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Autore: Iryael    17/05/2018    1 recensioni
Aprile 5396-PF, Veldin, Kizyl Plateau
A Lilith, dopo una penitenza finita male (ma che poteva finire malissimo) non resta che cercare qualcosa a cui aggrapparsi per arrancare senza esplodere.
A Sikşaka, dopo una serata cominciata apatica e finita dolorante, non resta che salvare il salvabile lottando contro il senso di responsabilità.
Nessuno dei due crede che si arriverà a un terzo incontro. Ignorano che, negli anni a venire, di quelli ne perderanno anche il conto.
È tempo di spacchettare i keikogi.
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[Galassie Unite | Scorci | 6 anni prima di Rakta]
[Personaggi: Nuovo Personaggio (Lilith Hardeyns, Sikşaka Talavara)]
Genere: Azione, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nuovo personaggio
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ratchet & Clank - Avventure nelle Galassie Unite'
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[ Epilogo ]
Primi passi
Il giorno dopo, 26 aprile 5396-PF
Ore 9:30 circa
Settore sud, scuola media “Jane Lynch”, segreteria
 
«Tu...cosa?!»
Le orecchie di Karen si abbassarono vistosamente. Lo sapeva. Lo sapeva! Quando la ragazzina arrivava in segreteria erano rogne in più da sistemare. E quella mattina era entrata dritta sparata (in un giorno di sospensione!) con il piglio strafottente che di lei tanto detestava.
«Ho detto che ti licenzio.» scandì ancora Lilith, candida come un agnellino. «Significa niente più ripetizioni.»
E quell’idea, poi!
«Oh, non dire stupidate! Tu hai bisogno di qualcuno che ti faccia studiare.»
«L’ho già trovato. Ho già l’appuntamento.»
Ah, quindi è di nuovo questa storia. «Sicuramente tuo padre non approverà. Sa benissimo che quel po’ che rendi è merito mio, perciò non farmi perdere tempo. Verrò oggi alla stessa ora.»
Credeva di aver sistemato la faccenda; che quello fosse solo un bluff. Lilith, sentendosi sminuita da quel tono, sentì venire meno il proposito di essere gentile. Mormorò un «Vaffanculo» a denti stretti, dopodiché si costrinse a ritentare.
«Guarda che non scherzo.» avvisò, senza più traccia di leggerezza nella voce. A quel punto allungò la mano, aperta verso l’alto, oltre il bancone. «Ridammi le chiavi di casa.»
La donna, finalmente, capì che quello non era un tentativo a vuoto. Collegò le sue frasi alla visita di quell’insegnante delle elementari, ed allora esplose in tutto il suo disprezzo. «Credi sul serio che quel povero diavolo avrà la mia pazienza? Ti pianterà in asso fra una settimana, come tutti gli altri.»
Lilith sorresse il suo sguardo, rendendogliene uno altrettanto sprezzante. «O magari i miei voti miglioreranno, e finalmente anche papà capirà che non vali niente.»
«Lascia perdere Aaron.»
«È mio padre; ne parlo quanto mi pare.» la rimbeccò. Poi rinnovò il cenno con la mano aperta. «Mi ridai le chiavi? O vuoi farmi stare qui ancora tanto?»
La donna, palesemente irritata, afferrò la borsa da passeggio che teneva sotto il bancone. Vi frugò per qualche istante, ma con disappunto di Lilith ne tirò fuori un chatter.
La chiamata fu breve ma intensa. Alla fine, tuttavia, il palmo di Lilith rimase vuoto.
«Le devo tenere.» asserì Karen, lapidaria. «Per quando tornerai a chiedere aiuto.»
La ragazzina ritirò la mano e la mise in tasca. «Non tornerò a chiederti aiuto.» rispose a denti stretti. Poi, senza aggiungere altro, girò i tacchi e se ne andò. La campanella risuonò in tutto l’edificio nel momento in cui uscì.
«Col cazzo che tornerò da lei.» promise a se stessa. «Piuttosto smetto di studiare.»
* * * * * *
Il pomeriggio arrivò presto, tutto sommato. Venne il momento di riprendere in mano la cartella e riempirla coi libri per la prima lezione. Erano già impilati sulla scrivania; bastava solo metterli dentro. Solo che, come impugnò lo spallaccio, non poté fare a meno di guardare gli aloni grigio fumo che ne deturpavano i colori. Quattro giorni prima, al posto degli aloni, c’erano stati cazzetti ed insulti. Se osservava con un po’ di attenzione poteva ancora leggere la parola “perdente”, che qualcuno aveva scritto in bella vista sopra la fibbia.
Strinse i denti, sentendo la rabbia riaccendersi in un soffio. La sentì infiammarle i visceri ed esplodere, totalmente indomabile. Non era solo per la cartella, nuova e irrimediabilmente rovinata, ma per l’offesa: ognuno di quegli aloni era una cicatrice fresca, il marchio indelebile di una beffa alle sue spalle. Tratti diversi significavano persone diverse; dunque almeno sei dei suoi compagni si erano presi gioco di lei. E lei odiava terribilmente essere derisa.
«BASTARDI!»
Scagliò la cartella fuori dalla stanza, la guardò sbattere a terra e strusciare poco più in là. Continuò a fissarla per qualche istante, prima di andare a gettarsi faccia in giù sul letto. Cercò di calmarsi controllando la respirazione, come le aveva insegnato suo padre.
Un minuto più tardi, quando riemerse dal riposo forzato, si limitò a portare una sedia davanti all’armadio. Spalancò le ante e rovistò sul ripiano più alto, là dove stipava gli abiti che non indossava più. Ne tirò fuori una vecchia sacca, dai colori non più brillanti e dall’aria vissuta. L’aveva usata fino a qualche mese prima, prima di farsi regalare quella che ora giaceva in mezzo al corridoio. Era infantile, ma almeno guardarla non la faceva incazzare.
Scese dalla sedia e lanciò un’occhiata alla sveglia sul comodino. Karen aveva detto che sarebbe passata, no? Quindi non aveva più tempo di mettere a posto se voleva evitarla.
Riempì la sacca in fretta e furia, arraffò le chiavi e lasciò l’abitazione.
* * * * * *
Quella visita nei bassifondi fu ancora diversa dalle due che l’avevano preceduta. La prima, notturna, l’aveva lasciata con tante emozioni negative. La seconda, sebbene diurna, era stata dominata dalla lotta interiore fra “vado avanti” e “torno a casa”. In nessuna delle due Lilith si era presa la briga di alzare lo sguardo dal piano strada, ma quella volta lo fece. La sequela di insegne non le lasciò altro che l’idea che i bassifondi fossero una cittadina nella cittadina. Non c’erano negozi di lusso né vetrine luccicanti per l’eccessiva pulizia, ma c’era di tutto. Nella via centrale oltrepassò le porte di una fumetteria, due edicole, un’armeria, tre minimarket, una lavanderia automatica, un centro per le analisi mediche, una profumeria, un negozio di articoli pirotecnici, uno specializzato negli articoli Gadgetron, una libreria, due caffè e un sexy shop. Poi dovette svoltare, ed allora i negozi lasciarono posto ad abitazioni piccole e anonime. Il mattonato, come parte degli intonaci, era sbreccato qui e là. Vecchi manifesti riempivano i muri assieme alle opere di qualche writer e l’odore in certi punti era acre. In quei tratti accelerava il passo, chiedendosi cosa diamine producesse un tanfo del genere.
Era quasi arrivata quando, all’improvviso, le saltò all’occhio un angolo formato da vetrate a scaglie rosse e gialle. La riconobbe all’istante, ancora prima di notare il tizio che – con lo strofinaccio su una spalla – fumava indolentemente su una sedia approntata nel vicolo.
Urgh. Il Guercio. Non voglio parlarci. – realizzò storcendo il naso. Senza pensarci due volte svoltò nel primo vicolo laterale e s’infilò in una viuzza parallela a quella bloccata dal barista.
Camminò per una trentina di passi, guardandosi intorno come una turista, quando un dettaglio sul muro attirò di prepotenza la sua attenzione. Su un manifesto sbiadito c’era una traccia nera, quasi una macchia, sputata intorno ad un foro grosso come il quadrante di un orologio. C’era una cosa simile anche sul bordo del manifesto e, guardando con attenzione, se ne vedevano diverse lungo il muro, ciascuna a distanza sempre più ampia dalla precedente.
La ragazzina si bloccò. Aveva visto abbastanza telefilm da saperli riconoscere per quello che erano: fori di proiettile. Rimase immobile, incapace di reagire per alcuni istanti. Se quella era la dimensione del proiettile, l’arma doveva essere grande almeno quanto lei. E chiunque l’avesse usata l’aveva fatto in un posto largo appena quanto una vettura.
All’improvviso l’idea di incrociare il Guercio non la scazzò più di tanto.
Tornò sui suoi passi.
* * * * * *
Fu così che per la seconda volta scese i gradini che portavano al portoncino sottostrada. Quella volta, però, non era divorata dal dubbio e dall’imbarazzo. Era decisa a cacciare Karen dalla sua vita ed era sicura che quella fosse l’occasione da cogliere.
Suonò il campanello ed attese. Sikşaka l’accolse con gentilezza e l’accompagnò nuovamente in cucina.
«Ebbene ci siamo.» esordì. «Il primo giorno di ripetizioni.»
«E il primo di allenamento. Senti: come l’hai convinto mio padre?»
«Be’, è stato semplice. Nessuno dei due ha parlato di allenamenti.»
«Cosa? Non gliel’hai detto?!»
Cominciavano proprio bene, si disse il maestro di spada.
«No.» asserì ancora. «Gli ho assicurato che ti avrei aiutato a recuperare i voti a scuola, ed è quello che faremo. È questo che conta. Il resto viene dopo.»
Lilith non rispose. Storse la bocca e si diede della scema.
«Mi sembra ovvio.» borbottò. E lo era. Se suo padre avesse saputo, col cavolo che non avrebbe detto nulla. L’avrebbe torchiata in maniera insopportabile, ecco cos’avrebbe fatto.
Sikşaka assistette alla metamorfosi espressiva con una certa perplessità. Aveva già testato la sua velocità nelle reazioni emotive, ma quel passaggio dall’euforia alla depressione lo colse comunque di sorpresa.
«Lilith, capisci che non potevo parlargli a ruota libera di come avrei associato ad ogni ripetizione una caterva di lividi sotto il tuo pelo. Perché un allenamento alle prime armi comporta esattamente questo: lividi e dolori muscolari.»
«Me l’hai detto. E poi guarda che non ce l’ho con te. Neanch’io gli ho detto dell’allenamento. È solo... ce l’ho con lui. Con papà.»
Il maestro abbassò leggermente le orecchie, irrigidendosi all’improvviso. L’attimo dopo rise di se stesso: sapeva combattere, usare le spade, uccidere e trattare coi peggiori delinquenti della galassia... e una ragazzina con le sue pene da preadolescente lo metteva in difficoltà.
Urgeva allontanarsi da quel campo minato.
«Che ne dici di dimenticarci di tuo padre?» propose. «Se tutto ciò che conta per lui è il risultato scolastico, noi occupiamoci di quello. Un mese è poco tempo, e a quanto so la tua situazione non è proprio rosea. Parliamo di quella.»
La ragazzina spostò lo sguardo. “Non è rosea” era una definizione molto zuccherosa.
«Ho tre materie sotto. Matematica, scienze e lingue.» ammise. «Ma sono insufficienze lievi.»
«Va bene, noi cercheremo di portarle a sufficienze. Hai ancora i saggi e le interrogazioni di maggio... quelli di aprile li hai già dati?»
«Ho dato solo il test di lingue. Il resto deve ancora venire.»
«Quando? Sai le date precise?»
«Nelle prossime due settimane, immagino.»
Sikşaka la guardò scrollare le spalle e sospirò silenziosamente. Be’, salvare aprile si presentava come un’impresa bella ardua. Però potevano tentare.
«Oggi cosa ti sei portata?»
«Scienze.»
«E allora parliamo di scienze. Quale argomento state trattando?»
 
Seguirono due ore abbondanti di spiegazioni, appunti e schemi. Fu per lo più l’imitazione di una lezione frontale, in cui Sikşaka dovette stuzzicare Lilith con domande come “hai capito?” o “mi segui?” per farsi un’idea accettabile delle nozioni della ragazzina.
Le lacune di lei emersero impietosamente; soprattutto nei momenti in cui il maestro, cercando di coinvolgerla, le chiese di anticipare le reazioni che l’applicazione di questo o quel concetto avrebbero generato nella realtà. Alcune risposte si rivelarono semplicemente incomplete; altre invece completamente sbagliate fin dalle fondamenta.
Alla fine il maestro dovette ammettere a se stesso che le parole della segretaria, per quanto acide, non erano proprio campate per aria. Lilith era sicuramente un’alunna che aveva bisogno di apprendere meglio le nozioni insegnate e, al contempo, moderare quell’aria di perenne scazzo che aveva in faccia. Non era irreparabile ma, allo stesso tempo, si prospettava un mese di lavoro senza tregua.
In quel momento, però, il parquet attendeva. E, in fondo, anche lui aveva voglia di ricominciare a insegnare l’arte delle lame.
A pianificare le lezioni ci avrebbe pensato dopo.
* * * * * *
La prima cosa che saltò agli occhi di Lilith, entrando in palestra, fu la parete tappezzata di armi bianche. Sull’intonaco c’erano affisse spade, lance, archi, coltelli e asce. C’erano metalli variopinti, c’erano lame dalle fogge assurde e impugnature che spaziavano dal pratico al barocco andante.
Al centro, però, c’era un’arma che risaltava per la sua semplicità. Una spada a un filo solo. La lama scintillava come uno specchio, l’impugnatura era senza fronzoli e dal pomolo scendeva elegantemente un drappo rosso. Per qualche motivo la ragazzina provò l’impulso di impugnarla.
«Ah, vedo che Rakta ha già compiuto l’incantesimo.» commentò Sikşaka, entrando in palestra in quel momento. La sua voce conteneva una nota di divertimento.
La ragazzina s’irrigidì e la sua espressione, dopo un primo momento, si fece stranita. «Hai dato un nome alla spada?» domandò, indicandola.
«Anzitutto quella è una scimitarra.» puntualizzò. «E poi ogni arma ha un nome; glielo assegna l’armaiolo. Il bello di quelle forgiate a mano è che hanno nomi più poetici di una sigla serigrafata in fabbrica.»
Lilith, allora, gli indicò un’altra arma: un’alabarda dalla lama forata e dal metallo verdolino. «Quella come si chiama?»
«Narni’i’tbal. Una parola che si traduce grossomodo come Foglia che Danza.»
«E quel nome di prima, Rakta, che significa?»
Sikşaka portò lo sguardo sul filo curvo della scimitarra. La voce gli uscì addolcita da un qualche ricordo. «Il mio maestro ha sempre detto che significa Sangue.»
La ragazzina storse la bocca. «Alla faccia della poesia.»
L’altro scrollò le spalle e alzò le mani, come per dire “e io che posso farci?”. «Si vede che il suo armaiolo era un ermetico. Chi lo sa.»
* * * * * *
«Va bene, ripercorriamo quello che è successo.» asserì Sikşaka dopo un breve riscaldamento. «Adesso io fingerò di essere te, e tu farai finta di essere l’aggressore. Descrivimi quello che ricordi.»
Lilith inghiottì un bolo di saliva. Avrebbe preferito di gran lunga partire da un caso generico. L’idea di ripercorrere quei momenti le riempiva lo stomaco di sassi e le rammolliva le gambe. Tuttavia si fece coraggio, e questo fu visibile dal modo in cui strinse i pugni.
«Camminavo.» esordì. «Ero uscita dalla SoftHouse e tornavo indietro. Ero nella via con il negozio di strumenti musicali. Lui è arrivato da dietro e mi ha afferrato.»
Sikşaka annuì. «Okay. Fammi vedere come.» E le diede le spalle.
Lilith, seppur titubante, si avvicinò alla sua schiena. Gli abbracciò la vita facendo passare il braccio destro fra il torso e il braccio di Sikşaka, mentre con la mano sinistra gli avvolse la parte inferiore del volto.
«Hn. E tu camminavi normalmente?»
Sentendo il fiato contro il palmo, la ragazzina lasciò subito la presa. «Io...sì, normale.» replicò, senza capire davvero il punto della domanda. Forse intendeva la velocità di andatura?
«È strano. Se avesse voluto impedirti i movimenti avrebbe dovuto evitare di lasciare libero il braccio.» obiettò lui. «Avrebbe dovuto afferrarti così.» La fece girare e poi chiuse le braccia attorno al suo torso, includendo nella presa gli arti della ragazzina. «Anche se ubriaco questa è la base. Anzi, il modo più immediato. Proprio perché ubriaco avrebbe dovuto usare questo.»
Lilith capì, finalmente, il senso della domanda che le aveva posto poco prima.
«Io... ehm... cammino con le mani in tasca.» ammise, imbarazzata.
«Ah!» esclamò, sorpreso. «Questo spiega tutto!»
La lasciò andare, quindi rimise un passo di distanza fra di loro. «Tu camminavi per la tua strada, mani in tasca, pensando ai fatti tuoi. Lui è arrivato da dietro e ti ha afferrato come mi hai fatto vedere prima. E poi?»
«Mi ha trascinato là.»
Il maestro di spada immaginò che l’avesse fatto camminando all’indietro: in questo modo la ragazzina sarebbe stata sbilanciata e non avrebbe potuto fare resistenza, braccia libere o no.
 
«Bene, rimaniamo sulla stretta.» disse. «Rifammela, ma stavolta più convinta. Cerca proprio di bloccarmi.»
Le diede di nuovo le spalle. Lilith, incerta ma desiderosa di apprendere, lo strinse di nuovo; stavolta mettendoci più forza.
«Ovviamente il rapporto di altezze è invertito.» asserì il maestro, piegandosi sulle ginocchia fino ad arrivare all’altezza del naso della ragazzina. «È più corretto così?»
«Credo di sì.»
«Benissimo. Allora fingi di essere quel tipo e di volermi trascinare via.»
Lilith ci provò. Spostò la gamba, poi il maestro di spada diede un violento strattone verso sinistra, trascinandola con sé. L’istante dopo il braccio destro aveva compiuto la rotazione necessaria ad affibbiarle una gomitata sulla mascella, causandole più sorpresa che dolore. Allentò la presa, e lui sfruttò il momento per allontanarsi di qualche passo.
«Ecco, questa è una possibilità. Lo cogli di sorpresa, lui allenta la presa e tu fuggi.» spiegò. La ragazzina, istupidita dalla velocità dell’azione, si massaggiò la guancia.
Era stato fulmineo.
«Il tuo obiettivo è mettere quanta più distanza possibile fra te e lui prima che lui si riprenda. Quindi.» spiegò ancora. «Io mi sono regolato, ma quella gomitata deve fare male. Non può essere debole, perché più è debole e prima l’aggressore si riprenderà. Senza contare che una preda che si ribella generalmente fa arrabbiare.»
La ragazzina annuì più volte. Doveva fare male, capito.
«Adesso ti faccio rivedere la tecnica al rallentatore. Tu guarda nello specchio.» E indicò a lato. Lilith si concentrò per la prima volta sulla parete che divideva la palestra dal corridoio e incrociò la propria immagine.
«C’è sempre stato?» domandò, incerta. Era una domanda stupida, ma avrebbe giurato che lì ci fosse del comune vetro.
«Oh, è unidirezionale.» spiegò Sikşaka. Poi, con un misto di nostalgia e orgoglio aggiunse: «Il mio maestro era un perfezionista e un maniaco del controllo. Era il suo segreto: così poteva controllarci dal corridoio quando pensavamo che stesse facendo i fatti suoi.»
L’attimo di nostalgia finì lì. Subito dopo la incitò a riprendere il lavoro e Lilith, stavolta guardando nel riflesso, afferrò nuovamente l’adulto intorno alla vita e al volto.
«Prima pieghi leggermente le ginocchia.» E batté due pacche lievi sulla coscia. «Non tenere le gambe né troppo rigide né troppo piegate, come me adesso, sennò non riuscirai a reagire in maniera ottimale. Poi afferri la mano che copre la faccia. Se è la sinistra usi la sinistra, se è la destra usi la destra.» E agganciò la mano sinistra su quella della ragazzina, esattamente a metà fra l’attaccatura del pollice ed il polso. «Vedi? Non è semplicemente appoggiata, ma è semichiusa. Poi fai due movimenti insieme: tiri verso il basso la mano che hai afferrato e meni la gomitata. Un braccio va giù e l’altro va su, e intanto ruoti il torso.»
Si mosse lentamente, eppure a Lilith parve lo stesso troppo veloce. Si sentì tirare verso sinistra, poi sbilanciare definitivamente dal tocco del gomito che – era fuor di dubbio – se l’avesse presa a piena velocità l’avrebbe quantomeno rintronata.
Mimarono quel punto alcune volte; poi, quando Lilith si abituò e credette che la pantomima sarebbe continuata ancora una volta, Sikşaka la sorprese scattando in avanti. Saltellò per un paio di passi – imitazione anch’essa al rallentatore di una corsa – e concluse: «Infine approfitti dell’allentamento della presa per allontanarti e scappare. Dato che il tuo avversario è solo stordito è essenziale che la fuga avvenga a tutta velocità e senza perdere tempo a guardarti alle spalle.»
Lilith arricciò il naso. Non guardarsi alle spalle le suonava giustissimo e, allo stesso tempo, sbagliato nella più assoluta delle maniere.
«Ma se quello materializza un’arma mentre scappo...» obiettò. «Mi spara fra le spalle e buonanotte.»
Sikşaka rimase silenzioso per un istante. Vero: ciò che la ragazzina aveva appena detto era vero. In certi ambienti era il minimo che potesse capitare.
«Infatti non ho detto che questo è l’unico metodo. È una possibilità, ma sta a te valutare l’aggressore. Se è un tuo coetaneo può andare, se è un omaccione grande e grosso è difficile che sia sufficiente.»
«E se è un omaccione grande e grosso?»
Sikşaka la squadrò con un’occhiata. “Grande e grosso”, per la stazza della ragazzina, poteva essere una qualunque corporatura media.
«In questo caso ci vuole qualcosa di più aggressivo. Ti faccio vedere: avanti, ricominciamo.»
Di nuovo davanti allo specchio, di nuovo piegato in modo da apparire più basso, di nuovo con le mani in tasca, Sikşaka si lasciò afferrare da Lilith, che strinse con convinzione. Allora, proprio come prima, il maestro tirò fuori le mani d’in tasca e con la sinistra agganciò il carpo della ragazzina. L’istante dopo cercò di sgusciare da quella parte, ma non forzò la fuga: si fermò repentinamente e aprì come un colpo di frusta il gomito destro, assestando di fatto un pugno sui genitali di Lilith. La ragazzina si piegò istintivamente in avanti e, allora, l’adulto scalciò colpendole il ginocchio destro. La presa andò a farsi benedire e Sikşaka balzellò in avanti, mentre Lilith – orribilmente vicina a battere una panciata per terra – recuperò l’equilibrio sbracciando.
Il maestro di spada si fermò e voltò verso la sua allieva con un sorriso bonario. «Ovviamente, se ci metti la dovuta forza, il tuo aggressore si ritrova con la faccia per terra. Prima che finisca di vedere le stelle e che si rialzi tu avrai tutto il tempo di correre via.»
Lilith tirò le labbra. Questa soluzione le piaceva molto di più della prima. Le dava l’idea di qualcosa di più sicuro.
«Possiamo provare solo questa?»
Sikşaka non rispose subito. «Ne sei sicura?» chiese, volendo vedere in che modo la sua allieva ragionava.
Lilith storse il naso. «Andiamo, mi hai guardato bene? Non arrivo a cinquanta chili. Posso metterci tutta la forza che voglio, ma con la gomitata da sola quello mi riprende in un attimo. E poi anche il mio coetaneo può essere armato.»
Vabbé, forse di pistola a pallini. – pensò scetticamente l’altro, bollandola come sparata grossa. Faceva la prima media, aveva undici o dodici anni. A quell’età era difficile che sparassero già.
Però quel ragionamento pratico era buono. Gli piacque.
«Molto bene: proviamo.»
Si rimisero davanti allo specchio e Lilith si concentrò sui movimenti del maestro. Lo vide afferrarle la mano proprio come aveva spiegato prima: mano sinistra sulla mano sinistra, in quella presa fatta come un gancio.
«Questo è il primo passo, proprio come prima.» spiegò lui. «Poi: strattone nella stessa direzione.» E mimò, trascinando Lilith sulla gamba sinistra. «Poi: frusta col braccio libero; in questo caso il destro.» E mimò, aprendo di nuovo il gomito e assestando un colpo ai genitali della ragazzina, che di nuovo, istintivamente, si piegò in avanti. «E infine: calcio del mulo per spingerti via dalla sua presa.» e, poggiato il piede al ginocchio della ragazzina, spinse forte. Lilith se lo sentì scivolare via dalle mani e, al contempo, sentì di star perdendo l’equilibrio. Fu solo grazie alla lentezza della dimostrazione che lei poté aggrapparsi alle spalle di lui e rimanere in piedi dopo il calcio.
«Ricordatelo: il calcio ha due funzioni. La prima è darti la spinta e la seconda è togliere equilibrio.»
«Dare la spinta. Forte. Capito.» riassunse lei.
«Ripetimi a voce il processo e intanto mimalo. Aiutati con lo specchio, se serve.»
La ragazzina storse la bocca. Che senso ha liberarsi dal vuoto?
In realtà la domanda non era quella. Non era neanche una domanda, a ben guardare. Era più un agglomerato di ridicolo e di vergogna che attendeva in fondo allo stomaco. Lilith avvertiva la sua presenza come avvertiva l’odore del parquet: costante, di sfondo e – se fosse stata una cosa viva – in agguato.
Nonostante questo, però, si mise in posizione. Quella era la consegna e quello avrebbe fatto (o, almeno, avrebbe provato a fare).
Inchiodò gli occhi sul suo riflesso, agganciò con la mano sinistra l’invisibile polso dell’aggressore inesistente e... la bestia sul fondo dello stomaco scattò. La pervase all’istante, accalorandole le guance e rendendo legnosi i movimenti.
Sikşaka la osservò attraverso lo specchio, in silenzio, senza fermarla o correggerla. Lo strattone fu un passo laterale. La frusta di braccio fu un movimento lento e molle, privo di qualsiasi spirito. Quanto al calcio del mulo: per come il peso del corpo rimase sul piede d’appoggio somigliò più ad un esercizio di corpo libero che al gesto tonico e repentino che doveva essere.
«Cosa ti blocca?» domandò alla fine, dopo quella che giudicò una tra le mimiche più brutte della sua vita.
La ragazzina lo sorprese con la sua schiettezza. «Non ce la faccio. Mi sento troppo stupida.» ammise guardandolo dritto negli occhi.
Occhi che il maestro aveva già visto in adulti grandi e grossi. Occhi che dicevano “non voglio essere giudicata pazza”.
Riconobbe l’essenza del problema e raccolse la pazienza. Serviva tempo per passare quella fase.
«Non sei stupida. E nessuno qui ti giudica pazza: né io né, tanto meno, il tuo riflesso.» Insieme a quell’ultima parola accennò con un gesto allo specchio unidirezionale.
La ragazzina portò gli occhi sul suo ritratto. Sulle mani che si spostavano leggermente per via della respirazione, sulle spalle ossute e, in ultimo, sullo sguardo incerto. Forse il suo riflesso non la giudicava, ma lei giudicava se stessa. E il giudizio era tanto aspro quanto impietoso.
«Vedi: lottare con un nemico immaginario ti permette di interiorizzare i movimenti. E questo è fondamentale.» spiegò Sikşaka. «Quanto all’essere giudicati credimi: nessuno guarda all’estetica quando deve salvarsi la coda.»
Lilith strinse le labbra, raggrinzendole in una smorfia pensierosa. Lo sguardo e le orecchie si abbassarono sensibilmente. Era tutta una bella teoria, ma non le levava di dentro il fatto di sentirsi una povera idiota.
Sikşaka, guardandola, capì che il suo discorso non era penetrato. E allora ripiegò sul metodo da maestro elementare. Si posizionò di fianco a Lilith, a qualche passo di distanza, e osservò il proprio riflesso per un istante. Poi si batté le mani sulle cosce.
«Lo rifacciamo, dai. Stavolta in sincrono.­­»
Le orecchie di Lilith tentennarono. Le sopracciglia si alzarono in un’arcata piena di stupore. Sul serio lui, il maestro, si stava abbassando al suo livello?
«Mi raccomando: se hai difficoltà segui i miei movimenti allo specchio.»
Si rispose che sì, lo stava facendo davvero. Era al suo fianco, davanti allo specchio, a fare il cretino – o interiorizzare i movimenti che dir si volesse. E allora, fra le costole, sentì germogliare qualcosa di benefico. Qualcosa che cancellò lo stupore e portò un lieve sorriso. Qualcosa che bruciò i freni interiori e le infuse la voglia di riprovarci; non più osservata dall’alto in basso, ma da pari.
Sentendo silenzio, il maestro la scrutò attraverso lo specchio. Il cambio d’atteggiamento era ben visibile sui suoi lineamenti.
«Cominciamo?» domandò con gentilezza.
«Sì. Sono pronta.»
 
Era il 26 aprile 5396 quando cominciarono il primo allenamento. Entrambi pensavano che non sarebbe stata una cosa duratura: qualche mese, forse, non di più. Eppure non avrebbero smesso che anni dopo, quando Lilith si imbarcò sulla USS Ferox.
Ma ciò che portò la giovane lombax sull’incrociatore stellare è un’altra storia. Una storia di ladri e magie, di dèi, di controllo mentale, di rivincita e di vendetta. Incredibile, avrebbe detto anni più tardi, riferendosi a quello e a ciò che sarebbe venuto dopo.
Al momento, tuttavia, faceva la cretina davanti a uno specchio.

...Fine *sniff*
Okay, ora mi riprendo, non temete. È solo che mettere la parola fine ad un racconto mi commuove sempre un po’.
 
Un ringraziamento speciale va a Mattia, che ha avuto la pazienza di mettersi nei panni di Sik e di farmi sperimentare le tecniche che il maestro di spada propone a Lilith in questo capitolo. E non solo queste, ma anche quelle adoperate contro l’ubriaco nel capitolo due. Mi sono divertita un sacco. Non vedo l’ora di riprovarci.
Un ringraziamento, poi, va a tutti coloro che hanno trovato il tempo di recensire i vari capitoli.
Infine – ultimi ma non ultimi – un ringraziamento va anche a voi che avete soltanto letto.
A tutti: grazie di cuore.
 
Spero vogliate seguirmi ancora, in futuro. Nel frattempo vi auguro ogni bene.
Alla prossima!
 
Iryael

 

   
 
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