Londra, 22
agosto
Finalmente sono arrivato.
Shikamaru
si sgranchì le membra stanche dal lungo viaggio in aereo. Se solo ci pensava si
ripeteva che aveva perso il lume della ragione. Lui, uno dei più celebri
critici d’arte del suo tempo, soprannominato da tutti “Il misogino”, aveva
appena sorvolato una distanza di migliaia di chilometri solo per vedere una
donna. Proprio lui che “odiava” le donne e se ne teneva lontano anni luce.
Devo essere impazzito.
E
forse doveva proprio esserlo. Eppure, non riusciva a fare a meno di pensare che
quella fosse la cosa giusta da fare, prima che le cose peggiorassero
ulteriormente.
“Signore
e signori, siamo appena atterrati all’aeroporto di Gatwick. Sono le cinque del
mattino e siamo in perfetto orario. Vi ringraziamo di aver volato con la nostra
compagnia…”
Il
resto della frase si perse fra le mille mila suonerie dei cellulari che i
passeggeri accesero subito dopo aver slacciato le cinture di sicurezza. Lo
avrebbe fatto anche lui se avesse avuto una persona da contattare urgentemente
o solo per dirle di essere arrivato, di essere anche sano e salvo, visto che
aveva il terrore degli aerei. Una fobia che gli era rimasta fin da bambino a
causa del lavoro del padre. Shikaku provò per anni a fagli passare la fobia del
volo, ma non ottenne mai i risultati sperati, ma anzi acuì solo il terrore di
suo figlio. Era stato un gran dispiacere per Shikaku dato che avrebbe voluto
che suo figlio continuasse con la tradizione di famiglia dei piloti di volo. Fu
solo quando Yoshino, stanca di vedere suo figlio ancora più apatico del solito,
decise che era tempo di andare oltre, che quello sarebbe stato uno degli
argomenti tabù della loro famiglia. Tabù per modo di dire, ma la cosa servì a
Shikamaru che, d’un tratto, si sentì libero dalle oppressioni della sua
famiglia.
“Poteva essere un buon pilota. Hai
visto anche tu! Ha imparato tutto il manuale…”
“… di volo e ha imparato a giocare
a Shoji e a scacchi. E sai perché? Perché tu sei il suo modello di riferimento,
Shikaku. Tuo figlio vorrebbe essere come te, ma non è te. Capisci quello che
intendo dire? Per quanto tu ti sforzi, Shikamaru avrà sempre paura del volo e
questo perché ti ha visto in fin di vita pilotando un aereo.”
“Non è stata colpa mia, lo sai.”
“Lo so. È stata colpa degli
ingegneri che hanno costruito l’aereo che si sono dimenticati una vite. Tu hai
fatto tutto il possibile e sei un eroe per tutti, ma non puoi impedire a tuo
figlio di associare il volo a com’eri conciato quella volta.”
“Quindi mio figlio avrà sempre
paura di volare.”
“Gli passerà, gli ci vuole tempo.”
Yoshino poggiò la mano sulla spalla
del marito, subito stretta da quest’ultimo. Sua moglie aveva ragione, eppure
non riusciva a fare a meno di pensare a come sarebbe stato se quella volta
Shikamaru non fosse venuto a prenderlo o se fosse stato più grande. Forse
avrebbe capito, forse non avrebbe avuto il terrore viscerale ogni volta che lui
andava al lavoro, non avrebbe avuto quello sguardo di terrore – che si tramuta
in sollievo – ogni volta che andava e tornava.
“Hai ragione. Non obbligherò
Shikamaru. Farà le sue scelte.”
Fu in quel momento che un bambino
di dieci anni, nascosto dietro la porta, sentì l’oppressione nel petto
alleggerirsi appena.
“Amore,
sì, sono appena atterrato e, nemmeno a dirlo, piove. Come può piovere in piena
estate dico io!”
Shikamaru
odiava quando le persone asserivano l’ovvio. La pioggia faceva parte del Regno
Unito così come la Regina o il Big Ben, o non sarebbe stato lo stesso.
Rarissime erano le giornate di sole o scorci di raggi fra il cielo plumbeo, ma
gli dava fastidio che le persone si lamentassero per le stupidaggini, come il
tempo.
“考えるより重要なものがあります。”
Gli
venne spontaneo parlare nella sua lingua madre e a volte gli tornava anche
utile, visto che erano in pochi a parlare giapponese a Londra. Nonostante ci
fossero moltissimi asiatici, la maggior parte di loro era cinese e parlava il
Mandarino, a stento l’inglese. Come se il diretto interessato avesse capito che
Shikamaru si stesse riferendo a lui, poggiò una mano sul telefono e lo guardò
negli occhi.
“Hai
detto qualcosa?”
Ci sono cose più importanti a cui
pensare.
“No,
tuttavia concordavo con te col tempo. Proprio tremendo.”
Felice
che qualcuno fosse d’accordo con lui, il passeggero prese il suo bagaglio a
mano e scese. Shikamaru fece passare un bel po’ di persone, stando sempre
attento a non iniziare, neppure con uno sguardo, una conversazione con
qualcuno. Non ne aveva voglia. L’unica cosa che voleva era uscire da quel
velivolo il prima possibile e sdraiarsi sul suo letto. Per questo seguì la folla
di persone, col bagaglio da imbarco in mano, fino all’uscita del Terminal
North. Conosceva ormai la procedura come le sue tasche: Terminal North –
Shuttle – Terminal Sud – treno in direzione Londra. Non ci si poteva sbagliare.
Non ci posso credere di essere
davvero a casa.
Fu
solo quando si sedette sul treno che accese il cellulare e si ritrovò il
cellulare a vibrare senza sosta. Vide messaggi in segreteria, chiamate perse e
messaggi da parte di sua madre, Ino e Choji che gli chiedevano se fosse vivo, se
non fosse morto durante il volo e se stesse bene. A tutti e tre mandò un
messaggio per tranquillizzarli, mentre guardava il paesaggio fuori dal
finestrino cambiare. Tutto sempre uguale. Eppure, c’era qualcosa di diverso in
quel momento: lui. Se si fosse guardato dall’esterno non si sarebbe
riconosciuto, si sarebbe dato del matto quando invece l’unica cosa diversa era
che si era finalmente innamorato o per lo meno, aveva finalmente capito e
accettato di esserlo, visto che lo era da anni ormai.
“Ti aspettiamo in stazione. Non
cercare di scappare o di ignorarci.”
Il
messaggio minaccioso di Ino lo fece sorridere. Quei due non sarebbero mai
cambiati e sapere che lo stavano aspettando alla stazione gli procurò una fitta
di piacere. Nonostante fosse contento, però, avrebbe voluto che ci fosse
qualcun altro ad attenderlo al suo arrivo.
Chissà se sa che sono tornato.
Chiuse
gli occhi solo un istante, quel tanto da risultare fatale e farlo cadere fra le
braccia di morfeo.
Londra, 23
settembre
10 anni prima
“Come potete vedere, qui al
National Gallery abbiamo molte delle opere più importanti e famose del mondo…”
Shikamaru sapeva già quello che il
docente d’arte stava spiegando alla sua classe universitaria. Iscriversi alla
facoltà di arte era stato naturale, come naturale fu decidere che cosa sarebbe
diventato fra qualche anno: un critico d’arte. Ogni cosa che leggeva la
immagazzinava dentro al suo cervello, i suoi commenti erano accurati, precisi.
Riusciva perfino a capire quando si trattava di un falso d’autore o un quadro
autentico. Il professore lo aveva capito subito che il moro aveva il potenziale
per diventare uno dei critici d’arte più promettenti della sua generazione, ed
era per questo che non mancava occasione per portarlo con sé ovunque andasse, qualsiasi
mostra o convegno, qualsiasi incontro che potesse solo accrescere quello che
sarebbe diventato il suo allievo più promettente in assoluto.
“… ma qualche volta ospita anche
quadri di altre gallerie d’arte. Uno scambio che favorisce l’accrescimento culturale
fra i Paesi, consolidando le alleanze. L’arte è anche questo, non è solo un
qualcosa che si ammira e si appende. L’arte unisce culture, persone. L’arte è
amore.”
Tutti gli studenti pendevano dalle
labbra del professore. Il suo modo di spiegare l’arte era un qualcosa che
rasentava la perfezione. Non era uno dei soliti docenti che faceva il suo
lavoro solo per essere pagato, ma era un docente che credeva in quello che
faceva, in quello che diceva e cercava di trasmettere con ogni mezzo la sua passione
ai suoi studenti.
“Professore, secondo lei qual è il
quadro più bello del National Gallery?”
Shikamaru guardò il suo professore
pensarci appena, prima di far cenno a tutta la sua classe e portarli nella sala
45, dove “I Girasoli” di Van Gogh facevano la sua figura appesi alla parete. Al
moro piaceva come quadro, ma non erano fra i suoi preferiti, e in quel momento
preferiva molto di più andare a vedere i quadri in prestito che quelli che
poteva vedere ogni volta che voleva. Fu così che si incamminò fra i corridoi,
fermandosi a guardare ogni nuovo quadro che vedeva, analizzandolo nei minimi
particolari. I tipi di colori usati, le combinazioni, le tecniche, i dettagli
che ti facevano capire se il quadro era un falso o un originale. Ogni autore
aveva la propria firma, il proprio tratto distintivo e lui li stava imparando
tutti. Pensava che l’arte fosse molto di più, una forma di espressione che a
parole era difficile da dire, come la musica, ma quando si fermò davanti a un
quadro si dovette ricredere. L’arte non era qualcosa di inanimato, ma anche
qualcosa di vivo. Davanti a lui c’era una ragazza che guardava un quadro, uno
di quelli arrivati da poco e solo per qualche mese. Ne aveva sentito parlare e
lo aveva studiato minuziosamente, ma quando se lo ritrovò davanti gli fece uno
strano effetto. Sentendo dei passi la ragazza si era voltata e Shikamaru poté
vedere la stessa espressione sul volto sia nella ragazza del dipinto sia nella
ragazza davanti a lui. Qualcosa si accese in quel momento nel cervello e nel
cuore del moro, una piccola scintilla che lo scombussolò nel profondo. Labbra
rosse carnose e dischiuse, naso sottile e dritto, occhi grandi e vivi che lo
guardavano con un misto di stupore e disapprovazione, forse per averla
interrotta nella sua contemplazione.
Fu naturale per Shikamaru
avvicinarsi e mettersi accanto a lei a guardare il quadro, cercando di
focalizzarsi sul dipinto davanti a sé e non sulla ragazza accanto a lui.
“Non credevo che a un uomo
interessasse l’arte.”
“Sarò allora qualcuno in via
d’estinzione.”
Si voltò a guardarla per un attimo,
spostando la testa verso di lei, giusto per vederle l’ombra di un sorriso
nascerle sul viso. Cercò di non soffermarsi troppo su quei capelli biondo scuro
legati in quattro code bizzarre o su quegli occhi verdi da gatta. Non aveva mai
visto degli occhi di quel colore su un essere umano e per un momento si chiese
quante tonalità di verde avrebbe dovuto utilizzare per ricavare lo stesso
identico colore.
“Allora se sei qualcuno in via
d’estinzione dovresti conoscere questo quadro.”
“La ragazza col turbante o anche
conosciuta come la Ragazza con l’orecchino di perla o la Monna Lisa olandese,
di Jan Vermeer, anno 1665-1666. Il quadro è in prestito al National Gallery per
gentile concessione del Mauritshuis. È un olio su tela che utilizza i tre
colori primari, creando questo effetto all’occhio umano.”
“Del tipo?”
Non riusciva a capire se la ragazza
gli stesse facendo il terzo grado sul quadro perché volesse informazioni o solo
per capire se lui fosse informato, ma non gliene importava molto in quel
momento.
“Come se ci fossero altri colori
presenti, o anche l’orecchino stesso. È l’occhio umano che lo percepisce come
per intero. Vermeer si è limitato a dipingerlo a goccia con poche pennellate.”
Avrebbe potuto continuare per
un’ora abbondante a continuare a parlare del quadro se solo non avesse visto
del vivo interesse in quegli occhi o quella mano tesa verso di lui,
stringendola a sua volta. A dispetto delle sue aspettative, quelle mani erano
morbide e con qualche callo indurito, forse dal lavoro che svolgeva la ragazza.
Si chiese come potesse una come lei avere dei calli nelle mani o solo pensare
che potesse fare un lavoro in cui “ci si sporcava le mani”. Tutte le sue
colleghe erano perfezioniste e curate al minimo dettaglio, visibile e
invisibile. Se avessero avuto dei calli sarebbero entrate nel tunnel della
disperazione.
“Shikamaru.”
“Temari.”
“Non sei inglese.”
“Nemmeno tu lo sei visto il nome e
il tuo aspetto.”
Si chiese se fosse un complimento o
meno, ma non poté scoprirlo. Voltandosi aveva lasciato la mano di Temari,
vedendo il professore entrare con la classe nella stessa stanza dove stavano
loro.
“Shikamaru, cosa ci fai da solo
nella stanza? Ammiri la Monna Lisa olandese?”
“Eh?”
Lui non era solo, era con…
Lei non c’era più, ritrovandosi
davvero solo in quella stanza. Eppure, lei fino a qualche momento prima c’era,
gli aveva parlato.
“Shikamaru, tutto ok?”
“Sì, professore.”
Per un momento si chiese se si
fosse immaginato tutto questo, se Temari fosse reale o meno, fino a quando, in
lontananza, vide quattro code bionde uscire dal museo. No, non era ancora
diventato pazzo e lei esisteva davvero.
“Stiamo
per arrivare alla stazione di London Bridge. Preghiamo i gentili passeggeri di
utilizzare le uscite di destra e di far attenzione alla linea gialla…”
Mind the gap between the train and
the platform.
Come
se il suo cervello lo stesse mettendo in allerta dell’arrivo imminente,
Shikamaru aprì gli occhi, giusto in tempo per sentire il treno fermarsi e i
passeggeri scendere. Prese al volo la sua valigia e si precipitò a scendere,
giusto il tempo necessario per non essere investito dalla folla che veniva dal
senso opposto rispetto al suo. Un secondo di troppo e non sarebbe riuscito a
scendere, fermandosi chissà dove.
“Per
un pelo…”
“Sei
sempre il solito, Shikamaru! Ti eri addormentato, non è vero?”
Il
moro ebbe solamente il tempo di voltare la testa nella direzione della voce che
venne circondato da due braccia esili e forti allo stesso tempo. Un profumo di
viola gli arrivò dritto al cervello mentre degli splendidi capelli biondi gli
bloccavano la visuale, non facendogli vedere nient’altro. Avrebbe riconosciuto
quei capelli fra mille, come anche il profumo.
“Anche
io sono felice di rivederti, Ino.”
La
diretta interessata lo strinse solo qualche secondo più forte per poi lasciarlo
andare, venendo sostituita da un ragazzo da una chioma castano rossastra. Il
viso paffuto trasmetteva pace e serenità mentre dava una pacca sulle spalle al
suo amico.
“Bentornato
a casa, Shika.”
“Anche
io sono felice di rivederti, vecchio mio.”
Non
poté fare a meno di vedere fra le mani di quest’ultimo una busta contenente
delle briciole, segno che contenesse qualcosa prima di essere mangiata.
“Cornetto?”
“No,
Shika. Avrei anche potuto capire che Choji mangiasse qualcosa di dolce per
colazione, ma lui si è mangiato una… come aveva detto che si chiamava?”
“Sfoglia.
Shika, penso di aver assaggiato la sfoglia italiana più buona del mondo. Vicino
il Big Ben si è aperto un bar italiano che fa delle cose buonissime. Ci
dobbiamo andare! Anzi, andiamoci subito a fare colazione!”
Il
sorriso a trentadue denti di Choji fu contagioso, tanto che il povero
Shikamaru, nonostante fosse stanco per il viaggio e per la paura, non ebbe
cuore di dirgli di no. Ino, dall’altra parte, era ormai rassegnata alla fame
chimica del suo amico. Le aveva provate di tutte per farlo smettere di mangiare
o fargli seguire una dieta, lo aveva perfino torturato psicologicamente, ma il
ragazzo la guardava sempre con quegli occhi buoni e le diceva sempre che, anche
se gli diceva delle cose cattive, lo sapeva che lo faceva per il suo bene. Lui
era fatto così, lui amava mangiare, ed era per questo che era diventato uno dei
degustatori più importanti a livello internazionale.
“Choji,
ti sei fatto le analisi del sangue, recentemente?”
La
bionda gli si parò davanti, prendendogli la busta fra le mani,
appallottolandola e buttandola nel cestino.
“Certo.
I valori sono ottimi, sono in perfetta salute, Ino. Ti ringrazio per
preoccuparti della mia salute.”
Il
sorriso a trentadue denti dell’Akimichi fece sbuffare la Yamanaka e ridere il
Nara, che li spinse per proseguire e non rimanere lì fermi, a meno che non
volessero farsi travolgere dalla fiumana di persone che passavano
costantemente. Mentre camminavano verso l’uscita Shikamaru si fermò solo per un
istante, voltandosi di scatto e allungando il collo per vedere oltre le altre
persone. Solo per un istante gli era parso di vedere una chioma bionda di sua
conoscenza. Aveva avuto l’impressione che qualcuno lo stesse fissando e il
cuore aveva iniziato a battere più veloce.
“Tutto
ok?”
La
voce dei suoi amici gli fece distogliere lo sguardo dal punto che fissava prima
e lo riportò su di loro, facendogli un breve cenno d’assenso.
“Certo.
Andiamo a fare colazione.”
Londra, 19
febbraio
7 anni e
mezzo prima
Shikamaru si trovava dentro al bar
del National Gallery con un quaderno davanti, una penna in mano e un libro
aperto poco distante da lui. Quel bar, come anche la biblioteca, era diventato
il suo rifugio personale dove poter studiare e rilassarsi, senza il bisogno di
dover socializzare con qualcuno. Anche i camerieri del bar lo conoscevano e
sapevano anche cosa portargli. Aveva addirittura il suo tavolo personale dove
sedersi e studiare indisturbato o se voleva girare per vedere qualche opera
d’arte c’era sempre qualcuno che gli teneva d’occhio i libri. In due anni e
mezzo aveva imparato a memoria le varie stanze e le opere d’arte, conosceva le
persone della sicurezza e qualche volta assisteva dal vivo a qualche restauro
di qualche quadro.
Ma non era questo il motivo per la
quale passava la maggior parte del suo tempo dentro quelle mura, bensì la
ragione erano due occhi verde gatto. Da quel fortuito incontro Shikamaru e
Temari si erano incontrati altre volte e in altre occasioni, ma sempre in quel
luogo. Non era mai capitato che si incontrassero al di fuori del National
Gallery ed era come se fosse quel posto a farli incontrare, anche perché quei
due erano come il giorno e la notte, la luna e il sole. Tanto diversi da
sembrare quasi impossibile che potessero andare d’accordo. I camerieri avevano
addirittura indetto una scommessa che quei due si mettessero insieme o che uno
dei due si innamorasse dell’altro, suscitando sbuffi continui da parte del moro
e divertimento da parte della bionda.
“E il mio cornetto al cioccolato
fondente?”
Il ragazzo in questione alzò lo
sguardo per posarlo sulla ragazza davanti a lui. Quel giorno indossava un paio
di jeans, scarpe da ginnastica e un maglione verde che ne risaltava gli occhi.
I capelli erano legati da quattro immancabili codini. Cercò di non far
trasparire nulla, ma all’interno era un mare in tempesta. La vicinanza della
bionda gli procurava una serie di sensazioni che non era in grado di spiegare:
si sentiva bene, irritato, gli mancava quando non c’era, potevano parlare
tranquillamente di qualsiasi cosa visto che Temari era abbastanza intelligente
e versatile da poter parlare di qualsiasi argomento ma soprattutto i silenzi
fra loro non erano pesanti, non erano i silenzi di due persone che non avevano
nulla da dirsi.
“L’avevano finito. Se vuoi c’è un
pan au chocolat sempre col cioccolato fondente.”
Non appena vide il suo segno
d’assenso, fermò Temari ed andò lui stesso a prenderlo. Non voleva di nuovo
sentirsi dire che era misogino o che faceva fare ogni cosa alle donne. Giunto
al bancone fulminò con uno sguardo la cameriera che gli sorrideva divertita
mentre gli porgeva l’ordine di Temari, per poi posare accanto anche un
bicchiere fumante di caffè.
“E questo?”
“Non le hai notate le occhiaie che
ha? Ha bisogno di caffeina.”
No, lui non ci aveva fatto caso,
perché quando l’aveva vista l’aveva trovata bella come sempre, anche se non lo
avrebbe mai ammesso nemmeno con se stesso.
“Grazie comunque.”
“Voi uomini li notate poco i
particolari.”
Lo fece pagare e lo congedò. Il
cervello del moro a quelle parole cominciò a lavorare senza sosta. Cosa voleva
dire? Che la cameriera sapesse qualcosa che lui non sapeva o gli sfuggiva?
“Le donne sono davvero una sec-…”
Si fermò improvvisamene, capendo il
significato di quella frase. Temari di solito arrivava per l’ora di pranzo,
mentre invece, adesso, erano appena le dieci del mattino. C’era qualcosa che
non quadrava.
“Ecco a te.”
Le poggiò l’ordine davanti mentre
la vedeva intenta a leggere gli appunti sul suo quaderno, alzando lo sguardo
appena su di lui.
“Quanto ti devo?”
“Solo sapere come mai sei qui così
presto.”
Solo quando Temari posò lo sguardo
su di lui, Shikamaru si accorse delle occhiaie che circondavano gli occhi di
lei. Come aveva fatto a non accorgersene subito? Lui li notava subito i
cambiamenti o i particolari, quindi perché con lei non ci riusciva?
“Ho avuto il turno notturno.”
“Aspetta, mi stai dicendo che ieri
hai lavorato dalla mattina al pomeriggio, di sera sei andata all’università e
di notte hai di nuovo lavorato? Da quanto sei sveglia?”
“Esattamente. Saranno si e no più
di ventiquattr’ore. Grazie del caffè, ne avevo proprio bisogno.”
La vide bere avidamente e chiudere
gli occhi per un istante. Un istante che le risultò fatale visto che si
addormentò sopra il braccio poggiato sul tavolo.
“Sempre la solita dura, eh Sabaku
no? Dormi, ci penso io a copiarti gli appunti del mattino.”
Facendo la massima attenzione a non
farla svegliare prese il quaderno dal suo zaino e ricopiò i suoi appunti.
Avevano capito circa un anno e sei mesi fa di essere nella stessa facoltà di
arte, con solo la differenza che Shikamaru seguiva i corsi mattutini e lei
quelli serali. Scoprì più tardi che per lei era impossibile frequentarla come
tutti i ragazzi normali di mattina, visto che aveva un lavoro per poter
mantenere se stessa e i suoi due fratelli. Non parlava molto di sé e quelle
rare volte che lo faceva era come se lo facesse con un enorme sforzo, ma ne era
contento, contento che lei parlasse con lui di qualsiasi cosa, anche della sua
vita privata. Ancora gli veniva da ridere al ricordo di quando scoprirono che i
professori davano materiale diverso nei corsi serali e mattutini e che se li
mettevi insieme avevi il quadro completo, era come se li mettessero alla prova.
Loro l’avevano superata quella prova e solo per il semplice fatto di essersi
incontrati.
Passò le seguenti due ore a
scrivere ogni cosa sul suo quaderno e su quello di lei. Solo quando si rese
conto di essere solo nel bar si azzardò a fare una carezza nei capelli di
Temari. Sentì indistintamente un sospiro venire verso al bancone, ma quando si
voltò per vedere se ci fosse qualcuno non trovò anima viva. Le due cameriere si
erano nascoste al di sotto del bancone e li spiavano da angoli opposti. Erano
loro che avevano dato il via alla scommessa e furono sempre loro a vedere
Shikamaru sbuffare e Temari sorridere, senza che però il moro se ne accorgesse.
Fu
con quelle parole che uscirono dalla stazione e si ritrovarono davanti il Big
Ben in tutta la sua maestosità. Sembrava brillare di luce propria, anche in
assenza dei raggi del sole. Il cielo plumbeo dava un’aria offuscata a tutto il
panorama, ma era Londra, era il suo paesaggio più caratteristico con migliaia
di persone che camminavano veloci per le sue strade con cellulari in mano e la
borsa ventiquattr’ore nell’altra. Avevano tutti fretta, nessuno si fermava per
chiedere indicazioni o guardare le locandine dei film o degli spettacoli.
Quello era qualcosa che facevano solo i turisti, affascinati da quel mondo
caotico e cosmopolita.
“Da
quella parte.”
Choji
fece strada ai suoi amici, camminando per una decina di minuti, fino ad
arrivare davanti a un piccolo bar. La cameriera gli fece un breve sorriso prima
di indicargli un tavolo dove sedersi. Si accomodarono in un angolo appartato,
trovando anche un angolo riparato dove poter poggiare la valigia e la borsa
senza avere paura che qualcuno potesse rubarle.
“Sembra
tranquillo come posto.”
Guardandosi
intorno, Shikamaru vide scritte in italiano, cibi italiani sulle mensole a muro
e la musica in sottofondo a fare da compagnia ai pochi clienti presenti in quel
momento.
“Ci
credo vedendo così poche persone.”
“Ino,
guarda che questo posto non è sempre cos-…”
“Cosa
vi porto?”
La
cameriera si era avvicinata col blocchetto in mano e la penna, pensando che i
tre fossero pronti a ordinare.
“Per
me un cornetto integrale col miele e un succo di frutta all’ananas per bruciare
i grassi. Sono a dieta.”
La
cameriera alzò leggermente un sopracciglio guardandola senza battere ciglio per
poi continuare a scrivere.
“Per
me un caffè nero.”
“Qualcosa
da mangiare?”
Qualcosa al cioccolato fondente?
No, piace a lei non a me!
“Qualcosa
col cioccolato fondente se lo avete.”
La
cameriera continuò a prendere appunti per poi alzare lo sguardo su Choji e
sorridergli, causando al diretto interessato un leggero rossore.
“A
te cosa porto, Choji?”
Quel
tono confidenziale non era di certo passato inosservato ai suoi due amici,
tanto che l’Akimichi si ritrovò tre paia d’occhi ad osservarlo. Uno attendendo
una risposta e due con un misto di curiosità e incredulità.
“Ho
capito, facciamo il solito cornetto triplo cioccolato e un frappè.”
Gli
concesse un ultimo sguardo prima di andarsene, poi il povero ragazzo venne
praticamente bombardato dalle domande di Ino su chi fosse questa ragazza, come
facevano a conoscersi, da quanto tempo, cosa c’era fra i due e per quale motivo
sembrava che fossero in confidenza. Non era un terzo grado da persona gelosa
quanto da persona curiosa e in quel momento Ino lo era parecchio. Reputava
Choji e Shikamaru i suoi migliori amici, insieme a Sakura, e si informava
costantemente sulla loro salute e vita sociale e privata. L’amicizia per lei
era talmente importante che a volte metteva loro al primo posto prima che se
stessa. Col tempo, grazie anche al suo fidanzato Sai, aveva capito che doveva
essere meno oppressiva e lasciarli respirare, ma questo non toglieva che fosse
rimasta la solita impicciona di sempre.
“E
lascialo respirare. Lo hai praticamente bombardato di domande che non sa a
quale rispondere.”
“Zitto
Shika, devo essere informata su tut-…”
“Si
chiama Karui e ci siamo conosciuti ad una degustazione di un nuovo ristorante
apertosi a Oxford Street. Ci siamo ritrovati a parlare e qualche volta usciamo
insieme.”
“Come
amici o qualcosa di più?”
“La
smetti di intrometterti?”
Shikamaru
non aveva potuto fare a meno di intervenire. A volte Ino diventava fastidiosa
con le sue domande insistenti, e anche invadente. Solo l’arrivo di Karui
permise a Choji di non risponderle, ma di farle un breve sorriso. Solo quando
se ne fu andata vide che Choji si voltò verso la sua amica e con tutta la calma
e la serenità di questo mondo le rispose.
“Mi
piace, ma non so se sono ricambiato. Oltretutto, chi potrebbe mai amare un
ciccione come me?”
Il
fattore peso era sempre stato un problema per Choji e oggetto di sofferenza. Al
giorno d’oggi le ragazze guardavano più all’aspetto fisico che al carattere in
sé e Ino si sentì in colpa, perché lei non avrebbe mai visto Choji in quel
senso, nemmeno se non fosse stato il suo migliore amico.
“Non
puoi saperlo se non glielo chiedi o ci provi, e la stessa cosa vale anche per
te, Shika.”
Il
diretto interessato per poco non si affogò col caffè che gli era andato di
traverso, guardando male la sua amica mentre col fazzoletto si asciugava il
caffè di dosso.
“Cosa
c’entro io, stavolta?”
“Oh.
Vogliamo parlare di una certa seccatura dai capelli biondi per la quale sei
cotto da dieci anni?”
“Non
la amo da dieci anni.”
“Ma
l’ami.”
“Non
è vero.”
“Shika,
perché sei qui allora? Perché prendere un aereo se non per lei? Oltretutto lo
hai preso dopo che ti ho raccontato che l’avevo vista in compagnia di un uomo –
tra l’altro molto attraente, ma mai quanto Sai – e tu che fai? Prendi il primo
volo per tornare a casa. Coincidenze?”
“Io…”
Shikamaru
Nara era da tutti considerato un genio e non solo in campo artistico e critico.
Il suo quoziente intellettivo superava i duecento e non c’era nessun campo in
cui non fosse informato o non potesse argomentare, ma quando si trattava di
amore o dei suoi sentimenti le cose cambiavano radicalmente. Era come se
diventasse un’altra persona, meno sicura di sé e con una marea di complessi
esistenziali, eternamente indeciso se dichiarare apertamente i suoi sentimenti
o meno.
“Vale
anche per te quello che ho appena detto a Choji. Se non ci provi, se non ti
butti, non potrai mai sapere se lei ricambia o meno. Cosa vuoi? Passare la tua
vita e averci provato o rimanere sempre col rimpianto di non averlo fatto?”
Il
moro rimase senza parole. Sapeva perfettamente che Ino aveva ragione, sapeva
che doveva buttarsi e provarci. In quel momento sentì qualcosa nel petto
vedendo con quanto ardore e con quanta passione Ino spronasse lui e Choji a
provarci, nonostante le enormi insicurezze e paure. Poteva anche sembrare
frivola e superficiale all’esterno, ma se la si conosceva bene si scopriva
un’amica fidata che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di vederti felice, proprio
come in quel momento nel quale la bionda aveva preso per mano Shikamaru e lo
aveva fatto alzare, sotto lo sguardo perplesso del castano.
“Adesso
tocca a te provarci e stasera o domani ci racconterai tutto.”
“Cosa?!
Aspetta In-…”
“Karui,
Choji ha detto che ti deve parlare!”
Mise
velocemente le banconote sul tavolo e fece l’occhiolino al suo amico,
trascinando quasi di peso il moro, che ebbe giusto il tempo di prendere la
valigia prima di venir portato fuori.
“Ma
si può sapere che ti prende?”
“Zitto
e guarda.”
Si
erano appostati sotto la finestra, sporgendosi quel tanto che bastava per
vedere la scena in cui Karui si era seduta e chiacchierava con Choji. Non c’era
nessun imbarazzo, ma sorridevano entrambi.
“Visto?
A volte serve un pizzico di coraggio e una bella spintarella.”
“Sei
incorreggibile.”
Si
alzarono e si allontanarono, ritrovandosi alla fermata dell’autobus. Il cielo londinese
si era schiarito appena mentre il Big Ben segnava le nove e mezza.
“Il
prossimo sei tu, lo sai vero?”
“Piantala
con qu-…”
“Ho
lasciato un messaggio anonimo a Temari dicendole che saresti tornato oggi.”
“Tu
cosa hai fatto?”
Aveva
scandito e sibilato una per una le parole, non credendo alle proprie orecchie.
Se fino a un istante prima aveva lodato Ino per la sua amicizia, adesso la
stava odiando per il suo modo di impicciarsi nelle cose.
“Non
avresti dovuto.”
“Mi
ringrazierai. Adesso vado. Tu torna a casa e informa i tuoi che sei arrivato.”
La
vide fermare il primo taxi in avvicinamento e salirci dentro per poi andarsene.
Ino era fatta così e sapeva già in cuor suo che stava agendo a fin di bene, ma
sapeva anche che questo non le dava il diritto di comportarsi e agire in quel
modo.
Meglio pensarci dopo una bella
dormita.
Si
mise in fila e salì sul bus, fino a quando, mezz’ora più tardi, non fu davanti
l’ingresso di casa sua. Aprì la porta e la richiuse alle sue spalle. Il suo
monolocale era sempre lo stesso, niente era cambiato in quei mesi in cui era
stato via se non per la quantità di lettere sul pavimento dell’ingresso. Posò
la valigia per terra e prese il mazzo di lettere, cominciando a vederle una per
una.
“Pubblicità,
pubblicità, invito ad un evento, invito ad un evento, spazzatura, pubblicità.,
bollette da pagare…”
Alla
fine, tenne solamente le bollette e gli inviti, buttando nella pattumiera tutto
il resto. Diede solo una breve occhiata al suo conto corrente tramite computer,
per vedere se gli avessero scalato i soldi per le bollette e chiuse lo schermo
del portatile. Mandò un messaggio a sua madre, informandola che sarebbe passato
per cena e si stese sul divano. Avrebbe dovuto aprire la finestra per far
arieggiare l’aria nell’appartamento, ma era talmente stanco che non aveva la
forza di fare assolutamente nulla, visto che aveva passato la nottata in bianco
per colpa del volo o dell’adrenalina che stava scemando lentamente dal suo
corpo, se non chiudere gli occhi e cadere di nuovo fra le braccia di morfeo.
Londra, 7
luglio
5 anni prima
Non poteva crederci. Era riuscito a
laurearsi in tempo, in meno di cinque anni aveva ottenuto un Bachelor e un
Master’s Degree e ora poteva ritenersi un critico d’arte a tutti gli effetti.
Quello che non si aspettava completamente era prendere il massimo dei voti, con
lode, ma gli aveva fatto piacere, tremendamente piacere vedere i suoi genitori
commossi che lo guardavano con un misto di ammirazione e fierezza negli occhi.
Quello che però lo aveva riempito d’orgoglio erano stati due occhi verdi che
non lo avevano perso di vista neppure per un momento e che lo avevano guardato
con ammirazione, la stessa che aveva riservato Shikamaru a Temari nell’esatto
momento in cui anche lei venne proclamata Dottoressa col massimo dei voti.
Temari era raggiante, sembrava brillare di luce propria, oscurando ogni cosa
intorno a lei. Anni di sacrifici, pianti, urla e ansia erano stati ripagati. Non
pensavano di farcela, specie insieme, specie con lo stesso punteggio. La bionda
non avrebbe mai accettato un voto di laurea che non fosse il massimo,
perfezionista com’era, e il moro ormai aveva imparato ad accettare il suo
carattere competitivo, orgoglioso e diretto.
“Cosa ci fai qui?”
“Come sapevi che ero qui?”
“Come se non avessi imparato a
conoscerti dopo cinque anni. Mi fai così stupida, Nara?”
No, lei non lo era per niente. Lo
stupido era lui che si sentiva strano in quel momento, soprattutto se ripensava
alla voglia che aveva avuto di baciare Temari nell’esultanza generale delle
proclamazioni. Erano lì, a pochi centimetri di distanza, raggianti e felici.
Lui si era avvicinato appena a lei, tanto che i loro fiati si mescolarono, un
secondo di più e si sarebbero anche baciati se non fosse stato per i fratelli
di lei che le erano piombati addosso a congratularsi con la loro sorellona.
Avevano scoccato uno sguardo di fuoco a Shikamaru e avevano allontanato Temari
da lui e solo in quel momento si rese conto di cosa stava per fare. Se l’avesse
baciata avrebbe compromesso la loro amicizia. Era questo quello che voleva? E
poi perché aveva avuto questo strano impulso di baciarla? Proprio lui che era
“misogino”. Fu in quel momento che scappò dall’aula magna dell’università per
precipitarsi al National Gallery. Sapeva che lì sarebbe stato solo e nessuno lo
avrebbe disturbato, avrebbe anche avuto modo di pensare alle sue azioni e
cercare di fare chiarezza con se stesso. Ci sarebbe anche riuscito se una certa
bionda di sua conoscenza non lo avesse seguito.
Anche Temari si era sentita strana
e anche lei avrebbe voluto baciare Shikamaru in quel momento ma non sapeva se
per l’esultanza di avercela fatta o perché provasse qualcosa per il suo
compagno di studi, anche lei si sentiva agitata e solo di recente aveva
chiarito con se stessa, solo di recente aveva capito di essere innamorata di
Shikamaru. Non riusciva a rendersi conto se dal loro primo incontro o quando
iniziarono a vedersi e studiare insieme. Aveva capito di provare qualcosa per
lui, non avendo mai avuto il coraggio di dirglielo, forse per paura o forse per
altro. In quel bacio mancato aveva intravisto uno spiraglio ed era per quello
che lo aveva seguito. Voleva delle risposte, voleva sapere se anche lui provasse
qualcosa per lei, e dove se non nel posto che li aveva fatti incontrare per la
prima volta?
“No, certo che no. Sei una delle
ragazze più intelligenti che abbia mai incontrato in vita mia, forse sei anche
l’unica.”
Shikamaru si voltò e la guardò.
Avevano ancora indosso la toga di laurea e il cappello in testa. Si trovavano
nella sala con “Porto di mare con l’imbarco della Regina di Saba” che faceva
bella mostra di sé. Fu in quel momento che si sentirono come quel quadro,
pronti per partire per una nuova avventura, ma non sapevano se insieme o meno.
“Shika, per quanto riguarda pr-…”
“Hai deciso, Tem?”
“Deciso cosa?”
“Deciso cosa diventare, cosa fare
adesso.”
La bionda si morse il labbro
inferiore. Sì, lo sapeva, ci era arrivata da sola e non avrebbe mai voluto
intraprendere quella strada, specie perché li avrebbe divisi, ma se non
l’avesse fatto non sarebbe stata lei e non poteva permettere che un sentimento
decidesse sul suo futuro.
“Voglio diventare la direttrice del
National Gallery.”
“Lo sapevo e ne sono veramente
felice.”
Shikamaru era davvero felice per
lei, perché la vedeva bene in quel ruolo, la vedeva bene lì a prendersi cura di
quelle opere che li avevano accompagnati per anni insieme e gli avevano fatto
compagnia.
“Tu invece? Sei deciso per critico
d’arte, vero?”
“Sì. Partirò fra qualche mese col
professore Smith per un corso di potenziamento di un anno. In questo corso
imparerò tutto quello che mi serve sapere per perfezionarmi.”
“Quindi questo è un addio.”
“Solo un arrivederci, Tem. Lo sai
che tornerò.”
Avrebbe voluto continuare la frase
con un “da te” ma non sapendo e conoscendo i sentimenti della bionda si astenne
nel continuare, decidendo invece di porgerle la mano, stringendola e
avvicinandola a sé. In quell’abbraccio disperato cercò di trasmetterle tutte le
sue paure, gioie, ma soprattutto i sentimenti che provava per lei, farle capire
che era innamorato di lei. Temari a sua volta lo abbracciò e si appigliò a
quell’abbraccio che sapeva tanto d’addio, anche se era un addio momentaneo.
Cosa stava riservando la vita per loro? Quale viaggio era in serbo per loro
due? Da una parte aveva il terrore e dall’altra era elettrizzata, ma
soprattutto quanto sarebbero cambiati prima di rivedersi di nuovo?
“Lo sai che sarò qui.”
Anche lei avrebbe voluto continuare
con un “per te” ma non lo fece. Sentimenti non detti, taciuti e riposti per
tempi migliori. Successe all’ingresso del museo, quando Temari, presa da un
impulso di coraggio, prese Shikamaru per il bavero e lo abbassò verso di sé,
baciandolo. Un bacio disperato, ricambiato con braccia che si intrecciavano,
corpi che si toccavano e labbra che si divoravano. Quello non era un bacio come
tutti gli altri: era il primo ed era disperato, e lo sarebbe stato per molto
tempo.
Bzzz
Bzzz
Bzzz
“Ma
che diavolo…”
Il
rumore di un cellulare che vibrava ridestò Shikamaru dal suo sonno,
ritrovandosi a cercarlo a tastoni con la mano, fino a quando non lo trovò e lo
prese in mano. Non vide nemmeno chi lo stesse chiamando, premendo direttamente
il tasto di accettazione risposta.
“Pron-…”
“SHIKAMARU
NARA, quante volte ti ho detto di essere puntuale agli appuntamenti! Dove
diavolo sei adesso?!”
“Eh?”
Solo
per un istante Shikamaru staccò il cellulare dall’orecchio – diventato ormai
mezzo sordo per le urla di sua madre – giusto per vedere che ore fossero, e
solo quando si rese conto che effettivamente era “tardi” gli si gelò il sangue
nelle vene. Aveva dormito per tutto il pomeriggio, arrivando alle otto di sera
e sua madre, come se lo avesse capito, rincarò la dose.
“Hai
dormito per tutto il pomeriggio, vero? Ma adesso ti prepari, esci di casa e
vieni da noi che la cena sta diventando fredda. Hai mezz’ora di tempo per fare
tutto Shikamaru Nara e se non ce la farai ne subirai le conseguenze.”
Il
tono glaciale e minaccioso di sua madre fu la molla che lo fece scattare dal
divano e farlo preparare alla velocità della luce, lui che era la
personificazione umana del bradipo.
Mi ammazza, mi ammazza.
Fu
con questo pensiero che uscì di casa e corse a prendere The Tube*.
Keep the right!
Corse
nella corsia di sinistra delle scale mobili e si infilò all’ultimo istante,
prima che le porte si chiudessero, dentro The Tube, che partì un istante dopo.
Come aveva fatto a dimenticarsi di puntare una sveglia per farlo svegliare in
tempo per la cena?
“Devo
essere impazzito…”
E
forse lo era davvero. Era da quasi un anno che si dimenticava le cose,
segnandosi anche le cose più disparate su post it che attaccava praticamente
ovunque. Il primo ad accorgersene fu il suo ormai ex professore d’arte
all’università che gli chiese se stesse bene, se in famiglia avessero avuto dei
casi simili – e quindi ereditaria – o se avesse la mente piena di altro.
Shikamaru negò, decretando che fosse solamente stanchezza la sua. Non poteva di
certo dirgli che era per colpa di una seccatura dai capelli biondi se non
riusciva a concentrarsi a lavoro, se ogni cosa era diventata difficile da fare
o anche solo pensare.
“The
next station is Piccadilly Circus. Mind the gaps between the train and the
platform.”
Seguì
la fiumana di gente che usciva e quando fu fuori il suo sguardo si posò su una
scritta all’angolo della fermata dove era appena sceso. Era una piccola insegna
in ottone, poggiata sul muretto che recitava: “Always,
from the first time he went there to see Eros and the lights, that circus has a
magnet for him, that circus represents life, that circus is the beginning and
the ending of the world.”*
Gli
venne quasi istintivamente sorridere e scuotere la testa, mentre fra le labbra
portava una sigaretta appena accesa. Londra non era cambiata per nulla, anche a
quell’ora – col sole che stava praticamente tramontando – restava caotica e
cosmopolita, piena di gente che rideva, schiamazzava o anche solo camminava per
la propria strada o per strade sconosciute. Lui non sapeva quale avrebbe
intrapreso, e soprattutto dove lo avrebbe condotto. Si trovava ad un punto
della sua vita in cui l’unica cosa che contava era il motivo che lo aveva
riportato a casa: lei.
Bzzz.
Bzzz.
Bzzz.
La
vibrazione del cellulare lo distolse dall’insegna, portando il telefono davanti
agli occhi e leggendo un messaggio da parte di suo padre in cui lo informava
che aveva appena cinque minuti per arrivare a casa e che non voleva che la sua
dinastia si interrompesse. Posò il cellulare e camminò velocemente, arrivando a
Regent Street, nel cuore della West End londinese. Gli ci volle qualche secondo
per trovare il numero civico di casa e quando lo trovò fece qualche passo,
arrivando davanti alla porta e suonando il campanello. Da quanto tempo non
vedeva i suoi?
Dovrei farmi sentire più spesso.
I
suoi pensieri vennero interrotti nell’esatto momento in cui la porta si aprì,
rivelando sua madre con il mestolo in mano.
“Era
ora, Shikamaru Nara!”
Il
tono minaccioso lo fece indietreggiare di un passo e portarsi una mano fra i
capelli, accorgendosi troppo tardi che aveva ancora la sigaretta fra le labbra.
Sua madre odiava il fumo e odiava sia lui che suo marito quando fumavano in sua
presenza, e fu con un secondo di troppo che vide lampi di disapprovazione
scaturirle dagli occhi.
“Arrivi
in ritardo e fumi. Cosa ho fatto di male per meritarmi un figlio così? Forza,
entra dentro che la cena è pronta.”
Yoshino
Nara era stata sempre una donna forte e dal carattere di ferro, ma vedere suo
figlio dopo tanti anni l’aveva commossa, ed era per questo che aveva risposto
in modo scorbutico al figlio e si era voltata, dirigendosi verso la cucina. Non
voleva che il suo Shikamaru la vedesse fragile e soprattutto che vedesse quel
velo lucido negli occhi.
“Shikamaru.”
Il
diretto interessato si voltò verso la voce che lo aveva appena chiamato. Aveva
avuto il tempo di chiudere la porta alle sue spalle che vide suo padre davanti
la porta del soggiorno che gli sorrideva leggermente. Shikaku e Shikamaru erano
due gocce d’acqua e solo tre cose li distinguevano: Shikamaru aveva gli occhi
di sua madre, Shikaku portava sul viso i segni di quel tragico incidente aereo,
c’erano ventidue anni di differenza fra padre e figlio.
“Ciao
papà.”
Anche
lui sorrise, avvicinandosi al genitore e abbracciandolo per qualche secondo.
L’odore di dopobarba gli arrivò come una stilettata di piacere al cervello,
come anche l’odore del sugo di sua madre. Quelli erano odori di casa, odori
della sua infanzia che stava riassaporando dopo molti anni.
“Potreste
anche aiutarmi invece di sedervi a tavola.”
Yoshino
entrò dentro la stanza con una pentola fumante fra le mani che poggiò sul
tavolo, mentre suo marito andava in cucina a prendere le altre pietanze. Ogni
volta che suo figlio tornava a casa era una vera e propria festa, in cui si
ritrovava a cucinare tutti i piatti preferiti del figlio e ogni volta che
qualcuno glielo faceva notare lei rispondeva che aveva fatto quei piatti perché
nel frigo si era ritrovata quegli ingredienti. Non avrebbe mai ammesso che
erano per il suo Shikamaru, per la luce dei suoi occhi.
“Buona
cena.”
Si
ritrovarono a mangiare, ad informarsi sulla salute di suo figlio, se mangiasse,
se si prendesse cura di se stesso, come andava a lavoro, fino a quando sua
madre non gli fece la fatidica domanda.
“Quindi,
hai trovato qualcuna? Hai intenzione di non sistemarti oppure sì?”
“Mamma,
che seccatura…”
Shikamaru
odiava l’argomento donne, specie se preso coi suoi genitori. Un conto era
prenderlo con i suoi amici e un conto con suo padre e sua madre.
“Rispondimi.
C’è qualcuna o no?”
“No.”
Sì che c’è, ma non stiamo insieme.
Una
stilettata di dolore lo piegò quasi in due, facendo preoccupare Yoshino e
Shikaku che si sporsero verso di lui.
“Sto
bene, sono solo gli effetti dell’aereo.”
“Hai
preso l’aereo per tornare? E il viaggio come è andato?”
Ogni
volta che lo diceva i suoi rimanevano basiti e preoccupati. Sapevano del
terrore per quei velivoli, sapevano che ogni volta Shikamaru si sentiva male e
ogni volta era un’agonia per loro.
“Stai
prendendo qualcosa?”
“Certo.
Prendo le pillole per non sentirmi male. Dovresti saperlo che le prendo ormai
da due anni e mezzo.”
Londra, 31
dicembre
2 anni e
mezzo prima
L’anno in cui doveva rimanere via
si tramutò in un anno e mezzo, allungando il periodo di distacco tra lui e
Temari, cosa che lo fece stare male. Nella sua testa aveva calcolato tutto,
aveva calcolato quando avrebbe potuto vederla e per quanto tempo, eppure gli
impegni, e la vita in generale, lo avevano messo alla prova, mettendogli
ostacoli lungo il suo cammino. Fu così che l’estate aveva lasciato il posto
alle altre stagioni, arrivando di nuovo l’estate e poi l’autunno. Quando era
finalmente riuscito a liberarsi e a sentire Temari, quest’ultima gli disse che
sarebbe partita a breve per un corso di aggiornamento di un anno.
Shikamaru nascose il dolore e la
delusione quando si videro via Skype e seppe la notizia, invogliandola e
incitandola a partire, a fare le sue esperienze. Se solo si fosse reso conto
che anche Temari stava facendo lo stesso con lui, forse tutti e due avrebbero
abbassato le loro difese e si sarebbero mostrati fragili, si sarebbero mostrati
per quello che in realtà erano: due innamorati divisi dal tempo e dalla
distanza. Eppure, nessuno dei due avrebbe impedito all’altro di non fare le
proprie scelte o esperienze.
“Ci incontreremo fra un anno. A
dicembre mi troverai a casa. Cerca di esserci.”
Temari mantenne la sua promessa,
riuscendo a finire il corso in tempo e a essere presente l’ultimo giorno
dell’anno al National Gallery. Se riusciva a voltarsi indietro, e a vedere
tutta la strada che aveva percorso, poteva dirsi fiera di se stessa. Finalmente
era riuscita a diventare la direttrice di quella galleria d’arte che per anni
era stata il suo punto di riferimento e il luogo con alcuni dei più bei ricordi
della sua vita. Guardando l’orologio vide che mancavano poche ore allo scoccare
della mezzanotte e del nuovo anno e si chiese dove fosse Shikamaru. Si erano
dati appuntamento lì, lui le aveva assicurato che sarebbe arrivato in tempo, ma
se non ce l’avesse fatta? Se un contrattempo lo avesse tenuto lontano come lo
era stato col suo corso di potenziamento anni prima?
Una morsa allo stomaco le smorzò il
fiato per un attimo, lasciandola priva di forze. Odiava sentirsi in quel modo,
odiava dipendere da quel sentimento e odiava ancora di più non sapere se era
ricambiata o meno. L’incertezza la stava divorando, lasciandola con domande su
domande alla quale solo il moro avrebbe potuto rispondere. Ma se lui la vedesse
solo come un’amica? Tante volte se lo domandò e tante volte arrivò ad un bivio
in cui da una parte pensava che la vedesse solo in quel modo e dall’altro che
non poteva essere così, o non l’avrebbe mai baciata in quel modo.
“Tem…”
Fu una voce a smorzare il flusso di
domande e pensieri della bionda, facendola voltare di scatto e puntare lo
sguardo verso la porta d’ingresso. Lì, proprio dove tutto era iniziato c’era
Shikamaru, il suo Shikamaru. Aveva il fiatone ed era pallido in viso. Non lo
aveva mai visto con quella cera e per un momento si chiese cosa non andasse.
Non immaginava mica di ritrovarselo in quello stato. Ecco perché scese le scale
velocemente, parandoglisi davanti.
“Si può sapere che…”
“L’aereo… ho preso l’aereo per
venire da te.”
“E quindi? Cosa può mai fare un
ae-…”
Lasciò la frase a metà,
ricordandosi del terrore di Shikamaru per quei velivoli, ricordandosi che non
ne aveva mai preso uno in vita sua, specie dopo l’incidente del padre. Da una
parte sentì un calore indescrivibile e dall’altro sentì una tenerezza che non
era da lei. Quel ragazzo aveva messo da parte le sue paure per essere presente
al loro appuntamento.
“Superata la paura?”
“No, credo di sentirmi male.”
Fu allora che Temari lo prese per mano,
chiudendo il portone a chiave dietro di loro e trascinando il povero moro su
per rampe di scale, arrivando in un’ala a lui sconosciuta. Non si chiese cosa
stessero facendo, non si pose nessuna domanda, perché nella sua mente urlava a
se stesso di aver preso un aereo, di averlo fatto per lei, perché solo per lei
avrebbe compiuto quella pazzia. Solo quando furono davanti a una porta si
chiese cosa stessero facendo, se non stessero commettendo un’infrazione.
“Dove ci troviamo?”
“Nel mio ufficio. Stenditi un
attimo così da riprendere le forze.”
Fu talmente tanto lo stupore di
quella frase che ebbe solo per un momento il tempo di leggere fuori dalla porta
Sabaku no Temari, direttrice,
seguendola dentro. Una volta che la porta fu chiusa a chiave, Temari si stese
sul divano poggiato a parete e trascinò Shikamaru, portandolo a stendersi sopra
di lei, con la testa poggiata sul suo seno. Non poté vedere le guance del moro
tingersi di un rosso scarlatto, ma sentì il battito del suo cuore accelerare di
parecchio, seguito a ruota da quello di lei.
“Ma… che fai?”
“Shh e rilassati. Sei teso come
l’arco di un violino.”
Come poteva rilassarsi quando aveva
la testa poggiata sul suo seno, come poteva farlo quando le mani di lei
cominciarono ad accarezzargli dolcemente i capelli o quando glieli sciolse
dalla tipica coda che portava di solito? E fu allora che anche lui sentì il
cuore della bionda accelerare, andare al suo stesso identico ritmo. Fu in quel
preciso istante che capirono entrambi che provavano l’un per l’altro un
sentimento molto forte.
“Perché stai facendo tutto questo?”
“Rilassati. Non ho intenzione di
chiamare un’ambulanza solo perché ti sei sentito male. Come ti è saltato in
mente di prendere un aereo? Non potevi prendere qualche altro mezzo?”
“Non sarei arrivato in tempo per
l’appuntamento e poi…”
“Poi cosa?”
“Avevo una maledetta voglia di
vederti.”
Portando la testa leggermente più
in alto fu naturale per Shikamaru lasciare un bacio sul collo leggermente
abbronzato della bionda, come fu naturale sporgersi e darle un secondo bacio
che, a differenza del primo, non aveva nulla di disperato e non sapeva d’addio.
Sapeva d’attesa, di speranza ed era vorace, tanto da ritrovarsi a toccarsi e a
levarsi i vestiti, rimanendo nudi uno sopra l’altro.
“Sei bellissima.”
“Da quando sei diventato così
sentimentale?”
Era stato spontaneo dirglielo, ma
solo per nascondere l’imbarazzo di quel momento e Shikamaru se ne rese conto,
stringendole la mano ed entrando dentro di lei. Si mossero lentamente,
assaporandosi attimo per attimo, assaporando quel momento che avevano atteso
per tanto, troppo tempo. Non era la prima volta per nessuno dei due, ma era la
prima volta che andavano a letto con una persona perché l’amavano e non per
soddisfare le proprie voglie, continuando ad amarsi anche quando il Big Ben
scoccò la mezzanotte e con esso l’anno nuovo.
“Tem…”
“Shika…”
Si strinsero di più quando
arrivarono al punto di non ritorno, inarcandosi l’uno verso l’altro e
stringendosi per non allontanarsi. Stanchi, sudati e col fiatone, si guardarono
negli occhi, sorridendosi finalmente felici. Si sentivano come se finalmente
avessero trovato la casa a loro destinata, come se per tanto tempo si fossero
cercati e finalmente trovati. Casa non era il posto in cui nascevi o in cui
vivevi, ma era il posto in cui stavi con la persona che amavi.
“Buon anno Seccatura.”
“Buon anno Crybaby.”
“E questo nomignolo?”
La guardò negli occhi, scorgendovi
un lampo di divertimento e di furbizia.
“Per prima. Sembravi proprio un
bambino con quella faccia impaurita e sembrava che stessi per scoppiare a
piangere. È solo grazie a me se ora stai meglio.”
“Tu…”
Si fiondò su di lei, cominciando a
farle il solletico, ridendo insieme a lei e cercando di farla stare ferma.
“Smettila Shika! Smettila!”
“Come si dice? Dimmi la parola
d’ordine.”
La vide guardarlo con un’intensità
tale da lasciarlo disarmato.
“Mi sei mancato.”
In quel momento sentì tutti i suoi
muri crollare, lasciandolo privo di difese, lasciandolo per l’uomo che era
davvero. L’abbracciò talmente stretta da smorzare il fiato ad entrambi,
sentendo gli occhi lucidi e cercò con tutte le sue forze di non piangere. Mai
come d’ora capì che il nomignolo di Temari era azzeccato.
“Mi sei mancata anche tu.”
Quelle furono le ultime parole che
si dissero prima di amarsi di nuovo.
“Ma
almeno fanno effetto? Lo hai detto al dottore?”
Sua
madre lo bombardò di domande su domande, preoccupandosi ancora di più. Smise
solo quando suo marito poggiò una mano sopra la sua, stringendola e
sorridendole appena. Era il suo modo per dirle che andava tutto bene, che non
c’era motivo di preoccuparsi in quel modo. Shikamaru non avrebbe mai potuto
dire ai suoi genitori che quella fitta non era causata dal volo ma dall’assenza
di una donna. Era troppo presto parlarne e poi non c’era assolutamente nulla
fra i due… o sì?
“Stenditi
per qualche minuto, il tempo che ti riprendi e…”
“No,
mamma. Preferisco tornare a casa. Un poco d’aria fresca non potrà che farmi
bene.”
Non
erano d’accordo sul lasciarlo andare a casa in quelle condizioni, ma non potevi
dire a un ragazzo di ventotto anni cosa fare o cosa non fare, trattandolo come
un bambino. Se il moro non fosse stato sicuro di farcela non avrebbe mai
chiesto di tornare a casa, ecco perché i suoi gli raccomandarono di mandargli
un messaggio una volta arrivato. Giusto per tranquillizzarsi.
Mangiò
un ultimo boccone e si alzò da tavola. Salutò i suoi genitori con la promessa
di passare nei prossimi giorni e uscì di casa. L’aria leggermente più fresca
del giorno lo ristorò per qualche secondo, il tempo necessario per fargli
prendere una boccata d’aria e di coraggio e andare verso il National Gallery.
Si ricordava ancora gli ultimi messaggi che si erano scambiati. Erano diventati
man mano sempre più radi, sempre più freddi, non perché non avessero nulla da
dirsi, ma perché il tempo non fu loro alleato, portandoli ad allontanarsi l’un
dall’altro.
Tem… dimmi che non è troppo tardi.
Un
passo dopo l’altro fendette la folla che andava nel senso opposto. Gente che
rideva, scherzava, faceva baldoria. Non si era mai sentito come loro, non si
era mai comportato come loro a causa del suo carattere e dell’educazione
ricevuta dai suoi. Certo, amava uscire con i suoi amici e scherzare, ma vedeva
pure come la nuova generazione fosse troppo avanti per i suoi gusti, come se
volessero bruciare le tappe troppo in fretta.
“Ok,
Shikamaru, adesso vai al National e le parli…”
Se
lo ripeté per tutto il tragitto, cercando di farsi forza. Era sempre così. In
qualsiasi campo che non fosse quello sentimentale era un vero portento, trovando
svariate soluzioni ai problemi – una migliore dell’altra – ma quando si
trattava di esprimere i propri sentimenti o trovarsi davanti a persone a cui
voleva davvero bene diventava un’altra persona. Timido, impacciato, introverso.
Lo si notava immediatamente per la mano portata dietro la nuca e lo sguardo
distolto. Come in quel momento, davanti al National, davanti a lei. Si era
fermato qualche metro più in là, fissandola. Temari si era girata sentendo un
rumore di passi, sgranando leggermente gli occhi dalla sorpresa. Di tutte le
persone che poteva incontrare in quel momento, Shikamaru era una delle ultime.
“Pensavo
fossi in Austria.”
“Sono
arrivato oggi.”
“Treno?”
“Aereo.”
Lo
sguardo di stupore della bionda diede il coraggio al moro di avvicinarsi, tanto
che a dividerli adesso erano pochi centimetri. Si sentì come se lei lo stesse
analizzando anche dentro, fin nel profondo della sua anima. Fu con sorpresa di
Shikamaru che Temari gli fece cenno di entrare dentro al museo, riaprendo le
porte solo per loro due.
Camminarono
in silenzio fino ad arrivare in una sala contenente nuovi quadri, tanto che
Shikamaru rimase estasiato.
“Non
pensavo che ci fosse l’esposizione dei quadri di New York.”
“Un
piccolo prestito e solo per qualche settimana. Non puoi nemmeno immaginare
quante persone arrivino per vedere questi capolavori. Non mi ricordavo tutta
questa folla dai tempi del quadro di Vermeer.”
“Dalì
ha sempre il suo fascino.”
Lo
guardarono entrambi, mentre il silenzio calava su di loro.
“Tem…”
“Pensavo
volessi stare solo, che era per questo motivo che non ti eri fatto più
sentire.”
“Non
voglio essere solo. Non ho mai voluto essere solo ma…”
“Ma?”
“Con
te.”
Aveva
inspirato ed espirato a fondo, cercando di accumulare tutto il suo coraggio,
perché sapeva benissimo che se non gliel’avesse detto ora non gliel’avrebbe
detto mai più e non voleva. Non voleva che lei fosse il suo rimpianto.
“Io…”
Ora o mai più.
“Io
sono innamorato di te, Temari.”
Non
ci fu nessuna risposta, nessuno schiaffo da parte di lei. Nulla di nulla. Fu in
quel momento che Shikamaru pensò che fosse troppo tardi, che forse quel ragazzo
con la quale Ino l’aveva vista era il suo ragazzo e lei stava cercando le
parole più giuste per dirgli che era troppo tardi, che aveva perso anni di
possibilità.
“Parlami
di questo quadro.”
La
bionda gli indicò il quadro e Shikamaru cominciò a parlare.
“La
persistenza della memoria, di Salvador Dalì, realizzato nel 1931 e conservato
al Museum of Modern Art di New York, è un olio su tela che tratta sullo
scorrere del tempo e sulla sua relatività.”
“Ti
ricorda qualcosa?”
“Mi
ricorda noi, i nostri incontri, il tempo passato insieme.”
“Il
tempo passato a tenerci per noi stessi i nostri sentimenti…”
Temari
lo sussurrò appena, ma fu abbastanza forte affinché Shikamaru lo sentisse. Fu
solo allora che si girò verso di lui, colmando la distanza e rendendola nulla.
I loro visi erano talmente vicini che i loro fiati si mescolarono fra loro.
“Che
vuoi dire?”
“Sei
stupido, e io che pensavo fossi un tipo intelligente.”
Le
bastò alzare la testa e lo baciò, portando le mani dietro la sua nuca mentre
lui l’abbracciava stringendola a sé. Si sentiva in bilico, perché una sua
risposta avrebbe troncato quel rapporto instabile che avevano oppure lo avrebbe
finalmente consolidato.
“Ti
ci sono voluti dieci anni per dirmi di essere innamorato di me. Sei proprio un
bradipo, Crybaby.”
“Eppure,
non so ancora se i miei sentimenti sono corrisposti o meno…”
Il
suo sguardo su intenso. Il marrone scuro che si perdeva nel verde smeraldo,
creando una combinazione di colori quasi impossibile da creare nella realtà.
“Non
l’hai ancora capito che anche io sono innamorata di te?”
Il
sorriso sul volto di Shikamaru fu sincero e disarmante, portando Temari ad
abbracciarlo, nascondendo il viso sull’incavo del suo collo. Vedere quel
sorriso, e solo per lei, l’aveva imbarazzata terribilmente, anche se non lo
avrebbe mai ammesso. Solo i rintocchi del Big Ben ruppero quel silenzio quasi
surreale, scandendo la mezzanotte e con esso il nuovo giorno.
“Sai
cosa vuol dire?”
“Cosa?”
Il
moro portò le mani sulle guance della bionda, accarezzandogliele appena.
“Buon
compleanno, Seccatura.”
“E
il mio regalo?”
Successe in un attimo. Shikamaru se la caricò sulle spalle, cominciando
a camminare verso l’ufficio di lei, sotto le proteste di Temari per farsi
mettere giù.
“Spero che il tuo ufficio sia aperto, perché non vorrei che le
telecamere vedessero il mio regalo per te.”
L’ultima cosa che si sentì fu la risata cristallina di Temari, prima che
la porta dell’ufficio si chiudesse alle loro spalle.
*The
Tube: termine slang con la quale viene chiamata la metropolitana di Londra (può
anche essere chiamata “The Underground”.
*“Always, from the first time he went there to see Eros
and the lights, that circus has a magnet for him, that circus represents life,
that circus is the beginning and the ending of the world.”: “Sempre, dalla
prima volta che è andato a vedere Eros e le luci delle insegne, quella rotonda
è stata un vero e proprio magnete per lui: quella rotonda rappresentava la vita,
il principio e la fine del mondo.”