Storie originali > Drammatico
Ricorda la storia  |      
Autore: yonoi    16/05/2018    16 recensioni
Un pomeriggio d'estate, un marciapiedi calcinato dall'afa: un uomo malato e stanco ha scelto proprio quell'ora per andare ad acquistare quello che, nelle sue intenzioni, dovrebbe essere il suo ultimo pasto, da consumare in solitudine per festeggiare una decisione estrema, per chiudere in bellezza. Ma una sorpresa del tutto inattesa lo attende lungo la strada...
Prima classificata al contest "Pillole di rivoluzione" indetto da katniss_jackson sul Forum di EFP e vincitrice del Premio speciale "Best Characters"
Questa storia partecipa alla challenge "Kaku koto, nante jōnetsu! (Scrivere, che passione!)" indetta da Pikapikahoshi sul Forum di EFP
Genere: Malinconico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
banner

Sul marciapiedi c’era un gatto  che salutava

 
“Butterò questo mio enorme cuore tra le stelle un giorno,
giuro che lo farò / e oltre l'azzurro della tenda, nell'azzurro io volerò”
(“La donna cannone”, F. De Gregori)
 
 
            Esco da casa e mi sento già stanco, sfinito ancora prima di mettere il naso fuori e di farmi investire da una luce troppo forte: il sole cade a picco sul marciapiedi, si squaglia come un uovo che qualcuno ha lanciato in mezzo alla strada, dalle terrazze in alto dove ormai è terminato anche il telegiornale.
            Per il caldo l’asfalto si solleva e si spacca, come una vecchia pelle rugosa e troppo stretta. Ai lati della strada, gli alberi hanno le foglie già raggrinzite e arse, simili alle mie mani dalle vene svuotate.
            Le due e mezzo di un primo pomeriggio di agosto: l’orizzonte è una serie di veli abbacinanti che si muovono senza vento. Lungo il viale, una diagonale di auto parcheggiate una accanto all’altra, i finestrini appaiati rimandano all’infinito quel sole a capofitto. 
            Il marciapiedi, sbiancato fino all’osso, somiglia al dorso di un animale preistorico.
            La penombra all’ingresso del take away cinese è un buco nero che si apre all’improvviso, da cui esce un odore ristagnante di fritto.
            La porta è una feritoia, sotto a una lanterna di carta di riso che una volta era rossa. Se non faccio attenzione, mi accoppo mentre scendo i gradini che portano in quel seminterrato di cibi precotti: comunicando i numeri delle pietanze scritte su uno dei volantini sparsi sopra al bancone, ordino a caso qualcosa, i primi tre piatti che trovo in cima al listino.
            Eppure una volta c’erano cibi che mi piacevano: gli involtini primavera, gli spaghetti di soia, poi altro che non ricordo. Io li ordinavo spesso, sempre le stesse cose. La monotonia dei sapori l’ho sempre trovata rassicurante, un po’ come avere un rifugio a cui tornare quando sei triste e stanco.
            Sul banco, un gatto di plastica agita la zampetta. Sorridente e rotondo, al collo ha un nastro rosso con un campanellino, sotto alla coda una pila di qualità scadente: è un portafortuna che dovrebbe servire a richiamare più clienti nel negozio, anche se visto il degrado e il puzzo di fritto rancido, è più probabile che questo buco attirerà prima o poi un’ispezione dei servizi sanitari.
            Dovranno chiudere i battenti, come è capitato a me, anche se io non ho mai gestito un ristorante cinese. Nel mio caso, la saracinesca è scesa all’improvviso in quel lontano pomeriggio nell’ambulatorio del medico militare: le propongo il ricovero, queste radiografie e quella tosse continua vanno indagate a fondo.
            Quello è stato l’inizio, o meglio la scoperta di qualcosa che già stava accadendo da tempo, da qualche parte dentro di me: io ho potuto solo seguirne le tracce mentre si diffondeva, e dilagava ovunque simile a un cono d’ombra che prima o poi mi avrebbe oscurato del tutto. Mi sono sottoposto a ogni sorta di terapia, anche sperimentale, a indagini invasive perdendo anche la vergogna, a tutti i possibili effetti collaterali: la nausea e le flebiti che hanno reso le mie vene come torrenti ardenti, il vomito oppure il cibo che perdeva sapore e diventava simile al cartone o alla sabbia.
            Poi il dolore continuo: bruciante, spaventoso, lancinante, da piangere.
            L’angoscia che potesse ritornare d’un tratto, anche quando non c’era.
            Infine, il congedo anticipato per motivi di salute. Sapevo che era l’inizio di un addio di ben altro calibro: solo per non pensarci me ne sono andato senza salutare nessuno, fuggendo gli sguardi mentre, nel mio silenzio, liberavo l’armadietto nell’alloggio degli ufficiali.    
            Adesso, da uno specchio scheggiato dietro al banco, la mia immagine mi viene incontro, stravolta e spaventata: indosso la stessa tuta sformata da ginnastica, la stessa maglia ormai senza colore da settimane. Ho un bel da dire del locale, senza dubbio sono io a puzzare di più. La malattia sembra avere ringiovanito il mio volto ma è soltanto magrezza, e poi c’è la paura che mi fa gli occhi più grandi.
            Esco dal take away col mio sacchetto di plastica, e una birra cinese con due dita di polvere sul tappo nell’altra mano: il fatto che abbia deciso di acquistare qui il mio ultimo pasto, la dice lunga sulla considerazione che ho ormai di me stesso e su ciò che mi aspetto dal prossimo ciclo di chemio, che dovrebbe iniziare domani. L’appuntamento è alle sette e trenta al Day Hospital, ma per quel che mi riguarda potranno aspettarmi all’infinito: perché io ho deciso di andarmene stanotte e mangerò cinese, anche se probabilmente non sentirò alcun sapore, solo per festeggiare, per chiudere in bellezza.
            Morire non è nulla, mi ripeto per darmi ancora coraggio: è non vivere che è tremendo, e la mia vita ormai è un grumo di dolore che fatica persino a salire le scale per uscire dal ristorante.  
            Non ho rimpianti, dentro di me, solo una sensazione infinita di vuoto.
            Eppure, poco prima di uscire e riprendere la mia fatica sul marciapiedi, qualcosa mi spinge a voltarmi: è il desiderio di portare con me un ricordo, persino di quel sotterraneo così lurido e cupo.
            Lo abbraccio con lo sguardo, sono le mie ultime ore e non lo rivedrò mai più.
            Il gatto portafortuna, con la sua pancia di ceramica tonda e due virgole sorridenti al posto degli occhi, è ancora là che saluta. 
******

“E con le mani amore, per le mani ti prenderò
E senza dire parole nel mio cuore ti porterò…”
(“La donna cannone”, F. De Gregori)
 

            In strada mi viene incontro un cielo di cenere, un vento rasoterra che gira su se stesso, levando mulinelli di cartacce e foglie secche: preludio di un temporale che per ora è soltanto un intrico di lampi e tuoni ancora lontani.
            L’umidità è un velo che si appiccica in faccia, pare di camminare scostando ragnatele.
            In breve, grosse gocce cominciano a cadere, sudate e unte di polvere: ed è in quel momento che passando vicino a un cassonetto dal fetore fermentato dal caldo, qualcosa sbuca fuori e attira la mia attenzione.  
            È un gatto magro e sghembo, dal pelo così ispido che pare filo spinato: rosso con i calzetti e il petto tutto bianco avanza saltellando, reggendosi sulle zampe di dietro e una davanti. L’altra la tiene ripiegata e raccolta, e un po’ somiglia al portafortuna dei cinesi: soprattutto perché quando si ferma ad annusare il sacchetto del take away, ha la stessa espressione compiaciuta e beata di quel gatto di plastica, gli stessi occhi a mandorla.
            La zampetta rimane levata come un saluto quando il micio si ferma: si siede su una coda ridotta a un mozzicone e ancor prima che io mi decida ad aprire uno dei cartocci, per cavar fuori un grosso gambero in agrodolce, si lecca i baffi rotti, storti o semplicemente piantati là a caso, come fili di ferro.
            Quando il gambero arriva, si drizza tutto sulle zampette posteriori: e io che vorrei allungargli solamente un boccone mi trovo derubato di tutto il pezzo intero, mentre lui salta rapido sul tettuccio di un’auto, sparisce chissà dove con la sua preda in bocca poi di nuovo ritorna, leccandosi i baffi con una lingua così soddisfatta e lunga che con un solo giro si lava tutto il muso.   
            E’ decisamente il gatto più brutto e male in arnese che io abbia mai visto. Così simile a me, che direi che anche il puzzo che ha appiccicato addosso, di vecchio cassonetto cucinato dal sole, è praticamente lo stesso: l’odore della mia pelle avvelenata dalla chemio.
            Riprendo a camminare, ma dopo un po’ ho di nuovo la netta sensazione di essere seguito.
            Mi volto ed è ancora lì: con la zampina morta pare quasi far cenno, e domandarne ancora.  
            Un gambero dopo l’altro, mi segue fino a casa: di più, non appena giro la chiave nella toppa, il lestofante s’infila come se fosse casa sua. Mentre la pioggia inizia a scrosciare con un fragore da mareggiata, aprendo gli occhi dei lampi e lasciando cadere i tuoni sul marciapiede, io e il gatto sul divano finiamo di spartirci il contenuto dei cartocci, come due bravi complici.
            Ci lecchiamo le dita e i baffi, in comune abbiamo gli abiti e il pelo stazzonato, forse anche gli occhi verdi: un pezzo di coperta sulla groppa e sulle ginocchia, che si è fatto un po’ fresco. Poi, quando la pioggia ha finito di cadere, la sorpresa del cielo che si fa chiaro e bello, l’odore della terra bagnata che sale in alto, forte e rinvigorente.
            Acciambellato al mio fianco, là dove un dolore nuovo incominciava a farsi sentire proprio in questi giorni, il gatto ha avviato un motorino di fusa. Probabilmente sogna, perché con le zampette fa un movimento simile all’impastare il pane: lo fa con delicatezza, ed è un massaggio dolce sul mio dolore.
            La quiete della notte ci avvolge con un odore di salsedine: come se fosse mare quel fruscio che ora passa tra le fronde degli alberi, simile ad una mano sopra a una fronte stanca.
            Il micio in realtà continua a puzzare come una discarica: da parte mia, ho atteso proprio quest’ultima sera per farmi tornar la voglia di entrare nella doccia, e ora quel tanfo rancido che il mio amico randagio ha appiccicato al pelo si sente anche più forte.
            Ma a riempire la casa è il mio odore di buono, di pulito, di forza.
            Mentre il gatto inizia a ronfare più forte, a metà tra una locomotiva e un trattore, io mi levo dal letto: lascio entrare la notte dalla finestra aperta, guardo le stelle aprirsi un varco tra le luci fredde della città.
            E penso che in cucina dovrei avere del latte, un po’ di latte da lasciargli domattina, in un piattino prima di recarmi al Day Hospital.

 
             “… E senza fame e senza sete
e senza ali e senza rete voleremo via…”
(“La donna cannone”, F. De Gregori)
  
Leggi le 16 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Drammatico / Vai alla pagina dell'autore: yonoi