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Autore: Kat Logan    18/05/2018    4 recensioni
Esiste realmente la quiete dopo la tempesta?
C'è chi cerca di costruirsi un nuovo futuro sulle macerie del passato e chi invece dal passato ne rimane ossessionato divenendo preda dei propri demoni.
[Terzo capitolo di Stockholm Syndrome e Kissing The Dragon].
Genere: Azione, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Shoujo-ai | Personaggi: Haruka/Heles, Michiru/Milena, Minako/Marta, Rei/Rea, Un po' tutti | Coppie: Haruka/Michiru
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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- Questa storia fa parte della serie 'Mondo Yakuza'
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ATTENZIONE: Inutile dirlo (forse), ma il capitolo contiene scene di violenza. Se vi va potete leggere l'ultima parte, quella dell'epilogo, con il sottofondo musicale che vi ho proposto.
Detto questo, buona lettura. Spero possiate godervi quest'ultimo capitolo.

 



«Ok, credo sia il momento di fare una radiografia per controllare la posizione di ciò che hai ingerito» sentenziò Ami dopo aver provveduto a controllare cautamente l’addome della propria paziente.
Eudial non aveva proferito parola. Era rimasta per tutto il tempo in contemplazione della giovane dottoressa per essere sicura si trattasse della sorella di Michiru.
Sapeva bene che per un buon effetto sorpresa c’era bisogno di un precedente e meticoloso studio della situazione.
Eudial aveva l’ottimo intuito di una cacciatrice esperta, incapace di tornarsene a casa dopo una battuta di caccia a mani vuote.
Ami tolse i guanti in lattice per poi buttarli nel cestino accanto al lettino.
«Posso chiederti una cosa?».
Eudial parve sorpresa da quella domanda.
«Se i due lì fuori te lo permettono…» canzonò Eudial.
«Qui dentro comando io, non loro» si lasciò sfuggire una risatina per poi sorvolare con lo sguardo sui polsi ammanettati della propria paziente.
«Perché hai fatto una cosa del genere?».
«Intendi…ingoiare una lametta o finire in carcere?» e il sorriso luciferino apparve sul suo volto.
«La prima».
«Pensi che una come me abbia paura di morire?».
Ami tentennò. Pensava che tutti al mondo ne avessero. Anche chi aveva il sangue freddo di andare a comprare un manuale per il perfetto suicida in libreria pensava potesse averne. Per lei, la vita era un dono talmente prezioso che si trovava incapace di comprendere chi voleva sciuparlo.
«Forse sono stata indiscreta. Ti prego di scusarmi per la mia domanda» piegò gli angoli della bocca in una smorfia imbarazzata e fece per uscire dalla stanza, quando la voce della rossa la bloccò sulla porta.
«Non hai risposto alla mia domanda. Pensi ne abbia?».
Perché Ami aveva cominciato quella conversazione? La stanchezza doveva averle offuscato la mente per tirar fuori certi argomenti con una criminale ricoverata in psichiatria.
«No, affatto» tagliò corto con la mano sulla maniglia.
«E tu ne hai? Mizuno?».
Un brivido percorse la schiena di Ami. Una strana agitazione si fece strada dentro di lei.
Come fa a sapere il mio cognome?
Una mano sfiorò il taschino del camice, mentre un capogiro la colse impreparata.
Deve aver letto il cartellino.
Qualcuno aprì la porta dall’esterno.
«Tutto bene Ami?» la voce di Mamoru la trascinò fuori da quella bolla di ansia che l’aveva inglobata improvvisamente.
Ami riprese coscienza di sé stessa dando la colpa all’eccessiva stanchezza, rispondendo con un segno d’assenso del capo al suo superiore.
«Ci hai messo un po’» spiegò il dottor Chiba, facendo spostare la propria specializzanda in corridoio, chiudendo poi la porta alle spalle della giovane. «Ero solo venuto a controllare».
«Tutto okay e poi ci sono le guardie qui fuori…».
Ami fece più presa sulla stoffa bianca che indossava. Il cartellino non c’era. Lo aveva lasciato all’ingresso dal ragazzo che leggeva.
«C’è bisogno dei raggi, per controllare il corpo ingerito e…».
«Ami, è tutto okay davvero?» la interruppe ancora una volta Mamoru vedendola con lo sguardo perso nel vuoto.
«Sì. E’ solo un po’ di stanchezza. Sul serio» lo rassicurò lei.
«Va bene. Puoi occupartene tu allora? Te la senti?».
«Sì. Però…mi occorrerebbero i suoi dati».
«La cartella clinica si trova in carcere. Faccio fare una chiamata a uno dei due poliziotti e la faccio mandare subito».
Ami annuì. Tornò all’atrio per prendere alla macchinetta una bottiglietta d’acqua e ritirò il proprio cellulare mentre Mamoru si occupava della burocrazia.
Le dita fecero per digitare un messaggio veloce al numero di Sadao, ma che venne prontamente cancellato non appena i passi del suo superiore si fecero nuovamente vicini.
«Ci vorranno una ventina di minuti, puoi prepararla?».
Ami scacciò l’ennesimo brutto presentimento che s’insinuò in lei.
Era una paziente come un’altra. Una vita come un’altra. E lei doveva aiutarla.
 
 
«C’è la necessità di una radiografia per capire il posizionamento della lametta» cominciò a dire ai due poliziotti che si pararono un’ulteriore volta davanti alla porta di Eudial. Persino Ami, la persona più paziente dell’intera Tokyo, cominciava ad averne abbastanza di quei due. Si sentiva come se il pericolo fosse lei e cominciava a stufarsi di dover dare ogni singola spiegazione a quelli che sicuramente non erano i parenti della paziente.
«Devo spostarla e portarla al reparto».
«Vi scortiamo allora».
«Bene, fantastico» schioccò la lingua aprendo la porta per avvicinarsi al lettino.
Eudial appariva leggermente più pallida, ma il luccichio sinistro nei suoi occhi era ancora lì ad aspettare Ami.
«Devi averla fatta grossa» bofonchiò tra sé e sé la giovane dottoressa, spostando il carrello delle medicazioni per poi cominciare a spingere il lettino dotato di ruote.
«Non immagini quanto» rispose Eudial con sorriso tronfio. «Vuoi saperle tutte?».
«Non ne sono sicura…» indugiò sempre con delicatezza Ami per poi arrivare a metà del reparto e far passare un’inserviente con l’ingombrante carico della lavanderia.
Sentiva alle sue spalle i poliziotti armati e furono quasi i due a darle la pelle d’oca piuttosto che la prigioniera.
«Estorsione di denaro…» cominciò la rossa.
«Traffico illecito…» continuò con la leggerezza di chi fa la lista della spesa.
«Di cosa?» la curiosità prese in contropiede il raziocinio di Ami.
«Molte cose. Droga, animali, armi…».
La targhetta attaccata alla penultima porta del corridoio fu l’indizio del loro arrivo.
«Credo possa bastare» disse con la voce spezzata da una risatina imbarazzata.
Fraternizzare con una criminale non era una grande idea, ma la stanchezza faceva brutti scherzi. Inoltre Ami aveva imparato a non fare di tutta l’erba un fascio dopo aver conosciuto Haruka e Akira che tutto si poteva dire sui due tranne che fossero dei santi, nonostante il loro buon cuore.
Ami aiutò a scendere dalla barella Eudial facendola accomodare sul lettino al di sotto del macchinario per i raggi.
«Le manette» indicò Ami al poliziotto più giovane.
«Ho bisogno le togliate per i raggi».
Lo sguardo dell’uomo si fece contrariato e Ami rimase ferma sulla propria posizione.
Seguirono dei borbottii e la ricerca delle chiavi per aprire i due anelli metallici.
Mamoru si sporse sulla soglia con la cartella del carcere e la sventolò per attirare l’attenzione di Ami che lo raggiunse ringraziandolo.
«Abbiamo fatto?» indagò lei mostrando loro la porta dalla quale uscire.
«Devo dirle che non è un’ottima idea» la ragguagliò lo stesso che l’aveva guardata come se fosse un insetto da schiacciare.
«Nemmeno quella di stare nel reparto di psichiatria con una pistola lo è».
L’uomo emise un rumore rauco dal fondo della gola e uscì.
«Tu puoi stare nella cabina dell’operatore con me. In due dovremmo riuscire».
Non aveva mai dato così tanti ordini in vita sua come in quei due minuti.
Il poliziotto si allontanò ed Ami aprì la cartella contenente la storia clinica della sua paziente.
«Dottoressa…»
«Si?» rispose distrattamente Ami scorrendo con un dito il foglio scritto a computer.
Un nome saettò dalla pagina al suo cervello. Non l’aveva mai incontrata ma era impossibile non averne sentito parlare da sua sorella, Haruka, Akira o Minako.
Impossibile.
Le mani improvvisamente presero a sudarle.
«Dottoressa…» insistette Eudial vedendo l’espressione facciale di Ami farsi più inquieta mentre con uno schiocco richiudeva la cartella.
«Non le ho finito l’elenco».
«Possiamo farlo dopo, ora cerca di stare ferma, ci vorrà solo un minu-».
«Omicidio. Plurimo. Da mio marito a tanti altri. Tra cui, anche se indirettamente, quello dell’agente Meiō».
Ami, pietrificata, smise di respirare.
«Poi…aggressione. Una biondina con una chiacchera spaventosa».
Minako. Ora il viso di Ami si era tramutato in una maschera di orrore. E tutto il panico di quella notte tornò a galla come se avesse nuovamente davanti agli occhi Akira con la maglia rossa di sangue e l’amica incosciente tra le braccia.
Ma Eudial come un clown del terrore doveva ancora tirar fuori dal suo cappello l’ultimo dei suoi trucchi.
«Ci possiamo mettere anche il rapimento».
Ami mosse un passo all’indietro.
«Prima quello di Haruka, poi quello di Michiru. Le conosce dottoressa, non è così?».
«Ora facciamo le radiografie» le uscì un sussurro. La coda dell’occhio cercò il poliziotto nel cabinotto, ma di lui nessuna traccia.
Eudial balzò giù dal lettino. Aggredì Ami alle spalle, facendo scivolare giù dalla manica del camice il tubo di una flebo che le strinse attorno al collo.
Ami si divincolò. Le diede una gomitata e le labbra le si spalancarono in cerca di ossigeno, portando le dita al collo e cercando di insinuarsi nello spazio ormai inesistente tra la pelle e il tubo trasparente.
«Fortuna mi hai fatto togliere le manette dolcezza. Sarebbe stato più scomodo farlo con quelle» le bisbigliò Eudial all’orecchio.
Ami reclinò la testa indietro, vide il soffitto, cercò un briciolo d’ossigeno al quale aggrapparsi e tentò ancora una volta di liberarsi da quella presa.
Persero l’equilibrio, cadendo a terra. La presa al collo si fece più lenta nello strattone e recuperò aria. Ma Eudial non mollava, era senza scrupoli e non se ne sarebbe andata senza una scia di cadaveri al suo seguito.
La mano destra si aprì a palmo aperto sul pavimento. Ami intercettò il cellulare riuscendo a sbloccarlo.
«Per chi è l’ultima chiamata?» chiese ridendosela Eudial tornando a stringere più forte.
«Sss-» la voce di Ami era ormai un sibilo.
«Comincia con…?».
Eudial che amava giocare come facevano i gatti con i topi allentò nuovamente la presa per ascoltare meglio.
«Ss-Sadao» il comando vocale riuscì ad attivare la chiamata.
Ami questa volta col gomito puntò al collo dell’altra.
Eudial emise un rantolo ed Ami riuscì a liberarsi dalla trappola mortale che le aveva teso.
Incespicò a gattoni, si aggrappò al lettino per rialzarsi e Eudial la ritirò a terra.
Dall’altro capo del telefono la voce di Sadao rispose.
Ami non lasciò la presa e scalciò lontana quel che bastava Eudial per rialzarsi.
«E’ qui. EUDIAL!» urlò senza articolare una vera frase, con il fiato grosso e il cuore in gola. Si precipitò alla cabina con Eudial di nuovo su due gambe.
Ami arrivò al bottone per la chiusura della porta e dall’altre parte del vetro rimase la regina rossa a guardarla con tutto il rancore di un serial killer.
 
 
*** 
 
 
«Funzionerà?».
«Deve funzionare».
 
Con quello scambio di battute Michiru e Akira si erano divisi. Lui era corso a noleggiare un nuovo furgone e lei si era precipitata a ripescare i documenti e a preparare i bagagli per una fuga da film.
Ci fu un momento di totale immobilità per Michiru. Si era fermata davanti all’armadio con le ante spalancate a fissare la fila di abiti appesi.
Sarebbe bastato quello? Un paio di vestiti per ricominciare un’intera vita? E tutte le loro cose sparse per casa? Le fotografie, i quadri appesi alle pareti? Michiru era una che faceva il nido. Che rametto dopo rametto intrecciava ogni cosa per rendere confortevole e calda la propria casa. Era un uccellino operoso che aveva costruito con cura un mondo intero per lei e chi amava. Ora doveva abbandonarlo. Doveva abbandonare tutti.
Respirò. Lo fece profondamente e con un suono profondo che non le si addiceva.
Dovette ripescare ogni particella di aria dal fondo dello stomaco per riuscire in quell’ennesima sfida.
Michiru era una che restava e non abbandonava, ma Michiru era anche una che avrebbe fatto ogni cosa per amore.
 
«Ce la fai…» si disse tra sé e sé.
«Si che ce la fai» rispose una voce alle sue spalle fin troppo familiare.
Minako era entrata in punta di piedi e con sé recava due enormi buste di carta.
«Ma anche una fuga ha bisogno di stile!» il sorriso sul suo volto era quasi esultante e Michiru non poté trattenersi oltre dal correre ad abbracciarla.
I doni di Minako caddero a terra per rispondere alla stretta affettuosa dell’amica.
«Promettimi una cosa» sibilò Michiru col volto poggiato sulla spalla dell’altra.
«Promettimi che starai vicina ad Ami. Che ti prenderai cura di lei».
«Promesso».
Un altro macigno sembrò scollarsi dalla pila che pesava sul cuore di Michiru.
Anche una fuga aveva bisogno di alleati e lei e Haruka ne avevano da vendere.
«Ora pensiamo alla vostra lunga vacanza d’accordo?».
Michiru annuì con un gesto lento e misurato del capo preparandosi a raccimolare solo lo stretto necessario.
«Con la Yakuza si viaggia leggeri. Niente valige ingombranti» ne convenne Minako.
«Non so se mi è mancata la parola Yakuza».
«Ti mancate eccome» sospirò con leggerezza Minako. «Credo tu debba arrenderti Michiru…perché la tua famiglia è questo. La parentesi vita normale devi ammettere che non è nelle nostre corde!».
«Ne devo convenire».
«Non puoi dire di annoiarti!».
«Questo mai!».
 
***
 

Tutto era pronto. O almeno era quello che Akira sperava.
Aveva di nuovo la sua “bambina” lucente incastrata tra la vita e i pantaloni giusto per prevenzione anche se un’arma era la cosa meno raccomandabile da introdurre in una prigione.
Lo scarico del furgoncino borbottò ancora una volta all’entrata dell’imponente cancello e la guardia decise di liberarsi in modo svogliato del chewingum che stava masticando da ormai troppo tempo.
«Il furgone non è il solito…» commentò la poliziotta più tonda che alta alla guardiola.
«Quello della compagnia è a far manutenzione» borbottò tentando di essere il più convincente possibile Akira senza però guardarla negli occhi.
«Mmh» fu l’affermazione ancora poco convinta della donna.
«Vuole che li chiami?» due battiti di dita sul volante e il suo sguardo ghiaccio assunse l’espressione di chi è certo della sentenza che sta per sputare. «Se vuole lo faccio. Però il mio supervisore non sarà felice della telefonata e passeremo momenti poco piacevoli entrambi…».
La donna non sembrava essere una che amava essere richiamata o a cui piaceva subire una lavata di capo inutile.
«Le apro il vano, così può controllare».
Akira con un tasto sbloccò le portiere posteriori del furgone e scese spegnendo il motore per rendersi utile.
«Vede?» indicò l’ultima pila di scatoloni sulla destra. «In quelle scatole ci sono fagioli in scatola, piselli e pelati».
La guardia, appoggiò pesantemente la pianta del piede sul furgone e si diede una spinta letargica per salire.
Indossò un paio di guanti in lattice con tanto di schioccò e analizzo alcune delle casse in legno sulla sinistra.
«Lì invece c’è la verdure e la frutta fresca» puntualizzò Akira.
«E il pasto pronto?» lo interrogò con aria dubbiosa mentre spostava alcune rape e analizzava un paio di sacchi di patate dolci.
«La sbobba?» Akira imitò il tono sarcastico di chi sa benissimo di cosa sta parlando.
«Esattamente davanti a lei. Ci andrei piano con le dita, potrebbe essere una brodaglia radio attiva!».
«Tanto meglio…» disse lei con tono piatto, decidendo che l’ispezione fatta era sufficiente.
«Se così fosse ci libereremmo più velocemente di queste canaglie».
Akira provò a sorridere come se fosse d’accordo su ogni singola sillaba proferita dalle labbra leggermente irregolari e carnose della sua interlocutrice.
«Apro il cancello».
«Grazie, metto in moto».
Risalì al posto di guida girando la chiave per poi inserire la marcia e attendere di poter entrare. Accennò un saluto col capo coperto da un cappellino rosso e si diresse verso il retro della cucina.
 
 
Quando entrò rabbrividì. Mai, se lui ne fosse stato il proprietario, avrebbe permesso che una cucina si riducesse in quello stato o che la dispensa proponesse solo scatolame di bassa qualità piuttosto che materie fresche.
Tentò di cancellare il disappunto dal suo volto e richiamò l’attenzione di una delle responsabili che mandò un paio di detenute a scaricare, sotto stretta sorveglianza, le casse di alimenti dal furgoncino.
Akira si munì di uno dei contenitori pieni di brodaglia da portare al banco della mensa.
Qualcuno si lamentò per il ritardo dell’arrivo delle cibarie, ma lui sfoggiò il proprio sorriso perfetto offrendosi di dare una mano. Non ricevendo alcuna opzione si munì di guanti mono uso e tenne gli occhi fissi sulla porta della mensa. Entrarono alcune prigioniere, poi un’esile fiamma rossastra dagli occhi spiritati.
Trattenne il respiro e prese un piatto nella mano sinistra e poi il mestolo nella destra.
«Andiamo Ruka…»sibilò tra i denti, stringendo i canini come una fiera pronta a ruggire.
Una donna tatuata attirò la sua attenzione battendo il palmo due volte sotto al suo naso richiedendo la sua porzione giornaliera.
«Bella faccia sei nuovo?» lo interrogò cercando di cogliere il suo sguardo al di sotto della visiera rossa calata sul viso.
«Può darsi…».
Akira le porse il piatto, lo fece come al rallentatore per osservare meglio il tatuaggio dell’altra e vi colse i segni della Yakuza.
«Che c’è?» brontolò lei tentando di avere il suo pasto quando Akira lo ritrasse verso il proprio petto.
«Ten’ō».
L’altra aggrottò la fronte.
«La voltafaccia?».
«Ne abbiamo tanti tra le forze dell’ordine e non sono voltafaccia per noi, ma per lo stato. Ne abbiamo anche tra gli avvocati…siamo ovunque…».
L’altra non parve convinta e Akira non aveva intenzione di cominciare un’arringa in difesa dell’amica con un cervello ottuso come quello che si trovava di fronte.
Si limitò a passare il piatto ad un’altra carcerata in fila dopo quella con cui stava parlando.
Voleva mangiare. Lo avrebbe avuto solo se le avesse detto di Haruka.
«Hei, ma…».
Akira le sorrise amabilmente «avanti la prossima!».
 
 
*** 
 
 
«Io voto contro» Jadeite irremovibile stava esaurendo la pazienza di Rei che si assicurava di aver tutto in ordine per la sua entrata in scena.
«Io non ti capisco» continuò il biondo in quella discussione a senso unico.
Rei gli dava le spalle, impegnata a legarsi i lunghi capelli corvini in una sorta di acconciatura che le avrebbe reso più semplice infilarsi il caschetto.
Jadeite, mai ignorato nella sua vita perse il controllo.
Si alzò come una furia dalla panca e batté il pugno contro l’armadietto facendo sobbalzare Rei.
«MI STAI ASCOLTANDO?!».
La mora dovette chiudere gli occhi e concentrarsi sul proprio respiro. Era stato l’armadietto non l’ultimo colpo di pistola che riecheggiava nell’aria dopo quello stupido inseguimento in cui una parte di lei era morta.
«REI!».
«Piantala» i suoi occhi scuri saettarono in quelli cerulei del biondo.
«No» ribatté l’altro.
«Diavolo, perché te ne importa tanto?».
«Perché m’importa di te, stupida idiota».
«Galante…» commentò piatta Rei chiudendo con la stessa forza che ci avevo messo lui il suo armadietto.
Jadeite non sapeva assolutamente come prenderla, come decifrare l’enigma che aveva davanti. Faceva un passo avanti e si allontanavano di cinque.
Lui respirò a fondo. L’aveva sempre chiamata con nomignoli carini che lei sembrava odiare visceralmente e ora pareva offesa perché la lingua aveva sputato quelle due parola sull’onda della rabbia.
Era una stupida, un’idiota, una giovane detestabile e una bellissima incosciente. E lo faceva dannare in continuazione.
«Senti…» provò a rimediare, ma lei lo interruppe subito.
«È probabilmente la prima cosa vera che ti esce di bocca, non occorrono scuse».
«Io non ti capisco proprio» era tormentato. Più si arrovellava, meno capiva e trovava un senso logico a tutta quella faccenda, al comportamento di lei.
«Lo so che non capisci. Quindi è inutile che io mi spieghi e smettila di tormentarmi una buona volta per tutte».
Jadeite dovette fare appello a tutto il suo buon senso. Sentiva ribollire il sangue fino alle tempie. Lui non accettava una sconfitta, lui non sapeva nemmeno come si faceva a perdere.
Gli avevano insegnato a non demordere, a non fuggire mai, a non mollare.
«Ora puoi andartene?» chiese lei nervosa portando le dita sul bottone dei pantaloni per cambiarsi e mettere la divisa anti-sommossa.
«Non è lo spogliatoio femminile» rispose dispettoso.
«Non mi va che tu mi veda» ribatté stizzita lei.
«Sono affari tuoi».
«LEVATI DI TORNO».
Jadeite non si mosse. Forse se fosse rimasto lì lei non si sarebbe cambiata e non sarebbe andata a Chiba a rischiare il collo.
Ma Rei era un toro impazzito che continuava a vedere rosso. Era un treno pronto a deragliare pur di non dare a lui, né a qualcun altro, la possibilità di fermarla.
«Bene, come ti pare» slacciò il bottone e tirò giù la zip sempre dandogli le spalle.
«Tanto siamo tutti grandi e vaccinati. E un culo in vita tua l’avrai pure visto» era arrabbiata e una nota di sfinimento macchiò tutto quell’astio che stava vomitando malamente su di lui.
«Smettila» ordinò lui, ma con un tono che mai aveva usato prima.
Pareva una supplica quella di Jadeite, mentre poggiava il petto contro le sue scapole e portava le mani sulle sue come a fermarla.
«Io non ti capisco…» le soffiò all’orecchio.
Sentì Rei irrigidirsi e tentare di sfuggire a quella presa tutt’altro che ferrea.
«Io non ti capisco, ma voglio che mi spieghi».
La mora sospirò sentendo di dover smettere di combattere quell’inutile ed estenuante guerra.
Jadeite la costrinse a girarsi e per la prima volta Rei abbassò lo sguardo.
Si ricordò di quel sogno. Quello tra le fiamme, quello in cui il cuore alle sue spalle che batteva non era di Setsuna bensì di Jadeite.
«Ne vale sul serio la pena?» chiese lui sottovoce come se le stesse domandando di un segreto.
«Di perdere tutto. Ne vale davvero la pena per loro?».
Rei non rispose, ma alzò il viso con gli occhi lucidi da apparire una notte stellata a Jedeite.
Lui lasciò cadere l’ascia di guerra e lei abbassò ogni difesa. E Rei si sentì liberata di ogni peso mentre le loro labbra si sfiorarono per incontrarsi la prima volta.
 
***
 
 
Akira quasi fece fatica a riconoscerla quando entrò nel refettorio con le spalle ricurve, ma mai avrebbe dimenticato quella zazzera bionda e scompigliata.
La Yakuza tatuata per avere il suo piatto di minestra gli aveva fatto sapere che Haruka si sarebbe presentata. Lo faceva in ritardo ma arrivava sempre.
Ed eccola lì con l’aria svogliata che faceva trascinare sul piano il vassoio di plastica consunto.
«Hey bionda».
Haruka si bloccò.
Ecco ci siamo, pensò con uno sbuffo e strizzando appena le palpebre. Doveva aver le traveggole. Eppure non si aspettava di cominciare così presto ad impazzire in quel posto, ma avrebbe giurati di aver sentito la voce di Akira.
«Ha-ru-ka» Akira si sforzò di farsi sentire dall’altra ma senza parlare troppo a voce alta, anche se il baccano delle detenute con i loro piatti e bicchieri attutiva sicuramente ogni tipo di conversazione.
«Akira?» Haruka parve svegliarsi tutta in una volta alzando gli occhi blu per incrociare le tanto familiari lande ghiacciate dell’amico.
«Che cosa ci f-».
«Non la mangiare questa schifezza, ti prego. Credo ti farà stare sul gabinetto per un’ora se lo fai e penso che non sia come quella del grand’hotel la tazza qui» disse tutto d’un fiato Akira, armandosi di condimento per prendere tempo e allungare la brodaglia da servirle.
«No fa schifo proprio, ma quando mai siamo stati al bagno del grand’hotel?».
«È un modo di dire…».
«Ok, penso di non saper più fare conversazione» constatò confusa Haruka.
«Non sei mai stata una cima in questo. Di solito eri tutta sbuffi, parolacce e grugniti» la ragguagliò Akira.
Come un fulmine a ciel sereno, il tormento che l’aveva tenuta sveglia per tutto il tempo squarciò l’allegria ritrovata nel vedere la faccia amica.
Haruka prese a sudare freddo.
«Akira, Michiru. Michiru sta bene? Eudial è uscita di qui e…».
«HEY TU!» una voce dalla cucina richiamò l’attenzione di Akira prima che potesse rispondere.
«Si proprio tu capellino rosso».
Akira istintivamente portò la mano alla cintura nella quale era incastrata la pistola.
Erano già stati scoperti? Non aveva ancora avvertito Haruka. Avrebbe dovuto sparare?
«Che cavolo ti salta in mente?!».
«Come prego?» domandò indeciso sul da farsi lui.
Sentiva gli occhi di Haruka sulle proprie spalle, vigili.
«Cosa credi di fare…» l’inserviente ai fornelli lo guardava con aria minacciosa «con quel cappellino?!».
Akira tirò un sospiro di sollievo e il cervello diede il comando ad ogni muscolo di rilassarsi.
«Metti questa. Capelli raccolti nella cuffietta usa e getta. E’ la prassi».
«Si, signora» rispose forse con un po’ troppo vigore, ma era quasi entusiasta di poter mettere quel copricapo piuttosto che cominciare con uno scontro a fuoco ancor prima di mettere in guardia l’amica.
«Sexy…» commentò Haruka prendendolo in giro.
«Lo so anche Mina, me lo dice sempre!» gli schioccò un occhiolino frettoloso e poi prendendo il mestolo si adoperò per servirle il pranzo.
«Allora, Michiru?!» insistette di nuovo la bionda.
«È a posto Eudial non si è fatta vedere».
«Devi starle addosso» insistette Haruka con gli occhi quasi fuori dalle orbite per la tensione.
«Haru, ascoltami…» deviò il discorso Akira.  «Abbiamo poco tempo. Devi fare una cosa che ti riesce molto bene».
«Si, ma…».
«Michiru è okay, non preoccuparti di questo» le passò il piatto come se fosse un’operazione certosina da fare.
«Devi provocare una rivolta».
Haruka tentennò. Avevano così pochi minuti di aria libera che doveva davvero impegnarsi per fare una cosa del genere.
«Qualcosa di grosso…qualcosa per cui debbano chiamare l’antisommossa…».
«Ooh abbiamo fame!» una prigioniera interruppe la loro conversazione lamentandosi per la lentezza.
Akira gli lanciò uno sguardo torvo per zittirla.
«Fidati, fallo. E resta fuori dalle sbarre per più tempo che riesci».
Haruka strinse il vassoio. Vi arpionò le dita come fosse l’unica ancora a poterla tenere a galla in quel mare di guai.
«Carpe Diem» disse con un sorriso.
Akira non comprese a pieno quelle parole e la guardò interrogativo. La vicina di Haruka perse la pazienza e reclamò selvaggiamente la sua porzione per il pranzo.
Haruka la guardò, assottigliando lo sguardo.
«Che hai da guardare tu».
Akira deglutì.
«Ha-Haru…» biascicò a voce bassa.
«Ti servo il pranzo, stronza» annunciò Haruka mollando vassoio e piatto sulla faccia della criminale.
 
«Non adesso Haruka!! Troppo presto!».
 
 
***
 

Sadao si precipitò letteralmente oltre le porte automatiche dell’ospedale. Prese contro ad un paio di persone e ad un infermiera, poiché la preoccupazione non gli permetteva di perdere tempo a guardare chi aveva intorno.
Salì le scale con il braccio buono teso verso la fondina della pistola, lanciando solamente un’occhiata frettolosa alle indicazioni dei reparti.
Ci aveva passato sin troppo tempo lì dentro e guardare i cartelli era un’operazione superflua ma in qualche modo riusciva a placare il terrore di trovare Ami troppo tardi.
Spinse le porte d’entrata al piano di psichiatria ignorando il ragazzo alla guardiola che chiedeva di depositare qualsiasi oggetto potenzialmente pericoloso.
«Signore!».
Sadao sentiva solo il suo respiro e lanciava occhiate dentro ogni porta del reparto.
«Signore aspetti!».
Alle sue spalle quel richiamo gli stava facendo ribollire il cervello.
«Signore sarò costretto a chiamare la sicurezza se non si ferma e non consegna…».
Sadao si arrestò, ritrovandosi il giovane inserviente addosso perché non aveva previsto quella brusca fermata.
«La sicurezza sono io». Sadao insipirò ed espirò cercando un po’ di calma. Non era da lui essere una persona prepotente.
Mostrò il proprio distintivo come ad avvisare il poveretto che sarebbe andato dritto in centrale se avesse insistito ad infastidirlo.
«Dov’è la dottoressa Mizuno?».
Il giovane deglutì indicando con il dito la propria desta.
«Radiografia. Giù di là».
«G-grazie».
Sadao si ricompose e tornò alla ricerca di Ami.
 
Impiegò solo un paio di minuti per trovarla. Era seduta a pochi metri da lui su una delle scomode sedie in plastica solitamente usate dai pazienti o dai loro cari con un paio di infermieri attorno e il dottor Chiba chino all’altezza delle sue ginocchia intento a sincerarsi delle sue condizioni.
Sadao provò una fitta di gelosia allo stomaco per quell’uomo che era arrivato prima di lui a prendersi cura di Ami, ma fu una sensazione fugace come un lampo. Svanita all’improvviso nel momento in cui la ragazza lo intravide e non indugiò ad alzarsi e a corrergli incontro.
«S-stai bene?!» domandò preoccupato mentre la fronte di Ami non parve poter aspettare oltre per incastrarsi nell’incavo del suo collo.
Un flebile sì arrivò all’orecchio di Sadao e la sua mano strisciò sulla schiena della ragazza in una carezza di conforto.
«Non l’avevo im-imaginato così il nostro se-secondo appuntamento!».
Ami ridacchiò sentendosi ristorata dal calore del ragazzo.
«Si può sempre rimediare» sussurrò per poi distaccarsi con un gesto lento dalla divisa dell’altro.
«È un invito?» ma il sorriso di Sadao s’incrinò nel vedere i segni rossi sul collo pallido del giovane medico.
Ami se ne rese conto e portò una mano sulla pelle segnata.
«È tutto okay, non-».
«N-no. Non è okay un bel niente!» esclamò lui posando piano il suo palmo sul dorso della mano di Ami e scostandogliela piano dall’ematoma che si stava formando.
«È stata quel demonio?».
Ami annuì con un cenno del capo.
«Ma dove cavolo era la sicurezza?!» lui aveva smesso a balbettare d’improvviso, troppo arrabbiato per trascinarsi nella voce le sue insicurezze.
«Sadao non…»
«Non dirmi di non preoccuparmi Ami, non posso farlo questo».
Ami sospirò pesantemente portando una mano sul braccio ancora leso di Sadao.
«Dov’è?».
«In stanza ora. Con le guardie alla porta».
«La riporto dritta a Chiba».
«Ha bisogno di un intervento, Sadao».
«Se devi farlo tu, voglio essere lì anche io. Non ti lascio più sola con quella».
Ami stava per ribattere pacatamente quando la ricetrasmittente di Sadao gracchiò qualcosa.
Il giovane poliziotto corrugò la fronte chiedendo di ripetere il codice.
«Che succede?» domandò Ami.
 
«Serve la squadra antisommossa alla prigione di Chiba».
 
 
***
 
 
Il caos era esploso all’interno del carcere di massima sicurezza.
La scintilla che aveva instillato Haruka era presto degenerata in una vera e propria esplosione sotto allo sguardo incredulo di Akira.
La vicina della bionda al banco refettorio non parve gradire la portata del pranzo in faccia e schiava della rabbia cieca che l’aveva improvvisamente montata spintonò malamente la sua aggreditrice.
Haruka rispose con stizza a quel contatto e le due finirono per scontrarsi con un’altra prigioniera che non tardò ad unirsi alla zuffa.
Nella mensa si alzarono cori d’incitamento mentre quello scontro prese a diffondersi come un virus mortale, intaccando chiunque si trovasse nelle vicinanze.
 
Tra il rumore sordo dei piedi che battevano sotto ai tavoli, il percuotere di vassoi e le grida che si erano levate da una parte all’altra della stanza, un paio di guardie tentarono di sedare la rivolta appena cominciata.
Akira, senza più temporeggiare, scavalcò il banco della cucina, posizionandosi nell’angolo cieco del locale per poi sparare alla telecamera.
Il colpo di canna fece abbassare a terra tutti quanti, carcerieri compresi. E in quella frazione di secondo il suo sguardo incrociò nuovamente quello dell’amica a cui fece cenno di varcare le porte della stanza e correre altrove.
 
Haruka non dovette farselo ripetere due volte. Il desiderio di evadere da quelle quattro mura e rivedere Michiru era più forte di ogni cosa.
Corse contro corrente, passando a spallate contro le prigioniere attirate dal caos esploso al refettorio. Nessuna si sarebbe fatta scappare un’ occasione per menare le mani o prendere il comando di quel posto.
Le parve di non aver mai visto così tante persone condensate in un unico spazio così ristretto nonostante Tokyo non fosse certo famose per le strade sgombre o grandi distese di praterie.
 
«Ambarabacci, ciccì, co-cò…» mentre Haruka si dirigeva nei bagni una voce cantilenante l’aveva cominciata a seguire.
«chi dal carcere scappò…».
Non ci mise subito a riconoscerla. Solo Petirol era capace di rendere ogni cosa una vera e propria nenia.
Svoltò quasi furtiva, aprendo la porta che dava sulle docce comuni in pessime condizioni.
«Cosa vuoi?» le diede alle spalle per poi fissare le piastrelle macchiate e sbeccate che rattoppavano le mura attorno a lei.
«Vengo con te».
Haruka dovette respirare a fondo per non esplodere.
«Tu…cosa?».
«Sembra che sulla giostra ora il mago della fuga sia tu!» esclamò estasiata l’altra.
Non doveva starci tutta con la testa, ma forse era proprio quello che le aveva fatto vincere un viaggio in psichiatria all’ospedale dove lavorava Ami e che aveva ispirato Eudial per la sua libera uscita.
«Non credo proprio».
«Perché no?». La voce di Petirol aveva assunto una note infantile quasi fosse una bimbetta di sette anni.
«Credo sia sufficiente il piccolo dettaglio che forse non ricordi più…» Haruka la fulminò con lo sguardo. «Sei affiliata con chi ha tentato di distruggere quella che è la mia famiglia».
Haruka non era brava col perdono. Quella capace di tanto sarebbe stata Michiru, non certo lei.
 
 
***
 
 
Quando Rei si ritrovò davanti al cancello d’entrata alla prigione di Chiba, l’agente alla guardiola era nel panico.
«Qual è la situazione?» chiese frettolosa la morettina prima di dare il via alla squadra di scendere dalla camionetta.
«Sono indemoniate» commentò la donna, asciugandosi con il dorso della manica la fronte imperlata di sudore.
«Due giovani agenti se la sono data a gambe. Due sono stati presi in ostaggio e degli altri tre non ricevo notizie. Nessuna però è evasa. Non conoscono i codici di sblocco della cancellata, ma è questione di tempo che qualcuna nel cortile tenti di trovare una via di fuga».
«Sistemiamo tutto noi» disse Rei abbassandosi la visiera del caschetto mentre il veicolo oltrepassava la sbarra d’ingresso.
Si fermarono davanti all’entrata e nel balzare giù dal mezzo Rei sentì rimbombare il suo cuore nel petto.
Le parole di Jadeite erano un’eco nella testa e con loro quel bacio inaspettato tormentava ancora le sue labbra.
«Un uomo per ogni lato della struttura» ordinò con fare militaresco.
 
Setsuna sarebbe stata fiera di lei.
 
«Tu e tu…» indicò due uomini grossi come armadi «dentro con me».
Con la coda dell’occhio un’auto sportiva con a bordo due donne in occhiali da sole e foulard tra i capelli, si appostarono spegnendo il motore poco lontano dalla cancellata sul retro.
Rei si ritrovò a sorridere flebilmente nel riconoscerle.
 
A volte la giustizia si presentava sotto strane forme. A volte quello che appariva come una cosa sbagliata era quella giusta da fare.
 
Rei contò fino a tre per poi entrare seguita dai due uomini all’interno del carcere.
Il corridoio oltre la cancellata appariva come un girone infernale.
C’erano pezzi di volantini ovunque tranne che alle pareti. Strisce di carta igenica sparsa ovunque come dopo una nottata da leoni all’interno di una confraternita.
«Entriamo e chiudiamoci dentro con loro» disse prendendo un respiro più profondo del primo.
«Non sparate se non è necessario» ragguagliò i due accompagnatori prima di procedere oltre.
Il rumore metallico del cancello attirò l’attenzione di qualcuno.
Setsuna, aiutami a trovarla. Tu l’avresti trovata…
Un campanello di detenute si schierò dinnanzi a loro.
«Rinforzi all’interno tra meno di un minuto» annunciò Rei alla radiolina.
E come tori infuriati, il gruppo di donne si scagliò contro di loro.
 
 
***
 
 
Akira ad ogni angolo metteva fuori uso una telecamera della video sorveglianza.
Ormai gli erano rimaste ben poche pallottole ma il suo intento era quello di ritrovare Haruka per portarla fuori di lì il più presto possibile.
Nel corridoio incrociò un agente che con la mano sulla propria fondina avanzava verso di lui con fare minaccioso.
«Ehi tu. Che ci fai qui?».
«Amico, di là è la guerra» lo ragguagliò Akira.
«Si ma tu cosa ci fai qui! Non ci puoi sta-» Akira gli arrivò tanto vicino da prenderlo per un braccio e costringerlo contro il suo petto puntandogli la pistola alla tempia. Non aveva intenzione di sparare ma doveva fare in fretta e non finirci lui dentro a quel delirio.
«Sei lento per un poliziotto» disse col sorriso mentre l’altro appariva molto meno divertito.
«Credimi ti sto facendo un favore».
Akira lo trascinò dentro al gabinetto alle loro spalle dove vi trovò Haruka intenta a sondare tombini o vie di fuga libere disponibili.
«È arrivata la squadra antisommossa!» polemizzò riuscendo a sbirciare da una piccola feritoia.
«Sono i soccorsi» la ragguagliò Akira.
Haruka aveva smesso di provare a capire. Si era persa fin troppe cose e recuperarle tutte alla velocità della luce era pressoché impossibile.
«Cosa ci fai con quello?» domandò indicando l’agente sempre più irritato per la situazione.
«Ti ho portato la copertura!».
Akira lo colpì col calcio della pistola.
«Ecco. Fuori uso per un pò».
«Come ai vecchi tempi…» rise Haruka.
«Come ai vecchi tempi».
 
 
Nel corridoio A, Rei si riparava da una pioggia di corpi con il proprio scudo.
Avanzava lentamente, sentendo scricchiolare giunture e mascelle tra insulti e urla di rabbia che grattavano in gola alla folla inferocita.
«Ci dividiamo!».
 
Fai sia la via giusta, fai che sia la via giusta.
 
«Io procedo dritta e voi verso i dormitori».
 
E senza indugiare riuscì a divincolarsi da quel groviglio di persone dando l’impressione di chi vuole sedare una rivolta piuttosto che di una che svoltato l’angolo si sarebbe messa a correre.
Ma Rei non correva per la paura, correva per la cosa giusta da fare.
E solo incrociando un cappellino rosso e una zazzera bionda in uniforme capì di averla raggiunta e aver assolto con il suo compito anche il desiderio di Setsuna.
 
«Siete qui» disse col fiatone e la voce leggermente ovattata da tutto il bardamento che aveva addosso.
«Muoviti, prima che cambi idea. C’è un auto che aspetta».
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
EPILOGO
 
 
 
 
It’s been a long day without you my friend
And I’ll tell you all about it when I see you again
We’ve come a long way from where we began
Oh I’ll tell you all about it when I see you again
When I see you again
Damn who knew all the planes we flew
Good things we’ve been through
That I’ll be standing right here
Talking to you about another path I
Know we loved to hit the road and laugh
But something told me that it wouldn’t last
Had to switch up look at things different see the bigger picture
Those were the days
hard work forever pays
now I see you in a better place 
How could we not talk about family when family’s all that we got?
Everything I went through you were standing there by my side
And now you gonna be with me for the last ride
It’s been a long day without you my friend
And I’ll tell you all about it when I see you again
We’ve come a long way from where we began
Oh I’ll tell you all about it when I see you again
when I see you again
 
See You Again – Wiz Khalifa & Charlie Puth
 
 
 
 
 
A volte ancora lo sognava.
Il momento in cui aveva incontrato di nuovo gli occhi di Michiru sull’auto rossa sportiva che aveva portato entrambe lontano dal trambusto delle loro vite.
 
Tokyo risucchiava le esistenze dei suoi abitanti e Haruka si era tirata indietro dal suo sadico gioco.
 
Sembravano avere una nuova luce le iridi celesti tra le onde acqua marina legate al di sotto di un foulard dai colori sgargianti come la personalità dell’amica Minako.
Poi c’era stato il bentornato di Hotaru. Del nuovo piccolo angelo in famiglia che l’aveva accolta prendendole un dito tra le sue manine portandolo direttamente alla bocca, per poi dichiararlo sua proprietà.
 
 
Haruka ancora lo sognava. Lo avvertiva distintamente il bacio frettoloso di Michiru, salato, perché bagnato dalle lacrime di gioia che non era riuscita a trattenere nel ritrovarla accanto a sé.
E ancora nel petto le rimbombava l’amarezza di un addio frettoloso al fratello che aveva trovato in un’infanzia difficile e violenta, fino al momento di quella fuga in grande stile che le aveva condotte troppo lontane da chiunque per essere trovate.
Haruka mugugnò appena. E sotto le sue palpebre le pupille rincorrevano la chioma scura di Rei che l’aveva portata fuori da quell’inferno di cemento. Quando si era tolta il casco, Haruka aveva stentato a riconoscerla. Aveva in viso un’espressione differente da quella che aveva conosciuto la prima volta. Aveva nello sguardo la scintilla che aveva scovato in Setsuna ai tempi in cui era lei quella da catturare. Haruka, guardando Rei quell’ultima volta, si era ritrovata davanti a sé qualcuno che era diventata una donna e aveva trovato la sua strada.
 
Era passato un anno da tutte quelle separazioni.
 
Michiru, vestita in un abito a fiori, sorrideva tenendo alte le piccole mani di Hotaru che stava muovendo i primi passi su un prato verde, immerso nelle colline ocra e le alte file di cipressi della maremma toscana.
Sotto il cielo azzurro, spruzzato solo di qualche nuvola bianca qua e là, Michiru, Haruka e Hotaru avevano trovato la loro pace.
 
«Ruka…» la voce calda di Michiru era una dolce melodia.
«Ruka, così ti brucerai tutta» le soffiò all’orecchio Michiru, avvicinandosi allo sdraio sul quale Haruka si era addormentata.
Il sole di quel pomeriggio italiano avrebbe scottato la pelle chiara della teppista bionda a cui Michiru aveva donato il cuore.
«Mmh» fu la risposta dell’altra che strofinò a forza le palpebre per far svanire le immagini di quei ricordi lontani ma allo stesso tempo sempre vicini.
«Dov’è la mia bambina?» brontolò allungando poi le mani nel vento caldo estivo.
Michiru rise mettendole tra le braccia Hotaru, che incuriosita dalla camicia semi aperta di Haruka prese a giocare con i lembi di stoffa.
«Li stavo sognando…» svelò piano all’amore della sua vita. «Li ho sognati tutti ancora una volta».
Haruka era felice ma ne parlava sempre con una nota di malinconia nella voce.
Michiru strinse una mano alla sua.
«Sarai contenta allora di sapere che è arrivata una lettera da mia sorella».
«Ti ha…contattata?».
Michiru annuì piano, passandole le dita tra la frangia color miele per tranquillizzarla.
«La leggiamo insieme?».
Haruka fece un cenno d’assenso col capo, godendosi quelle righe pronunciate dalla voce della sua Dea di Osaka.
 
Carissima sorella,
il tempo corre e sai benissimo che in un anno possono accadere un mucchio di cose, soprattutto in una città come questa incapace di perdere persino qualche ora per dormire.
Da dove potrei cominciare?
Mi manchi. E forse a più di chiunque altro manchi a papà.
 
La voce di Michiru s’incrinò appena per poi continuare.
 
Papà ha conosciuto Sadao e gli ha presentato una lista infinita di comportamenti che deve tenere per essere il degno futuro marito della sua figlia più piccola. Futuro marito, perché mi ha chiesto di sposarlo e a cui io ho risposto di sì.
Inutile dire che Minako sta organizzando questo matrimonio come fosse il suo. Vorrei tanto che tu, Haruka e la mia nipotina poteste partecipare. Ci sposeremo a giugno prossimo nei pressi della baia di Tokyo.
 
Michiru sospirò.
«Potremmo andare?».
Haruka lesse una supplica nei suoi occhi azzurri come il cielo sopra le loro teste.
Per un solo giorno non sarebbe successo nulla, tranne che essere nuovamente felici tutti quanti assieme.
«Potremmo andare» la rassicurò sottovoce, come fosse un segreto.
«Continui a leggere tu?» chiese Michiru porgendo alla moglie la lettera scritta a mano come un tempo.
 
Saresti fiera di me, Michi…
 
Continuò Haruka.
 
Ho superato una marea di esami e ora opero da sola. Anche se la strada per diventare un grande medico è ancora lunga.
Minako è un’infermiera capace. Alle volte esagera un po’ con le chiacchere ma i pazienti spesso trovano conforto in questo e non rischiano di annoiarsi. Un’altra novità è che finalmente sembra essere riuscita ad esaudire il suo desiderio di formare una famiglia con Akira.
Sembra che tra cinque mesi diverranno anche loro genitori.
 
«Sarà un grande papà Akira» sospirò Haruka. Senza di lui probabilmente non sarebbe sopravvissuta abbastanza da conoscere Michiru.
«Sì, credo sarà bravissimo» le diede manforte la compagna.
 
Rei sta facendo carriera in polizia e Jadeite continua a farla una corte spietata. Nessuno sa come finirà tra loro. Sembrano sempre fuoco e fiamme, ma forse è proprio questo il loro bello.
Haruka, Michiru, siete sempre nei nostri pensieri. Ogni giorno, ogni istante… e sono sicura di poterlo dire a nome di tutti: “non aspettiamo altro che il momento in cui poterci vedere di nuovo”.








ULTIME note dell'autrice:
Come sempre per me è doveroso ringraziarvi. Grazie a chi c'è stato sin dal principio, da Stockholm Syndrome. Grazie a chi è arrivato dopo e si è appassionato a questa serie. Grazie a chi è arrivato e se ne è andato e grazie specialmente a chi ha sempre perso un pò del proprio tempo per commentare (sia in modo costruttivo, sia a 'mo di sclero) perché ogni vostra parola è stata importante. Grazie per il sostegno e la pazienza che a questo mondo spesso e volentieri è una cosa rara. Grazie a chi è rimasto sino alla fine. Spero solo di non avervi deluso anche se io un pò delusa lo sono. Purtroppo mi rendo conto che la storia è andata in calando, ma bella come Stockholm per me non ce ne sono state altre e probabilmente lo si è sempre avvertito. Tuttavia non era ancora il momento per me di lasciare andare i nostri eroi e mi scuso per il finale agro dolce, ma l'happy ending puro proprio non mi veniva fuori. 
Per chi vuole farci un salto sa benissimo che troverà qualcosa in più su questo capitolo sulla mia pagina fb.
Ancora grazie, dal profondo del cuore.

Kat
   
 
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