollievo.
«Ti vuoi sedere? Mi innervosisci!» commentò infine, quando alzando lo sguardo dalle proprie gambe, si accorse che il gemello continuava a fissarlo allucinato.
Jeremiah deglutì, aggirando la sedia per poi sistemarsi seduto, di fronte al suo riflesso un po' rovinato.
«Bene!» decretò euforico il maggiore, scuotendo il sedere con emozione e picchiettando i palmi sulle ginocchia.
«Sei un'allucinazione?»
Non sapeva dire dove trovava la forza per parlare, ma ci stava riuscendo comunque.
Jerome lasciò libera una risatina divertita, ruotando la testa e incrociando le braccia al petto subito dopo.             
«Dimmelo tu. Mi chiamavi prima, o sbaglio?» insinuò con tono sarcastico, mentre l'espressione di Jeremiah mutava improvvisamente.
Assottigliò le labbra colpevole, distogliendo rapidamente lo sguardo per osservare un punto imprecisato del muro.
«Stavo ricordando... quando volevi scappare dal Circo. Quando cominciai a capire che sarei sempre stato diverso»
«Così, due giorni dopo, te ne sei andato»
Jeremiah sollevò lo sguardo dal pavimento. Non era solito percepire un tono simile nella voce di suo fratello. C'era amarezza e il verde delle iridi era più scuro, più perso.
«J, ascolta-»             
«Sì J, ascolta» rimbeccò con la sua solita ironia, facendogli apertamente il verso e irritando Jeremiah al punto da farlo scattare in piedi.
Jerome seguì quel movimento con un mezzo sorriso, inarcando le sopracciglia. Come per tutta la sua vita, attendeva paziente che suo fratello dicesse qualcosa.
«Ho sbagliato, d'accordo? Ho detto a mamma un mucchio di cazzate, ti ho fatto del male e probabilmente è colpa mia tutto questo-» si fermò, indicando il volto rovinato di suo fratello.             
Rovinato dalle cicatrici, ma sopra ad ogni segno evidente, dalla vera responsabile di quello scempio: la malattia che lo aveva consumato.
«-ma ero solo un bambino. E avevo paura. Io volevo essere come te, volevo solo che qualcuno mi notasse... volevo solo attenzioni, solo attenzioni... volevo...» tentò di giustificarsi, facendo vagare gli occhi lucidi intorno a sé e lasciando morire la voce in un breve, singolo lamento.
Jerome sgranò appena gli occhi finalmente consapevole. Poi Jeremiah vide quel sorriso allargarsi, fino a scoppiare in una vera, terrificante risata. Osservò il corpo del gemello piegarsi su sé stesso, alla probabile ricerca di un sollievo per il dolore agli addominali
Quando si calmò, il rosso sollevò nuovamente gli occhi verdi verso il volto ormai bianco di Jeremiah.             
«Beh, le hai avute» commentò, alzandosi a propria volta «Convinti dalle tue storielle fantastiche, mi hanno massacrato di botte per anni... ma ehi, potevo sopportarlo» esclamò, sollevando le braccia al nulla e il tono di voce, ormai sempre più carico di risentimento. Di dolore.
«Sai quale è stata la mia vera brutta giornata
Era una domanda retorica, ma Jeremiah avrebbe risposto, se solo Jerome non avesse abortito ogni tentativo di parola.
«Tu mi hai abbandonato.»
E così sigillò nuovamente le labbra, ansimando violentemente alla ricerca d'ossigeno. Sentiva il falso calore della pelle di Jerome quasi a contatto con il proprio e mai come in quel momento, avrebbe voluto che non si trattasse di un'allucinazione.
«Mi dispiace, mi dispiace tanto»
Non riusciva a dire altro, mentre guardava impotente il sorriso del fratello allargarsi, vicinissimo alla propria bocca.             

  
Jerome era sveglio da ormai una buona mezz'ora abbondante, quando si accorse che Jeremiah non si trovava nel suo letto. Anzi, non ci aveva neppure dormito.
Le lenzuola erano intatte, il cuscino non tradiva neppure una singola piega.
Si stropicciò gli occhi, abbandonando la stanza e uscendo in mezzo all'immenso prato che per quel giorno li avrebbe ospitati.
«Mamma?»
Si guardò intorno, alla ricerca della donna. Non che gli importasse davvero, voleva semplicemente sapere che fine aveva fatto suo fratello.
La trovò impegnata a parlottare con un clown, poco lontano dall'angolo dei dolci e sollevò le braccia al cielo rassegnato, prima di raggiungerla.
«Mamma, hai visto Jeremiah?»
A Jerome non passò inosservato il cambiamento di postura, né come i muscoli della madre si fossero tesi quasi fino allo spasmo.
Non sarebbe mai stato intelligente come suo fratello, ma era sveglio abbastanza da notare che qualcosa non andava.  
«È al sicuro» si limitò a dire la donna, lanciandogli un'occhiata fredda e scostante che Jerome incasso senza battere ciglio. O quasi.
Era abituato a quel trattamento, ma faceva comunque male.
Non capiva. Perciò, come tutti i bambini, cercava delle risposte. Aggrottò la fronte confuso. Suo fratello era in pericolo?
«Al sicuro da chi?»
Lila sbuffò un sorriso con sufficienza, incrociando le braccia al petto e guardandolo senza neppure preoccuparsi di mascherare tutto il suo disgusto.
«Da te. Sei malato, Jerome. Tuo fratello mi ha raccontato tutto. E non ti lascerò ammazzare l'unico figlio sano che ho.»     
Il bambino sgranò gli occhi, fino a lasciare che le sopracciglia quasi sfiorassero il rame dei capelli. Mosse la bocca per dire qualcosa, poi pestò i piedi a terra.
«Ma cosa stai dicendo? Io non farei mai del male a Miah!» protestò ansimando, le guance rosse per lo sforzo e la vergogna. Poteva percepire le lacrime affacciarsi avide al verde delle iridi.
Perché sapeva quanto sua madre lo odiasse, ma mai avrebbe immaginato che lo ritenesse addirittura un mostro.
Il suono che seguì quelle parole, fu solo il primo dei tanti che per tutta la sua infanzia lo avrebbero accompagnato.

Jerome cadde a terra, tenendosi la guancia gonfia con una mano tremante e guardando la donna che lo aveva messo al mondo con crescente confusione. Mentre il clown ridacchiava di gusto, la mano di sua madre non si era ancora abbassata e nel suo sguardo poteva percepire il disprezzo aumentare, fino a riempire ogni spazio ancora vuoto.             

 

«J, mi dispiace»
Jerome sospirò, allontanandosi appena e sollevando le braccia sopra alla testa, mutando l'espressione del viso in un modo, che a Jeremiah ricordò distrattamente il fratello perduto. Quello sano, quello divertente. Quello a cui servivano solo una barzelletta e qualche smorfia, per riuscire a farlo ridere.
Si domandava se le parole di Jerome, dette in faccia ad una videocamera, fossero il frutto di un ricordo. Qualcosa che la psicosi non aveva ancora intaccato.
Ti voglio bene.
«Sai, comunque mi hai liberato»
La voce del gemello lo distolse dai propri pensieri. Sollevò lo sguardo in direzione di quel profilo stranamente calmo.
«Cosa vuoi dire?»
«Fratellino, io non sono pazzo. Sono solo libero» spiegò velocemente «E ti ho reso il favore» decretò solennemente, enfatizzando il concetto con un movimento rapido dell'indice.
Jeremiah strizzò appena gli occhi e quando li riaprì, quel sorriso aperto non c'era più.
Sbattè le palpebre un paio di volte, spostando le iridi - ormai di un colore indefinito - alla ricerca dell'anima che gli mancava, ma era solo.             


«Tu non ridi mai»
Una sera d'estate, alla soglia dei suoi 8 anni, Jerome aveva espresso il proprio disappunto, condito con una smorfia piuttosto adorabile.
Jeremiah, steso anche lui sul letto, dall'altra parte della stanza, si accigliò, guardandolo stranito.
«Che vuoi dire?»
«Che non ti ho mai visto ridere. Sei strano» continuò sincero, storcendo la bocca con sdegno.
Il minore si morse un labbro.
Suo fratello aveva ragione. E per colpa delle loro personalità così diverse, non riuscivano a ingannare neppure il più stupido dei clown.
Tutti in quel dannato circo scoprivano immediatamente chi era Jerome.
L'essere così chiassoso, così creativo e pieno di energie. Non c'era persona, adulta o meno, capace di resistere al suo fascino.
Potevano pure essere identici, ma Jeremiah sapeva con certezza quasi matematica, che gli occhi del suo gemello vantavano una sfumatura di verde più intensa.
Lo invidiava, ma solo un po'.
«Io non rido se una cosa non mi fa ridere» proferì solenne, inarcando un sopracciglio.        
Jerome soffocò un lamento esasperato. Si liberò velocemente dalle coperte, poggiando i piedi sul pavimento freddo e avanzando baldanzoso verso il letto dell'altro.
Una volta accanto al corpo di suo fratello, piegò la testa di lato, studiandolo attentamente.
«Beh? Perché mi fissi?» mormorò, tirandosi il lenzuolo fin sotto al naso.
Era come guardarsi in uno specchio più bello. Il viso di Jerome vantava una luce che, nonostante la somiglianza fisica, lui non avrebbe mai posseduto.
Poi, sotto allo sguardo confuso di Jeremiah, il maggiore stirò le labbra in un sorriso. Uno di quelli che, secondo il Signor Cicero, preannunciavano guai.

«Fratellino, d'ora in poi ci penserò io a farti ridere!»             


Un'altra fitta lancinante, ed eccolo di nuovo là, in quel laboratorio.
«J?»
Cercò ancora, muovendo corpo e sguardo verso ogni angolo della stanza semi-buia, ma di suo fratello nessuna traccia.
Jeremiah sospirò, strizzandosi la radice del naso con due dita.
Poi la sua mente si accese ad una piccola, lontana, consapevolezza.
Trascinato lontano da suo zio, separato dall'ombra dell'ingombrante personalità di suo fratello, quella notte, aveva portato via qualcosa. Insieme alla sanità di Jerome, anche una fotografia spiegazzata, rubata a sua madre.
Si affrettò verso il cassetto della scrivania, tirandolo con forza e immergendo le mani in tutte le scartoffie, finché le dita non toccarono la sottile superficie di una polaroid.
Ferma nel palmo della mano, l'istantanea dell'unico momento felice della sua vita, immortalato dal Signor Cicero in persona, nascosto in mezzo ai cespugli poco lontano, su richiesta di Jerome.             

 


«Avanti Miah, ridi!»
«Sei fastidioso, lasciami leggere!»
Jerome inarcò un sopracciglio, sbuffando apertamente. Poco lontano da quell'albero sotto al quale si erano sistemati alla ricerca di un angolino fresco dove consumare la pausa pranzo, un clown del circo se ne stava in piedi, fermo ad ammirare chissà cosa.
L'immaginazione di Jerome galoppò lontano e una lampadina si accese. Mosse la bocca in un sorriso appena abbozzato, ridacchiando sommessamente,
Jeremiah cacciò un lamento infastidito, levando gli occhi al cielo.
«Piantala di fare il buffone e apri un libro!»
Ignorandolo apertamente, Jerome agguantò una mela dal cestino del pranzo, lucidandola sulla maglietta.
«Che cosa stai-?»             
«Ehi, Miah, guarda un po' qui!» sentenziò convinto, bloccando ogni parola del gemello.
Mimando le mosse di un giocatore di baseball professionista, Jerome prese la mira strizzando l'occhio sinistro e liberando il frutto dal proprio palmo con un verso euforico.
Nel preciso momento in cui Jeremiah aggrottò la fronte, il suo sguardo stava già seguendo la traiettoria di quel lancio e sotto agli occhi verdi di entrambi, la mela andò a segno.
Rimbalzando in aria, centrò la testa tonda del clown, che lanciò un grido cadendo a peso morto sul prato. Un secondo dopo, il frutto si arrese alla forza di gravità, franandogli sulla faccia.
Quando l'imprecazione raggiunse le orecchie dei due gemelli, Jerome era già piegato a ridere su sé stesso.
Jeremiah non aveva mai visto un clown arrabbiato in vita sua, mai.
E appena l'uomo urlò il nome di suo fratello, lasciò libera la prima risata della propria vita.    
Voltò lo sguardo verso Jerome, steso a ridere sull'erba e si lasciò completamente andare, notando distrattamente quanto il suono delle loro risate fosse sincronizzato.

Il click di una macchina fotografica investì in pieno il corpo di Jerome sollevato dal clown e quello di Jeremiah, ancora sdraiato e in preda ad una sconosciuta ilarità compulsiva.             

 


Strinse quella polaroid tra le dita, lasciando vagare lo sguardo sul viso di suo fratello, impegnato a fingere un'innocenza che sicuramente non possedeva e poi sul proprio.
Eccola lì, la prima risata che gli aveva promesso. La prima di molte altre.
«J, ti voglio bene.»
«Lo so!»
Jeremiah ruotò il corpo così in fretta, che la fotografia gli scivolò dalle dita.
Ma il laboratorio continuava a restare vuoto.             

        

FIN

 

 

 

 

          

    

    

        

 
  
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